Da "Lutte de classe" n° 43 - maggio-giugno 1999
Il disastro generale a cui porta l'aggressione imperialista in Iugoslavia, l'importanza e la crudeltà delle sofferenze dei popoli, le innumerevoli distruzioni che annientano anni di sforzi, possono solo ispirare una rivolta senza limiti.
Sei settimane dopo il suo inizio il 24 marzo, nessuno può seriamente credere che l'obiettivo di questo intervento era di portare aiuto alla popolazione albanese del Kosovo. Non si può, certamente, chiedere a dei gangster di proteggere i popoli contro altri gangster !
E nonostante la propaganda della NATO, che afferma che le conseguenze del suo intervento sulla politica di Milosevic non erano prevedibili e che abbia "scoperto" che questo regime preparava da tempo piani di "pulizia etnica" nel Kosovo, in realtà l'esodo massiccio era anticipato dai vertici NATO, ma in qualche modo come un "danno collaterale". Perché non è questa la loro preoccupazione. Si è potuto constatare che non era previsto niente, evidentemente, per accogliere decentemente le centinaia di migliaia di profughi kosovari che fuggivano per evitare i massacri, e si constata che sei settimane di deportazioni di massa non hanno ancora portato la NATO, in materia di aiuti umanitari, a fare altro che alcuni annunci senza seguito.
I dirigenti imperialisti hanno deciso questa guerra di comune accordo : l'hanno preparata mentre fingevano di organizzare negoziazioni di pace tra i rappresentanti di Milosevic e i nazionalisti albano-kosovari a Rambouillet e Parigi. La volevano, anche se forse li ha già portati più lontano di quanto non pensavano all'inizio.
Volevano questa guerra perché Milosevic opprimeva gli Albanesi del Kosovo da dieci anni, e perché le sue forze armate li avevano brutalmente attaccati durante l'estate 1998, cacciando dalle sue case la popolazione di una serie di villaggi ? Chiaramente no. Senz'altro tutto questo Milosevic lo faceva, ma i responsabili dei paesi imperialisti l'hanno lasciato fare, con un nulla osta almeno tacito.
L'aspetto "pulizia etnica" non è quello che mette più a disagio i dirigenti imperialisti nella politica di Milosevic. E comunque i loro bombardamenti hanno dato a Milosevic la possibilità di far tacere la sua opposizione in Serbia e di attuare questa politica su vasta scala nel Kosovo.
In Bosnia, i dirigenti occidentali avevano lasciato le bande nazionaliste in guerra procedere con la forza ad una ridistribuzione delle terre fra loro, il tempo necessario per giungere ad un "equilibrio" al quale hanno poi dato la loro consacrazione ufficiale. Nello stesso modo, il loro intervento attuale dà una mano alle manovre criminali dell'esercito e delle bande nazionaliste serbe che "svuotano" il Kosovo della sua popolazione albanese.
Ma la violenta repressione di Milosevic contro questa popolazione comportava sin dall'inizio serie minacce per la stabilità regionale, come è stato sottolineato da tutti i commenti. Col provocare un movimento crescente di rivolta armata che rivendica l'indipendenza del Kosovo o la sua annessione all'Albania, rischiava di rimettere in discussione l'attuale disegno delle frontiere statali, cosa che i dirigenti imperialisti rifiutano assolutamente, lo hanno ripetuto con insistenza.
Sono quindi stati portati ad usare la forza con l'obiettivo di far rientrare Milosevic nei ranghi, di costringerlo ad ubbidire alla legge delle grandi potenze e di far prevalere la loro volontà. E l'obiettivo, al di là di Milosevic, era di dimostrare che, al di sopra delle canaglie dirigenti e dei tiranni locali, le potenze imperialistiche rimangono le vere padrone della sorte dei popoli della regione.
In quanto alla stabilità dei Balcani, è un'amara ironia constatare che le minacce peggiori per lei provengono dalle azioni della NATO.
La responsabilità delle potenze imperialistiche
Il disastro attuale è evidentemente il risultato dell'evoluzione politica interna della Iugoslavia da due decenni, ma la parte avuta dalle potenze imperialistiche in questa evoluzione -certamente in complicità con le cricche dirigenti locali- ha pesato in modo decisivo per portare a questo risultato. La loro responsabilità è schiacciante.
