La situazione internazionale (Testo maggioritario)

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Lutte Ouvrière - Testi del 34° congresso (2004)
5 dicembre 2004

Le relazioni internazionali sono segnate dall'egemonia apertamente rivendicata dall'imperialismo americano. L'"unilateralismo americano", che deplorano uno Chirac o uno Schroeder assolutamente incapaci d'intaccarlo, è l'espressione di uno stato di fatto economico, diplomatico e militare. La prevalenza degli Stati-Uniti non è certo nuova poiché l'Urss era stata la sola grande potenza, prima della sua scomparsa, a fargli ombra.

Dalla fine della seconda guerra mondiale e la disfatta della Germania e del Giappone, l'imperialismo americano esercita una predominanza "unilaterale" sulle potenze imperialiste di secondo ordine. Questa prevalenza non ha eliminato le rivalità economiche e le dissonanze diplomatiche, ma nessuna potenza imperialista è tale da fare contrappeso agli Stati-Uniti.

Se Bush, come d'altronde ben altri presidenti che lo hanno preceduto, sente il bisogno di ammantare con un linguaggio mistico l'espressione dell'egemonia americana sul mondo, questa egemonia non riposa certo sulla parola biblica, ma sulla potenza economica e la forza militare degli Stati-Uniti. Ciononostante è significativo della nostra epoca che i dirigenti della potenza più moderna giustifichino il destino planetario che attribuiscono alla loro nazione con una fraseologia religiosa che non rinnegherebbero dei dittatori islamisti.

Tra gli argomenti evocati da alcuni dirigenti dell'Europa occidentale a favore dell'Unione Europea, c'è precisamente la pretesa di modificare collettivamente il rapporto di forze tra l'Europa e l'America. In realtà si tratta di discorsi demagogici o, al meglio, di dichiarazioni di intenti velleitarie.

Allargandosi a 25 paesi, l'Unione Europea non si è rafforzata come entità politica. Continua ad esistere solo come giustapposizione di paesi imperialisti europei con interessi divergenti, circondati dalle loro sfere di influenza europee. Le loro coalizioni di fronte alla potenza americana sono solo di circostanza e non sono composte sempre dagli stessi paesi. In particolare, non ci sono convergenze stabili in questo campo fra le tre principali potenze imperialiste europee: la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, dato che quest'ultima tiene altrettanto ai suoi legami con gli Stati-Uniti che alla sua appartenenza all'Unione Europea. Non si tratta solo di una tradizione politica ma anche di solidi legami economici.

D'altra parte, i paesi recentemente integrati nell'Unione Europea, in particolare quelli provenienti dalla disintegrazione della vecchia sfera d'influenza sovietica, danno altrettanto o più importanza alle loro relazioni con gli Stati-Uniti che alla loro appartenenza all'Unione. Ne hanno dato una dimostrazione pubblica solidarizzandosi ostensibilmente con gli Stati-Uniti in occasione della guerra contro l'Iraq. E continuano a farlo. Il mantenimento di truppe polacche, insieme ad unità bulgare, rumene, ungheresi, lettoni e lituane in Iraq, è certo simbolico sul piano militare ma nondimeno significativo sul piano diplomatico.

La recente creazione di una specie di ministero delle affari esteri europeo non basta a permettere all'Unione Europea di, come dicono, "parlare con una sola voce". La Costituzione europea, anche ammesso che sia accettata dai 25 paesi dell'Europa allargata, non basterà in sé a fare sorgere un'atteggiamento politico solidale di fronte agli Stati-Uniti .

Il progetto di Costituzione europea è una Costituzione che si preoccupa della proprietà privata, della libera circolazione delle merci e dei capitali, ben più dei diritti delle persone. Non è né migliore, né peggiore di molte altre costituzioni borghesi. E, beninteso, non è certamente questa costituzione che "scolpirà nel marmo" il capitalismo o il liberalismo, i quali poggiano su fondamenta ben più solide del testo di una Costituzione, come non sarà certamente essa a rendere irreversibile la dittatura delle multinazionali e dei mercati finanziari.

