L'ECONOMIA CAPITALISTICA MONDIALE

Print
TESTI DEL 35 CONGRESSO di LUTTE OUVRIERE (2005)
dicembre 2005

17 ottobre 2005

(Testo votato dal 98% dei delegati presenti al congresso)

Il 2004 è presentato, per così dire unanimemente, come un anno di "risultati eccezionali" per l'economia mondiale, con un tasso di crescita di più del 5%, il più alto dal 1976. E le statistiche elargiscono le cifre_: 4,4% di crescita negli Stati-Uniti nel 2004 invece del 3% nel 2003, 5% di crescita oltrepassati in America Latina e in Asia dell'Est, ed anche in Africa (i bambini del Niger o del Malawi, coi loro corpi scheletrici a causa della fame, lo apprezzerebbero, se fossero in condizione di farlo). Solo per l'Europa occidentale c'è qualche sfumatura, soprattutto se paragonata agli Stati-Uniti. Ciononostante usufruisce del 2% di crescita per il 2004, con una tendenza al rallentamento nel 2005.

Queste statistiche dimostrano innanzitutto che la borghesia ed i suoi portavoce si sono adattati, fin nelle statistiche e nel vocabolario, ad una situazione in cui il progresso della produzione reale è debole, oppure inesistente, in cui gli investimenti produttivi restano, al di là delle fluttuazioni periodiche, ad un livello basso, in cui le fabbriche chiudono, il numero dei disoccupati resta drammaticamente alto e la nozione stessa di crescita fa riferimento soprattutto a quella dei profitti delle imprese, così come all'aumento dei redditi e del consumo della borghesia in senso largo.

Le fasi di espansione e di recessione che si succedono, i cicli congiunturali, si producono su fondo di un'economia che non riesce ad uscire dal lungo periodo di depressione cominciato sull'orlo degli anni sessanta e settanta.

Evocando i tratti accentuati dalla crisi dell'economia capitalistica lungo la trentina di anni della sua durata, il cui principale è la finanziarizzazione dell'economia mondiale, abbiamo ricordato, del testo del congresso dell'anno scorso:

"...Il ruolo accresciuto della finanza è stato, in un primo tempo, un effetto della crisi: i capitali inutilizzati negli investimenti produttivi sono stati riportati verso gli investimenti remunerativi (a seconda del periodo : acquisto di buoni del Tesoro dei paesi imperialisti, a cominciare da quelli degli Stati-Uniti ; prestito agli Stati dei paesi poveri ; acquisto di azioni e di obbligazioni ; speculazione monetaria ; finanziamento di operazioni di fusione-acquisizione di grandi imprese, ecc.). Adesso ne è diventato una delle cause. Il funzionamento che si è installato privilegia il profitto finanziario a breve scadenza rispetto agli investimenti produttivi a lungo termine.

"In effetti sembra che, con l'impedire alla crisi di produzione di andare fino in fondo alla propria logica, il suo ruolo regolatore sia perturbato. Infatti bisogna ricordare che le crisi non sono epifenomeni dell'economia capitalistica, dei sottoprodotti casuali. Costituiscono fasi essenziali della riproduzione capitalistica. E' precisamente tramite le crisi che l'economia di mercato, mossa dalla concorrenza cieca, anarchica, ristabilisce gli equilibri tra la produzione e la domanda solvibile, tra i differenti settori dell'economia, in particolare tra quello dei mezzi di produzione e quello dei beni di consumo, così come tra le differenti funzioni economiche. Sono le crisi che, distruggendo una parte del capitale produttivo, rovinando una frazione della classe capitalistica stessa, fanno piazza pulita creando le condizioni del rilancio degli investimenti produttivi. (...)

In cambio: "gli "investimenti" realizzati dai gruppi finanziari, come i fondi pensione, i fondi delle società di assicurazioni o delle mutue ed i fondi speculativi vari, (sono) puri investimenti finanziari. (...) Il denaro non è "investito" (...) per essere immobilizzato (...) in quanto investimento produttivo. E' destinato a fruttare a breve scadenza."

