24 ottobre 2005
(Testo approvato dal 97% dei delegati presenti al congresso)
A giudicare dai commenti della stampa, l'evento più notevole dell'anno 2005 sarebbe il referendum sulla Costituzione europea del 29 maggio, che avrebbe rappresentato un sisma politico. Ma ciò sarebbe attribuire un'importanza esagerata ad una semplice peripezia politica.
Scegliendo di sottomettere il progetto di Costituzione europea a referendum, nel luglio 2004 mentre tutti i sondaggi davano il "sì" largamente maggioritario, Chirac voleva solo far plebiscitare la sua persona e la sua politica, e costringere il Partito socialista, tradizionalmente favorevole a tutti i testi che tendono ad organizzare l'Europa così come la vogliono i capitalisti, ad approvare la sua politica.
La campagna per il referendum ciononostante ha dato luogo in seno al Partito socialista ad un nuovo episodio della guerra tra dirigenti che ha ben più a che vedere con la preparazione della prossima elezione presidenziale che col funzionamento dell'Unione europea. In questa occasione Fabius ha cercato di scavalcare i suoi concorrenti sostenendo il rigetto della Costituzione europea e presentandosi come il più capace di "riunire la sinistra", come lo indica il titolo della sua mozione.
La campagna referendaria ha visto costituirsi una specie di consorzio di quelli che si proclamavano fautori di un "no di sinistra", che riuniva i dirigenti socialisti favorevoli al "no", una minoranza dei Verdi, il Partito comunista francese e la LCR (anche se chiaramente la presenza del suo portavoce non sempre era benvenuta nei comizi a cui partecipavano alcuni dirigenti socialisti).
Ma le nostre ragioni di chiamare a votare "no" non erano le stesse di quelle del PCF, e a maggior ragione di Fabius. E per quanto ci riguarda ci siamo rifiutati di confluire in questo consorzio dei no et di dare la nostra legittimazione ad uomini politici che ancora poco prima avevano responsabilità ministeriali in governi che conducevano una politica antioperaia.
La maggioranza dei lavoratori ha votato a giusto titolo contro un testo reazionario, che in materia di "Europa sociale", anziché mirare ad unificare i diritti dei lavoratori al livello più alto, al meglio cercava di legittimare lo status quo e non riconosceva neanche ai cittadini europei... e soprattutto alle cittadine, diritti elementari come il diritto al divorzio, alla contraccezione ed all'interruzione volontaria di gravidanza. Ma all'evidenza, questi aspetti reazionari del progetto di costituzione non sono le sole ragioni che hanno portato la maggioranza dei lavoratori a condannarlo. I timori che suscita nel mondo del lavoro la costruzione di istituzioni europee, di cui anche i sedicenti fautori dell'Europa fanno volentieri un capro espiatorio, responsabile di tutti i mali, per nascondere le responsabilità dei governanti e delle classi dirigenti francesi, hanno chiaramente avuto la loro parte in questo rigetto. Come anche il desiderio di sconfessare Chirac e Raffarin nelle urne.
Ciononostante, sarebbe uno sbaglio dire che il "no" al referendum è stato un "no di sinistra", poiché il rigetto del progetto di costituzione da parte della maggioranza del mondo del lavoro non sarebbe bastato ad assicurare la "vittoria del no" se tutta una parte dell'elettorato di destra e di estrema destra, quello che segue i Le Pen e i de Villiers non avesse, per tutt'altre ragioni, votato allo stesso modo.
A destra, la sconfitta del referendum è stata uno scacco personale per Raffarin e Chirac. Il primo è uscito di scena. Il secondo ha dovuto risolversi a fare del suo rivale Sarkozy il numero due del nuovo governo, al posto chiave, per quanto riguarda la preparazione di future elezioni, di ministro degli Interni.
Ma il vedere in tali eventi, in seno al PS come in seno all'UMP, i segni di una crisi politica della borghesia francese, vuol dire scambiare i fremiti che agitano la superficie dell'acqua con una tempesta. Le classi dominanti non hanno nessuna ragione di preoccuparsi per tale questione. A lei importa poco il nome del futuro inquilino dell'Eliseo. Tutti i candidati che hanno qualche possibilità di vincere, sia Sarkozy che Villepin, Fabius, Hollande o Strauss-Kahn, senza dimenticare Bayrou e Segolène Royal, sono fedeli servitori degli interessi della borghesia. Senza voler risalire ancora di più nel passato, dall'elezione di Mitterand nel 1981, i cambiamenti di formule governative sono stati numerosi, senza mai mettere in discussione la continuità di una politica che mira solo a difendere gli interessi del grande padronato.
