La situazione economica mondiale (Testo maggioritario)

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Lutte Ouvrière - Testi del 34° congresso (2004)
5 dicembre 2004

A giudicare dalle dichiarazioni dei dirigenti politici e della maggior parte degli economisti, la ripresa economica avviata negli Stati Uniti a partire dal terzo trimestre 2003 si starebbe generalizzando e starebbe toccando, questa volta, anche i paesi europei ed il Giappone.

Ma questa stessa ripresa americana aveva segnato il passo la primavera scorsa e soprattutto, anche nel pieno della sua crescita, non aveva creato posti di lavoro supplementari. Ripresa o no, la disoccupazione ha continuato ad aumentare dappertutto, compreso negli Stati Uniti. L'andirivieni delle riprese e delle recessioni che si susseguono si inscrive in una tendenza globale dell'economia produttiva ad una crescita debole, segnata dalla disoccupazione di massa e dal debole livello degli investimenti produttivi netti.

Il petrolio : la nuova fiammata dei prezzi

Questa ripresa limitata rischia di arrestarsi a causa del nuovo aumento dei prezzi del petrolio. Questo aumento non è altrettanto brutale del primo "shock petrolifero" del 1973-1974 ed i prezzi non raggiungono ancora i livelli del secondo shock del 1979-1980. Nessuno può predire se l'aumento dei prezzi del petrolio avrà delle ripercussioni sull'economia mondiale come quelle del 1974 che rappresentarono il fattore scatenante -ma non la causa- di un importante calo della produzione.

Ciononostante nel caso in cui la "ripresa" svanisse o addirittura si invertisse, l'aumento dei prezzi del petrolio fornirebbe ai dirigenti politici una giustificazione per nuove misure di austerità ed ai commentatori una buona ragione per rinnegare, giustificandolo nello stesso tempo, il loro ottimismo odierno.

Anche supponendo che l'economia dei paesi imperialisti non sia seriamente toccata dall'aumento del petrolio, ci saranno conseguenze più gravi per la maggior parte dei paesi, sottosviluppati o no, che non dispongono di petrolio o di altre risorse energetiche. Come ci saranno gravi conseguenze anche nei paesi sviluppati, per le famiglie dal reddito modesto che si riscaldano con la nafta o col gas naturale i cui prezzi si allineano, senza ragione ma regolarmente, sul prezzo del petrolio.

La situazione nel Medioriente, l'interruzione dei rifornimenti di petrolio iracheno, così come l'agitazione politica nel Venezuela o la crescente instabilità in Nigeria, oppure la successione di cicloni sul Golfo del Messico, sono stati invocati per spiegare l'aumento brutale del prezzo del petrolio. Certo, ognuno di questi elementi ha potuto giocare un ruolo come fattore scatenante -o come pretesto. Ma la ragione fondamentale è senza dubbio che le compagnie petrolifere, che notoriamente non investono abbastanza nello sfruttamento e nei sondaggi, frenano l'offerta per far aumentare in modo durabile i prezzi, affinché lo sfruttamento di nuovi giacimenti divenga redditizio. Ciò sembra essere una ripetizione dell'operazione che, alla fine del 1973, fece quadruplicare in tre mesi i prezzi del petrolio, attribuendone la responsabilità all'OPEC come, già allora, alla situazione nel Medioriente. Malgrado la diversificazione delle risorse energetiche intervenuta nel frattempo, il consumo di petrolio continua ad aumentare negli Stati Uniti o in Giappone e si è accelerata in Cina o in India. Per farvi fronte, come nel 1973, i trust petroliferi preferiscono prelevare in anticipo, sull'economia mondiale, le somme necessarie allo sfruttamento dei giacimenti meno redditizi. Nel frattempo, e fin quando i prezzi non sono arrivati al punto di favorire altre fonti energetiche che non controllano ancora, i trust del petrolio preferiscono guadagnare di più senza aumentare la produzione. I trust che sono in situazione di monopolio sono maltusiani.

La crescita dei profitti che risulta dall'aumento dei prezzi favorisce la speculazione sul petrolio, il che contribuisce a sua volta a spingere i prezzi verso l'alto.

n questo modo, per utilizzare l'espressione della stampa, avida di sensazionale, la guerra per il petrolio si è accentuata. I dirigenti delle nazioni imperialiste, sulla scia dei loro trust, moltiplicano gli sforzi per diversificare le loro risorse petrolifere. La rivalità cresce in particolare intorno ai paesi africani che dispongono di riserve di petrolio come la Libia, il Gabon, la Nigeria, o ancora la Guinea equatoriale.

Anche le risorse petrolifere della Russia attizzano i desideri. L'aumento dei prezzi del petrolio permette a Putin di sostenere il bilancio statale ed alle statistiche economiche russe di registrare una crescita.