L'accrescimento incessante della parte di questo tipo di finanziamento nei capitali di imprese industriali si ripercuote sulla loro gestione. La ricerca del massimo profitto a breve scadenza si oppone agli investimenti a più lungo termine, all'immobilizzazione di capitali nella costruzione di una nuova fabbrica, all'acquisto di nuove macchine, ecc. Così, è proprio il capitale più concentrato, quello che controlla i mezzi di produzione più potenti della società, che gioca sempre meno il suo supposto ruolo nell'organizzazione della produzione sulla base capitalistica. (...)

Il 2004, considerato come un anno di crescita economica, non ha invertito la tendenza di fondo dell'evoluzione economica, non più di quanto lo abbiano fatto le fasi di espansione precedenti - e ce ne sono state tante - che sono finite ogni volta con una crisi più meno grave, un crac borsistico, una crisi monetaria, una crisi settoriale. Molti elementi che partecipano all'attuale clima euforico, la speculazione immobiliare, il rilancio della Borsa, la stessa crescita dei profitti, accentuano ancor più la preponderanza della finanza ed i movimenti erratici di masse monetarie alla ricerca di investimenti celano nuove minacce di crac.

Dal 2003, i profitti delle grandi imprese sono di nuovo in rapida crescita, con un record nella prima metà del 2005. Questi permettono, in primo luogo, di distribuire dividendi floridi agli azionisti, base dell'arricchimento della borghesia. Se una piccola parte di tali profitti è trasformata in costruzione di nuove fabbriche, di catene di montaggio, ecc., ciò si è fatto principalmente allo scopo di avvicinarsi a qualche nuovo mercato di consumo risultante dall'apertura dei paesi dell'est europeo o della Cina. Nei paesi sviluppati, esistono praticamente solo investimenti di rinnovo (per sostituire materiale diventato obsoleto o per modificare le nuove catene di montaggio in funzione dei nuovi carichi per produrre nuovi modelli, ecc.). L'essenziale di quanto le statistiche registrano come investimenti consiste in semplici acquisizioni di imprese concorrenti, con le loro fabbriche già esistenti, i loro brevetti, i loro laboratori di ricerca e, soprattutto le loro parti di mercato. Il cosiddetto movimento di "fusioni -acquisizioni", dopo un rallentamento dovuto alla crisi del mercato borsistico del 2001-2002, conosce un nuovo slancio che ridà vigore a questo mercato (progressione del 20% alla Borsa di Parigi dall'inizio del 2005). Un altro utilizzo alla moda degli alti profitti consiste, per un'impresa, a comperare a prezzi alti le proprie azioni ed a valorizzare in questo modo sul piano borsistico le fortune dei suoi azionisti. La "crescita" resta quella della finanza e non dell'investimento produttivo.

Ci si dice che la fase di espansione dell'economia mondiale sarebbe trascinata da quella, presentata come complementare, degli Stati-Uniti e della Cina.

La pretesa crescita americana riposa sullo slancio dell'immobiliare e del consumo. Queste d'altronde sono strettamente legate : lo slancio del settore immobiliare, per una larga parte speculativo, valorizza la proprietà immobiliare che serve, a sua volta, come cauzione ipotecaria presso le banche che accordano generosamente crediti al consumo, da cui gli strati più poveri delle classi popolari, i disoccupati, ecc., sono tenuti alla larga. Le statistiche sulla crescita del consumo americano sono fatte in modo tale da nascondere il fatto che solo gli alti redditi crescono, per di più favoriti dalle politiche fiscali, mentre nello stesso tempo diminuisce il potere di acquisto di una gran parte dei salariati ed il montante dell'assistenza sociale è brutalmente ridotto. Le ineguaglianze sociali raggiungono un'ampiezza senza precedenti.