Lo scacco subito dal "sì" al referendum, se ha portato alla partenza di Raffarin, non ha comportato più cambiamenti della politica governativa di quanto lo avevano fatto gli scacchi subiti dalle destre alle elezioni regionali, cantonali ed europee del 2004. Non solo il governo Villepin prosegue nella stessa politica antioperaia di quello di Raffarin, al servizio del grande padronato, ma in un contesto in cui tutti i sondaggi indicano che gli indici di popolarità del presidente della Repubblica e del primo ministro sono al punto più basso, esso moltiplica le attenzioni ed i regali verso la piccola e media borghesia, lusinga con i discorsi xenofobi sulla sicurezza di Sarkozy e di ben altri ministri la parte più reazionaria dell'elettorato, in previsione delle future scadenze elettorali.
L'elemento più significativo dell'attuale situazione economica è la debolezza della crescita, inferiore da anni a quella della maggior parte dei paesi europei, paragonata all'aumento vertiginoso dei profitti delle grandi imprese. Tale progressione è il risultato dell'offensiva incessante che il padronato conduce da anni contro la classe operaia, con aiuto di tutti i governi successivi, al di là del colore politico che rivendicano.
La borghesia per aumentare i profitti non punta all'espansione del mercato. Non investe più, nella maggioranza dei settori, in attrezzature produttive. Al contrario, preferisce tirare il massimo da quelle esistenti, come lo mostra il ricorso sempre più frequente al lavoro di notte. Secondo uno studio governativo, nel 2002 il 14, 3% dei salariati lavorano di notte (contro il 13% nel 1991), il 20,3% degli uomini (contro il 18,7%) e il 7,3% delle donne (contro il 5,8%). Lo stesso studio nota che "paradossalmente il lavoro di notte diminuisce nei settori come la sanità che non possono farne a meno e aumenta in settori industriali nei quali sembra meno indispensabile sul piano tecnico e dove altri modi di organizzazione sono stati possibili in passato. In tali settori l'allungamento dell'utilizzazione dei macchinari corrisponde più ad una ricerca di crescita della redditività economica che ad imperativi tecnici", e constata che "i salariati(e) di notte cumulano orari variabili e di fine settimana".
La borghesia tira sempre più plusvalore dalla frazione della classe operaia in attività, tramite l'aumento dell'intensità del lavoro. Nel nome del"l'abbassamento del costo del lavoro", ha ottenuto dai governi successivi non solo importanti sgravi degli oneri sociali, ma anche un abbassamento dei salari reali, degli stessi lavoratori che hanno avuto la fortuna di conservare il loro posto di lavoro. Poiché se i salari nominali ristagnano (al di fuori delle imprese che ne hanno imposto un abbassamento col ricatto sul posto di lavoro), se l'inflazione resta moderata (almeno secondo gli indici ufficiali che sottovalutano o non tengono conto degli aumenti di alcuni prodotti), l'aumento del prezzo del petrolio, del gas, degli affitti, della frutta e delle verdure, e l'aumento delle spese per la salute delle famiglie dei lavoratori legato alla "riforma" della previdenza sociale, comporta un abbassamento del potere d'acquisto reale.
Se il governo pretende fare della lotta per il lavoro la sua priorità, tutte le misure prese, a cominciare dal "contratto per le nuove assunzioni" di Villepin, portano solo a generalizzare la precarietà. La categoria dei "lavoratori poveri", ridotti alla condizione di senzatetto perché non hanno neanche i mezzi di trovare un alloggio aumenta tanto più che la speculazione edilizia, facendo aumentare i prezzi degli appartamenti come degli affitti rende sempre più difficile alle famiglie di lavoratori di accedere ad un alloggio.
Pretendendo di lottare contro gli abusi, il governo ha lanciato una campagna contro i disoccupati e ha messo in piedi un sistema di pressione che mira a fargli accettare qualsiasi posto di lavoro, qualunque sia il salario, dovunque si trovi, pena l'esclusione dal collocamento. È un modo per sgonfiare artificialmente le cifre della disoccupazione e nello stesso tempo per procurare al padronato una manodopera a buon mercato.
Durante un certo periodo molti pensionati avevano la possibilità di aiutare finanziariamente i figli o i nipoti che non riuscivano a trovare un lavoro. Questi tempi ormai sono passati. Una parte rilevante dei pensionati, a causa del nuovo modo di calcolo delle pensioni e del fatto che in fine carriera hanno attraversato periodi di disoccupazione, ricevono pensioni insufficienti. Il governo ha l'intento di varare delle misure che li spingerebbero a riprendere un'attività salariata, il che costituisce un altro modo per fornire al padronato manodopera a buon mercato.