La finanziarizzazione dell'economia

Soggiacente all'insieme dell'evoluzione dell'economia capitalistica da una buona trentina di anni, troviamo lo sforzo prodigato per invertire il movimento di diminuzione del tasso di profitto che si è delineato a partire dalla metà degli anni sessanta come una delle manifestazioni della crisi dell'economia capitalistica. Questa riduzione del tasso di profitto è stata generale tanto nei grandi paesi imperialisti europei che negli Stati Uniti tra, diciamo, il 1965 e la fine degli anni 70.

Un intreccio di risposte, empiriche o coscienti, provenienti da gruppi industriali e finanziari così come da Stati e da banche centrali, ha delineato un'evoluzione generale che mirava a rilanciare il tasso di profitto nel contesto di un mercato stagnante o in debole aumento. Le conseguenze di questa evoluzione marcano profondamente la situazione delle classi popolari, ma anche alcuni aspetti del funzionamento dell'economia capitalistica stessa.

In un contesto in cui i rapporti di forza tra la classe capitalistica e la classe operaia erano dappertutto sfavorevoli a quest'ultima, questi sforzi congiunti sono stati coronati da successo dal punto di vista degli interessi della classe capitalistica. Si può inquadrare alla svolta degli Anni '70 e '80 il rovesciamento della tendenza, vale a dire un nuovo accrescimento del tasso di profitto mentre la produzione stagnava o aumentava di poco. Tra alti e bassi corrispondenti ai periodi di recessione, il tasso di profitto non ha cessato globalmente di aumentare, raggiungendo nei paesi imperialisti europei, in particolare alla fine degli anni '90, lo stesso livello di prima della crisi, all'inizio degli anni '70.

I redditi degli azionisti sono cresciuti ancora più rapidamente non solo grazie all'aumento della massa dei profitti, ma anche perché una parte sempre più grande dei profitti è distribuita sotto forma di dividenti anziché essere reinvestita nella produzione. L'aumento dei dividenti è all'origine dell'accrescimento dei prezzi delle azioni e poi, grazie alla speculazione, dello slancio dei corsi della Borsa.

Il ristabilimento del tasso di profitto, col conseguente nuovo periodo di arricchimento per la borghesia, era il risultato dell'offensiva contro la classe operaia. La massa salariale è diminuita dappertutto a favore della massa dei profitti. La parte della borghesia nel reddito nazionale è aumentata in modo importante relativamente alla parte dei salariati. Questo risultato globale è stato frutto di una moltitudine di attacchi contro la classe operaia: blocco o diminuzione del livello dei salari, aumento dell'intensità del lavoro, freno o diminuzione delle pensioni, diminuzione delle spese sociali (previdenza malattia, indennità di disoccupazione, ecc.). La privatizzazione dei servizi una volta più o meno pubblici o la corsa alla redditività anche di quelli che lo sono ancora giuridicamente, partecipano allo stesso movimento. Questa offensiva è generale al di là della varietà delle forme, secondo i contesti nazionali. Il colore politico dei governi incide, al massimo, solo nella forma e nella presentazione -ma non sempre.

Ma questa modifica dei rapporti di forza tra il grande capitale e la classe operaia si è tradotta ugualmente in modifiche del funzionamento stesso del grande capitale ed in particolare nella ripartizione tra capitale industriale e capitale finanziario. Tutte e due sono delle varianti dello stesso capitale ma le loro funzioni sono differenti. Le modificazioni nella ripartizione del capitale tra le sue due funzioni si ripercuotono sul funzionamento dell'insieme dell'economia.

La crisi presente, che è cominciata diciamo trent'anni fa, se non ha mai raggiunto la profondità e la brutalità della crisi del '29, si rivela come una delle più durature. E la sua durata ha comportato una serie di conseguenze. E' sempre più chiaro che le pozioni amministrate all'economia capitalistica per attenuare il suo accesso di febbre, sono diventate una delle principali cause della prolungazione della sua malattia. Sono gli interventi crescenti degli Stati nella prima fase della crisi, per sostituirsi al capitale privato negli investimenti produttivi, che hanno accresciuto i deficit dei bilanci di tutti gli Stati. In un primo tempo, ciò si è tradotto in un aumento dell'inflazione. Il fatto che questa inflazione si sia tradotta in una degradazione della condizione operaia non ha disturbato il grande capitale. Al contrario. Ma ciò minava nello stesso tempo il tasso reale d'interesse, quello che frutta il capitale investito una volta dedotto il tasso d'inflazione.

La grande trovata della seconda fase della crisi è stata la limitazione dell'emissione di carta-moneta e l'utilizzo dei prestiti di Stato, dando in questo modo interessanti possibilità d'investimento ai capitali eccedenti in quantità crescente che rifiutavano di trasformarsi in capitali produttivi per mancanza di sbocchi in crescita per i prodotti finiti.

L'indebitamento degli Stati, il debito pubblico, è vecchio quanto lo sono gli Stati moderni. L'imperialismo, con le spese militari, l'ha portato a livelli che nessun monarca dei tempi antichi avrebbe sognato. Questa tendenza congenita dell'' imperialismo ha raggiunto, nel corso degli ultimi trent'anni, in modo duraturo, vette senza precedenti.

Gli Stati vi hanno trovato il loro conto : emettere dei titoli del debito pubblico - Buoni del Tesoro, ecc.- gli permette di colmare il loro deficit.

Il grande capitale vi ha trovato doppiamente il suo conto: l'offerta dei titoli pubblici gli permette di investirsi in modo vantaggioso, al posto degli investimenti produttivi quando questi sono incerti. Di più, col permettere allo Stato di finanziare le sue spese, si assicura il finanziamento delle sovvenzioni e degli sgravi diversi alle imprese, più le riduzioni di tasse per i più ricchi.

Gli Stati, come il grande capitale, avevano interesse a frenare l'inflazione ed a garantire un tasso d'interesse elevato. Se l'inflazione è stata frenata solo parzialmente -per così dire esclusivamente pesando sui salari- il tasso d'interesse reale è raddoppiato tra la fine degli anni '60 e la fine degli anni '70.

Il ruolo delle banche e del sistema di credito è indispensabile al funzionamento dell'' economia capitalistica perché mette i capitali disponibili a disposizione delle imprese che ne hanno bisogno. In questo modo, permettono ai capitali disponibili di trasformarsi in capitali produttivi. L'interesse, prelevato sul plusvalore, è la remunerazione di questa funzione finanziaria. Ma l'ipertrofia di tale funzione produce l' effetto contrario. Si mette in moto una spirale ascendente che favorisce il capitale finanziario a scapito del capitale produttivo. A partire da un certo livello di indebitamento, il debito si alimenta se stesso. Poiché il servizio del debito assorbe una parte crescente delle entrate degli Stati, questi ultimi sono costretti ad indebitarsi di nuovo per far fronte alle scadenze. I diversi titoli ed effetti che rappresentano i debiti pubblici nutrono continuamente i mercati finanziari ai quali, grazie alla deregolamentazione ed alla soppressione delle barriere, tutti i capitali possono accedere ormai liberamente. Sulla scia dell'indebitamento degli Stati -in primo luogo dei paesi imperialisti e soprattutto gli Stati Uniti- si è sviluppata tutta un'economia di credito e di indebitamento, alimentando le speculazioni monetarie, borsistiche, immobiliari ed altre, mercati d'arte o di grandi marchi di vini, della moda, a seconda del periodo.

Il dominio finanziario sull'insieme dell'economia non è un fatto nuovo, bensì è una delle caratteristiche dell'imperialismo descritte al loro tempo da Hilferding e da Lenin. Parlando della necessità dell'' "espropriazione delle banche private e (della) statalizzazione del sistema di credito", Trotsky, da parte sua, scriveva nel Programma di transizione : "l'imperialismo è la dominazione del capitale finanziario. Accanto ai cartelli e ai trust, e spesso al di sopra di essi, le banche concentrano nelle loro mani il comando reale dell'economia. Nelle loro strutture, le banche riflettono, in una forma concentrata, tutta la struttura del capitalismo contemporaneo : combinano le tendenze al monopolio con le tendenze all'anarchia. Organizzano miracoli di tecnica, imprese gigantesche, trust poderosi, e organizzano ugualmente il carovita, le crisi e la disoccupazione".

In fondo non c'è niente da cambiare a questa descrizione. Fatto salvo che la funzione una volta adempita dal sistema bancario si è allargata poiché, ormai, tutti i gruppi industriali e finanziari che hanno capitali disponibili possono dedicarsi alle attività di prestito, in particolare di prestiti agli Stati, di compra e vendita dei buoni del Tesoro, senza passare per il sistema bancario.

Di più, l'allargamento della funzione finanziaria ha prodotto nuovi organi: fondi speculativi, fondi pensione, ecc., la cui unica attività è di realizzare profitti finanziari.

Il tasso d'interesse, che rappresenta la remunerazione dei servizi resi dalle banche al capitale industriale, prelevato sul plusvalore globale, resta ad un livello elevato, espressione dei prelievi del capitale finanziario sull'attività economica.

La Borsa, da parte sua, da lunga data gioca un ruolo indispensabile nel funzionamento dell'economia capitalistica. La sua funzione è la concentrazione dei capitali, la loro mobilitazione verso le grandi imprese e la formazione del tasso medio di profitto.

Le azioni e le obbligazioni, da quando sono state inventate, sono sempre state oggetto di speculazioni. "La speculazione è una funzione necessaria del capitalismo" scriveva Kautsky nel Programma socialista.

Fin dalla loro generalizzazione in quanto forma d'organizzazione dominante dell'economia capitalistica sotto l'imperialismo, le "società per azioni", avevano introdotto una differenziazione tra il processo della produzione capitalistica ed il movimento della proprietà capitalistica. Le azioni in Borsa che rappresentano, in principio, dei titoli di proprietà sono da sempre, e nello stesso tempo, dei titoli di reddito che permettono ai loro proprietari di intascare dividenti -e, eventualmente, di intascare un reddito speculativo vendendo i loro pacchetti di azioni più cari di quanto li hanno comperati.

Le transazioni di azioni obbediscono ben più alle attese di dividenti che queste azioni fruttano o di guadagni realizzabili tramite la loro vendita, che alla natura o alle variazioni della produzione dell'impresa in causa (le obbligazioni che rappresentano giuridicamente un credito, e non un titolo di proprietà, fruttano solo l'interesse convenuto, ma possono ugualmente offrire guadagni speculativi). La proprietà del capitale si allontana, in qualche modo, dall'uso che ne è fatto nella produzione. La Borsa vive per conto suo. Il denaro sembra produrre denaro, "così naturalmente che il pero porta le pere", per parafrasare Marx. Eppure i dividenti come i guadagni borsistici provengono in ultima istanza dal plusvalore il quale non può essere creato che nella produzione.

Gli "investimenti" realizzati dai gruppi finanziari, come i fondi pensione, i fondi delle società di assicurazioni o delle mutue ed i fondi speculativi vari, somigliano sempre più a dei puri investimenti finanziari. In effetti, il denaro non è "investito" da questi gruppi finanziari per essere immobilizzato per un periodo più o meno lungo in quanto investimento produttivo. E' destinato a fruttare a breve scadenza. In gergo economico si chiamano "investitori istituzionali" quando in realtà non investono ma investono i loro fondi e d'altronde non sono affatto istituzioni statali, perseguono soltanto gli interessi dei loro mandanti privati. La loro parte fra i detentori di azioni è diventata dominante in alcuni settori. Un recente rapporto del Senato stima che tali "investitori istituzionali" rappresentano circa l'80% delle transazioni borsistiche ! L'accrescimento incessante di questo tipo di finanziamento nei capitali di imprese industriali si ripercuote sulla loro gestione. La ricerca del massimo profitto a breve scadenza si oppone agli investimenti a più lungo termine, all'immobilizzazione di capitali nella costruzione di una nuova fabbrica, all'acquisto di nuove macchine, ecc. Così, è proprio il capitale più concentrato, quello che controlla i mezzi di produzione più potenti della società, che gioca sempre meno il suo supposto ruolo nell'organizzazione della produzione sulla base capitalistica.

La produzione imbrigliata dalla finanza

Delle voci si fanno sentire anche tra gli economisti della borghesia per frenare un'evoluzione che sega il ramo al quale è sospesa l'economia capitalistica.

Sono preoccupati dal fatto che la parte del capitale dedicata all'accumulazione dell'ammontare di capitali fissi -fabbriche, macchine, mezzi di produzione, ecc.-, così come la parte dedicata alla ricerca, condizione dello sviluppo futuro, diminuisce rispetto all'accumulazione puramente finanziaria.

I due tratti persistenti dell'economia da trent'anni a questa parte, al di là del gioco delle recessioni e delle riprese, sono il basso tasso degli investimenti produttivi ed il livello elevato della disoccupazione. Il primo si oppone all'allargamento conseguente del mercato dei mezzi di produzione. Il secondo limita l'allargamento del mercato dei beni di consumo. O più esattamente, l'allargamento di quest'ultimo è limitato al consumo della borghesia grande e piccola, così come al consumo a credito. Quest'ultimo, in espansione, in particolare nel principale paese consumatore, gli Stati-Uniti, costituisce ciononostante un'ipoteca sul futuro.

La stagnazione della produzione è mascherata dalle statistiche del PIL (prodotto interno lordo), poiché queste statistiche non tengono conto della sola produzione di beni materiali o di servizi utili.

Ciononostante anche le statistiche del PIL indicano una minor crescita dall'inizio della crisi rispetto al periodo precedente ed una netta diminuzione nei grandi paesi imperialisti durante le recessioni del 1975, del 1982 o del 1991. Le statistiche della disoccupazione, nonostante il fatto che siano anch'esse falsate, costituiscono ciononostante un'indicazione più affidabile dello stato reale dell'' economia.

La finanziarizzazione dell'economia ha giovato logicamente e soprattutto alla principale potenza finanziaria del mondo, gli Stati Uniti. I profitti attirati verso gli Stati Uniti, a partire dai loro investimenti o dai loro investimenti dappertutto nel mondo, si sono accresciuti senza sosta dall'inizio della crisi. Intorno all'anno 2001 una tappa è stata varcata. Per la prima volta, i redditi finanziari che gli Stati Uniti attirano dal resto del mondo sotto forma di dividenti o di interessi sono stati superiori all'insieme dei profitti accumulati negli Stati Uniti stessi. Per di più, gli Stati Uniti attirano verso le loro banche gli investimenti della borghesia dell'America Latina così come quelli degli emiri del petrolio del Medio Oriente.

Se gli Stati-Uniti accumulano non solo il plusvalore prodotto sul loro proprio solo ma anche una parte di quello prodotto su scala planetaria, questa accumulazione è anche e soprattutto finanziaria. Anche nella principale potenza imperialista mondiale, la situazione della classe lavoratrice si degrada, tanto per i salari reali che per la disoccupazione. Così come si degradano la previdenza malattia, le pensioni, le protezioni sociali. Questo dà argomenti a Kerry nella sua campagna contro Bush -ma la tendenza non sarebbe invertita in caso di vittoria democratica, come d'altronde non lo era stata per niente all'epoca di Clinton.

