RELAZIONI INTERNAZIONALI E DOMINIO IMPERIALISTA

Εκτύπωση
TESTI DEL 35 CONGRESSO di LUTTE OUVRIERE (2005)
dicembre 2005

24 ottobre 2005

(Testo votato dal 98% dei delegati presenti al congresso)

Nonostante l'assoluto predominio degli Stati Uniti, non c'è una stabilizzazione delle relazioni internazionali. E non puo' essere diverso in questo mondo imperialista dominato dai rapporti di forza e dalla loro rimessa in discussione incessante dagli scontri permanenti tra gli interessi divergenti delle varie borghesie e dai sobbalzi incessanti venuti dai popoli impoveriti e assoggettati.

Solo qualche anno fa, l'attuale forma della "mondializzazione" dell'economia e la scomparsa dell'Unione sovietica servivano congiuntamente da argomenti a chi profetizzava un'evoluzione verso il riassorbimento dei conflitti e la pace mondiale, se non l'armonia universale. Da parte di alcuni ideologhi della borghesia, tali predizioni sono state riassunte nella forma estrema della "fine della storia". Ma anche nell'intellighenzia dell'estrema sinistra che si dice marxista alcuni, riprendendo le idee espresse in altri tempi da Kautsky sull'"ultra-imperialismo", annunciavano, per criticarla, l'emergenza di una classe capitalista internazionale dagli interessi trascendenti i quadri nazionali e spinta da questo fatto a gestire gli affari del mondo oltrepassando le opposizioni tra gli Stati. Si appoggiavano sull'interpenetrazione crescente dei capitali nei differenti paesi, sull'abbassamento progressivo delle barriere di fronte agli spostamenti ed agli investimenti di capitali, sulla deregolamentazione generalizzata, sull'abbassamento delle barriere che tante borghesie dei paesi sotto o semi-sviluppati avevano eretto intorno ai loro paesi per tentare di proteggere le loro economie nazionali.

Questa idea più o meno chiaramente espressa sottende anche tante discussioni tra chi presenta la mondializzazione capitalistica attuale sotto i colori attraenti dell'unificazione dell'economia e delle civilizzazioni e chi che la denuncia, lamenta il ruolo diminuito degli Stati nazionalie e auspica il loro ritorno per proteggersi dalla "concorrenza eccessiva" o ancora per "preservare le conquiste sociali".

Passiamo in questa sede sul fatto che, anche nei periodi protezionisti più accentuati, gli Stati nazionali non proteggevano le classi lavoratrici, bensi la borghesia. Ma è falsa tutta questa visione che oppone l'interdipendenza crescente delle economie sotto il dominio del capitale finanziario ed il ruolo degli Stati.

Il potere crescente dei grandi gruppi capitalisti, la loro interpenetrazione nei paesi imperialisti, il loro dominio sull'economia mondiale non si oppongono all'esistenza ed al ruolo degli Stati nazionali. L'affermare che numerose multinazionali hanno un fatturato più elevato del bilancio, o addirittura del prodotto interno di tanti Stati, è significativo della potenza crescente di questi grandi gruppi. Ma, partendo da ciò, presentare questi consorzi come delle realtà antagoniste allo Stato, è proprio stupido. Già Lenin parlava di fusione tra i grandi trust ed i loro Stati. La potenza crescente dei trust americani non toglie nulla al ruolo dello Stato degli Stati-Uniti in quanto strumento di tali trust. Per quanto "multinazionali" possono essere i grandi gruppi finanziari - e tutti cercano di svilupparsi su scala planetaria -, tutti sono profondamente legati ai "loro" Stati nazionali (senza parlare dello Stato del paese povero di cui un trust domina la produzione. Come il Guatemala, Stato soprattutto del trust United Fruit, o il Gabon, strumento statale al servizio di Elf e poi di Total).

Il dominio dei trust sul mondo non significa la fine degli Stati e l'emergenza di una specie di Stato mondiale, e neanche la cooperazione permanente ed armoniosa tra le diverse borghesie imperialiste. Le molteplici forme di alleanza o di cooperazione tra imperialismi sono sempre conflittuali e suscettibili di essere modificate o rimesse in discussione in funzione delle modifiche dei rapporti di forza economici, finanziari, oppure militare. Sono, per riprendere l'espressione di Lenin, "tregue tra le guerre". Lo sviluppo del capitalismo ha sempre avuto un carattere allo stesso tempo internazionale e nazionale. L'imperialismo e la sua evoluzione degli ultimi anni hanno accentuato il carattere contraddittorio di tale realtà.