Se il cosiddetto disavanzo "abissale" della previdenza sociale serve da pretesto per diminuire continuamente le prestazioni, lo Stato non dimostra lo stesso rigore quando si tratta del suo bilancio. Malgrado l'istituzione nel 1996 della CRDS (contributo al rimborso del debito sociale), col pretesto che il debito pubblico rappresentava allora il 57% del PIL, questo oggigiorno ammonta al 65%, raggiungendo globalmente la cifra veramente "abissale" di 1000 miliardi di euro, nonostante lo Stato consacri sempre meno fondi al funzionamento dei servizi pubblici essenziali, che si tratti della sanità o delle scuola, così come non interviene per sviluppare i trasporti pubblici nelle grandi agglomerazioni urbane, o per la costruzione di alloggi accessibili ai lavoratori in quantità sufficiente per far fronte alla situazione attuale.
La ragione di questa situazione è semplice. La borghesia trae sempre più i profitti dagli aiuti diretti e indiretti che i poteri pubblici (non solo lo Stato, ma anche i consigli regionali, i consigli provinciali e le municipalità delle grandi città) gli offrono a fondo perduto col pretesto di aiutarla a creare posti di lavoro. D'altronde una parte di queste spese sono finanziate tramite privatizzazioni di imprese pubbliche, che consistono ad offrire agli acquirenti imprese immediatamente redditizie, senza dover prendere nessun rischio. Ma la cessione di queste imprese da parte dello Stato, che non costituisce una risorsa inesauribile, non gli permette neanche di equilibrare il suo bilancio.
Di fronte a questa situazione, il PS ed il PCF non offrono altra prospettiva ai lavoratori che di aspettare il 2007 e di votare come si deve. Una vittoria della sinistra alle future elezioni presidenziali, vale a dire del Partito socialista, poiché né il PCF né i Verdi possono pretenderla, evidentemente non è esclusa. La destra, con le sue misure e con la sua arroganza è d'altra parte il suo miglior agente elettorale, spingendo buon numero di lavoratori a pensare che col Partito socialista la situazione sarebbe comunque meno peggio. Ma oltre al fatto che tale eventualità non è per nulla sicura (poiché la sinistra è generalmente minoritaria in Francia), tutte le esperienze passate, dal 1981 in poi, dimostrano che "l'alternanza" è in realtà una continuità quando la sinistra succede alla destra all'Eliseo o al governo.
Nei confronti delle diverse misure prese dal 2002 dai governi Raffarin e Villepin, si cerca invano nelle dichiarazioni di Hollande, primo segretario del Partito socialista, il minimo impegno preciso ad annullare le misure prese dalla destra dal 2002 in poi. Di fronte ai militanti parigini del suo partito riuniti alla Mutualité, Hollande ha esclamato: "se il nostro progetto fosse un succedersi di abrogazione, perché avremmo bisogno di un congresso?", il che è un modo di affermare che per lui, il prossimo congresso del partito socialista non si impegnerà ad annullare le decisioni di Raffarin e di Villepin più di quanto Jospin non avesse annullato la "riforma" delle pensioni di Balladur.
Quanto al suo rivale Fabius, se dichiara "abrogheremo la legge Chirac-Fillon", è per aggiungere subito dopo "(noi) apriremo negoziati (...) la questione del calcolo delle pensioni sui dieci migliori anni (...) dovrà essere discussa nella discussione che avremo con le parti sociali". In altre parole, Fabius sarebbe pronto a tornare indietro sulla legislazione delle pensioni... se il padronato fosse d'accordo. E quando si pronuncia per la rivalutazione del salario minimo, propone per il 2007 una cifra che corrisponde esattamente a quella che, se l'inflazione si manterrà al debole livello attuale, tale salario raggiungerà comunque con l'applicazione delle regole di calcolo già in vigore. I lavoratori non hanno nulla da aspettarsi né da lui, né dagli altri dirigenti del Partito socialista.