Già dai primi seri dissensi all'interno della federazione jugoslava, negli anni ottanta, i loro dirigenti hanno dimostrato il loro interesse per la sua dislocazione, e nessuna preoccupazione per la stabilità della federazione ereditata da Tito, morto nel 1980.
Certamente questa Iugoslavia non era un modello. Era una dittatura, nella quale i lavoratori erano sfruttati e i popoli imbavagliati se necessario con metodi polizieschi. Ma almeno questi popoli convivevano, si mischiavano sempre più col passar del tempo, e potevano stabilire tanto più legami che potevano spostarsi nell'insieme dello spazio jugoslavo, il loro paese, e sentirsi semplicemente jugoslavi piuttosto che serbi, croati o altri.
Per raggiungere tale risultato, Tito e gli altri dirigenti avevano dovuto condurre una politica volontaria, dall'epoca della Seconda Guerra mondiale in cui avevano formato il loro esercito sotto la parola d'ordine dell'unità dei popoli della Iugoslavia, con un comando dal plurietnismo ostentato. Questa volontà di fare prendere una specie di cemento jugoslavo al di sopra dei micronazionalismi fu un asse maggiore della loro politica. Certo, ribadiamolo, il limite del "iugoslavismo" titista stava nella sua natura stessa, poiché era lui stesso un nazionalismo che il regime ovviamente non mancava di esaltare. Ma l'esperienza avrà almeno dimostrato - perché non c'è alcuna "maledizione balcanica" - che una politica che cerchi sistematicamente la coesistenza pacifica tra i vari popoli, con il progressivo riassorbimento dei risentimenti del passato, era comunque possibile.
Questo tipo di politica non è affatto stato incoraggiato dai dirigenti imperialisti presso il personale politico locale. Già non avevano sostenuto Tito. Anzi, lungi dal cercare di appoggiare le forze e gli uomini che avrebbero potuto agire nel senso del mantenimento della collaborazione tra i popoli, quando la Iugoslavia è entrata in grave crisi nel corso degli anni ottanta, si sono ricollegati alla loro politica passata nei confronti dei Balcani. Ognuna, la Germania da una parte, la Francia e l'Inghilterra dall'altra, ha scelto un proprio clan da proteggere. I potenti mezzi di pressione dei paesi ricchi si sono coniugati colla sete di potere e di arricchimento delle cricche in cerca di feudi nelle varie repubbliche jugoslave, e questo non poteva fare altro che inasprire la loro concorrenza e spingere verso i separatismi.
Appena asciutto l'inchiostro del trattato di Maastricht, questa stessa Unione europea che pretendeva fondare cominciò ad appoggiare lo smembramento di quello che stava diventando l'ex Iugoslavia. Le potenze europee, Germania in testa, si affrettarono a riconoscere le secessioni slovena e croata che ottenevano tutti i loro incoraggiamenti, ammesso che i Tudjman e Kucan non avessero avuto il loro consenso preliminare.
Se le potenze imperialistiche hanno fatto prova di volontarismo politico, di fronte alla disintegrazione della Iugoslavia, è stato a favore dei vari capi micronazionalisti, ognuna avendo il suo o i suoi campioni, non solo Tudjman e Kucan, ma anche Milosevic o Izetbegovic.
Tutti i dirigenti insediati alla testa degli Stati successori sono arrivati al potere con l'uso della demagogia micronazionalista, in contrasto col nazionalismo jugoslavo dei tempi di Tito, e tutti hanno ricevuto l'accordo delle potenze imperialistiche, accertato poi dall'ammissione di questi Stati in seno all'ONU, data con tanta fretta : nel giro di qualche mese solo. Spingendo così verso la creazione di questi nuovi Stati, le grandi potenze dimostravano soltanto che ognuna di loro sperava di poter fare affari più facilmente con tale o tale Stato indipendente.