Ma questa ufficializza giuridicamente il controllo delle grandi potenze imperialiste d'Europa sulle altre. Per alcune decisioni importanti infatti è richiesto di rappresentare una maggioranza qualificata dei tre quinti della popolazione europea . Le tre principali potenze imperialiste, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna, non raggiungono i tre quinti. Per imporre i loro punti di vista dunque hanno bisogno del sostegno di due altri paesi tra i più popolosi dell'Europa occidentale: l'Italia e la Spagna; oppure del sostegno di uno dei due completato da un certo numero di paesi più piccoli. Al contrario, la coalizione di queste tre potenze imperialiste rappresenta più dei due quinti della popolazione europea. Di conseguenza, se sono daccordo tra di loro, possono impedire ogni decisione proposta dalla maggioranza, fosse anche degli altri 22 paesi dell'Unione Europea. E' una specie di diritto di veto sulla politica dell'Unione Europea che viene riconosciuto in questo modo alle potenze imperialiste dell'Europa occidentale.

La Romania e la Bulgaria devono essere integrate a loro volta nel 2007, aggiungendosi così ai dieci nuovi paesi integrati quest'anno. Il fatto di spingere più lontano le future frontiere dell'Unione Europea risolverà il problema di alcuni popoli tagliati in due ma ne creerà altri. La nuova frontiera europea taglia in particolare la Romania dalla popolazione della Moldavia vicina, romanofona per due terzi.

D'altra parte l'eventuale integrazione della Turchia solleva già dibattiti in cui la stupidità fa concorrenza alla demagogia. Per esempio, invocare il pericolo dell'integralismo musulmano per la futura Europa allargata, vuol dire far poca attenzione all'integralismo cattolico in Polonia, a Malta, tra i paesi di recente adesione, o in Irlanda e nel Portogallo tra i vecchi. Senza parlare del fatto che l'Europa "repubblicana e laica" si accomoda senza problema del carattere monarchico di numerosi regimi dell'Unione.

Benché l'Unione Europea sia una coalizione di borghesi di un certo numero di paesi europei e la sua laboriosa creazione corrisponda agli interessi del capitale più concentrato nella competizione internazionale, noi abbiamo sempre rifiutato di opporci all'Unione Europea in nome del ripiego razionale. La creazione di una vasta entità al posto dello spezzettamento nazionale anacronistico non è certo un arretramento. Inoltre, qualcuna delle sue conseguenze, in particolare la soppressione dei controlli alle frontiere, la libertà di circolazione - anche se limitata -, sono utili per le future lotte del proletariato d'Europa. Non è certo l'unificazione europea che i rivoluzionari devono combattere, ma i suoi limiti ed il suo carattere di classe.

E' sempre più manifesto che nella fraseologia americana, la "lotta contro il terrorismo" ha preso il posto della "lotta contro il comunismo", in particolare contro l'Urss.

In quanto comunisti rivoluzionari, siamo sempre stati contro il terrorismo individuale, anche quando era condotto con la pretesa di servire la causa degli oppressi.

Al tempo in cui il dibattito si svolgeva in seno o intorno al movimento operaio rivoluzionario, tale questione opponeva la corrente marxista a certe correnti anarchiche ; poi la corrente socialista russa nascente alle varianti del populismo che esaltava gli attentati individuali.

"L'emancipazione dei lavoratori sarà l'opera dei lavoratori stessi" evocava allora la convinzione profonda che la società non può essere cambiata fondamentalmente che con la partecipazione attiva e cosciente, dunque democratica, della classe lavoratrice, e al di là, di una grande parte delle classi popolari. Quelli che pretendono emanciparli tramite atti terroristici sono, nel migliore dei casi inefficaci e, al peggio, mettono in piedi apparati coercitivi, che lo facciano volontariamente o no.

I metodi terroristici e, più largamente, le azioni di guerriglia destinate a "svegliare le masse" sono stati utilizzati da molto tempo dalle organizzazioni nazionaliste. Inefficaci su questo piano, miravano piuttosto ad inquadrare dall'alto le masse in procinto di svegliarsi contro l'oppressione nazionale o una dittatura. Esse permettevano ugualmente ai dirigenti nazionalisti di dissimulare l'assenza di radicalismo sul terreno sociale dietro la violenza dell'azione armata. Da allora, all'indomani della seconda guerra mondiale si sono visti sorgere una moltitudine di azioni di questo tipo, dai gruppi terroristici ebrei che agivano in Palestina contro le autorità inglesi dell'epoca, alle azioni terroristiche palestinesi che agivano contro lo Stato di Israele; dall' FLN in Algeria a Fidel Castro a Cuba ; così come in un gran numero di paesi dell'America Latina o d'Africa. Alcuni di questi gruppi si rivendicavano del nazionalismo progressista, o addirittura del socialismo, la maggior parte si appoggiavano su aspirazioni nazionali o sociali legittime. Quelli che sono arrivati al potere hanno applicato solo raramente e in parte il loro programma sociale. Tutti hanno dato nascita a regimi di oppressione o di dittatura.

I movimenti integralisti non avvertono neanche il bisogno di nascondere il loro carattere reazionario. Questo si manifesta non solo nei loro metodi ma anche nel loro programma ufficiale. Sono movimenti violentemente ostili alla classe operaia e, più generalmente, a tutte le categorie oppresse, delle donne o di minoranze tra l'altro.

Nei paesi arabi e, più generalmente, nei paesi a popolazione totalmente o largamente islamizzata dell'Asia o dell'Africa, l'integralismo islamico non è che un mezzo per prendere il potere su una base reazionaria. L'Iran degli ayatollah ha fatto dei seguaci e ha fornito in qualche modo un modello per installare dittature politiche e sociali. Come a suo tempo la rivoluzione cinese di Mao era servita da esempio e da modello a tutte le rivoluzioni contadine, che si affermavano socialiste o no, ma erano dittature fin dall'origine ed escludevano fin dall'inizio le classi popolari, gli operai delle città, che avrebbero potuto esercitare un controllo democratico del potere.

Senza neanche arrivare al potere, gli islamisti esercitano una dittatura sociale, in particolare contro le donne, che si manifesta tra l'altro con la generalizzazione del porto del velo, anche nei paesi dove ciò non fa parte delle abitudini sociali, almeno nelle città - Algeria, Egitto - o ancora col ritorno della barbarie della lapidazione negli Stati del Nord della Nigeria.

Anche nei paesi in cui la popolazione musulmana è largamente minoritaria, l'islamismo resta ciononostante uno strumento per conquistare il potere, se non sull'insieme del paese, almeno su una comunità, eventualmente costituita artificialmente integrandovi con la forza della pressione coloro che non sono religiosi, o addirittura atei.

Ancora una volta lo scopo è di inquadrare una popolazione immigrata - nel caso della Francia, la popolazione di origine magrebina, oppure dell'Africa nera - intorno ad idee reazionarie e di spezzare ogni opposizione, che sia politica o che esprima semplicemente la dignità delle donne o il diritto di non praticare una religione. A causa delle idee che veicolano, delle pressioni che esercitano e delle forme di oppressione che incoraggiano, le correnti fondamentaliste islamiche rappresentano un grave pericolo, anche in paesi come la Francia, dove non possono sperare di accedere al potere. Sono avversari politici e per dei comunisti rivoluzionari non può essere questione di compromessi nei loro confronti, neanche nel nome del "rispetto della tradizione", del "diritto alla differenza" o della "libertà" di esercitare un particolarismo.

Il fatto che i dirigenti dell'imperialismo americano presentino la lotta contro il terrorismo come l'asse della loro politica internazionale e della loro politica interna è particolarmente cinico poiché bisogna ricordarsi che le correnti islamiche e le loro pratiche terroristiche sono state protette dagli Stati-Uniti, finanziate ed armate dai loro fanatici alleati regionali, l'Arabia Saudita ed il Pakistan, fin quando si trattava di servirsene come strumenti contro l'occupazione sovietica dell'Afghanistan. Da allora la creatura è sfuggita ai suoi creatori.

Ma molti episodi, compresi alcuni intorno all'attentato dell' 11 settembre 2001, ricordano i torbidi legami che esistono tra tale o tal'altra componente dell'apparato dello Stato americano e gli ambienti terroristici. Ciononostante è in nome della lotta al terrorismo che i dirigenti americani continuano una politica di corsa agli armamenti - come se la "guerra delle stelle" potesse permettere di trovare Ben Laden nelle montagne della zona tribale del Pakistan ! - e impongono all'interno stesso del paese una moltitudine di restrizioni di libertà e, su scala internazionale, guerre come quelle condotte in Afghanistan e in Iraq.

E' nel nome della lotta al terrorismo che gli Stati-Uniti continuano, in Iraq, una guerra iniziata contro "armi di distruzione massiccia" che non sono mai state trovate.