Solo i più ottusi difensori dell'imperialismo possono presentare l'evoluzione attuale come un avvio sulla strada della cooperazione crescente, sulla base capitalista, con un movimento irreversibile verso la democratizzazione all'interno delle nazioni e la pace tra di loro. Sono gli stessi che salutano il successo del referendum in Iraq o il processo di Saddam Hussein come un passo in avanti sulla strada della democrazia.

Il più potente degli imperialismi, gli Stati-Uniti, non opera certo per il progresso dell'umanità, ma per il dominio dei suoi trust sull'economia mondiale ed il dominio del suo Stato nazionale sugli altri. Ma l'opporre alla mondializzazione imperialista la "sovranità" degli Stati è un'utopia reazionaria. Quelli che oppongono all'unificazione crescente dell'economia mondiale da parte del capitale finanziario, il ripiego dietro la protezione dello Stato, strumento "nazionale" del capitale finanziario, non hanno niente a che vedere col marxismo rivoluzionario che ha come obiettivo l'abolizione del capitalismo.

Anche tra potenze imperialiste, la guerra economica non si è mai interrotta. Con la stagnazione dell' economia mondiale, si è intensificata. Se la stampa si focalizza sugli aspetti più spettacolari di tale guerra economica - Boeing contro Airbus, il razzo Ariane contro i "lanciatori" americani, cinema o produzione televisiva "nazionali" contro l'invasione delle serie americane, ecc.- questa viene condotta in ben altri settori, dal tessile all'agroalimentare, passando per la banana-dollaro e la banana delle dipendenze francesi d'oltremare. Gli organismi internazionali del tipo FMI, WTO, Banca mondiale, ecc. non attenuano gli scontri, anche se ne regolano alcune modalità. Soprattutto gli offrono arene supplementari. Non si sostituiscono agli Stati, ma offrono un ambito in cui gli Stati si scontrano.

E se gli Stati-Uniti hanno avuto la parte maggiore nella creazione di tali organismi, non è certo per cedere le loro prerogative, ma per darsi mezzi supplementari per esercitarle.

Benché il mondo non abbia conosciuto dal 1945 delle guerre dette mondiali, cioè delle guerre opponendo direttamente tra di loro le grandi potenze e trascinando le altre tramite un sistema di alleanze e di subordinazione, il militarismo rimane un tratto fondamentale dell'imperialismo. Malgrado la scomparsa dell'"altra super-potenza", gli Stati-Uniti continuano a sviluppare il loro arsenale militare. La nuova corsa all'armamento, prendendo il passo di quella che si conduceva nel nome del "contenimento" del blocco sovietico, è iniziata ben prima degli attentati dell'11 settembre 2001. Questi ultimi hanno fornito il pretesto per legare la crescita delle spese militari - in aumento spettacolare dal 1999 - allo spettro di una minaccia "che può venire da ovunque".

L'aumento delle spese militari ha comportato una crescita accelerata dei grandi trust dell'armamento, la loro concentrazione traùite fusioni o acquisti intorno ad alcuni gruppi giganteschi (General Dinamics, Lockheed Martin, Northrop Grumman, ecc.) attirando il capitale finanziario (in particolare quello dei "fondi di investimenti" di cui la parte in tali imprese è largamente maggioritaria). Gli investimenti nelle imprese di armamento assicurano al capitale finanziario dei rendimenti borsistici più forti di tutti gli altri settori, e quelle più sicure. In questo settore la fusione tra lo Stato ed i grandi trust è spinta all'estremo.

Se le spese militari degli Stati-Uniti oltrepassano quelle di tutte le altre potenze imperialiste riunite, queste ultime agiscono allo stesso modo. In nessuna di queste, le spese militari sono in diminuzione.

Benché una grande parte delle spese militari degli Stati-Uniti vada alla ricerca, l'elaborazione e la fabbricazione di sistemi materiali sempre più sofisticati, la militarizzazione si traduce anche in un largo dispiegamento di uomini. Questo dispiegamento è, senz'altro, più largo che durante la guerra fredda, anche solo Per la presenza delle truppe americane, sole o con gli alleati della Nato, in alcune delle ex-Democrazie popolari - Ungheria, Romania, Bulgaria - e in diversi paesi sorti dalla disgregrazione dell' Unione sovietica, in Georgia o in Asia centrale.

La potenza economica è così completata e assicurata dalla forza militare, in particolare nelle zone strategiche per il controllo dell'approvvigionamento in petrolio quali il Medio-Oriente, o per ragioni politiche l'Asia centrale, a prossimità della Russia, della Cina e dell'India.

Si può dire la stessa cosa per tutti gli Stati imperialisti, proporzionalmente alla potenza dei loro gruppi industriali e finanziari. Gli Stati nazionali gli servono da strumento per difendersi nella competizione internazionale contro i loro concorrenti, le altre potenze imperialiste ed in primo luogo gli Stati-Uniti, ma anche per preservare i loro interessi nei paesi poveri che fanno parte delle loro zone d'influenza.

La "costruzione europea" è un tentativo delle potenze imperialiste d'Europa per sfuggire alle conseguenze mortali dello spezzettamento nazionale - senza peraltro abbandonare gli Stati nazionali. Il processo che ha condotto all' Unione europea non ha posto fine all'antagonismo tra borghesie imperialiste d'Europa. Il rifiuto della Costituzione europea è solo un epifenomeno minore da questo punto di vista. La costruzione di un'Europa unita su una base borghese si scontra con forze ben più potenti dell'accettazione o del rigetto di un testo costituzionale. A cominciare da quelle degli stessi Stati nazionali dei Paesi imperialisti d'Europa, capaci di associarsi a diversi gradi in funzione del livello di interpenetrazione delle loro economie rispettive, ma per niente disposte a scomparire e lasciare il posto ad uno Stato europeo. E mentre calpestano la "sovranità" degli Stati dei paesi che saccheggiano nelle loro zone d'influenza, compresa la parte povera dell'Europa, le borghesie imperialiste hanno bisogno dei loro Stati, anche per negoziare nelle migliori condizioni l'abbandono parziale di sovranità che richiede la creazione di un mercato unificato.

In Europa esiste un mercato unico più o meno unificato, accordi bi o multilaterali tra paesi europei per progetti industriali del tipo "Arianespace", ma solo embrioni di diplomazia e di esercito comuni. Quanto al bilancio europeo, anche se rappresenta un bel po' di soldi per i trust che vi attingono, costituisce solo una percentuale minima del bilancio degli Stati. Ed anche su tale bilancio, le grandi potenze non sono riuscite a mettersi d'accordo quest'anno. La diplomazia francese dà la responsabilità di tale smacco alla Gran Bretagna, accusata di essere più legata agli Stati-Uniti che all'Europa (almeno su questo punto, è vero). Ma i rappresentanti della borghesia britannica non vedono perché la maggior parte del bilancio europeo - più del 40% - dovrebbe andare all'agricoltura ed all'agro alimentare (cosa che favorisce soprattutto la Francia), e non alle sue proprie imprese. Beninteso, né la Francia né la Gran Bretagna auspicano un aumento delle spese comuni a sfavore delle spese nazionali.

La "costruzione europea" è essenzialmente un'alleanza contrattuale tra potenze imperialiste d'Europa e in primo luogo del trio Germania-Francia-Gran Bretagna. Non passa anno senza che le divergenze di interessi tra queste tre medie potenze esplodano sotto forma di conflitti o di crisi più o meno gravi. Al di là degli aspetti aneddotici attribuiti alle relazioni tra dirigenti - dal famoso "l'Inghilterra è un'isola" di De Gaulle al "voglio recuperare i miei soldi" di Margaret Thatcher -, le divergenze poggiano su differenze di interessi economici.

Per la complementarità delle loro risorse di materie prime, per l'importanza dei loro scambi - la Francia è il primo cliente ed il primo fornitore della Germania, e reciprocamente -, la Francia e la Germania sono i paesi che hanno più bisogno di rendere comuni i loro mercati rispettivi. Da cui risulta anche la loro intesa per una moneta unica, per permettere ai loro scambi commerciali di sfuggire ai rischi delle variazioni dei tassi di cambio. In particolare, l'imperialismo tedesco è tanto più favorevole all'allargamento dell' Unione europea verso Est in quanto questa parte del continente costituisce la sua tradizionale sfera d'influenza. Quanto alla Francia, potenza media sempre meno capace di preservare la sua sfera d'influenza nel suo ex-impero coloniale d'Africa, ha interesse a "europeizzare" il costo umano e finanziario della sua presenza. Nei primi balbuzzii di una forza militare europea comune, i suoi iniziatori designano l'Africa come uno dei principali campi di operazioni nell'ambito del "Recamp" (Rafforzamento delle capacità africane per il mantenimento della pace).

La Gran Bretagna invece, tanto sul piano economico che politico, è più legata agli Stati-Uniti che alla Germania e alla Francia. I dirigenti politici dell'imperialismo britannico non hanno mai nascosto che nell'Unione europea gli interessano solo un mercato più o meno unificato e la soppressione degli ostacoli di fronte al dispiegamento dei loro capitali e delle loro merci. Se la Germania e la Francia sono andate più lontano, né l'una né l'altra si propongono, anche a lungo termine, di fondere i loro Stati in uno solo oppure lo scioglimento dei loro Stati rispettivi a favore di un'entità statale su scala dell'insieme o di una parte del continente.