I dirigenti occidentali non potevano ignorare che questa era la peggiore politica possibile. Creare Stati del genere, dagli obiettivi monoetnici proclamati, imporre frontiere statali laddove esistevano solo suddivisioni amministrative, significava nello stesso tempo, dati i mescoli di popolazioni in questi territori, trasformare interi gruppi di popoli in minoranze oppresse in seno a degli Stati ostili che cercavano di estendersi come Stati nazioni. Vale a dire che questi Stati in mano a capi di guerra spietati, ai quali i "fratelli" in minoranza nel feudo vicino stavano per fare da massa di manovra e da alimento per la loro demagogia nazionalista, mentre la loro politica nel proprio Stato e nei territori conquistati sarebbe ridotta all'infamia della "pulizia etnica".
Tutto questo - la guerra serbocroata, lo smembramento della Bosnia e adesso la deportazione del popolo albanese del Kosovo - era contenuto nella logica dello smembramento dell'insieme jugoslavo così come è accaduto, all'iniziativa dei ceti dirigenti dell'ex Iugoslavia e nello stesso tempo - fattore più decisivo - coll'impulso e la tutela delle potenze imperialistiche.
Le radici del disastro : saccheggio e sottosviluppo economici
Le potenze imperialistiche occidentali hanno una responsabilità diretta nella catena dei fatti che hanno portato alla disintegrazione sanguinosa della Iugoslavia e al dramma attuale del Kosovo. Ma l'imperialismo ha una responsabilità ancora più profonda, le cui radici stanno nel sottosviluppo economico della regione.
Dopo la morte di Tito, la crisi di successione e la rincorsa al potere dei capi di cricche antagoniste sono rimaste relativamente discrete durante qualche anno ; il sistema politico federale che Tito lasciava in eredità, con la presidenza esercitata a turno dalle varie repubbliche che costituivano la federazione, ha retto, malgrado alti e bassi, fino al 1990-91. Ma il contesto era quello della brutale degradazione di una situazione economica già precaria.
Il saccheggio di queste regioni dai capitali occidentali risale ad un passato lontano. La Iugoslavia formata nel 1918-1919 sulle macerie degli imperi ottomano e austro-ungarico era già passata a quell'epoca sotto il dominio, secondo le regioni, degli interessi austro-germanici e franco-britannici. Per di più, gli interventi guerrieri periodici hanno impedito ogni possibilità per la regione di uscire dall'indigenza e dall'oppressione. Si può ricordare che la prima guerra mondiale fu preceduta da due guerre "balcaniche" successive, nelle quali gli obiettivi dei campi imperialistici rivali erano evidenti.
E le conseguenze di due guerre interimperialistiche mondiali, nel corso delle quali i Balcani funsero da campo di battaglia, furono ancora più drammatiche.
Per di più, la Iugoslavia dovette subire, dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'embargo economico imposto dall'URSS di Stalin. Sicché, sebbene la Iugoslavia si sia finalmente integrata progressivamente nell'ambito dell'Occidente capitalistico, non poteva essere che in una posizione subordinata e dipendente. Ed è nella posizione di un paese povero e dipendente che dovette affrontare la crisi economica.
La Federazione è stata ben presto messa in discussione dalle tensioni e conflitti d'interessi che inevitabilmente ne risultarono, tra l'altro per causa delle disuguaglianze tra regioni molto povere (Kosovo, Macedonia, Montenegro) e regioni più ricche (Slovenia, Croazia). A tal proposito bisogna sottolineare che il funzionamento del mercato capitalistico ha fortemente accentuato queste disuguaglianze regionali, come si vede dappertutto (tra l'altro in Italia). Gli interessi capitalistici austriaci e tedeschi erano molto presenti in Slovenia e in Croazia, legati a quelli dei ceti dirigenti, e sfruttavano le disuguaglianze nello sviluppo all'interno della Iugoslavia stessa. Non a caso delle tendenze separatiste con basi economiche apparsero sempre più chiaramente in queste regioni, in seno ai ceti privilegiati che cercavano di rompere la solidarietà con la federazione in crisi. E non a caso i gruppi capitalistici le hanno accolte con benevolenza.