Ancora più significativo, la formidabile accumulazione finanziaria nelle mani di grandi gruppi americani non si traduce in un aumento parallelo del capitale fisso.

Certo, gli investimenti lordi sul suolo degli Stati Uniti sono relativamente elevati da una decina di anni. Sembrano essere trainati dalle attrezzature informatiche e dalle telecomunicazioni. Ma data la rapidità con cui questo tipo di investimento diventa obsoleto e perde il suo valore, l'investimento netto -che tiene conto dell'usura e del deprezzamento del capitale- resta modesto.

E soprattutto, gli investimenti che riguardano le capacità di produzione reali restano bassi. Il capitalismo americano stesso si trasforma sempre più in un capitalismo redditiere.

Il ruolo accresciuto della finanza è stato, in un primo tempo, un effetto della crisi: i capitali inutilizzati negli investimenti produttivi sono stati riportati verso gli investimenti remunerativi (a seconda del periodo : acquisto di buoni del Tesoro dei paesi imperialisti, a cominciare da quelli degli Stati Uniti ; prestito agli Stati dei paesi poveri ; acquisto di azioni e di obbligazioni ; speculazione monetaria ; finanziamento di operazioni di fusione-acquisizione di grandi imprese, ecc.). Adesso ne è diventato una delle cause. Il funzionamento che si è installato privilegia il profitto finanziario a breve scadenza rispetto agli investimenti produttivi a lungo termine.

In effetti sembra che, con l'impedire alla crisi di produzione di andare fino in fondo alla propria logica, il suo ruolo regolatore sia perturbato. Infatti bisogna ricordare che le crisi non sono epifenomeni dell'economia capitalistica, dei sottoprodotti casuali. Costituiscono fasi essenziali della riproduzione capitalistica. E' precisamente tramite le crisi che l'economia di mercato, mossa dalla concorrenza cieca, anarchica, ristabilisce gli equilibri tra la produzione e la domanda solvibile, tra i differenti settori dell'economia, in particolare tra quello dei mezzi di produzione e quello dei beni di consumo, così come tra le differenti funzioni economiche. Sono le crisi che, distruggendo una parte del capitale produttivo, rovinando una frazione della classe capitalistica stessa, fanno piazza pulita creando le condizioni del rilancio degli investimenti produttivi.

La lunga crisi in corso non ho mai raggiunto un carattere acuto al punto di spingere banchieri e industriali a saltare dalle finestre. Ma né i governi, né le banche centrali, né i grandi trust, possono impedire che le necessità profonde del funzionamento capitalistico dell'economia si ripresentino continuamente.

Alcuni economisti della tendenza altermondialista che affermano rifarsi al marxismo descrivono con giustezza e denunciano questa evoluzione. Parlano di una nuova era dell'imperialismo, un' "era neoliberale", di cui vedono l'emergenza durante gli anni '80. Ciò potrebbe essere solo un'innovazione semantica. Ma quest'innovazione presenta l'inconveniente di insistere sulla differenza a scapito dell'identità, sulla rottura a scapito della continuità dell'economia capitalistica sotto l' imperialismo. Quelli tra loro che, in più, privilegiano nella spiegazione di questa evoluzione le scelte politiche, attribuendone la paternità a Reagan ed alla Thatcher, nascondono in questo modo la responsabilità della socialdemocrazia che, ogni volta che ha avuto le redini del potere, ha partecipato a questo movimento.

Regno della finanza e paesi poveri

Lenin diceva che l'imperialismo era "la fase senile del capitalismo". L'imperialismo contemporaneo ha spinto ancora più lontano che ai tempi di Lenin gli aspetti usurai dell'economia, e redditieri della borghesia capitalistica.

L'imperialismo della fine del XIX secolo, alla ricerca di investimenti redditizi, esportava capitali. Questa esportazione consisteva già all'epoca, ben spesso, in prestiti agli Stati, oppure a questo o quell'impero declinante. Ma una larga parte di questi capitali erano comunque investiti in modo produttivo.

Questi investimenti rispondevano ai bisogni della metropoli imperialista, non a quelli del paese dominato. Ciononostante, la costruzione di ferrovie, di porti, le mine atte ad essere sfruttate, rappresentavano delle creazioni di ricchezze materiali. A maggior ragione, ciò era vero quando questi capitali erano investiti per creare delle fabbriche in America Latina o in Russia.

La tendenza attuale del grande capitale ad allontanarsi dagli investimenti produttivi a favore di investimenti finanziari comporta conseguenze particolarmente drammatiche per i paesi poveri. Tra questi, solo una dozzina -il Brasile, il Messico e la Cina principalmente accomunati dal fatto di possedere mercati abbastanza vasti- sono considerati come suscettibili di produrre abbastanza profitto per attirare gli investimenti produttivi. Altri, in America Latina o nel sud-est asiatico, dopo aver attirato capitali, investiti con obiettivi speculativi, ne hanno pagato il prezzo con dei krach finanziari che hanno prodotto un abbassamento brutale della loro produzione. La stragrande maggioranza dei paesi sottosviluppati sono integrati nei circuiti dei capitali solo tramite il debito oppure tramite questo tipo di "investimento" che consiste a ricomprare i rari mezzi di produzione o di trasporto già esistenti (linee ferroviarie, porti o aeroporti) per tirarne profitto utilizzandoli fino all'osso. L'imperialismo francese, in particolare, è diventato uno specialista di questo tipo di investimenti in Africa.