Ciononostante è significativo che, anche negli Stati-Uniti, locomotiva dell'economia mondiale, se il consumo interno è cresciuto del 35% dal 2000, con una netta accelerazione nel 2004, la produzione industriale globale non è aumentata in volume che del 5% dal 1997, e per niente dal 2000 (le cifre sono quelle del "Bureau of Analysis", organismo statistico dipendente dal ministero del commercio degli Stati-Uniti).

Bisogna credere che la classe capitalistica americana stessa non si fa molte illusioni sull'attuale euforia del consumo basato sul credito e, dunque, sull'indebitamento dei privati. Non vede lì un allargamento del mercato abbastanza promettente per il futuro da investire massicciamente ed aumentare l'apparato produttivo.

Le multinazionali americane quest'anno hanno approfittato di un emendamento votato di soppiatto nel 2004 che gli permette di pagare solo il 5,25% di tasse, invece del 35% teoricamente previsto, in caso di rimpatrio dei benefici realizzati altrove nel mondo. In un anno, le grandi imprese americane avranno rimpatriato la somma fantastica di 350 miliardi di dollari. L'emendamento è stato votato per "favorire gli investimenti" all'interno degli Stati-Uniti stessi e per creare posti di lavoro. Ma, come lo nota giustamente Le Monde, tale somma servirà per così dire esclusivamente ad "alimentare l'andata di fusioni ed acquisizioni a Wall Street".

I soli investimenti in ascesa interessano il settore detto delle "nuove tecnologie", che conseguentemente sono uscite dallo sprofondamento consecutivo al crac del 2001. Sono gli equipaggiamenti in computer, informatica o telecomunicazioni che permettono alle statistiche di dire che gli investimenti sono di nuovo in crescita dal 2003, dopo un importante ripiego negli anni precedenti.

La totalità dell'aumento della domanda interna sarebbe stata soddisfatta dalle importazioni (constatazione del Centro di studi internazionali, CEPII). In effetti è la fortissima domanda dell'immenso mercato americano che tira l'insieme dell'economia mondiale.

Ma il fatto che il consumo privato americano in crescita sia soddisfatto da importazioni si riflette nel disavanzo commerciale, ugualmente in crescita negli Stati-Uniti, che è passato da 150 miliardi di dollari nel 1997 a 700 miliardi nel 2004. Tale disavanzo è colmato da investimenti di liquidità provenienti dagli eccedenti commerciali, in particolare di paesi come la Cina, Taiwan o la Corea del Sud. Malgrado l'indebolimento attuale del dollaro, l'economia americana resta in effetti la più potente del mondo, la sola a ispirare fiducia alla borghesia dei diversi paesi. E' come se questi paesi sotto o semi-sviluppati utilizzassero il risparmio forzato realizzato alle spese delle loro classi laboriose per finanziare il consumo delle classi agiate del paese più ricco. E' una delle espressioni dell'evoluzione dell'economia mondiale in un'economia di redditieri al profitto della borghesia, grande e piccola, delle potenze imperialiste del mondo, e della prima di loro, gli Stati-Uniti.

Disponendo, grazie al ruolo del dollaro, principale moneta di scambio e di riserva dell'economia mondiale, del privilegio di far condividere al mondo intero la deteriorazione della loro moneta, gli Stati-Uniti continuano ad indebitarsi. L'economia americana funziona su una montagna di debiti_: quelli dello Stato stesso, quelli delle grandi imprese, quelli dei privati. La crescita incessante di questo indebitamento ha una parte maggiore nella crescita su scala mondiale delle masse monetarie che, se non si investono, aggravano la finanziarizzazione dell'economia e la minaccia ricorrente dei crac.

