Gli attentati di New York e Washington, le manovre diplomatiche e le operazioni militari che ne sono conseguite non costituiscono una svolta nelle relazioni internazionali, ma sono un rivelatore.
Le espressioni usate dai dirigenti americani e riportate con compiacenza dai mass media, del tipo "nuova forma di guerra" o "la prima guerra del 21° secolo" sono tanto interessate quanto stupide. Interessate perché mirano ad incanalare dietro la politica internazionale dell'imperialismo americano l'emozione dell'opinione pubblica americana dopo gli attentati. Stupide perché il terrorismo e, più in generale, l'esistenza di gruppi e movimenti terroristi certamente non sono una novità. E non lo è neanche l'esistenza di gruppi armati al di fuori delle "bande armate" ufficiali che sono gli Stati moderni.
L'ordine imperialista mondiale, che mira a preservare il diritto dei grandi gruppi capitalisti a saccheggiare il mondo, poggia su una moltitudine di forme d'oppressione, sulla negazione di una moltitudine di diritti nazionali e democratici. Ha sempre suscitato reazioni e provocato resistenze, tra l'altro innumerevoli forme di azioni armate, con i più vari obiettivi politici, praticando la guerriglia e usando qualche volta il terrorismo -e vedere una differenza tra queste due cose è qualche volta artificiale. Anche Stati imperialisti così ben radicati come lo Stato britannico o lo Stato spagnolo non sono riusciti a sradicare il terrorismo dal proprio territorio, il primo in Irlanda del Nord e il secondo nel Paese basco. