La situazione internazionale

Εκτύπωση
Da "Lutte de classe" n° 55 (Lutte Ouvriere - Testi della conferenza nazionale 2000)
3 novembre 2000

Testo della maggioranza

Introduzione

Quest'anno ancora, la situazione internazionale è stata segnata dal gran numero di conflitti di ogni genere tra Stati o all'interno degli Stati. L'avvenimento più notevole di queste settimane, che ha mobilitato la diplomazia internazionale con tanto sia di pubblicità mediatica che di inefficacia, è stato la sollevazione della popolazione palestinese. Ma molti conflitti si sono sviluppati quest'anno, o proseguono da anni, facendo tante vittime, di cui non parla nessuno tranne quando il sequestro di qualche turista concentra l'attenzione dei mass media su questo o quel luogo del nostro pianeta di cui si conoscono allora, in questa occasione, allo stesso tempo la povertà e gli antagonismi che lo lacerano.

Dalla Casamanza in Senegal, nell'Ovest africano, alla Somalia nell'Est, dal Messico alle Filippine, dallo Sri Lanka alla Malesia o alla Papuasia, la carta del mondo è seminata di zone di conflitto separatiste. Parecchi conflitti armati in Africa oppongono degli Stati tra loro, senza neanche parlare dell'ostilità che da oltre un secolo oppone il Pachistan all'India, un conflitto che coinvolge lo stesso, tramite gli eserciti, più di un miliardo di uomini e ha condotto l'anno scorso ad un nuovo confronto militare nel Kashmir.

La dominazione imperialista, chiudendo a gran parte del pianeta ogni possibilità di sviluppo economico, aggravando le disuguaglianze su scala mondiale e all'interno di ogni paese, mantiene la maggioranza degli abitanti della terra in uno stato di povertà tanto più inaccettabile poiché il livello raggiunto dalle forze produttive potrebbe permettere a tutti gli esseri umani del mondo di vivere decentemente. La povertà, la polarizzazione delle ricchezze, così come le disuguaglianze e le oppressioni che ne derivano, ecco qual'è in ultima analisi la causa di tutti questi conflitti.

Ma la responsabilità politica delle grandi potenze imperialiste è tanto più diretta in quanto, per mantenere la loro dominazione, hanno lasciato dapertutto e continuano di lasciare delle bombe a scoppio ritardato, giocando sulle opposizioni nazionali, etniche e religiose e così inasprendole. Inoltre si appoggiano, al livello locale, su apparati statali spesso odiati dalle loro popolazioni e che cercano e spesso trovano un consenso sulla base di idee reazionari quali l'integralismo, la xenofobia o l'etnismo.

Ai tempi del confronto tra i due blocchi, tutto questo già esisteva ma in parte eranascosto perché veniva presentato come un sottoprodotto di questo confronto, il che non era sempre vero. Comunque non è più così. D'altra parte, con il corso reazionario delle cose, legato al riflusso del movimento operaio cosciente, molte rivolte dal carattere sociale all'inizio vengono sviate da forze retrograde verso delle strade che, lungi dal fare andare le cose avanti in un senso progressiste, le fanno al contrario indietreggiare. E' significativo per esempio il fatto che non esistono praticamente più guerriglie armate che provino il bisogno, come in passato, di impossessarsi della bandiera del progressismo, perfino del comunismo, fosse in modo caricaturale, così come non ci sono più, tranne qualche rara sopravvivenza, regimi che rivendicano ancora quest'etichetta.

Stati-Uniti

Gli Stati-Uniti più che mai fanno la parte del gendarme internazionale che, dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica, nessuno gli contesta più. Se l'Unione europea comincia di affermare un ruolo autonomo nel gioco politico mondiale, certamente non sono la laboriosa elaborazione di una "politica europea di sicurezza e di difesa" (PESC), e neanche la decisione di dotarsi di un'esercito europeo di 80000 soldati, a darle i mezzi di questo tipo di ambizione. Inoltre, è sintomatico che l'uomo scelto per incarnare l'unità europea intorno a questa politica sia precisamente questo Solana che prima aveva imperversato come segretario generale della NATO, organismo completamente dominato dagli Stati-Uniti. La parte di figurante lasciata all'Unione europea nel conflitto del Vicino Oriente illustra il fatto che la coalizione eterogenea di potenze imperialiste di secondo ordine che si chiama Unione europea è ben troppo lacerata dalle sue rivalità interne, dall'incapacità di prendere decisioni comuni per potere avere nella giungla della politica internazionale una parte diversa da quella di sicario in seconda.

Malgrado la scomparsa dell'Unione Sovietica, fatto maggiore dell'evoluzione della situazione internazionale nel corso di questi dieci anni, di cui i commentatori interessati vedevano la mano in tutti i conflitti dei decenni precedenti, il numero dei conflitti non diminuisce. Quanto al disarmamento al quale tante conferenze internazionali sono ancora dedicate, si tratta sempre di un sinistro scherzo. Malgrado una certa diminuzione degli stanziamenti militari delle grandi potenze e della produzione delle industrie d'armamento -comunque di nuovo in crescita- lo stock di armi presenti nel mondo rimane colossale. Il traffico d'armi rimane florido mentre il mondo imperialista è ormai senza "nemico ereditario". Questa realtà misura l'assurdità di tutte le affermazioni pacifiste e di tutte le correnti politiche che si costruiscono intorno. Fin tanto che durerà la dominazione imperialista sul mondo, non ci sarà disarmamento e neanche una pace durevole.

La parte del gendarme mondiale assunta dagli Stati-Uniti prende però raramente la forma di un intervento diretto, benché durante i dieci anni scorsi sono intervenuti lo stesso in Somalia, sbarcati in Haiti e hanno condotto autentiche guerre contro l'Iraq o la Serbia. Ma dopo l'esperienza delle guerre di Corea e del Vietnam, gli Stati-Uniti sono molto cauti nei loro interventi militari diretti, e rispetto alla loro propria opinione pubblica cercano di evitare quelle che possono costare la vita a soldati americani. Washington agisce secondo un largo ventaglio che va dalle pressioni sui governi fino all'appoggio dato ad interventi militari attuati da altri, senza parlare delle sanzioni economiche. Oltre Cuba, sottomessa ad un embargo totale da quaranta anni, e l'Iraq che subisce lo stesso regime da dieci anni, l'anno scorso più di settanta paesi dovettero pagare, con delle sanzioni economiche, il fatto di essere spiaciuti agli Stati-Uniti. Ma la parte del gendarme planetario consiste anzitutto nel fare il surfista sulle onde e nel venire ai patti con la moltitudine di forze opposte che si affrontano per il mondo. Ma anche le forme più dolci dell'intervento imperialista costituiscono un fattore di aggravamento degli antagonismi.

Vicino oriente

La rivolta della popolazione palestinese prende un'importanza particolare nella politica internazionale, ovviamente, perché il Vicino Oriente è una zona strategica per l'imperialismo e perché lo Stato d'Israele, contro il quale si dirige questa sollevazione, gioca un ruolo particolare in questa regione. Abbiamo preso posizione, a più riprese su quanto succede in Israele e nei Territori occupati. Ribadiamo solo che stiamo per il diritto dei due popoli, israeliano e palestinese, a coesistere in questa regione. Questi due popoli però non sono oggi in situazioni equivalenti. Israele dispone di uno Stato mentre il popolo palestinese ne ha solo una caricatura con "l'Autorità palestinese". Di più, è precisamente lo Stato israeliano che costituisce la forza d'oppressione più diretta che impedisce al popolo palestinese di accedere ad un'esistenza nazionale. Inoltre, essendo lo Stato d'Israele divenuto il maggiore agente regionale della dominazione imperialista, attizza l'odio delle popolazioni di tutta la regione che soffrono, in un modo o nell'altro, di questa dominazione. Gli antagonismi nazionali nascondono l'antagonismo sociale o, più precisamente, se una delle cause fondamentali della sollevazione palestinese risiede nella povertà, nella gravità della disoccupazione, nel sottosviluppo economico imposto alle zone in cui vivono i Palestinesi, la rivolta contro questa situazione prende tanto più facilmente la forma di una lotta contro la sola oppressione dello Stato d'Israele che viene orientata in questo senso da tutte le organizzazioni e Stati reazionari che si atteggiano a dirigenti della battaglia dei Palestinesi.

I dirigenti politici d'Israele hanno una responsabilità maggiore nel fatto che i due popoli si ritrovano in un sanguinoso vicolo cieco. Difatti così è per i due popoli, quello oppresso ma anche per quello che opprime. Questa responsabilità deriva direttamente da questa forma di nazionalismo rappresentata dal sionismo, più o meno condiviso dalle principali forze politiche del paese.

Bisogna ricordarsi che, appena nacque il sionismo alla fine del secolo scorso, i marxisti rivoluzionari e tra gli altri quelli di origine ebrea denunciarono sempre il vicolo cieco rappresentato da questa corrente per la popolazione ebrea stessa, vittima di oppressioni, di segregazioni e di pogrom in questa parte orientale d'Europa dove nacque il sionismo, che stava allora sotto dominio, per parte della Russia zarista e per l'altra parte degli imperi tedesco ed austroungarico. I marxisti rivoluzionari hanno sempre proposto agli elementi più coscienti della popolazione ebrea la prospettiva di integrarsi alla battaglia del proletariato per l'emancipazione della società da ogni sfruttamento e da ogni oppressione e di prenderci pienamente la loro parte, ciò che alcuni fecero.

Il marxismo rivoluzionario da un lato, il sionismo dall'altro, hanno sempre incarnato due prospettive opposte. Il primo propone la prospettiva della trasformazione sociale, il secondo una terra promessa impossibile in un sistema mondiale dominato dall'imperialismo. Però la degenerazione staliniana, con la sua puzza di antisemitismo e la successiva degenerazione del movimento comunista mondiale oscurarono progressivamente quest'alternativa. Lo stalinismo, col chiudere la prospettiva della rivoluzione proletaria per tutto un periodo, aprì la strada al sionismo. Ma innanzitutto fu l'infamia del nazismo a dare a tutta una generazione di ebrei europei la convinzione che in Europa non c'era posto per loro e quindi che l'unica soluzione era di aprirsi un proprio territorio.

Ovviamente non si tratta di rimproverare la loro scelta alla massa di quelli che, con l'ascesa e la sistemazione del fascismo, durante e dopo la guerra, furono costretti o scelsero di sistemarsi in Palestina. Le infamie dell'imperialismo e il ritardo della rivoluzione proletaria hanno creato tante situazioni che hanno aperto davanti ai popoli solo nuovi vicoli ciechi.

Ma, sistemato lo Stato d'Israele, la politica sionista, da una politica nazionalista proposta ad un popolo deciso a liberarsi dell'oppressione, si è trasformata in una politica imperialista. Se l'economia d'Israele è troppo artificiale e troppo stretta da meritare altro che la qualifica di imperialismo per procura, la sua politica è una politica imperialista. E da quando i dirigenti d'Israele rifiutarono di prendere la strada che poteva permettere al loro popolo di conquistare la fiducia del popolo palestinese e dei popoli arabi della regione, furono naturalmente portati a subordinare la sorte del popolo israeliano ad un'adesione senza riserva alla politica dell'imperialismo americano.

Il perno fondamentale di una politica in direzione dei popoli arabi avrebbe dovuto essere di aiutarli ad attuare l'aspirazione delle loro classi povere a sbarazzarsi dei regimi arabi reazionari ed oscurantistici che si appoggiavano su delle strutture sociali antiquate. Avrebbe dovuto offrire a questi popoli delle prospettive di trasformazioni sociali, fosse solo quella di un cambiamento radicale nella proprietà della terra e della conquista delle libertà democratiche. Una politica che si schierasse chiaramente dalla parte delle masse povere della regione, non solo coi discorsi ma anche con gli atti, il che avrebbe implicato l'opposizione, tanto ai regimi arabi reazionari quanto, di là di loro, all'imperialismo.

Tale politica ovviamente non sarebbe stata facile da portare avanti ed avrebbe significato dei sacrifici. Ma dei sacrifici, il popolo israeliano ha dovuto consentirne tanti altri in questo mezzo secolo dopo la creazione dello Stato d'Israele. Però tutte le guerre, alcune subite, le altre condotte a vantaggio dei protettori imperialisti, contribuirono ad approfondire il fossato di sangue tra Israeliani e popolazioni arabe. Non diminuirono le minacce, anzi, non fecero altro che di aggravarle. Col cacciare dalle loro terre, ad ogni guerra, un po' più di Palestinesi, lo Stato d'Israele fece sì che questo popolo davvero non ebbe altra scelta che di battersi. E se, grazie alla superiorità tecnica e al sostegno dell'imperialismo, Israele fino a questa parte vinse tutte queste guerre, il suo popolo dopo cinquanta anni di presenza su questa terra ancora non può sapere se qualche giorno non ci sarà una guerra che perderà, senza remissione. Il vicolo cieco annunciato dal movimento comunista si conferma in modo sanguinoso. Per la sfortuna del popolo palestinese, come per quella del popolo israeliano, come comunque per la sfortuna dell'insieme dell'umanità.

La prima Intifada, che lo Stato d'Israele non riusciva a vincere, lo ha portato a provare a disimpegnarsi col proporre ad Arafat la creazione di un'"Autorità palestinese" con come controparte il compito di mantenere l'ordine contro il suo proprio popolo. I dirigenti d'Israele, con la complicità d'Arafat, giocarono sull'ambiguità di questa Autorità palestinese. Il dirigente palestinese la presentò come una tappa sulla strada della creazione di uno Stato palestinese mentre, per i dirigenti israeliani, non era altro che un modo per ritardarlo. Il "processo di pace" di cui tutti i grandi di questo mondo chiedono la ripresa con una toccante unanimità, non è altro che un modo per perpetuare l'oppressione sul popolo palestinese.

Questo popolo, di cui la maggioranza povera è dispersa tra i campi di profughi del Libano o della Giordania, nei territori occupati di Gaza o della Cisgiordania o in Israele stesso e non accetta né l'oppressione né la povertà che gli vengono imposte, rappresenta una forza considerevole, che potrebbe diventare un'importante fattore rivoluzionario in questa regione del mondo. Malgrado la politica nazionalista dei dirigenti palestinesi, furono le reazioni di questo popolo e l'esempio da lui dato a portare già, in passato, alla destabilizzazione della Giordania e successivamente del Libano. Ma, tanto l'OLP di Arafat che l'Hamas integralista si rifiutano ad incarnare tale prospettiva. L'una come l'altra sono dei nemici di ogni politica che potrebbe unificare in una sola lotta tutte le classi oppresse della regione, compresa quella d'Israele.

La violenza nazionalista degli uni non fa altro che confortare la violenza nazionalista degli altri. Le poche concessioni, anzitutto verbali, dei dirigenti israeliani fautori del "processo di pace", hanno rafforzato in Israele l'estrema destra e la sua base popolare più decisa a battersi, quella delle colonie ebree sistemate in Cisgiordania e Gaza. L'insediamento volontaristico e sistematico di queste colonie, collegate tra loro da uno stretto reticolato, poteva solo convincere la popolazione palestinese che, a mo' di "processo di pace", si ponevano sbarre supplementari alla sua prigione. In modo simmetrico, le concessioni dell'Autorità palestinese nei confronti di Israele, e più ancora la sua fondamentale incapacità a far uscire dalla miseria la frazione della popolazione palestinese che sta controllando, rafforzano l'influenza delle organizzazioni integraliste islamiche. La combattività e lo spirito di sacrificio della popolazione palestinese vengono sprecati in mancanza di un'altra alternativa che l'accettazione rassegnata dell'oppressione e del confronto perpetuo in cui si esprime l'energia dei due popoli. Da nessuna parte nel mondo, più che in questo Vicino Oriente lacerato, si fa sentire così fortemente l'assenza di una corrente comunista rivoluzionaria capace di condurre l'immensa energia di una popolazione in rivolta verso la prospettiva di una trasformazione sociale.

Pur cercando a dare una legittimazione alla finzione della possibile ricerca di un processo di pace che coinvolga Arafat, gli Stati Uniti per il momento lasciano carta bianca ad Israele per domare l'attuale ondata di rivolta. Tanto più che non pare che abbiano da temere, per il momento, l'allargamento del conflitto al'insieme della regione.

I capi degli Stati arabi vicini, si tratti dell'Egitto o della Giordania che hanno riconosciuto lo Stato d'Israele, o della Siria che non l'ha fatto, non hanno nessuna voglia di impegnarsi in una nuova avventura guerriera contro Israele. Non sembra neanche che abbiano bisogno, come è successo ad alcuni di loro nel passato, di sviare l'ostilità dei loro popoli nei confronti dell'imperialismo in un conflitto con Israele.

La successione di Hussein di Giordania, burattino da lunga data dell'imperialismo, si è svolta senza intoppi, così come si è svolta in Siria quella di Hafez El Assad che, in quanto a lui, qualche volta, si atteggiava a contestatario.

Se non ci fosse la sollevazione dei giovani palestinesi, le relazioni tra gli Stati della regione si evolvereberro piuttosto verso la stabilizzazione.

Quanto all'Iraq, gli Stati-Uniti hanno sempre più difficoltà ad imporre ai loro alleati europei il boicottaggio di questo paese. Questo boicottaggio infame, che fa pagare alla popolazione il prezzo della dittatura che grava su di essa, in realtà rafforza la posizione di Saddam Hussein. Non è però umanesimo se le potenze europee sono favorevoli ad un ammorbidimento nei confronti dell'Iraq. Sono interessate dall'accesso al petrolio iracheno e alle possibilità commerciali che i redditi del petrolio potrebbero aprire loro.

Quanto all'Iran, l'ammorbidimento del suo regime e innanzitutto il ristabilimento delle sue relazioni con l'Occidente, cominciati da tre anni, proseguono, pur lentamente. L'imperialismo tuttavia non è affatto messo in imbarazzo dal mantenimento della dittatura sotto l'egida degli integralisti. Agli occhi di Washington solo gli aspetti antiamericani della politica iraniana davano fastidio. L'Arabia saudita, questa grande amica degli Stati-Uniti, non è meno una dittatura e non è neanche meno integralista.

Balcani

Nei Balcani l'avvenimento notevole di questo fine anno è la caduta di Milosevic, presentata all'inizio come una rivoluzione mentre era solo una grossolana sceneggiata, anche se si svolse con l'accordo della popolazione. Le alcune ore di manifestazioni davanti al Parlamento e il saccheggio della televisione nazionale furono solo un procedimento per legittimare con un intervento popolare il ribaltamento di una parte dell'apparato di Stato, dell'esercito in particolare, nel senso che si augurava l'occidente imperialista. Era anzitutto un mezzo per assolvere tutto l'apparato di Stato e l'esercito dal suo impegno passato al servizio della dittatura di Milosevic e dal suo ruolo nella repressione contro le minoranze nazionali, in particolare albanese, e nelle molteplici guerre in Bosnia, Croazia, ecc.. Il nuovo presidente della Federazione jugoslava Kustonica ormai può presentarsi come un democratico, arrivato al potere grazie ad un'elezione, di più appoggiata da una mobilitazione popolare.

La sostituzione di Milosevic con Kostunica non cambierà granché per la popolazione serba, e ancora meno per le minoranze nazionali. Non solo perché Kostunica è un nazionalista gran-serbo alla pari del suo predecessore, ma innanzitutto perché vuole creare un consenso nazionale intorno alla sua persona proprio su questo terreno del nazionalismo. Il suo arrivo alla testa dello Stato serbo sblocca però una situazione ferma nelle relazioni tra le potenze imperialiste e la Serbia. Il boicottaggio economico contro la Serbia non imponeva solo delle sofferenze alla popolazione serba, il che non dava fastidio alle potenze occidentali. Poneva problemi politici ai dirigenti imperialisti e poneva ostacoli economici davanti ai loro trust. Dopo la dimostrazione di forza fatta con i bombardamenti, era l'interesse dell'imperialismo riannodare rapporti con lo Stato serbo, che dispone della forza militare più importante dei Balcani -se non si prende in considerazione la Turchia in questa zona- per farne un custode dell'ordine in una regione che rimane molto instabile.

Inoltre l'embargo contro la Serbia non era conveniente per gli affari di questi gruppi capitalisti europei che, dopo la guerra, guardavano verso questa regione, e tra le altre cose verso i grandi cantieri di ricostruzione. Ormai per loro la via è libera. Certamente lo Stato serbo non potrà pagare ma Bouygues e i suoi compari dell'industria edile e dei lavori pubblici potranno contare sui finanziamenti dei loro Stati nazionali e delle istituzioni europee, ovviamente in nome della generosa idea di aiutare la popolazione serba.

La popolazione di Serbia sembra sperarne un miglioramento della situazione economica, che sarà comunque limitato. Ma non è difficile prevedere che il nuovo regime approfitterà delle "necessità della ricostruzione" per continuare ad imporre nel paese dei salari che durante la guerra sono crollati. I trust occidentali saranno i primi ad approfittare di una manodopera particolarmente a buon mercato.

Non a caso l'Europa, e la Francia in particolare, fu la prima a riconoscere il nuovo regime e a ricevere il suo nuovo presidente al vertice europeo di Biarritz. Cerca di utilizzare i mezzi diplomatici e politici di cui dispone per assicurare un piccolo vantaggio ai suoi propri capitalisti rispetto ai gruppi americani. Quanto alla Francia più specialmente, questo le permette di ricollegarsi alla sua politica tradizionale che considera la Serbia una sua zona d'influenza, mentre Slovenia e Croazia sono piuttosto nella dipendenza tedesca.

Il cambiamento di regime a Belgrado dà alle potenze occidentali la possibilità di disimpegnarsi dal Kosovo. Alcuni dirigenti americani hanno già considerato apertamente quest'eventualità. Quanto ai dirigenti europei, le loro vanterie a proposito del ruolo del contingente europeo Eurocorps lasciano pensare che si candidano per continuare ad assicurare militarmente il protettorato ONU sul Kosovo. C'è ancora da vedere se ne avranno i mezzi. E' sicuro comunque che il Kosovo non avrà il diritto di decidere della propria sorte, che dipenderà da un accordo tra le grandi potenze.

Fino a questa parte, le potenze occidentali hanno sempre rifiutato di considerare tanto l'indipendenza del Kosovo quanto la sua unione con l'Albania, con la quale condivide una stessa lingua. Le stesse potenze europee che, nell'ambito delle loro rivalità, hanno tanto contribuito all'indipendenza della Slovenia e della Croazia, sono molto più reticenti davanti all'indipendenza delle regioni più povere dell'ex-Iugoslavia, che di più non dispongono praticamente di nessuna risorsa naturale. Se le diplomazie occidentali incoraggiarono, ai tempi di Milosevic, le velleità d'indipendenza del Montenegro rispetto alla Serbia, hanno cambiato atteggiamento con il cambiamento di regime a Belgrado. Non hanno voglia di spingere alla moltiplicazione di piccoli Stati senza risorse che non potrebbero sopravvivere senza il sostegno finanziario delle grandi potenze. Al meglio, il Kosovo avrà uno statuto di repubblica nell'ambito di una Federazione jugoslava di cui farebbero parte la Serbia e il Montenegro. Ma forse dovrà accontentarsi di un'autonomia all'interno dello Stato serbo.

Se l'ONU viene a decidere di consegnare il Kosovo alla Federazione jugoslava, con la giustificazione della sua propria risoluzione all'indomani della guerra che riconosceva la sovranità di Belgrado, verrà spiegato ai Kosovari che, poiché la Serbia è divenuta una democrazia, potranno sempre difendere la loro aspirazione all'indipendenza per via elettorale... Lo stesso verrà spiegato ai montenegrini, casomai una maggioranza di loro volesse separarsi dalla Serbia.

Malgrado la riconciliazione in corso tra le potenze imperialiste e la Serbia, la situazione rimane instabile in tutta questa parte dei Balcani. L'Albania e la Macedonia rimangono tra i paesi più poveri d'Europa, la prima consumata dalla corruzione e le mafie e la seconda consumata all'interno dalle rivendicazioni nazionali delle sue minoranze, l'albanese tra le altre, e all'esterno dall'atteggiamento d'ostilità della Grecia e dalla Bulgaria vicine. Quanto alla Bosnia-Erzegovina, il suo Stato rimane un'astrazione della diplomazia internazionale in quanto rimane una mosaica di micropoteri che ricoprono più o meno la mosaica etnica, le cui tre componenti serba, bosniaca e croata rimangono separate da linee di fronte più difficili da varcare che se fossero confini di Stato. Segno che le forze militari d'interposizione sotto egida dell'ONU, che assicurarono l'ordine dopo gli accordi di Dayton del 1995, non risolsero niente : le centinaia di migliaia di profughi cacciati dalle loro case dalle pulizie etniche non hanno ancora potuto, o non hanno osato, tornare a casa, pure nello stesso paese.

La "stabilizzazione" imperialista non significa altro, comunque per l'Albania, la Macedonia e la Bosnia-Erzegovina, che il regno di clan corrotti, che parassitano delle economie rovinate e si mantengono con la forza e con l'utilizzazione di una demagogia irredentista. Per le loro popolazioni, rimane solo la miseria o la fuga verso Occidente, "boat people" nell'Adriatico verso l'Italia, lavoratori clandestini in Germania e in Francia, e spesso lo sfruttamento da parte delle mafie della droga o della prostituzione.

Ex Democrazie popolari

Integrate a vari livelli nell'economia dell'Europa occidentale, le ex Democrazie popolari -Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Bulgaria- sono tutte candidate all'integrazione nell'Unione europea. Fanno parte di una lista di candidati che comprende inoltre i tre paesi baltici sorti dall'Unione sovietica, la Slovenia sorta dalla Iugoslavia, le due isole mediterranee Cipro e Malta, senza parlare della candidatura già anziana della Turchia.

Anche per le ex Democrazie popolari meno sottosviluppate quali la Polonia, la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Slovenia, l'integrazione significa innanzitutto il controllo dei capitali occidentali, tedesco tra gli altri, sulle loro maggiori imprese e, quindi, sulla loro economia.

Quanto alla parte più sottosviluppata dell'Est europeo, l'"integrazione" di questi paesi non significa altro, in realtà, che chiusure di fabbriche, un livello di disoccupazione catastrofico, un impoverimento maggiore, senza che ci sia neanche un afflusso di capitali occidentali. Di più, l'economia dei paesi vicini dell'ex Iugoslavia è stata più o meno gravemente toccata dalle distruzioni di vie di comunicazione e dalle conseguenze indirette dell'embargo.

Se la penetrazione dei capitali occidentali fu favorita, particolarmente in questi quattro paesi che per loro sono più attraenti, così non fu nel senso opposto, per l'esportazione della produzione di questi paesi. Le barriere protezioniste dell'Unione europea frenano in particolare le esportazioni di prodotti agricoli. Questo ha delle conseguenze tanto più gravi per questi paesi che, al tempo stesso, i vecchi circuiti di scambio tra i paesi dell'ex- COMECOM (la zona economica più o meno unificata dell'ex blocco sovietico) sono stati parzialmente o totalmente distrutti.

Per i dirigenti della Polonia, della Repubblica Ceca, dell'Ungheria e della Slovenia, l'integrazione rapida dei loro paesi nel Mercato comune appare in tali condizioni una necessità vitale. Le istituzioni europee hanno tanto meno fretta che le potenze europee non hanno tutte lo stesso interesse all'integrazione dei paesi dell'Est e sono ben lungi dall'avere trovato metodi e procedure che abbiano il consenso di tutte. Anche se i quattro paesi dell'Est più avanzati sulla strada dell'integrazione finiscono coll'essere ammessi nell'Unione europea, questo ovviamente non cambierà il rapporto delle forze tra il gran capitale delle potenze imperialiste europee e questi paesi che, prima della guerra, erano semicolonie. Fuori dall'Unione europea o dentro, la posizione riservata all'economia di questi paesi è una posizione subordinata, deformata in funzione degli interessi e degli investimenti dei trust occidentali.

Inoltre, le istituzioni europee pongono a questi paesi delle condizioni draconiane per essere ammessi nel Mercato comune. In più delle solite misure d'austerità rispetto ai Bilanci di questi Stati, questi dovranno liquidare ciò che rimane dello statalismo del periodo precedente. Il mantenimento di certi combinat industriali, non redditizi secondo i criteri capitalistici, oppure il mantenimento della gestione degli alloggi dagli organismi pubblici o dalle enti locali hanno evitato, in alcuni di questi paesi, che l'impoverimento sia insopportabile.

D'altra parte, poiché le istituzioni dell'Unione europea non hanno nessuna voglia di incaricarsi dell'agricoltura dei paesi dell'Est, fanno pressioni su loro perché la "modernizzino", il ché, nel caso della Polonia per esempio dove i piccoli contadini sono particolarmente numerosi, avrà conseguenze catastrofiche.

Una prossima integrazione di questi paesi all'Unione europea faciliterebbe la circolazione delle merci e, fino ad un certo punto, degli uomini, verso l'Europa occidentale. Approfondirebbe però il divario economico e umano con i paesi più ad Est. Una delle condizioni poste dalle istituzioni europee è il rafforzamento delle loro frontiere che, in caso d'integrazione, diventerebbero i confini dell'Unione europea. Se l'integrazione dei vari paesi dell'Est fosse scaglionata nel tempo, un confine di tipo Schengen potrebbe separare la Repubblica Ceca dalla Slovacchia che, dieci anni fa, erano un solo paese ; la Slovenia dalle ex Repubbliche sorelle dell'ex Iugoslavia ; o tagliare l'Ungheria dalle numerose minoranze ngheresi della Romania, della Slovacchia, o della Voivodina serba.