Gli economisti non sanno più che termine inventare per distinguere i più poveri tra i paesi poveri, quelli a cui i termini alla moda, del tipo "nuovi paesi industriali" oppure "paesi emergenti", non possono veramente applicarsi. Quarantanove paesi sono classificati nella categoria dei "paesi meno avanzati" - Così si trova il modo di utilizzare la parola "avanzato" per indicare l'infinita povertà !-, la cui popolazione conta nientemeno che 630 milioni di persone ed il cui reddito medio individuale annuo è inferiore a novecento dollari, vale a dire circa ottocento euro.

Nell'epoca in cui la crisi nel 1929 faceva sprofondare l'economia capitalistica nell'abisso, trascinando l'umanità verso le dittature, il nazismo e la guerra mondiale, Trotsky aveva scritto che le "forze produttive hanno smesso di crescere".

L'economia capitalistica dei giorni nostri mostra, in un altro modo, in modo meno drammatico per il momento, nei paesi imperialisti, fino a che punto le forze produttive sono imbrigliate dall'organizzazione economica basata sulla proprietà privata e la ricerca del profitto. Non si tratta di una deviazione del capitalismo, ma del suo stesso sviluppo. Questo solo fatto mantiene e attualizza continuamente la necessità di "espropriare gli espropriatori" e di riorganizzare l'economia liberandola dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Una comprensione del funzionamento dell'economia capitalistica che non arriva a questa conclusione, vale a dire alla necessità della rivoluzione sociale e del comunismo, anche se ne percepisce le ingiustizie e l'irrazionalità, rimane una comprensione sterile.

Cina : il ritorno dei capitali privati

La Cina ha la reputazione di essere uno dei paesi il cui slancio economico sia particolarmente rapido da diversi anni. Ciò porta alcuni a parlare di "miracolo cinese". Vero è che da decenni ci sono stati ben altri miracoli: miracolo tedesco, miracolo giapponese, miracolo italiano, miracolo dei cosiddetti "dragoni asiatici", ecc.. Oggigiorno si sa cosa sono diventati. Da un miracolo all'altro, l'economia capitalistica si impantana nella stagnazione.

La Cina serve in ogni caso d'esempio per sostenere l'idea che un paese povero può svilupparsi su una base capitalistica. I più ottimisti descrivono già la Cina come la grande rivale economica degli Stati Uniti.

Anche sul piano globale, si tratta di una presentazione tendenziosa della realtà. Se il tasso di crescita del prodotto interno della Cina è dell'ordine del 9%, ciò non significa niente se non si tiene conto del livello di partenza.

Ancora oggi, dopo decenni di crescita considerata come frenetica, il PIL pro capite sarebbe "l'equivalente di quello dei giapponesi nel 1960 (o quello dei francesi o dei canadesi nel 1923)" (l'Etat du monde 2005).

D'altro canto, questo sviluppo ha un carattere ineguale. Ricordiamo che, quando Trotsky sviluppava l'idea della "rivoluzione permanente", non riduceva la nozione di sottosviluppo alla povertà generale. Al contrario, sottolineava gli scarti considerabili e la contraddizione tra aspetti di sviluppo avanzato e aspetti di arretramento, tra le isole di modernità e l'arretramento che le circonda. Parlando della Russia di prima della rivoluzione del 1917, constatava non solo che la penetrazione imperialista aveva creato le imprese più moderne della loro epoca ma anche che il numero delle grandi imprese in rapporto alle piccole era più elevato nella Russia zarista che in tutti i paesi industriali dell'epoca, compresi gli Stati-Uniti. "L'industria più concentrata d'Europa -scriveva nella sua opera 1905- sulla base dell'agricoltura più primitiva". "Questa originalità può avere un'importanza decisiva per la strategia rivoluzionaria" sviluppava d'altro canto. "Basta ricordarsi che il proletariato di un paese arretrato è venuto al potere molti anni prima del proletariato dei paesi avanzati" (prefazione a La rivoluzione permanente).

La situazione odierna è la stessa. Nei grandi paesi capitalistici sottosviluppati, in Brasile per esempio, a gigantesche concentrazioni industriali si accompagna l'arretratezza di una grande parte del paese.