La Cina, dal lato solo, è già da ora presentata come il secondo polo di sviluppo dell'economia mondiale, se non come un futuro rivale degli Stati-Uniti. Dopo un lungo periodo di quasi-autarchia, da un quarto di secolo il commercio estero cinese progredisce al ritmo del 15% l'anno. La sua parte negli scambi internazionali è passata nello stesso periodo da meno dell'1% al 5%. Il peso degli scambi internazionali nell'economia cinese sarebbe, oggigiorno, due volte superiore a quello del Brasile o dell'India e paragonabile a quello dell'economia messicana.

I dirigenti della Cina sono riusciti a reintegrare il paese nei circuiti dell'economia capitalistica mondiale. Pur mantenendo allo stesso tempo, al contrario dell'ex Unione Sovietica, l'etichetta comunista del regime, lo Stato cinese è riuscito là dove lo Stato russo ha parzialmente fallito : conducendo con una mano di ferro una transizione economica che fa sì che oggigiorno più della metà del prodotto interno lordo cinese sarebbe quello di imprese private.

Durante quasi trent'anni, tra il 1950 e l'inizio della cosiddetta "strategia dell'apertura" nel 1979, lo Stato cinese ha preservato la prospettiva di un certo sviluppo borghese grazie alla rottura dei legami anteriori di subordinazione con le potenze imperialiste in seguito alla presa del potere da parte di Mao. Le barriere protezioniste di cui il regime ha circondato il paese, completando gli effetti del blocco che gli è stato imposto dall'imperialismo americano, lo statalismo, il monopolio del commercio estero, hanno tagliato la Cina dall'economia mondiale e dai vantaggi della divisione internazionale del lavoro. Ma l'hanno ugualmente protetta dall'invasione dei gruppi industriali dei paesi imperialisti e dai loro prelievi diretti. Gli hanno permesso di centralizzare, tramite l'intermediazione dello Stato, i mezzi necessari ad un certo numero di grandi lavori di infrastrutture ed all'estensione dell'industria pesante. Ad eccezione di qualche breve periodo, la Cina è stata, durante questi trenta anni e grazie alla centralizzazione statale, uno dei paesi dove gli investimenti in capitale fisso erano i più elevati. Questi si sono fatti al detrimento del consumo delle classi lavoratrici delle città e delle campagne.

Se uno strato privilegiato si è sempre mantenuto, lo sviluppo economico si è fatto però secondo un certo egualitarismo per le classi popolari che, pur avendo un livello di vita estremamente basso, potevano ciononostante contare su una certa protezione dello Stato nei settori della sanità, delle pensioni, eccetera. E' questo egualitarismo che si sta completamente smantellando.

E' sulla base di questa precedente accumulazione che la Cina ha intrapreso l'attuale evoluzione che ha condotto all'arricchimento eccezionalmente rapido della borghesia cinese. Questo arricchimento è reso spettacolare dall'apparizione di qualche miliardario alla testa di fortune comparabili a quelle dei loro simili di ben altri paesi semisviluppati del mondo (Brasile, Messico, ecc.) ma anche dell'emergenza di una borghesia media più vasta, che crea o si appropria una miriade di piccole imprese disseminate nell'immensità rurale del paese e, a giudicare dalle poche informazioni che arrivano, con l'appoggio dell'apparato statale locale conducono una guerra di classe feroce contro la popolazione delle campagne. Anche se proporzionalmente poco numerosa in rapporto all'insieme di una popolazione di un miliardo e trecento milioni di abitanti, tale classe privilegiata cinese, con abitudini di consumo che imitano l'Occidente, stimata ad una trentina e forse cinquanta milioni di persone, rappresenta ciononostante,in valore assoluto, un mercato importante. L'arricchimento di questa minoranza privilegiata poggia sullo sfruttamento della classe operaia e sull'immensa miseria delle campagne. Le due sono collegate come accade nell'economia capitalistica : la spinta di masse importanti che fuggono dalle campagne che non permettono più di sopravvivere offre alla borghesia cinese e, ancora più, ai gruppi imperialisti associati all'evoluzione economica del paese,una manodopera tra le meno care del mondo.

Constatando lo smantellamento delle protezioni sociali anteriori che assicuravano alla quasi totalità della popolazione urbana una previdenza sociale ed una pensione, gli organismi internazionali della borghesia, fino alla Banca mondiale, danno allo Stato cinese consigli per farlo rimediare in una certa misura ad una situazione sociale, addirittura sanitaria, catastrofica e carica di rischi di esplosione (tale situazione è attribuita al carattere "comunista" del regime). L'ammonizione è tanto più ipocrita in quanto l'India, grande potenza povera che non ha mai abbandonato il girone dell'imperialismo, non è certo un modello per quanto riguarda la protezione delle classi povere.

Parlare, come lo fanno alcuni, del partenariato Stati-Uniti/Cina che sarebbe l'elemento motore dell'economia mondiale, è una truffa. Così come è una truffa pretendere che la crescita dell'economia cinese rappresenti una minaccia per i paesi imperialisti sviluppati, in particolare per gli Stati-Uniti. I legami economici tra gli Stati-Uniti e la Cina non sono legami di uguaglianza, ma legami da paese imperialista a paese sottosviluppato. Le famose esportazioni cinesi che sarebbero tanto minacciose per l'industria dei paesi sviluppati sono per tre quarti il prodotto di imprese straniere impiantate in Cina o direttamente associate in partenariato ad imprese cinesi. La Cina è stata, nel 2004, al secondo posto dei paesi destinatari dei flussi di capitali stranieri, nei primi cinque per l'ammontare totale di tali capitali. La parte di tali capitali che non è stata semplicemente depositata ma investita in creazione di nuove imprese viene principalmente dal Giappone, da Taiwan o dalla diaspora della borghesia cinese in Asia del Sud-est, che domina largamente i settori più moderni dell'industria cinese (elettronica, elettrodomestici, assemblaggio) e le sue esportazioni.

La maggior parte del commercio estero cinese si fa, tanto all'importazione che all'esportazione, con i paesi più industrializzati dell'Est asiatico. Una buona parte di tali scambi sono movimenti all'interno degli stessi gruppi industriali per i quali la Cina non è che un luogo di assemblaggio, una tappa nel processo di produzione, il cui controllo - ed i profitti - si trovano all'esterno della Cina e che non è per niente destinata al mercato cinese.

Scambiando le sue merci a bassissimo costo, grazie ai salari estremamente bassi dei suoi lavoratori, la Cina scambia molto lavoro umano contro meno lavoro umano, al profitto del grande capitale estero. Questo rappresenta il meccanismo stesso del processo di sottosviluppo. I principali beneficiari dello sfruttamento degli operai cinesi sono, da una parte, queste grandi imprese straniere, da cui dipende l'industria cinese dell'assemblaggio. Negli Stati-Uniti ed in Europa, le cui importazioni provengono soprattutto dai settori tradizionali dell'economia cinese (tessile, abbigliamento, scarpe, ecc..), lo sfruttamento degli operai cinesi approfitta d'altra parte ai mastodonti della distribuzione : le catene dei grandi supermercati americani, con alla testa Wal-Mart, una delle più potenti imprese americane con un fatturato superiore al prodotto interno della Grecia o della Finlandia, o, in Francia, Carrefour, prima impresa di distribuzione in Europa. Questi trust che si riforniscono in Cina approfittano dei bassi salari non certo per abbassare i prezzi per i consumatori in America o in Europa, ma per aumentare il loro margini di benefici.