Russia

In Russia, l'avvenimento politico di quest'anno è stato il passaggio di potere senza intoppi da Eltsin a Putin. Quest'ex generale del KGB, sconosciuto due anni fa, successe quindi al vecchio alto burocrate divenuto pro-occidentale. Putin ci ha conquistato un titolo di capo di Stato e Eltsin, la totale impunità giudiziaria offerta dal suo successore, che mette al riparo la sua persona, e la fortuna acquisita dal suo clan grazie al saccheggio delle casse dello Stato.

Il futuro dirà di quale potere reale dispone il nuovo presidente della Federazione di Russia. Lui proclama la sua volontà di "ristabilire la verticale del potere" e di instaurare "la dittatura della legge". Ma per il momento, la verticalità si perde nel labirinto dei poteri locali e, quanto alla dittatura della legge, questa è innanzitutto quella dei clan burocratici e delle mafie di ogni genere.

Certamente Putin ha ottenuto dalla Duma una modifica dello statuto dei governatori e dei presidenti che dirigono gli 89 "soggetti della Federazione" (regioni, repubbliche e le due capitali) che non siederanno più al Consiglio della Federazione (una specie di Senato), non avranno più immunità giudiziaria e potranno essere revocati. Allo stesso modo, le loro rispettive assemblee potranno essere sciolte dal potere centrale. Putin ha anche creato un'autorità che dovrebbe capeggiare i poteri regionali, col dividere il paese in sette super-regioni con alla testa di ciascuna un super prefetto nominato da lui e di cui cinque su sette sono generali o alti dirigenti venuti dal KGB. Ma se questo gli dà dei mezzi giuridici di controllo, questo non gliene dà necessariamente i mezzi materiali. I poteri locali più propensi ad ubbidire al potere centrale sono quelli delle regioni più povere le cui finanze dipendono dal centro. Però le autorità delle regioni più ricche non sono meglio controllate di prima, e Putin sta attento a non cercare conflitti con loro.

Se il nuovo presidente ha anche provato a richiamare all'ordine alcuni alti burocrati affaristi, in particolare alcuni che hanno preso il controllo della stampa e dei mezzi d'informazione, questo tentativo non è stato tanto concludente.

La Russia rimane, dal 1° ottobre 1999, infangata nella seconda guerra in Cecenia, questa repubblica le cui autorità da anni sfidano apertamente il potere centrale. Questa guerra avrebbe fatto in un anno 45000 morti civili, 18000 dispersi, e l'esercito russo da parte sua avrebbe perso più di 10000 soldati. L'esercito russo controlla Grosny, in gran parte distrutta, ed alcune altre città del paese. Malgrado la presenza di 180000 soldati, non controlla però l'insieme del paese. Questa guerra, che costa carissimo alla popolazione cecena, costa anche alla popolazione russa. Bisogna notare che, tranne alcune dichiarazioni di principio, l'occidente imperialista lascia completamente le mani libere al Cremlino per proseguire questa guerra.

Non ci sono stati grandi cambiamenti sul piano economico quest'anno. Sembra che la caduta della produzione si sia fermata perché, in seguito al Krach finanziario dell'agosto del 1998, il paese che non poteva più pagare le importazioni ha dovuto rilanciare alcune produzioni locali. Le sue entrate di bilancio, così come le sue entrate d'esportazioni hanno inoltre approfittato dell'involo dei corsi del petrolio e del gas che rappresentano il 40% delle esportazioni del paese.

Ma gli investimenti rimangono irrisori e il naufragio del sommergibile Kursk è emblematico dello stato di logoramento nel quale si trovano macchine e materiali. Il primo ministro Kossionov ha riconosciuto recentemente che il 70% di tutte le attrezzature industriali avevano superato la durata di vita per cui erano stati concepiti inizialmente. La burocrazia in stato di decomposizione continua a fare pagare all'insieme della popolazione le sue operazioni di saccheggio e la sua politica di gestione a breve termine. La scala di classifica ONU del tenore di vita vale quello che vale ma mette ormai il tenore di vita medio in Russia al 71° posto, dopo paesi come il Perù, il Messico, la Malesia o addirittura la Romania e le isole Figi, e la sua produzione per abitante ancora più indietro.

Quanto all'avanzamento di ciò che i dirigenti russi ed occidentali chiamano le "riforme", cioè la trasformazione dell'economia nel senso capitalistico, rimane allo stesso livello da tre anni. I capitali occidentali continuano a disdegnare la Russia, non volendo investirsi in un paese dal funzionamento economico incerto. Quanto agli affaristi russi, continuano, come hanno fatto da dieci anni, a non investire niente in Russia e ad investire l'essenziale del loro denaro nelle banche occidentali.

Dopo la scomparsa dell'Unione sovietica e l'indebolimento del potere in Russia stessa, risulta che il Cremlino non ha più i mezzi di giocare efficacemente la sua parte di gendarme in questa parte del mondo. Gli Stati del Caucaso e dell'Asia centrale sorti dallo scoppio dell'Unione sovietica rimangono nella zona d'influenza di Mosca che mantiene i regimi di alcuni di questi paesi sotto assistenza finanziaria e militare. In mancanza di mezzi, Mosca prova a preservare la sua influenza col giocare con le contraddizioni e i conflitti. L'insieme delle repubbliche del Caucaso rimane una zona di tensioni, tra gli Stati o anche all'interno degli Stati. Quanto alle repubbliche d'Asia centrale, sono erose dal traffico, quello della droga tra gli altri, e dall'ascesa dell'integralismo islamico.