Il sottosviluppo della Cina è il prodotto di una lunga e dolorosa integrazione nell'economia capitalistica. Cominciò con la guerra dell'oppio (1839-1842) con la quale la Gran Bretagna forzò l'imperatore cinese ad accettare sul suolo del suo impero il consumo dell'oppio prodotto in India, paese colonizzato dalla Gran Bretagna. Questa integrazione proseguì con la penetrazione delle merci dei paesi industrializzati dell'epoca, preceduta o seguita dalle cannoniere, accelerando la decomposizione dello Stato cinese a vantaggio del regno dei signori della guerra che si vendevano al miglior offerente delle grandi potenze. Fu segnata dal dominio diretto delle potenze imperialiste (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone), rivali tra di loro per spartirsi la Cina in zone di influenza, sulle grandi città costiere.

L'integrazione fu accompagnata dai sobbalzi rivoluzionari tra il 1911 ed il 1925, quando il proletariato cinese apparve per la prima volta sulla scena storica e fu tradito dallo stalinismo nascente.

L'imperialismo giapponese cercò con la forza delle armi di escludere i suoi rivali imperialisti e di imporre la trasformazione della Cina, semi colonia contesa, in una colonia totalmente giapponese. Conosciamo gli esiti di questa ambizione, in seguito alla disfatta del campo tedesco e giapponese nella seconda guerra mondiale.

Ed è proprio dalla resistenza contro il Giappone che emerse l'esercito di Mao che diventò l'ossatura della macchina statale cinese. Benché la rottura politica ed economica tra la Cina ed il mondo imperialista sia venuta dagli Stati Uniti, il regime prodotto dalla presa del potere da parte di Mao aveva non solo una base sociale sufficientemente solida per tentare di sopravvivere al blocco economico, ma anche un certo consenso sociale per tentare di costruire, al riparo dei prelievi dell'' l'imperialismo e della pressione del mercato mondiale, un'economia nazionale capace di sopravvivere. Date le sue dimensioni, la sua popolazione, la varietà delle sue risorse, la Cina era senz'altro uno dei rari paesi poveri del mondo che aveva i mezzi per far fronte all'isolamento. Di fronte al blocco imposto dagli americani, la scelta di intraprendere questa strada portò il regime a nazionalizzare totalmente l'industria, a prendere il controllo della produzione agricola, ad assicurarsi il monopolio del commercio estero.

Bisogna comunque constatare che, se la Cina è riuscita a sfuggire al dominio economico diretto dell'imperialismo, non ha potuto superare le conseguenze della rottura con la divisione internazionale del lavoro. Le Cina è ancora ben lungi dall'aver raggiunto lo sviluppo economico dei paesi occidentali.

La dimostrazione che era impossibile raggiungere, con l'autarchia, i paesi imperialisti che usufruiscono non solo della divisione internazionale del lavoro ma anche del saccheggio dell'intero pianeta, era già stata fornita dall'URSS. Ciononostante, grazie alla rivoluzione proletaria, i proprietari agrari e la borghesia erano stati espropriati radicalmente in Russia, ma non in Cina. L'URSS isolata e sottomessa al potere della burocrazia non ha costruito "il socialismo in un solo paese", benché si sia sviluppata più rapidamente e in modo meno ineguale e più completo di altri paesi arretrati paragonabili.

Nella Cina di Mao, la borghesia fu espropriata tardivamente, dall'alto da parte dello Stato ed in modo meno radicale. I capitali accumulati in Cina dalla borghesia locale prima di Mao poterono spostarsi e soprattutto giovare ai "frammenti dell'impero", come Taiwan, alle filiali sparse, come Hong-Kong e Singapore, ed alla diaspora borghese originaria della Cina, una delle componenti più o meno importanti della classe privilegiata in diversi paesi del sud-est asiatico. Privo di questa fonte di "accumulazione primitiva", il regime maoista cercò di compensarla sfruttando le classi popolari. Lo statalismo economico del maoismo centralizzava in particolare i prelievi sulle immense masse contadine.

Grazie allo statalismo ereditato dell'epoca maoista, la Cina dispone oggigiorno di un'economia sviluppata in modo più equilibrato rispetto ad altri paesi sottosviluppati paragonabili. Lo statalismo ha permesso alcuni grandi lavori, come la regolazione dei grandi fiumi, la costruzione di dighe oppure la creazione di imprese industriali non solo nelle grandi città costiere. D'altronde è probabile che la differenza tra i tassi di crescita ufficiali della Cina e dell'India, di cui quello cinese è il doppio dell'altro, risiede in questa eredità, nonostante i due paesi siano paragonabili dal punto di vista della popolazione, della dimensione, ed entrambi abbiano cercato di attirare i capitali più o meno a partire dalla stessa epoca.

L'"arricchitevi !", lanciato verso la metà degli anni settanta da Deng Xiao Ping ad una borghesia cinese ancora embrionaria ha spinto la classe ricca verso un'attività febbrile. Lo slancio economico tanto vantato mostra tutti i segni di uno "sviluppo del sottosviluppo". Se le grandi città costiere della capitale oppure le vaste zone franche della regione dello Shenzen conoscono uno sviluppo rapido, la maggior parte del paese ne subisce i contraccolpi negativi. Mentre Shangaï dà l'immagine di una città ultramoderna, specchio di un capitalismo trionfante, le campagne marciscono nella miseria. E sono proprio le campagne, da dove i contadini sono scacciati dalla povertà ma anche da una pressione fiscale crescente, che forniscono un "esercito industriali di riserva", fornendo una manodopera a bassissimo costo alla nuova borghesia ed ai gruppi capitalistici venuti dall'estero.