Di più, gli scambi all'interno della "coppia" Stati-Uniti/Cina sono solo parzialmente degli scambi poiché gli Stati Uniti pagano le loro importazioni provenienti dalla Cina con dollari depositati negli Stati-Uniti in parte dalla Cina stessa. Si tratta di un trasferimento di valori da un grande paese sottosviluppato verso la principale potenze imperialista. Se nel passato, contrariamente alle affermazioni dei dirigenti maoisti, non c'era salvezza per la Cina in un'economia che funzionava in condizioni di quasi-autarchia, l'apertura operata da una ventina di anni verso il mercato capitalistica mondiale sta tessendo e stringendo il cappio intorno alle classi lavoratrici. Il che non impedisce a i "nostri" capitalisti di qui di evocare una minaccia delle merci cinesi per ridurre i salari e licenziare i lavoratori da noi.

Al di là delle imprese a capitali stranieri, imprese a capitali cinesi sono o potrebbero essere capaci, per alcuni prodotti, di far concorrenza alle merci occidentali sul mercato internazionale. La minaccia di ristabilire delle quote, presentata e più o meno realizzata dagli Stati-Uniti o dall'Unione europea, ha mostrato che su questo terreno i grandi paesi imperialisti possono tornare indietro e non lasciar la Cina fargli concorrenza, in ogni caso non sui loro propri mercati. Il principale ostacolo di fronte alle misure protezioniste dei grandi paesi imperialisti risiede attualmente nel fatto che la Cina stessa rappresenta un mercato, per di più in crescita. I grandi gruppi capitalisti dell'Europa occidentale o d'America accettano tanto più facilmente la concorrenza cinese per i T-shirt e altri prodotti tessili come le scarpe, in quanto possono esportare sul mercato cinese aerei, treni a grande velocità, ecc.

Il consumo a credito della grande e piccola borghesia, la sarabanda della speculazione al posto degli investimenti produttivi, ecco le due mammelle della pretesa crescita economica attuale. Ma la diminuzione incessante della parte della classe operaia nel reddito nazionale si traduce in una riduzione del suo consumo. Abbassando la capacità di consumo delle classi sfruttate, la classe capitalista si preclude da sola la possibilità di uscire dalla crisi. Per rimediare al sotto-consumo dei salariati, si aumenta in modo artificiale - regali fiscali e crediti - il consumo degli strati agiati. Ma ciò contribuisce ancora più ad accrescere la finanziarizzazione dell'economia.

L'ascesa dei prezzi del petrolio da un anno è una delle manifestazioni della fase attuale della crisi dell'economia capitalistica. Contrariamente alle menzogne propagate per condizionare l'opinione pubblica mondiale, questa crisi, non più delle due precedenti crisi petrolifere, non è un fenomeno naturale, espressione del carattere limitato delle risorse petrolifere. E' dovuta fondamentalmente al fatto che i grandi trust del petrolio non investono o investono poco da anni nella prospezione e nello sfruttamento di nuovi giacimenti petroliferi (l'ammontare degli investimenti di Total - campione ciononostante in tutte le categorie del profitto in Francia questo anno - è stimato dagli specialisti alla metà di quello che dovrebbe essere. Idem per i trust petroliferi degli Stati-Uniti che non hanno costruito nuove raffinerie da 29 anni perché non produrrebbero con una redditività sufficiente agli occhi dei "maggiori").

I trust del petrolio preferiscono realizzare più profitti con una produzione stagnante, oppure in diminuzione, approfittando della loro posizione di monopolio che gli permette di controllare i rifornimenti di petrolio del mondo.

La novità, fattore aggravante, della crisi attuale del petrolio in confronto al primo "urto petrolifero" del 1973 è che, durante la trentina di anni che sono trascorsi da allora, la finanziarizzazione dell'economia mondiale si è aggravata e che le masse incommensurabilmente più importanti di liquidità cercano continuamente ad investirsi in modo vantaggioso. Il movimento di aumento voluto dai trust del petrolio, attirando gli investimenti finanziari, ne alimenta a sua volta l'aumento. Per il petrolio è la stessa cosa che, ad altri momenti o nello stesso tempo, per la speculazione borsistica o immobiliare e per la speculazione su altre materie prime.