Cina e Corea

Benché i dirigenti cinesi siano gli ultimi a riferirsi ufficialmente al comunismo, non solo la Cina ha la simpatia dell'Occidente imperialista, ma il suo regime viene considerato dagli ambienti d'affari come un modello rispetto ala Russia. Malgrado le proteste puramente simboliche dopo Tien An Men, l'imperialismo è grato ai dirigenti cinesi di mantenere l'ordine in questo paese immenso e popolato, sopratutto in un periodo in cui la crescente apertura ai capitali occidentali, lo sviluppo di un settore privato e il rapido arricchimento di un piccolo ceto privilegiato portano ad un aggravamento della situazione sociale. Lo sviluppo della disoccupazione è esplosivo, tanto per causa delle soppressioni di posti di lavoro nelle grandi imprese che si stanno aprendo ai capitali occidentali quanto per la possibilità lasciata ai contadini di abbandonare le campagne per andare verso le città.

Il divario aumenta tra alcune regioni che attirano i capitali, come quella intorno a Shangaï o la zona economica intorno ad Hong-Kong che conoscono saggi di crescita tra i più forti del mondo, e l'interno delle terre sempre più sottosviluppato.

Nonostante il carattere autoritario del regime, data la velocità di un'evoluzione che approfondisce le disuguaglianze, questo paese, il più popolato del mondo, potrebbe di nuovo diventare il focolaio di esplosioni rivoluzionarie che era stato nel primo quarto del secolo. Anche lì, tutto dipende della capacità del proletariato cinese, ormai senz'altro uno dei più numerosi del mondo, di orientarsi verso prospettive di classe.

L'ammorbidimento delle relazioni tra le due Coree, separate da filo spinato da mezzo secolo, si annuncia da due o tre anni. Si è accelerato quest'anno ed è stato segnato dalla visita del presidente sudcoreano nel Nord e dal gran numero di esponenti occidentali che sfilano a Pyongyang. Il rapido cambiamento delle relazioni tra le due Coree riflette anzitutto un cambiamento d'atteggiamento da parte dell'imperialismo americano che, con l'evoluzione della Russia e quella della Cina, non ha più bisogno di mantenere la tensione in questa zona che a lungo fu uno dei punti più caldi del confronto tra i due blocchi. E non ci tiene a vedere altre potenze imperialiste, in particolare il Giappone, occupare lo spazio prima di lui.

Detto questo, l'unificazione delle due parti di questo paese non è ancora compiuta e, anche se andrà avanti, sarà comunque difficile. Anche l'integrazione dell'ex RDT, la Germania orientale, nell'insieme tedesco, è stato problematico e lo è ancora, mentre si trattava di due regioni tra quelle più sviluppate ed industriali del mondo. Le due Coree, ognuna a suo modo, fanno parte dei paesi sottosviluppati. La Corea del Sud conosce da parecchi anni una situazione sociale esplosiva, con interventi sporadici ma potenti della classe operaia. Quello che si può sperare è che l'unificazione darà a queste lotte un'altra ampiezza permetterà alle due frazioni separate della classe operaia coreana di unirsi nella lotta.

Africa

L'Africa rimane il continente che continua a pagare il prezzo più alto alla dominazione imperialista sul mondo. L'economia della maggior parte dei paesi d'Africa nera continua a scomporsi. E la produzione, come il reddito per abitante, sono diminuiti non solo rispetto ai paesi sviluppati ma anche in assoluto. Per quanto profondo sia il regresso economico e illimitata la povertà della maggioranza della popolazione, l'imperialismo continua a dissanguare il continente coll'adattare semplicemente i suoi metodi alle circostanze. In molti paesi, dopo lo sfruttamento diretto dei tempi della dominazione coloniale, poi lo sfruttamento tramite l'usura dai finanzieri occidentali, sono venute forme di saccheggio in cui l'imperialismo si serve dei capi di queste bande armate la cui presenza si sta generalizzando.

Così un buona parte dell'Africa nera si sta sistemando in una situazione in cui le guerre non sono più una situazione momentanea, casuale, ma uno stato permanente. E' il caso da parecchi anni nel Liberia, nella Sierra Leone, nella Somalia e il Sudan.

In Africa centrale, le guerre civili locali che hanno devastato, uno dopo l'altro, il Ruanda, il Burundi, il Congo ex-Zaire e il Congo ex Brazzaville, sono confluite in una guerra regionale alla quale, oltre le bande armate che si contendono questi paesi, partecipano truppe venute dall'Angola, dall'Uganda, dal Ghana, dallo Zimbabwe e dalla Namibia.

I trust imperialisti, incapaci di fare sì che la continuità dello sfruttamento delle immense ricchezze minerarie venga garantita da questi Stati in via di scioglimento, hanno imparato a servirsi dei capi di guerra, a finanziarli ed armarli. Ai compradores di una volta sono succeduti capi di guerra compradores la cui attività economica consiste nel saccheggiare le ricchezze dei loro paesi, minerarie in particolare, per incanalarle verso i ricettatori imperialisti. Mentre all'ONU o nelle istituzioni europee si votano risoluzioni contro i traffici d'armi, di diamanti, di materie prime preziose, sono in fin dei conti dei gruppi industriali o finanziari occidentali ad essere all'origine dei traffici d'armi verso il continente africano, così come in ultima analisi sono loro i ricettatori delle ricchezze di questi paesi. Questi gruppi imperialistici hanno perfettamente adattato il loro saccheggio a questa situazione di guerra permanente che trattengono, mentre il regno delle bande armate non solo fa decine di migliaia di vittime, nonché contribuisce a disorganizzare ed indebolire maggiormente l'economia del continente africano.

Malgrado una presenza effettiva dell'imperialismo americano, in particolare una presenza economica nell'Africa del Sud, l'Africa rimane essenzialmente la preda delle due principali ex potenze coloniali, la Francia e la Gran Bretagna. L'imperialismo francese rimane attaccato ad una forma di dominazione semicoloniale, segnata sul piano economico dal mantenimento della zona CFA e sul piano politico e militare dai suoi interventi nella selezione del personale politico e militare dirigente degli Stati delle ex colonie. Anche se l'intervento dell'imperialismo britannico è più discreto, Londra ha una responsabilità maggiore nell'atroce guerra civile che ha lacerato la Sierra Leone e di cui non si sa se è davvero finita.