Le tre principali potenze imperialiste d'Europa hanno invece in comune l'interesse di rafforzare il loro condominio sulla parte meno sviluppata e più debole dell' Europa, le ex-Democrazie popolari, i paesi Baltici, oppure al di là, sui Balcani o sulla Turchia. Ma ciò non gli impedisce di giocare, ognuna, la sua partita in funzione dei suoi interessi particolari. Lo si è visto al momento dell'esplosione della Jugoslavia, quando la Germania ha favorito l'indipendenza croata e la Francia e la Gran Bretagna per qualche tempo hanno preso posizione per il mantenimento di uno Stato jugoslavo unificato, il che di fatto equivaleva a prendere posizione per la Serbia. Lo si è visto anche al momento dei recenti scontri nelle istanze europee in cui l'Austria ha "ricattato" la Gran Bretagna, favorevole all'inizio dei negoziati per l'adesione della Turchia, minacciando di bloccare il processo se non iniziavano nello stesso tempo i negoziati con la Croazia.

I paesi dell'Est europeo restano soggetti passivi dell'unificazione europea. Il fatto di essere integrati all'Unione non cambia la natura delle loro relazioni con l'Europa occidentale. La loro economia è dominata dai grandi trust occidentali.

Il trattato di Nizza, che regola le relazioni tra i vari paesi dell'Unione Europea, gli riconosce una rappresentanza nella Commissione europea che le grandi potenze non hanno l'intenzione di lasciargli. (Mettere fine a tale situazione ed assicurare alla Francia, alla Germania ed alla Gran Bretagna coalizzati un diritto di veto nelle istituzioni europee era il principale obiettivo della "Costituzione Giscard").

Ma il fatto che ci sia un commissario per ogni paese alla Commissione europea oppure che, in molti settori di decisione, la regola dell'unanimità continui a prevalere, non modifica tale rapporto di forze nella sfera economica. Ciò contribuisce solo a fare sì che la cosiddetta Europa politica resti nel limbo. Ma per le grandi imprese dell'Europa occidentale non è questo l'essenziale.

Mai, grazie ai progressi tecnici nei settori della comunicazione, dell'informazione, degli spostamenti di materiali, il pianeta era apparso così piccolo come oggi, e la sorte dei suoi abitanti così profondamente collegata. Ma nello stesso tempo, la frammentazione in diversi Stati non era mai stata tanto forte, completata dalle ascesa nazionaliste un po' dappertutto, compresi i grandi paesi imperialisti, a cominciare dagli Stati-Uniti.

Abbiamo avuto l'occasione di sottolineare più volte che mentre l'Europa contava solo 23 Stati prima del 1914 e 33 dopo il 1945, ne conta oggi 45. Si può aggiungere che su scala mondiale, l'evoluzione è stata simile : una quarantina di Stati prima del 1914 contro più di 180 oggigiorno, senza parlare della moltitudine di regioni indipendenti di fatto o che cercano di esserlo, dal Kosovo a tale o tale altra regione d'Africa. Questa moltiplicazione di Stati su scala mondiale è certo dovuta in parte alla decolonizzazione o all'accesso all'esistenza nazionale di alcuni popoli che lo volevano e ci si potrebbe vedere un progresso. Ma le potenze imperialiste, anche quando sono state costrette ad abbandonare la forma coloniale del dominio, lo hanno fatto spezzando entità più grandi, aizzando gli uni contro gli altri popoli che, prima, vivevano insieme. Tante regioni del mondo portano ancora il marchio di tali separazioni fatte nella violenza. Così la divisione dell'India e del Pakistan ; così ancora la moltitudine di Stati creati artificialmente, eredità del dominio coloniale della Francia in Africa.

Alcune delle quasi sessanta guerre che continuano oggigiorno sono le conseguenze dirette o indirette della politica delle potenze imperialiste nei confronti dei popoli che dominano. Altre sono condotte direttamente dalle potenze imperialiste.

Malgrado le elezioni ed un referendum su un progetto di Costituzione, lo Stato di guerra si prolunga in Iraq. E' difficile sapere qual'è la parte della sensazione di oppressione nazionale nella lotta contro l'occupante e qual'è la parte dell' attivismo dei diversi gruppi armati che, anche se pretendono prendersela con gli occupanti americani e britannici, se la prendono soprattutto con i loro concorrenti sul terreno, sciiti contro sunniti, Curdi contro Arabi, e la parte dei clan rivali all'interno di ognuna di queste categorie. Non solo la calma non è stata ristabilita in Iraq, ma il rischio di uno scoppio in funzione delle divisioni religiose o etniche persiste.

E' possibile che una parte della popolazione irachena, i Curdi massacrati durante la guerra contro l'Iran o gli sciiti il cui sollevamento alla fine della prima guerra del Golfo è stato schiacciato nel sangue dai carri armati di Saddam Hussein con l'accordo tacito delle truppe americane vittoriose, si senta vendicata dal processo contro l'ex dittatore. Ma non si può essere che schifati da questo processo fatto meno per condannare Saddam Hussein che per far dimenticare la schiacciante responsabilità delle grandi potenze. Le potenze imperialiste vittoriose hanno la lunga tradizione di sacrificare capri espiatori per non toccare l'essenziale. Il processo di Norimberga ha deciso l'esecuzione di alcuni dei principali criminali del regime nazista per preservare meglio l'apparato dello Stato tedesco che questi ultimi avevano diretto, e, soprattutto, i grandi gruppi capitalisti che avevano sostenuto il potere nazista e quelli - non solo tedeschi - che avevano visto con simpatia Hitler schiacciare il movimento operaio tedesco.

Saddam Hussein è stato, durante quasi trenta anni, il sicario dell'imperialismo contro il suo popolo innanzitutto, ma all'occasione anche contro paesi vicini, come l'Iran. Ed è in questa veste, sostenuto ed armato da tutte le grandi potenze cosiddette democratiche, che Saddam Hussein ha lanciato la guerra tra Iraq ed Iran, una delle più sanguinose nella regione con più di un milione di morti. Con la sua fine, aggiunge un nome alla lunga lista dei dittatori utilizzati dall'imperialismo fin quando ciò era suo interesse ed abbandonati alla loro sorte quando non era più il caso.

E' possibile che il prossimo della lista sia il dittatore della Siria, Bachar El-Assad - il cui padre si rese utile all'imperialismo ristabilendo l'ordine in un Libano allora dilaniato dalla guerra civile -, e che attualmente ha smesso di essere utile. Che sia veramente lui il responsabile dell'attentato contro Rafik Hariri, come cerca di dimostrarlo una commissione d'inchiesta creata appositamente, o che il politico e bacato uomo d'affari libanese sia morto vittima dei suoi propri loschi affari, non cambia niente al fatto che le grandi potenze, che ne hanno accettato ben altre da parte della dittatura siriana, cerchino oggigiorno di allontanare la Siria dal Libano e di rendere il regime siriano più cooperativo facendo incombere la minaccia del suo rovesciamento.

Ma la situazione di anarchia creata in Iraq dall'allontanamento di Saddam Hussein rende probabilmente più cauti i guerrafondai americani rispetto ad un rovesciamento brutale del regime siriano senza che sia assicurata una soluzione di ricambio.

L'oppressione del popolo palestinese da parte dello Stato d'Israele costituisce ciononostante il principale fattore di tensione nella regione. Ariel Sharon ha accettato di ritirare da Gaza il suo esercito ed i suoi coloni per meglio conservare la maggior parte delle colonie in Cisgiordania.

Gli Stati-Uniti sembrano impegnati in un ennesimo tentativo di stabilizzazione della situazione col sostegno dato a Sharon nell'evacuazione della striscia di Gaza e con la loro pressione sulla nuova direzione palestinese di Mahmud Abbas affinché l'Autorità palestinese si faccia carico di mantenere l'ordine contro il suo proprio popolo nella zona che gli è stata concessa. Ciononostante, il principale fattore che si opponeva al ristabilimento dell'ordine sotto il controllo dello Stato d'Israele non era la pretesa intransigenza di Arafat. Fu in primo luogo il sollevamento della gioventù palestinese contro l'oppressione nelle due Intifada. Ed è, sempre di più, l'attivismo armato di organizzazioni che l' Autorità palestinese non ha i mezzi per controllare.

Nessuno può predire se la popolazione palestinese avrà la stessa energia per continuare la resistenza. Si può solo constatare che l'evacuazione di Gaza da parte dei coloni israeliani non ha cambiato nulla alla situazione che aveva messo in moto l' Intifada. La striscia di Gaza resta un immenso campo di concentrazione che racchiude una popolazione la cui grande maggioranza è condannata alla povertà e che, anche solo per lavorare nell'industria o sui cantieri in Israele, è totalmente dipendente dal buon volere del governo di quest'ultimo. La povertà, l'oppressione, il "muro", dietro il quale ci si prepara a rinchiudere tutto un popolo, le vessazioni di un esercito israeliano con forte presenza dell'estrema destra, continuano a mantenere una situazione esplosiva.