Questi migranti sono trasformati in senza-diritti nelle città e sono esclusi dall'accesso all'educazione e dai servizi sanitari statali. Tale emigrazione, benché interna, evoca le migrazioni provenienti dai paesi poveri verso le metropoli imperialiste. Questa componente del proletariato cinese, stimata a più di cento milioni di persone, è completata da quelli che, prima, lavoravano nel settore dello Stato e che le "riforme economiche" hanno trasformato in disoccupati o precari.

Le "riforme" avviate nel 1980 e accelerate nel decennio successivo, consistevano nel chiudere le imprese giudicate poco redditizie per un'integrazione rapida nell'economia capitalistica mondiale e, nello stesso tempo, a "liberare" i loro lavoratori, che prima avevano la sicurezza del posto di lavoro, per renderli disponibili per i capitalisti privati. Ciononostante, le pubblicazioni specializzate rilevano che malgrado l'afflusso di capitali privati dall'estero e l'apparizione di miliardari autoctoni, il settore pubblico è (sempre) all'origine del "72% della formazione del capitale fisso".

La Cina interessa il capitale occidentale attirato dalle prospettive di profitto realizzabili su questo mercato che, benché ridotto ad un decimo della popolazione cinese capace di accedere ad un livello di vita occidentale, rappresenta comunque un centinaio di milioni di persone, l'equivalente di due dei maggiori paesi europei.

I vantaggi procurati agli investitori dai salari bassi, per di più sono garantiti da un regime autoritario che fino ad ora si è mostrato capace di mantenere fermamente l'ordine sociale.

Con un flusso di 53 miliardi di dollari nel 2003 ed un ammontare di 473 miliardi di capitali stranieri già investiti, la Cina è uno dei paesi del mondo che attira maggiormente i capitali esteri. Per fare un esempio, la Russia nello stesso anno 2003 ha attirato solo un miliardo di dollari di capitali esteri, cioè 53 volte meno. Secondo certe stime, più della metà delle esportazioni della Cina sarebbero già prodotte da imprese controllate da capitali esteri.

Si constata ciononostante che il "paese" in testa tra i fornitori di capitali alla Cina è... Hong-Kong, considerato sul piano economico come esteriore alla Cina, e che anche Taiwan fa parte del gruppo di testa ! In altre parole ciò vuol dire che sono i capitali che hanno abbandonato la Cina all'epoca dell'arrivo di Mao al potere che tornano nel paese, ridando il suo posto alla vecchia borghesia cinese che si è ancora più arricchita nel frattempo.

Lo statalismo cinese, che, per molto tempo è stato l'ostacolo che si opponeva alla penetrazione dei capitali stranieri, ne è diventato il primo veicolo. I mezzi concentrati dallo Stato hanno trasformato la Cina in un interlocutore commerciale interessante per il mondo capitalista, non appena le condizioni politiche sono state riunite. Già prima che la classe privilegiata cinese compri sul mercato mondiale automobili, computer o altri beni di consumo, lo Stato cinese comperava turbine per la sua produzione d'elettricità o attrezzature per le sue centrali nucleari. È tramite lo Stato che la Cina è rientrata nel mercato capitalista mondiale.

Lo sviluppo economico, nella misura in cui proseguirà, continuerà ad accentuare le ineguaglianze tra le classi sociali. Il divario tra il reddito medio in città e nelle campagne sembra essere già uno dei più importanti del mondo. Lo sviluppo industriale, sbarazzato progressivamente dalla centralizzazione statale e lasciato alle scelte degli interessi privati, locali o internazionali, ritrova la tendenza naturale di tutti i paesi sottosviluppati. Mentre le città costiere conoscono uno sviluppo febbrile, le agglomerazioni industriali dell'interno declinano.

Il ritorno strepitoso della corsa al profitto privato sconvolge già la Cina, direttamente nelle grandi città interessate dallo sviluppo economico ed indirettamente nelle campagne integrate in un modo o nell'altro nell'economia monetaria. Tutto ciò rafforza numericamente la classe operaia cinese, benché nel dolore e nelle sofferenze ? Il futuro lo dirà, poiché la costituzione di un proletariato originario delle campagne, giovane di età, mal pagato, concentrato nelle imprese moderne, forse è compensato dall'esclusione dall'attività produttiva di una gran parte di quelli che lavoravano nelle imprese di Stato che chiudono. Il rafforzamento numerico della classe operaia, se si producesse, sarebbe in ogni caso l'aspetto più importante della "crescita cinese", poiché in un paese in pieno sconvolgimento, il proletariato cinese può ritrovare un ruolo politico, soffocato dallo stalinismo, schiacciato prima dalla repressione sotto Ciang Kai Shek e dopo sotto Mao.

15 ottobre 2004