Ufficialmente, il Partito comunista non ha ancora deciso se presentare o no un suo candidato nel 2007. Il non essere presente fin dal primo turno di fronte al Partito socialista dispiacerebbe ovviamente ad una buona parte dei suoi militanti e lo farebbe scomparire dalla scena politica durante la campagna elettorale. Ma ciò presenterebbe il vantaggio di facilitare la presenza del candidato socialista al secondo turno (e di non ripetere lo scenario del 2002)... e di evitargli di dover contare il suo elettorato in quel contesto difficile. Ma qualunque sia la sua decisione, la sua sola prospettiva, in quanto "partito di governo", vale a dire candidato alla gestione degli affari della borghesia, è una nuova versione del "l'unione delle sinistre", o della "sinistra plurale", qualunque sia il nome che si darà (ma ci vorrà molta immaginazione per trovare un'appellazione veramente originale).
Il PCF conosce troppo bene l'aritmetica elettorale per escludere i dirigenti socialisti (la maggioranza) che hanno fatto campagna per il "sì", ed anche se Fabius aspira ad essere il candidato del PS, né lui né i suoi mezzi-alleati alla Melenchon o alla Emmanuelli, terranno un ragionamento diverso. E' per questa ragione che tutti quelli che sognavano una "ricomposizione della sinistra", con i soli elementi che avevano scelto il "no" al referendum, saranno delusi.
L'unico atteggiamento possibile per noi; come rivoluzionari, lontani dalle nebbie opportuniste, sarà di tenere di fronte ai lavoratori il linguaggio della verità, vale a dire di presentare una candidatura di Lutte Ouvrière.
Ma non è nel campo elettorale che i lavoratori potranno imporre una battuta d'arresto all'offensiva che il padronato ed il governo conducono senza tregua contro il mondo del lavoro. Solo una risposta massiccia della classe operaia potrà costringere questi ultimi ad indietreggiare. Ed è tale risposta che bisogna preparare. Ma sfortunatamente non è in questa direzione che si impegnano le direzioni delle grandi confederazioni sindacali.
Se molti militanti operai sono demoralizzati, se la grande massa dei lavoratori non vede come uscire da questa situazione, la combattività operaia non è per questo nulla. L'anno scorso ha visto svolgersi un gran numero di lotte, anche se riguardavano spesso solo un piccolo numero di lavoratori. Alcune erano lotte difensive, condotte con le spalle al muro in imprese minacciate di chiusura o di piani di riduzione dei posti di lavoro. Ma altre erano lotte per migliori condizioni di lavoro, o per i salari, ed alcune sono state vittoriose poiché il padronato ed il governo sanno che reazioni vigorose della classe operaia sono sempre possibili. I lavoratori della SNCM hanno scioperato per quattro settimane e se alla fine sono stati battuti, hanno comunque obbligato il governo a modificare il suo piano di privatizzazioni. Le giornate di mobilitazione e di manifestazioni del 10 marzo, del 4 ottobre, hanno conosciuto un certo successo. Ma tra queste date non è successo nulla. Il fatto è che per le direzioni sindacali l'obiettivo di tali giornate non era di ridare fiducia nelle proprie forze ai lavoratori per preparare la controffensiva generale del mondo del lavoro che la situazione esige, ma di potersi sedere intorno al tavolo verde con i rappresentanti del governo ed il padronato, di essere riconosciuti come interlocutori. Eppure non saranno tali discussioni a potere far indietreggiare il padronato ed il governo, bensì ma solo una lotta di classe.
La lotta dei lavoratori della SNCM, proprio per aver dato prova di una grande combattività e di determinazione fino al momento in cui il governo ed i dirigenti dell'impresa hanno brandito la minaccia del licenziamento di tutto il personale, ha dimostrato che non è col lasciare la lotta confinata in una sola impresa che si può far indietreggiare padronato a governo. Non c'è altra strada che la preparazione di una risposta di tutta la classe operaia agli attacchi di cui è vittima.
Siamo un gruppo ben troppo piccolo per poter colmare le carenze degli apparati sindacali, e proporre con qualche possibilità di successo un piano di mobilitazioni che miri, attraverso successi parziali, a vincere i dubbi degli esitanti, a ridare all'insieme dei lavoratori la convinzione che con la lotta è possibile cambiare il rapporto di forze tra la classe operaia ed i suoi sfruttatori. Ma la paziente attività che abbiamo condotto da anni per radicare militanti operai rivoluzionari nelle grandi imprese può metterci in situazione di dirigere lotte locali che potranno essere altrettanti incoraggiamenti ai lavoratori di altre imprese.
E' per questo che, qualunque siano le scadenze elettorali, il reclutamento e la formazione politica di giovani lavoratori e di giovani intellettuali totalmente dedicati alla classe operaia, e l'attività nelle imprese, resteranno al cuore delle nostre preoccupazioni nel prossimo anno.