Ancora una volta bisogna sottolineare il vicolo cieco nel quale gli opposti nazionalismi hanno condotto i due popoli che vivono sullo stesso territorio e la cui collaborazione avrebbe potuto essere un esempio per tutta la regione. Il nazionalismo dei fondatori e dirigenti dello Stato oppressore, Israele, prima di tutto, che non hanno saputo e non hanno voluto legare la sorte del popolo d'Israele a quello delle masse sfruttate in mezzo alle quali si è sistemato. Hanno fatto dello Stato d'Israele lo strumento dell'imperialismo in generale e dell'imperialismo americano in particolare in questa regione, scavando un fossato di sangue tra la popolazione israeliana e la popolazione palestinese.

Il nazionalismo palestinese dell'OLP, dal lato suo, riprendendo per proprio conto la legittima aspirazione della popolazione palestinese ad opporsi all'oppressione dello Stato d'Israele, non ha saputo, né ha voluto, rivolgersi agli sfruttati d'Israele, né agli sfruttati arabi dei paesi vicini.

Numerosi fondatori dello Stato d'Israele si rifacevano ad un sionismo di sinistra, o addirittura al socialismo. La resistenza palestinese da cui proviene l'OLP si voleva, quanto a lei, progressista, oppure, per alcune delle sue componenti, marxista e rivoluzionaria.

Bisogna constatare che portando i loro popoli rispettivi sulla strada dello scontro tra due nazionalismi opposti, hanno favorito ognuno la propria estrema destra. Ciò è palese tanto in Israele con uno Sharon, uomo di destra contestato soprattutto dalla sua estrema destra, quanto nei territori palestinesi, dove il centro di gravità della resistenza si sposta sempre più verso l'organizzazione islamista Hamas.

Dal canto suo, l'Afghanistan ha diritto alla sua dose di "democrazia" in chiave americana. Ma, anche là, la presenza di truppe occidentali diverse - tra cui, ricordiamolo, truppe francesi - non ha messo fine allo stato di guerra. La "democratizzazione" si riduce al fatto che i vecchi capi di clan o capi di guerra hanno fatto consacrare il loro potere dal suffragio universale, poiché tal'è la nuova moda imposta dagli Americani. Ma a giudicare dal destino imposto alle donne, questa "democrazia" si combina bene con la peggiore oppressione ed il peggior arretramento sociale. E, da un certo punto di vista, tale pseudo-democrazia parlamentare è meno democratica ancora di quanto lo fu in altri tempi la dittatura di Najibullah, appoggiata dai Russi, che almeno aveva fatto in modo che una donna possa passeggiare senza velo islamico nelle strade di Kabul.

La decomposizione dell'Unione sovietica ha condotto gli Stati-Uniti a prender piede in parecchi Stati sorti da tale decomposizione. Qualche volta l'hanno fatto in seguito a movimenti popolari più o meno ampi, diretti contro la squadra politica al potere legata a Mosca. Le rivoluzioni "della rosa" in Georgia, "arancione" in Ucraina, "dei tulipani" in Kyrgyzstan hanno portato in effetti all'allontanamento di squadre legate a Mosca ed alla loro sostituzione con altre più favorevoli a Washington. Altrove, come in Uzbekistan, è stato il gruppo dirigente, in un primo tempo, ad accettare la presenza di basi americane prima di cambiar avviso e di esigerne il ritiro.

Tutta questa regione, che si trova ad un crocevia strategico tra la Russia, l'India e la Cina, per di più vicina alle regioni petrolifere, è il teatro di una sorda lotta di influenza tra gli Stati-Uniti e la Russia.

Malgrado il modo entusiasta in cui i mass media occidentali hanno presentato le rivoluzioni "della rosa" o "arancione", i cambiamenti di squadre di governo non si sono tradotti in più democrazia né in meno corruzione. In Ucraina, in particolare il duo presentato come filooccidentale Iuscienko-Timoscienko è scoppiato nove mesi dopo la rivoluzione "arancione" in un clima di scandali e di corruzione su grande scala.

Quest'anno non ci sono stati cambiamenti maggiori in Russia. Putin prosegue la sua guerra in Cecenia con la benedizione di tutte le grandi potenze. Ma, ben al di là della Cecenia, è tutto il Caucaso che vive in un clima di guerra latente con attentati, prese di ostaggi, scontri tra gruppi militari. Gli Stati-Uniti, che assicurano una presenza con una base militare da poco stabilita in Georgia, non contestano veramente alla Russia il ruolo di gendarme in questa regione del Caucaso. Tale regione è sottomessa alle forze centrifughe dei vari nazionalismi e integralismi religiosi contro lo Stato russo e lo Stato georgiano, come anche agli scontri tra cricche locali, padrini della droga o trafficanti d'armi.