Il primo urto petrolifero è stato all'epoca, tramite il movimento detto di riciclaggio dei petrodollari, un fattore di aggravamento della crisi monetaria ed una delle fasi essenziali della finanziarizzazione dell'economia. Gli attuali fantastici profitti dei trust petroliferi rischiano di comportare conseguenze simili. E' possibile che siano parzialmente utilizzati per nuovi investimenti che renderanno redditizi i giacimenti di bassa qualità oppure più costosi da sfruttare, oppure altre fonti di energia. Ma niente garantisce che, anche in possesso di liquidità considerabili, i trust del petrolio non proseguano con il loro atteggiamento maltusiano in materia di produzione è che il loro capitali accresciuti non continuino a gonfiare soprattutto i circuiti finanziari dell'economia mondiale.

Questo movimento di acquisizione o di presa di controllo si produce essenzialmente tra grandi gruppi capitalistici americani e dei paesi imperialisti europei. Le fusioni-acquisizioni che non si producono all'interno stesso degli Stati-Uniti, o dell'Unione Europea, sono operazioni transatlantiche, vale a dire di capitali americani che vengono ad investirsi in Europa e di capitali europei che vanno ad investirsi negli Stati-Uniti. La parte delle azioni straniere delle imprese del CAC 40 - le 40 prime imprese per la loro capitalizzazione borsistica in Francia -, che era del 10% nel 1985, raggiungeva quasi il 44% nel 2003 (i soli fondi pensione americani e britannici ne detengono più del 25%).

Inversamente, quasi i tre quarti degli investimenti stranieri negli Stati-Uniti sono europei. Ne risulta un'interpenetrazione crescente dei capitali dei grandi gruppi industriali e finanziari da una parte e dall'altra dell'Atlantico.

Ad eccezione di una decina di paesi poveri che attirano investimenti produttivi - oltre alla Cina, la Corea del Sud, la Malesia, il Messico o il Brasile -, la grande maggioranza dei paesi sottosviluppati sono integrati nei circuiti di capitali solo tramite l'indebitamento. Quanto ai più poveri, quelli per i quali è stata inventata l'espressione "paesi meno avanzati" (PMA), sono completamente marginalizzati e la loro parte negli scambi mondiali è diventata insignificante. L'economia capitalista condanna una frazione crescente dell'umanità ad una morte lenta.

Fatto caratteristico delle relazioni tra i paesi imperialisti ed i paesi non imperialisti : se delle somme importanti venute non solo dalla Cina ma anche dal Brasile, dall'India, dal Messico, dalla Corea del Sud, da Taiwan, sono investite negli Stati-Uniti e permettono a questi ultimi di mantenere la loro bilancia dei pagamenti in equilibrio malgrado il loro disavanzo commerciale, il movimento dei capitali non è di stessa natura e non ha lo stesso significato nei due sensi.

Mentre i soldi dei grandi paesi poveri che possiedono un'eccedente si depositano negli Stati-Uniti sotto forma di buoni del Tesoro, di obbligazioni emesse da imprese private o, più semplicemente, sotto forma di depositi in banca, i capitali americani, essi, sono investiti sotto forma di prese di partecipazione delle imprese. In altri termini, i capitali depositati dai paesi poveri negli Stati-Uniti non gli danno nessuna presa per controllare l'economia americana ; i capitali depositati dai trust americani controllano invece le imprese e le possono rovinare.