Chiaramente, come per tanti altri paesi in preda alla povertà, i creditori imperialistici della federazione jugoslava di cui, negli anni ottanta, l'indebitamento ammontava a 20 miliardi di dollari circa, le misero il coltello alla gola. I ceti dirigenti si sono allora attaccati alle classi popolari, innanzitutto alla classe operaia, imponendo un aumento massiccio della disoccupazione ed una violente diminuzione del tenore di vita della popolazione che la riportava venti anni indietro.
Di fronte alle minacce d'esplosione sociale le diverse cricche dirigenti hanno allora ritrovato uno strumento di dominio tradizionale dei privilegiati nei Balcani : una decisa fuga in avanti sul terreno della demagogia nazionalistica. Era l'espressione di una scelta e di una volontà politica di fronte alla crisi. E così hanno volontariamente fatto risorgere gli antagonismi, i risentimenti ereditati da più di un secolo di sfruttamento da parte dell'imperialismo, e tra l'altro dalle sue guerre, quando non li hanno suscitati direttamente, trovando per questo sporco lavoro, in Serbia come in Croazia e altrove, l'aiuto attivo di gran parte dei loro intellettuali, romanzieri, giornalisti, ecc. Prima di appoggiarsi, in più di questa canaglia intellettuale, sulla malavita con i suoi capobandi, i suoi sicari ed i loro metodi d'assassini.
Ma per spiegare il fatto che queste bande e i loro capi hanno preso il peso e l'influenza che si sa, bisogna tornare alle ragioni di fondo : la crescente povertà, la disoccupazione massiccia, la situazione di crisi economica profonda che non offriva alcuna speranza alle classi popolari e invece eccitava la rapacità, intorno a questa magra torta, di tutti quelli che detenevano una parte del potere. Facciamo un semplice e misero esempio : ancora oggi, i dirigenti dello Stato bosniaco, ministri, dirigenti politici, sono preoccupati di contendersi... gli alloggi recuperati grazie alle posizioni acquisite nel corso della guerra.
Delle conseguenze presenti e future disastrose per l'insieme dei paesi balcanici
I dirigenti imperialistici si mostrano preoccupati per la stabilità degli Stati, ma si preoccupano innanzitutto degli interessi dei loro capitalisti. Si vede quanto hanno fatto caso della stabilità della Iugoslavia : l'hanno mantenuta nella povertà e l'arretramento e, nel momento della crisi, il loro peso ed i loro mezzi sono stati messi al servizio della politica più nociva alla sua unità, quelli del sostegno ai vari dirigenti nazionalisti, che portava alla sua distruzione. L'ex-Iugoslavia nel suo complesso, all'uscita degli anni di guerra e della pace di Dayton (novembre 1995), era già dissanguata. Ne risultano parecchie centinaia di migliaia di morti, parecchi milioni di persone "spostate", rifugiate, esiliate, delle economie dalle dimensioni ristrette nelle quali il poco che non è stato annientato viene appropriato e depredato dalle cricche mafiose, e dove l'apparato statale si riduce, nel senso letterale dell'espressione di Engels, a bande di uomini armati.
Ed oggi si arriva alla guerra della NATO in Serbia e nel Kosovo, in nome delle legge delle grandi potenze, che dà ancora più ampiezza alle sciagure subite dai popoli.
Ma il disastro è ancora più grave. Oggi, è tutta la regione dei Balcani che sta per essere progressivamente destabilizzata dall'intervento militare NATO.
Questo porta alla crescente militarizzazione di questi paesi. Già, la miserabile Albania è stata trasformata in una portaerei e in una guarnigione per conto degli Occidentali (non per il soccorso ai profughi !) ; in Macedonia ci sono più soldati occidentali di quanto non ne conta tutto l'esercito locale. E la maggior parte dei paesi dintorno sono stati portati, volenti nolenti, a mettere il loro spazio aereo ed una parte delle loro infrastrutture al servizio della NATO.
Dal punto di vista economico, in più dei danni subiti dall'economia della Serbia, gli scambi commerciali sono paralizzati, tra l'altro il traffico sul Danubio, portando alle più gravi conseguenze per le produzioni agricole e industriali di questi paesi già in preda alla miseria. La Macedonia, il cui maggiore mercato d'esportazione era la Serbia, sta sprofondando, l'Albania affonda più che mai nella miseria e il caos. Aldilà, i circuiti economici sono dislocati, la Romania, la Bulgaria chiedono aiuto.