La fiammata mondiale dei prezzi del petrolio ha concesso all'economia russa un nuovo anno di crescita. Ma, a parte le grandi manovre dei trust petroliferi, il flusso di investimenti di capitali occidentali verso la Russia rimane debole. La cosiddetta "crescita" economica dell'anno scorso si è tradotta soprattutto in una nuova accelerazione della fuga di capitali verso l'Occidente. I burocrati russi riconvertiti in ricchissimi uomini d'affari preferiscono mettere i loro soldi al riparo in Occidente, piuttosto che scommettere sullo sviluppo della Russia su una base capitalista. Non sarà la condanna a nove anni di carcere in Siberia del burocrate miliardario Khodorkovski ad incitarli a cambiare atteggiamento. Non basta che Putin riporti a tutta birra i resti di Denikin in Russia per far sì che l'opinione pubblica borghese gli perdoni la "rinazionalizzazione" di imprese privatizzate, anche se tali privatizzazioni erano il puro e semplice furto di imprese di Stato.

Il continente africano, e soprattutto la parte sub-sahariana, resta quello in cui il sistema imperialista mondiale commette le maggiori devastazioni. Solo qualche paese africano beneficia di investimenti produttivi : l'Africa del Sud, il solo paese africano semi-sviluppato che costituisce un mercato significativo, oppure i paesi che dispongono di risorse petrolifere. Ma per la maggior parte dell'Africa, il capitale occidentale è solo predatore : prestiti usurari ai regimi, vendite di armi, saccheggi puri e semplici delle risorse naturali. L'Africa, messa sempre più al bando dei circuiti del commercio mondiale, sprofonda nella povertà. La povertà alimenta le guerre locali o etniche che, a loro volta, aggravano la povertà.

L'Africa ha il triste privilegio di concentrare sul suo suolo le più numerose e le più micidiali guerre locali : nel Sudan, in Uganda, in Somalia e soprattutto nella Repubblica del Congo (ex-Zaire) e ben altre. Dal sollevamento militare che ha tagliato il paese in due, la Costa-d'Avorio si aggiunge alla lista dei paesi dilaniati da una guerra civile endemica.

In Costa d'Avorio il 2005 doveva essere l'anno della stabilizzazione e del riassorbimento della divisione che taglia il paese in due dalla ribellione militare del 19 settembre 2002. Gli accordi di Marcoussis sotto l'egida della Francia e la successione di accordi (Accra 1,2,3, Pretoria 1) sotto l'egida dell' OUA (Organizzazione dell'Unità Africana) dovevano condurre al disarmo di unità ribelli del Nord e di milizie pro-Gbagbo al Sud ed all' organizzazione di elezioni il 30 ottobre 2005, con la partecipazione di tutti i protagonisti (Gbagbo, Bedié, Uattarà principalmente) la cui rivalità per la successione di Houphouët-Boigny dilania il paese da anni.

Nessuno dei due campi ha disarmato e l'elezione presidenziale del 30 ottobre 2005 non si è tenuta. L'ultima trovata della diplomazia internazionale è di proporre un periodo di transizione di un anno, con Gbagbo mantenuto alla testa dello Stato ma affiancato da un Primo ministro dai larghi poteri, in particolare quello dell'organizzazione "neutra" dell'elezione presidenziale prima del 31 ottobre 2006. Ma questa nuova trovata non basterà a disarmare le milizie private né ad impedirne la moltiplicazione.

A questa data non sappiamo come si tradurrà la scadenza del 30 ottobre e dopo, su cui pesa l'aggravamento della guerra civile latente. Il semplice prolungamento dell'attuale crisi già si traduce in un rallentamento della vita economica, un aggravamento delle condizioni di esistenza delle classi popolari, dei conflitti locali spinti sulla via dell'etnismo dai clan rivali, la trasformazione del racket praticato dalle bande armate ufficiali e ufficiose in attività permanenti.

La presenza militare francese non frena la degradazione della situazione. Al contrario l'aggrava. Gbagbo è un demagogo quando mischia alla sua politica etnista una fraseologia antifrancese. Ma se questa fraseologia trova un largo eco è in ragione del passato coloniale e delle sue infamie, prolungato in seguito col mantenimento del controllo dei gruppi capitalisti francesi sui principali settori economici e con una presenza dei loro quadri e di una piccola borghesia affarista originaria della metropoli che fa fortuna sulle spalle della popolazione. La partenza forzata di molti di loro dopo i fatti del novembre 2004 non ha potuto cancellare tale passato, né la tendenza dei grandi gruppi capitalisti francesi a spostare il centro delle loro attività altrove (in Togo in particolare).