Qualunque sia il modo, semplice o complesso, in cui tale o tale altra categoria della borghesia accede ai "frutti della crescita", si tratta sempre in ultima analisi del plusvalore estratto dalla classe operaia. L'integrazione di nuovi contingenti di proletari - quelli della Cina e di qualche grande paese povero detto emergente - nei circuiti economici mondiali è solo uno dei mezzi per aumentare il plusvalore disponibile per la borghesia mondiale. La grande borghesia, i gruppi capitalistici oggi non hanno più di ieri fiducia in un rilancio ed in un allargamento continuo del mercato mondiale, in grado di procurargli più profitti tramite l'accrescimento della produzione. Aumentare il plusvalore assoluto e relativo è il solo mezzo in tale contesto per accrescere il plusvalore globale. Ciò significa l'abbassamento del costo della forza lavoro, l'accrescimento della durata e dell'intensità del lavoro. Dappertutto, il padronato abbassa i salari, rimpiazza i contratti stabili con contratti precari, allunga l'orario di lavoro. I governi, dal canto loro, si sforzano di abbassare i salari indiretti. Da cui gli attacchi contro le pensioni, contro la previdenza sociale, ecc. Se la guerra di classe condotta dalla borghesia ed i suoi Stati si aggrava in tutti i paesi del mondo e se tutti i governi agiscono nello stesso senso, è perché ciò proviene da un'esigenza profonda dell'economia capitalistica.

Da quasi venti anni crollano o sono demoliti gli ostacoli che, nel periodo anteriore, avevano in una certa misura limitato la libera penetrazione dei capitali dappertutto nel mondo. Il crollo dell'Unione sovietica gli ha aperto le porte degli Stati che ne sono sorti. Le ex-Democrazie popolari hanno completamente reintegrato il mercato capitalista mondiale, così come lo fa la Cina. Quelli dei paesi poveri che avevano tentato in passato di opporre un certo statalismo al controllo dei gruppi imperialisti hanno levato, gli uni dopo gli altri, tali ostacoli.

Fatto senz'altro ancora più importante, l'indebolimento del movimento operaio ha lasciato le mani libere ai grandi capitali dappertutto, compresi i grandi paesi industriali.

Ma i nuovi campi di azione aperti ai grandi gruppi industriali e finanziari non hanno inaugurato un nuovo periodo di ascesa del capitalismo. Il dominio del capitale finanziario sull'economia capitalistica aggrava solo il carattere parassitario, usuraio, del capitale. Le ineguaglianze aumentano senza sosta tra le classi lavoratrici e la borghesia, tra qualche grande fortuna e la maggioranza della popolazione del pianeta, tra paesi ricchi e paesi poveri.

Prodotto esso stesso dallo sviluppo capitalistico, agendo all'interno dell'ordine sociale attuale, il movimento operaio non è mai stato al riparo dalla pressione della società così com'è. Lo sviluppo dell'imperialismo alla fine del XIX secolo aveva comportato la degenerazione riformista del movimento operaio. Le sconfitte della prima grande ondata di rivoluzioni operaie del 1917-1919 che lasciarono la Russia rivoluzionaria isolata, seguite dieci anni dopo dalla grande crisi economica, l'ascesa dei regimi reazionari e del nazismo, hanno comportato la degenerazione stalinista. La putrescenza dell'imperialismo di oggigiorno si traduce, sul piano delle idee, in una crescita di una moltitudine di forme di idee reazionarie, di integralismi religiosi di ogni genere, dell'etnismo, senza parlare della glorificazione permanente del capitalismo presentato come l'unica forma di società possibile.

Il marxismo, anche sotto la versione deformata dello stalinismo, adulterata, è arretrato in conseguenza.

E' precisamente questa ascesa di idee reazionarie che rende vitale la preservazione e la difesa delle idee e del programma marxista. Solo il programma comunista, il marxismo rivoluzionario che, per parafrasare Marx, cerca di capire la società per trasformarla, dà una prospettiva politica alle future lotte della classe operaia. E saranno l'evoluzione stessa del capitalismo, la sua incapacità a risolvere i problemi della collettività che, presto o tardi, finiranno col far rinascere un movimento operaio rivoluzionario capace di riprendere il suo ruolo storico. Poiché, al di là dell'evoluzione interna dell'economia capitalistica,la classe operaia mondiale è sempre la sola forza suscettibile di trasformare la società.