Gli organismi finanziari dell'imperialismo, i governi dei paesi occidentali hanno la pretesa di lavorare a programmi di aiuti economici per il dopoguerra. Si è parlato di ricostruzione, di nuovo "piano Marshall"... L'ipocrisia di queste belle parole e di queste promesse è immensa, perché dietro c'è qualcosa che non è affatto destinata a soccorrere le popolazioni : cioè la fortuna delle nuove fonti di profitti per i "ricostruttori" capitalistici dopo i venditori d'armi , i Bouygues o Alcatel in quanto ai capitalisti francesi, e i banchieri dietro di loro. I creditori imperialistici non sognano neanche di abbandonare la presa : tutt'al più parlano di allegge rire un po' una parte del peso degli interessi del debito estero di alcuni dei paesi in causa... I paesi creditori del Club di Parigi hanno appena accettato un semplice rimando dei pagamenti dovuti dall'Albania e dalla Macedonia al titolo dei loro debiti esteri, e questo solo fino al 31 marzo 2000, mentre queste stesse Albania e Macedonia vengono lasciate praticamente sole dai paesi della ricca Europa di fronte al peso rappresentato dall'arrivo di parecchie centinaia di persone respinte dal Kosovo.
Il cinismo degli imperialisti non ha limiti.
E già si delinea la guerra economica tra pretendenti capitalisti per dividersi questa sanguinosa torta, la stampa economica non lo nasconde. Come era già stato il caso, solo in quanto alla Iugoslavia, nella Bosnia devastata, ma su scala ben più grande.
E non dimentichiamo le minacce di destabilizzazione interna in paesi come la Bulgaria, la Romania, la Grecia, i cui Stati fanno parte della NATO o chiedono di farne parte, mentre una parte della loro popolazione manifesta massicciamente contro i bombardamenti e a favore del popolo serbo, il che sta creando nuovi focolai di tensioni esplosive.
Questa nuova guerra porta solo morte e rovine a mo' di riconoscimento del diritto dei popoli all'auto determinazione, e inoltre non risolverà nessuno dei problemi esistenti, e certamente non quello della povertà e del sottosviluppo economico che ne sono alla radice. Al contrario, questi problemi saranno ancora aggravati, e nello stesso modo questi paesi sprofonderanno sempre di più in uno stato di dipendenza e di sottomissione alle potenze imperialistiche. I popoli dei Balcani non hanno finito di pagare un prezzo salato per questa guerra che viene condotta innanzitutto contro loro.
I rivoluzionari e i diritti dei popoli dei Balcani
Ai popoli dell'ex-Iugoslavia, non è stata lasciata nessuna scelta. Dall'alto, l'Europa che si dice unita e lo è solo al livello dei suoi finanzieri conduce una guerra contro i suoi popoli tra i più piccoli e più poveri. Le grandi potenze d'Europa occidentale hanno sempre fatto la politica contraria di quella che sarebbe stata utile dal punto di vista degli interessi dei popoli. E nella regione stessa, solo delle politiche nazionalistiche rivali sono state presentate, o meglio imposte, ai popoli. Questi sono rimasti vittime e ostaggi, ben più che attori volontari dei conflitti, non hanno avuto altra scelta politica che tra i nazionalismi esacerbati.
Per i rivoluzionari comunisti, questo problema non è nuovo.
Pur lottando per il rovesciamento dell'ordine borghese, del sistema di sfruttamento capitalistico, che mantengono e rinnovano in permanenza tutta una serie di oppressioni ed ingiustizie, è chiaro che non possono ignorare la forza dei sentimenti e delle pregiudiziali di tipo nazionale. Si può constatare l'esistenza di tali pregiudiziali nella vita quotidiana di molti paesi, senza parlare dei periodi storici in cui diventano drammaticamente nocivi -quando la crisi economica, l'estensione della disoccupazione, della miseria e della disperanza prendono dimensioni catastrofiche e quando demagoghi tali Le Pen possono servirsene ed aggravarli.