L'unica ragione della presenza dell'esercito francese in Costa-d'Avorio resta la protezione degli interessi economici, politici e diplomatici dell'imperialismo francese in questo paese e, al di là, nelle vecchie colonie francesi dell'Africa. Noi riaffermiamo di conseguenza quanto avevamo detto al congresso dell'anno scorso : "truppe e affaristi francesi fuori dalla Costa-d'Avorio e in generale da tutti i paesi dell'Africa!".

La commedia pseudo-elettorale in Togo, che ha ufficializzato la trasmissione del potere al figlio Eyadema alla morte di suo padre, ha concretizzato ancora quest'anno il triste ruolo dell'imperialismo francese nelle sue ex-colonie. La repressione ha fatto tacere, per il momento, le opposizioni a tale dittatura ereditaria sponsorizzata dall'imperialismo francese, ma niente indica che questo paese possa continuare a servire da base di ripiego alle imprese capitaliste francesi che l'insicurezza crescente allontana dalla Costa-d'Avorio.

L'imperialismo francese si è illustrato recentemente anche nel mar dei Caraibi, intervenendo ad Haiti, al fianco degli Stati-Uniti, per dimettere all'inizio del 2004 il presidente in carica, Aristide. Certo, l'ex-prete dei poveri, eletto una prima volta nel 1990 in una vera ondata di entusiasmo della popolazione povera, era diventato al momento del suo rovesciamento un dittatore avido di potere e di danaro. Ma si può constatare, un anno e mezzo dopo il suo rovesciamento, che la situazione ad Haiti ha continuato a degradarsi e che la popolazione è sottomessa al regno delle bande armate, alle quali le truppe sotto l'egida dell'Onu non hanno fatto altro che aggiungere una banda armata di più.

L'America Latina, dove le ineguaglianze sociali, l'oppressione e il dominio americano hanno prodotto spesso in reazione movimenti di guerriglia, ha spesso fornito un modello all'estrema sinistra mondiale e soprattutto europea, portata a sostituire alla difesa delle idee comuniste da lei il suo codismo nei confronti di movimenti condotti altrove e da altri. Il castrismo con la sua variante guevarista, poi il sandinismo, sono stati così presentati nel passato come dei sostituti del comunismo.

Il regime sandinista del Nicaragua avendo conosciuto il destino che sappiamo e il regime castrista passando sempre più difficilmente per un modello, questo codismo si era focalizzato più recentemente sulla persona e sul partito di Lula, in Brasile. Arrivato al potere, e il suo regime a metà del mandato, Lula appare ormai paralizzato da scandali e corruzione, e soprattutto è un esecutore leale della volontà dell'imperialismo. Ed è così che il codismo ha trovato un nuovo idolo nella persona di Chavez, militare che ha conquistato il potere in Venezuela.

Se ovviamente siamo solidali di Chavez quando si scontra agli intrallazzi dell'imperialismo americano, come continuiamo ad essere solidali del regime castrista di cui quelli che denunciano il carattere dittatoriale sostengono dittature ben più infami che non hanno neanche portato alle loro classi popolari quanto il regime castrista ha portato alle sue - educazione, salute pubblica ed una certa sensazione di dignità -, né l'uno né l'altro rappresentano; neanche da lontano, gli interessi delle loro classi povere, e ancora meno quelli del comunismo rivoluzionario (a cui Chavez d'altronde non si è mai rifatto).

Le guerre ed i conflitti si aggiungono alla miseria per alimentare le migrazioni internazionali. Ma le migrazioni permettono anche il mescolarsi di classi lavoratrici. Quelli che, venendo dal Messico o dall' America Latina, affrontano le barriere elettriche lungo la frontiera degli Stati-Uniti, quelli che, a Ceuta ed a Melilla, rischiano la vita attraversando gli spinati o quelli che sfuggono alla morte sulle imbarcazioni di fortuna nei dintorni di Gibilterra o venendo da Haiti sul Mar dei Caraibi e riescono a raggiungere i paesi imperialisti, finiscono col rendersi conto che questi non sono un paradiso e che non c'è paradiso per i poveri nell'universo dominato dall'imperialismo. Questo mescolarsi fisico della classe operaia di oggi così come il rafforzamento numerico di un proletariato moderno in Cina o in India, formano il proletariato mondiale dei nostri giorni. E non è meno numeroso che in periodi della storia in cui ha condotto grandi lotte, né meno capace di influire, per il posto che occupa nella produzione, sul futuro dell'umanità.

Questo proletariato ha i mezzi per ritrovare il ruolo storico che è suo, e non può essere che suo, nella trasformazione della società. Quello che gli manca è la coscienza politica, vale a dire dei partiti per incarnarla. Conservano tutta la loro validità queste linee scritte quasi settant'anni fa ne Il Programma di transizione: "la crisi attuale della civiltà umana è la crisi della direzione proletaria".