Ma tale guerra, invece di indebolire il terrorismo e le organizzazioni terroristiche, al contrario le rinforza. All'interno stesso dell'Iraq, gli elementi del vecchio potere baasista che sembrano inquadrare le organizzazioni che praticano gli attentati beneficiano di simpatia in una buona parte della popolazione, esasperata dalla presenza americana e dai bombardamenti ciechi di cui i civili sono le principali vittime, e dal disprezzo senza ogni limite di cui il comportamento dei soldati americani nella prigione di Abou Ghraïb è una prova. L'occupazione americana rafforza ugualmente, e per le stesse ragioni, l'influenza dei capi religiosi più radicali, sciiti come sunniti. D'altra parte, l'Iraq sembra offrire un terreno di addestramento per gruppi terroristi di altri paesi, legati o no ad Al Qaeda.

Le truppe americane sembrano controllare sempre meno la situazione in Iraq. Non solo un certo numero dei grandi città ma una parte della stessa capitale sfugge loro.

La guerriglia irachena non ha evidentemente la forza militare di buttar fuori le truppe americane. L'imperialismo americano può scegliere di restare, accettando di sacrificare migliaia di soldati americani, inglesi, o di ostaggi. Quanto ai civili iracheni, il cui numero di vittime è probabilmente senza comune misura con i 1000 morti dell'esercito americano, non entrano in linea di conto per i dirigenti di Washington.

Questa guerra dura da due anni. Ma bisogna ricordarsi che gli Stati-Uniti sono rimasti in Vietnam una decina d'anni. Ciò implica un numero crescente di americani inviati sul terreno. Anche se i dirigenti di Washington cercano di imbarcare truppe di altri paesi nella loro galera e di condurre la loro guerra con la pelle dei militari dei paesi poveri o dell'est europeo, dovranno aumentare la presenza delle loro proprie truppe. E non è detto che l'opinione pubblica americana accetti l'aumento incessante del numero di morti né l'accrescimento delle spese militari.

Questo testo è stato scritto prima delle elezioni americane e quindi i risultati non possono che essere ipotetici. Supponendo che Kerry sostituisca Bush, non è un cambiamento di presidente che provocherà in sè stesso un disimpegno eventuale dalI'Iraq. Al massimo potrà esserne l'occasione o il pretesto.

Ciononostante si può anche prevedere che, forte della sua reputazione di "uomo di sinistra", Kerry ne approfitti al contrario per intensificare la guerra. Ciò si è già visto, e un Guy Mollet che dopo essersi fatto eleggere per far la pace in Algeria, ha intensificato la guerra, non è una specialità francese. Di più, Kerry si guarda bene anche solo dal promettere il ritiro delle truppe americane.

Il disimpegno dalI'Iraq pone comunque all'imperialismo americano un grosso problema, data la situazione anarchica che vi regna. In tutta evidenza, un regime sancito da elezioni, se non un regime democratico, non potrà stabilizzarsi. Ma c'è soprattutto il rischio di spezzettamento del paese, almeno nelle sue tre componenti, curda, sciita e sunnita, seguita o preceduta da massacri inter-etnici o inter-religiosi, con conseguenze incalcolabili che si estendono a tutta la regione.

Anche se l'economia capitalistica mondiale puo' fare a meno del petrolio iracheno - bene o male è il caso oggigiorno -, non può fare a meno del petrolio del Medio Oriente. Ora, è l'insieme della regione che può essere destabilizzata dai contraccolpi della situazione irachena. L'Arabia Saudita, principale esportatore di petrolio del mondo, è già tormentata da correnti islamiche e ancor più dal miscuglio di modernismo materiale permesso dalle ricchezze stravaganti della sua minoranza dirigente e da barbarie medievale. Quanto alla costellazione di mini-stati disegnati intorno ai pozzi di petrolio, sono troppo artificiali per resistere a deflagrazioni che tocchino la regione, e d'altronde sono travagliati dalle stesse contraddizioni dell'Arabia Saudita.

La guerra continua ugualmente in Afghanistan, dove le truppe occidentali si aggiungono alle bande armate autoctoni dei signori della guerra. Anche se le elezioni dell'inizio ottobre 2004 non saranno respinte, il potere uscito da queste elezioni controllerà al massimo la capitale, Kabul, e la sua periferia immediata, come lo fa il governo attuale. Anche la parvenza di unità imposta a loro tempo dai talebani si è frantumata. La mezza dozzina di signori della guerra che si spartiscono il paese controllano le loro regioni rispettive, prelevando tasse e imposte, rendendo la giustizia e non obbediscono per niente al governo centrale.