Di fronte a questi problemi, i rivoluzionari comunisti hanno una risposta da offrire ai popoli, e da molto tempo.
All'inizio di questo secolo, i movimenti socialisti che si sviluppavano sotto la bandiera del marxismo nei giovani Stati del Sud-est europeo, Bulgaria, Romania, Serbia, e miravano a combattere l'ordine sociale esistente, responsabile del sottosviluppo di questa regione tanto desiderata dalle grandi potenze, furono immediatamente a confronto con la questione nazionale. Nel pieno rispetto dei principi dell'internazionali smo, e in reazione contro i nazionalismi presenti, si appoggiarono sul principio del diritto dei popoli all'autodeterminazione ed a creare degli Stati nazionali per portare avanti l'idea di una Federazione delle repubbliche democratiche balcaniche, che raggruppasse l'insieme delle nazionalità che vivevano nel Sud-Est europeo.
Sapevano benissimo che anche la rivoluzione sociale non poteva bastare a fare sparire da un giorno all'indomani le pregiudiziali nazionali, ma si ponevano dal punto di vista del loro interesse comune ed avevano a cuore di proporre una prospettiva all'insieme dei popoli oppressi dei paesi balcanici -che furono sempre tutti più o meno oppressi alla loro volta-, una prospettiva di coabitazione fraterna.
Tale programma è sempre tragicamente attuale.
Una coabitazione fraterna e durevole tra i popoli dei Balcani non è una prospettiva utopica, a condizione che si imponga la volontà politica, chiara e ferma, di porsi al servizio dell'interesse comune dei popoli.
Un potere che difenda gli interessi reali di queste popolazioni mescolate condurrebbe una politica volontaria al servizio della loro coesistenza pacifica.
Diciamo subito che, lungi dal cercare qualsiasi sterile omogeneizzazione etnica, dal mirare una qualsiasi uniformazione, i rivoluzionari comunisti, ovviamente, vedono nella varietà dei popoli, una fonte di arricchimento di cui la collettività potrebbe approfittare in tutti gli aspetti della sua vita sociale.
Tale potere, al servizio delle classi popolari, che si darebbe subito i mezzi di fare tavola rasa del vecchio dominio delle classi privilegiati, sarebbe almeno capace di attaccarsi alle radici del sottosviluppo economico, generatore di miseria e disuguaglianze sociali. La sua volontà verrebbe dedicata in particolare al ricercare le vie per superare le disuguaglianze nello sviluppo delle diverse regioni, per sopprimere le fonti economiche delle disuguaglianze nella sorte materiale delle differenti comunità. Ma è chiaro che tale politica dovrebbe contemporaneamente trovare una risposta al problema dei pregiudizi nazionali, la cui scomparsa può essere solo progressiva, anche dopo una rivoluzione sociale.
Questa politica comincerebbe coll'affermare, con atti e non solo con parole, il diritto di tutti i popoli, anche i più minoritari, di decidere del loro avvenire, il diritto di separarsi o invece, di unirsi con chi vogliono, il diritto al rispetto delle loro preferenze linguistiche, pur nella convivenza con i loro vicini diretti o meno, per gli aspetti della vita economica e sociale che esigono una scala più vasta.
E un potere socialista, comunista, si darebbe nello stesso tempo il compito di combattere i pregiudizi nazionali, gli oscurantismi che li rafforzano e che mettono i popoli gli uni contro gli altri ; si preoccuperebbe di incoraggiare e promuovere, con la sua politica, con l'educazione e la propaganda, l'accesso alla cultura, tutte le tendenze alla cooperazione tra i popoli.
No, gli odi nazionali e le guerre interetniche, dietro alle quali si ritrova sempre il gioco delle grandi potenze, non sono una "fatalità", non di più nei Balcani che altrove. Ma la politica proposta dai rivoluzionari comunisti è l'unica che può aprire la prospettiva di un futuro che ne sarebbe liberato. Perché si vede come, sotto il giogo dell'imperialismo e dei suoi rappresentanti locali, ogni "soluzione" è solo un'illusione, quando poi non porta a attizzare il fuoco ed a peggiorare sempre di più la sorte dei popoli.
(5 maggio 1999)