Le due principali potenze ex coloniali, che oggi sono ambedue e due imperialismi di secondo ordine hanno però sempre più difficoltà ad assicurare il mantenimento dell'ordine in questa bollente caldaia che è divenuta l'Africa. Sul piano militare, gli interventi diretti delle loro truppe segnano il passo davanti gli interventi delle truppe di altre ex colonie della regione coinvolta. Ad intervenire in Sierra Leone ci furono, per esempio, truppe che agivano in nome delle Nazioni Unite e composte innanzitutto da soldati nigeriani.

L'imperialismo francese tuttavia continua a mantenere delle basi militari nella Costa d'Avorio, nel Senegal, nel Gabon e a Gibuti. L'imperialismo britannico, come l'imperialismo francese, pur rimando ciascuno attaccato alla propria zona d'influenza dei tempi della dominazione coloniale, cercano però sempre di più a fare finanziare la loro influenze dalle istituzioni europee.

L'esplosione etnista che si è appena prodotta nella Costa d'Avorio e il processo che ci portò sono rappresentativi di quello che succede in un gran numero di paesi d'Africa. Questo paese era tuttavia considerato uno dei paesi meno poveri dell'ex impero coloniale francese. Tra i principali produttori di cacao e caffè, era inoltre la base avanzata dei gruppi capitalistici francesi in direzione degli altri paesi dell'Africa occidentale. La caduta dei corsi delle materie prime ha tuttavia posto fine al cosiddetto miracolo economico avoriano che comunque ha beneficiato, oltre al gran capitale francese, solo ad un ceto piccolo borghese compradore. Il miracolo poggiava in ultima analisi sui lavoratori delle piantagioni di cui una gran parte venivano dal Mali, dal Ghana, dal Benino e sopratutto dal vicino Burkina-Faso. In un contesto segnato, da parecchi anni, dal ribasso della produzione e dalla svalutazione del franco CFA, che aggravano la povertà dei ceti di lavoratori, la Costa d'Avorio è ormai sull'orlo di una crisi economica e sociale.

Questo paese sta anche vivendo una crisi politica legata alla successione non ancora risolta di Houphouët-Boigny, dittatore durante più di trenta anni con il sostegno dell'imperialismo francese. Se Bédié poté approfittare della sua posizione di presidente dell'Assemblea Nazionale che faceva di lui il successore costituzionale di Houphouët, non ebbe mai il potere di mettere definitivamente fuori gioco i suoi principali rivali, Alassane Ouattara, Laurent Gbagbo e i loro rispettivi clan. Per consolidare il potere, scatenò una propaganda xenofoba e etnista segnata, tra l'altro, dalla soppressione del diritto di voto degli Avoriani originari dal Burkina-Faso, poi dall'invenzione della'"Avorianità". E' stato rapidamente seguito sullo stesso terreno da Gbagbo perché questa demagogia rispondeva ad un interesse comune contro Ouattara, originario dal Nord e accusato di essere un Burkinabé. Una volta che Bédié fu eliminato nel dicembre '99 dal generale Gueï, la propaganda xenofoba e etnista proseguì, distillata dall'alto al basso, ripresa da una stampa servile, con la complicità degli ambienti dirigenti francesi. Parigi, in particolare, diede la sua legittimazione al fatto che l'origine nazionale, etnica in realtà, facesse da criterio di selezione per essere ammesso come candidato all'elezione presidenziale. La scelta di allontanare Ouattara dal diritto di candidarsi alla presidenziale trasformò le rivalità politiche in una minaccia di guerra civile annunciata.

Questa minaccia si concretizzò all'indomani dell'elezione presidenziale. La popolazione reagì massicciamente contro il tentativo del generale Gueï di aggrapparsi al potere. La scelta di gran parte della gerarchia militare di non sostenerlo segnò la fine del suo tentativo. Ma, appena cacciato Gueï, gli affrontamenti tra i fautori di Gbagbo e quelli di Ouattara si trasformarono in affrontamenti etnici e fecero decine di morti, in particolare nei quartieri popolari. Qualunque sia l'evoluzione ulteriore delle cose, questi affrontamenti lasceranno traccie catastrofiche, tra gli altri nei quartieri popolari di Abigian dove nel passato coesistevano, senza intoppi, delle genti di diverse origini nazionali ed etniche.

D'altra parte se proseguirà questa caccia ai Burkinabé, che sono almeno due milioni nella Costa d'Avorio, e se la violente pressione che mira a farli partire si intensificherà, se verrà sistematizzata dal potere centrale e si tradurrà con una vera "pulizia etnica", questo porterà ad una destabilizzazione di tutta la regione. Il Burkina-Faso come il Mali o il Ghana sono paesi troppo poveri da potere sopportare un ritorno massiccio degli abitanti della Costa d'Avorio originari di questi paesi.

Conclusione

La contraddizione è più palese che mai tra un'economia che funziona su scala mondiale e la frammentazione dell'umanità dalle frontiere che si moltiplicano, che siano materializzate da ben reale filo spinato o da quello che viene teso nelle anime. L'ascesa degli sciovinismi e degli etnismi si aggiunge alle oppressioni di ogni genere ed alla miseria di gran parte del pianeta per spingere fuori dalle loro case milioni di esseri umani. Gli organismi internazionali censiscono nel mondo 40 milioni di persone spostate, di cui 15 milioni sono riconosciute come profughi politici. Queste cifre sono probabilmente molto inferiori alla realtà. I campi profughi, la fuga permanente, sono una forma d'esistenza per una frazione crescente dell'umanità così come lo è, per un numero molto più alto ancora, la povertà estrema e la malnutrizione. Se questo non è barbarie, allora cos'è la barbarie ? Il periodo eccezionalmente lungo di "pace" imperialista che il mondo ha attraversato dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, che si sta prolungando da dieci anni senza neanche la "guerra fredda" tra i due blocchi, dimostra alla pari delle due guerre mondiali che l'umanità non ha niente da sperare dall'organizzazione capitalista dell'economia di cui il sistema imperialista è il compimento. La trasformazione rivoluzionaria della società è una necessità vitale per il mondo.

29 ottobre 2000