A differenza dell'Iraq, l'esercito americano presente nel paese è affiancato da contingenti di altre potenze imperialiste, in particolare della Francia.

Israele e la Palestina continuano a costituire un altro punto caldo sul pianeta. La seconda Intifada, il conflitto armato che oppone lo Stato d'Israele e la popolazione palestinese, entra nel quinto anno. Il governo dell'uomo di estrema destra Sharon continua una politica di terrorismo statale contro la popolazione palestinese. E' incoraggiato a farlo dalla politica degli Stati-Uniti che permette ai dirigenti israeliani di assimilare la repressione contro ogni forma di resistenza palestinese alla lotta contro il terrorismo internazionale.

Bush, che aveva evocato l'anno scorso un "foglio di viaggio" per arrivare nel 2005 alla creazione di uno Stato palestinese, ne ha finanche abbandonato l'idea, lasciando così le mani libere a Sharon. Questi moltiplica le incursioni ed i bombardamenti, in particolare sulla banda di Gaza. L'insieme del territorio palestinese già strangolato dalla sua dipendenza economica totale nei confronti d'Israele, subisce le frequenti chiusure dei punti di passaggio, d'altronde sempre meno numerosi, che i suoi lavoratori devono attraversare per rendersi sui luoghi di lavoro. Per di più è letteralmente rovinato dai bombardamenti e dalle distruzioni sistematiche degli immobili. I territori palestinesi sono totalmente pauperizzati.

Rifiutando ogni discussione con le autorità palestinesi, minacciando periodicamente Arafat di espulsione nonostante sia ridotto all'impotenza, Sharon si è impegnato in una politica unilaterale che mira a separare completamente le due comunità israeliana e palestinese, nonostante tutto mescolate, per di più su un territorio esiguo. Una delle materializzazioni più barbare di questa politica è il muro eretto dallo Stato d'Israele sul territorio palestinese. Questo muro, che si aggiunge a quelli già esistenti che separano le città e i villaggi palestinesi dalle colonie israeliane, crea numerose enclavi all'interno del territorio palestinese che aggravano ancor più la sua frantumazione.

Incoraggiando gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, Sharon completa ciononostante il suo "piano di pace" unilaterale col progetto di evacuare le colonie della banda di Gaza che richiedono troppe forze militari per essere protette.

Ma Sharon ha trovato dei politici più a destra di lui che sfruttano la collera di una parte della sua clientela elettorale, in particolare quella delle colonie create sotto il suo impulso, che rifiutano di accettare il minimo abbandono degli insediamenti già esistenti.

I danni della guerra che conduce lo Stato d'Israele contro il popolo palestinese non si misurano solo col numero di morti. Ancora più grave del muro di cemento armato intorno ai territori palestinesi è il muro eretto tra i due popoli che vivono sullo stesso territorio. Il terrorismo dello Stato d'Israele e il terrorismo delle organizzazioni palestinesi si coniugano, moltiplicando i morti da una parte e dall'altra - anche se non nelle stesse proporzioni - e trasformando la diffidenza in rottura morale profonda tra i due popoli.

La logica e la natura degli scontri spingono in primo piano i gruppi più violenti, in ognuno dei due campi : l'estrema destra in Israele e Hamas dal lato dei palestinesi. Prodotto dallo scontro, questo scivolamento verso le forze di estrema destra ne diventa un fattore aggravante.

Sul piano economico, di fronte al popolo palestinese ridotto alla miseria crescente, la popolazione israeliana conosce ugualmente il prezzo di spese militari importanti (malgrado l'aiuto americano) e una disoccupazione in crescita a causa dello Stato di guerra.

La militarizzazione dell'insieme della società israeliana intorno ad una politica di repressione rafforza il ruolo politico dell'esercito e del suo Stato-maggiore. Da qualche tempo, la stampa parla dell'eventualità che una parte dell'esercito rifiuti il ritiro delle colonie della banda di Gaza, pure proposto da un primo ministro di estrema destra.

La democrazia israeliana, presentata da molto tempo in Occidente come un'eccezione in un Medio Oriente dominato dalle dittature, non è mai stata tale per la popolazione palestinese. E non si può escludere la possibilità che tutta la popolazione israeliana, che paga già con l'insicurezza e con un aumento della disoccupazione la politica di oppressione condotta dai suoi dirigenti, finisca col pagare anche con la scomparsa degli aspetti democratici del regime a beneficio di un potere militare.

Nella lotta che oppone uno Stato d'Israele oppressore ad una popolazione palestinese spossessata e oppressa siamo solidali di quest'ultima. Ciononostante non siamo più vicini delle organizzazioni nazionaliste palestinesi e dei loro metodi che dei dirigenti israeliani. Con le loro politiche, tutti e due spingono i propri popoli diritti nel muro.

In quanto comunisti rivoluzionari, siamo per la coesistenza, con uguali diritti, dei popoli mescolati su questo stesso territorio, nella forma che i due popoli decideranno di comune accordo. Ma l'uguaglianza tra i due popoli suppone non solo il riconoscimento per ciascuno dello stesso diritto all'esistenza nazionale, ma anche l'uguaglianza sul piano materiale. La storia del mezzo secolo passato mostra che la lotta per la sola indipendenza nazionale, senza emancipazione sociale di tutta la regione, conduce in un vicolo cieco.

Ben altri punti di tensione esistono sul pianeta. Se su scala mondiale non ci sono più conflitti che al tempo dell'Urss, non c'è ne sono di meno. Certo, con la scomparsa dell'Urss, è venuto meno il sostegno diplomatico che questa assicurava a certi gruppi guerriglieri, come anche i rifornimenti di armi. Ma almeno su quest'ultimo punto non c'è bisogno dell'Urss: i trafficanti di armi sono felici di rifornire tutti gli antagonisti. Non per caso il traffico di armi oggigiorno costituisce il settore del commercio mondiale che realizza il miglior fatturato.

In Africa in particolare, innumerevoli conflitti proseguono. La situazione non si è veramente stabilizzata nel Liberia e per niente nel Congo ex-Zaire sottomesso alla legge dei signori della guerra locali. Quanto alla guerra terribile e omicida che si svolge nel sud del Sudan, nel Darfur, se comincia a produrre dichiarazioni lenitive da parte delle organizzazioni internazionali e qualche risoluzione, nessuna delle grandi potenze ha voglia di andare al di là, almeno fin quando non troverà un altro interesse che quello di proteggere una popolazione decimata.

In Costa d'Avorio, paese dell'Africa che ci riguarda da vicino in quanto vecchio terreno di caccia del nostro imperialismo, la frontiera che separa il Nord semi-secessionista dal Sud si è stabilizzata in ragione della presenza delle forze francesi così come delle forze africane.

Bene o male, il governo francese sostiene il governo Gbagbo tanto più che questo controlla la zona più provvista di ricchezze naturali, che produce in particolare il cacao, quella dove gli investimenti francesi sono i più importanti. Eppure Gbagbo non esita a completare la demagogia etnista della sua stampa e dei suoi complici con una demagogia contro il governo francese, ponendosi come vittima dell'"imperialismo francese" in quanto "patriota avoriano" e vittima del governo di destra in Francia in quanto "socialista". Ciononostante il governo francese lo sostiene in mancanza di meglio. In ogni caso, lo farà fino alla prossima elezione presidenziale da cui potrebbe uscire vincitore un Bedié, ex presidente e protetto del vecchio servitore dell'imperialismo francese Houphouët-Boigny o un Uattara, ex alto funzionario dell'FMI. Ma, eventualmente, Gbagbo continuerà ad andar bene, fintanto che le sue dichiarazioni demagogiche ad uso interno non saranno seguite da atti contro gli interessi francesi, il che non è il caso attualmente.

Stabilizzazione della linea di fronte non vuol dire stabilizzazione della situazione interna. Non solo dei sussulti etnisti si producono periodicamente, ma lo stato di guerra serve da pretesto ai militari dei due campi per darsi, su scala più ampia che nel passato, ad ogni sorta di racket, di violenze e di soprusi. E' in nome del "patriottismo" che i sicari del partito di Gbagbo - reclutati essenzialmente tra la piccola borghesia studentesca - si danno a linciaggi contro gli originari del Nord del paese o del Burkina-Faso. La situazione delle classi lavoeatrici, già difficile in tempo di pace, si trova aggravata. I grandi gruppi industriali francesi, che dominano i segmenti più redditizi dell'economia locale, continuano ciononostante a realizzare profitti consistenti.

L'ex Unione Sovietica è, dal lato suo, lacerata da una moltitudine di conflitti. I più virulenti si producono nel Caucaso, in Russia, ma anche nella vicina Georgia. Il potere russo non è riuscito, nonostante una repressione feroce, a consolidare la sua influenza sulla Cecenia. La presa di ostaggi di Beslan e la sua tragica conclusione hanno illustrato i metodi abietti dei clan indipendentisti ceceni così come quelli del potere russo.

Ma, bisogna ricordarlo, non solo la Russia conduce la sua guerra in Cecenia con l'approvazione, aperta o appena dissimulata, delle grandi potenze, ma queste grandi potenze hanno condotto esse stesse guerre simili. Per quanto sanguinosa sia la repressione in Cecenia coi bombardamenti di città e col terrore esercitato contro la popolazione civile, Putin è ancora lontano dall'aver fatto il numero di vittime di cui i governi francesi si sono resi colpevoli in Algeria o l'esercito turco tra i curdi.

Mentre conduce la guerra al "secessionismo" ceceno, il governo russo incoraggia i secessionismi abkazi e osseti in Georgia. Le manovre diplomatico-militari della Russia si urtano ciononostante alle manovre opposte degli Stati-Uniti, che restano relativamente discrete per il momento nel Caucaso come nell'Asia centrale, .

L'imperialismo americano può certo sostenere il nuovo regime installato in Russia dopo la dislocazione dell'Urss, ma non per questo dimentica i suoi propri interessi. Il Caucaso, situato tra la Russia ed il Medio Oriente, come anche l'Asia centrale, rappresentano interessi strategici. Gli Stati-Uniti riprendono con naturalezza la politica condotta una volta dall'impero britannico, rivale, all'epoca, della Russia zarista per il controllo della regione. Gli Stati-Uniti hanno approfittato dell'indipendenza degli Stati dell'Asia centrale per installare basi militari in quattro di questi cinque Stati. Hanno approfittato della disputa tra la Georgia e la Russia per stabilire legami privilegiati con il nuovo governo georgiano. La rivalità tra gli Stati-Uniti e la Russia fa il gioco dei signori della guerra locali e non può che attizzare le opposizioni nazionali ed etniche nel Caucaso.

Putin, ex alto ufficiale del KGB, ha costruito una buona parte della sua fortuna politica sulla repressione in Cecenia. Rieletto nel marzo 2004 con una maggioranza confortevole, con un Parlamento ai suoi ordini, sta cercando di instaurare, se non una dittatura, un regime fortemente autoritario. Sembra beneficiare del consenso rassegnato di una popolazione stanca della guerra tra burocrati mafiosi e impoverita dal saccheggio dei clan burocratici.

Dei mass media e una stampa controllata dalla presidenza, un Parlamento trasformato in camera di ratifica : non resta quasi niente delle promesse di democrazia tanto ripetute nel 1989 dagli aduatori dei cambiamenti intervenuti nel linguaggio della burocrazia. L'ascesa di Putin è nello stesso tempo quella degli "organi", degli apparati burocratici originari del KGB, di cui numerosi ufficiali riconvertiti si ritrovano a diversi livelli di responsabilità.

L'alta burocrazia sembra aver ritrovato le vecchie pratiche di lotta tra i suoi differenti apparati come metodo di selezione del dirigente supremo, anche se l'installazione al potere è consacrata da elezioni.

Ciononostante la consolidazione del potere di Putin non significa necessariamente la stabilizzazione dello Stato russo.

I dirigenti russi si vantano del miglioramento della situazione economica. Questa poggia essenzialmente sull'aumento dei prezzi del petrolio di cui la Russia è uno dei principali esportatori. Le ricette dello Stato sono certo aumentate, ma la Russia è sempre più integrata nel mercato mondiale come produttore di materie prime (petrolio, gas o metalli), vale a dire in posizione subalterna. Per il resto, le evasioni di capitali - dovute ad una burocrazia predatrice che preferisce depositare i proventi delle sue rapine nelle banche dei paesi imperialisti occidentali - sono ripresi su grande scala. Quanto agli investimenti occidentali, secondo una stima dell'OCSE, sono i più deboli che la Russia abbia conosciuto "dall'inizio degli Anni Novanta". Bisogna credere che il grande capitale occidentale considera che la situazione non è sufficientemente stabilizzata in Russia per rischiare dei capitali lì, al di fuori del petrolio e di certe materie prime.

1 ottobre 2004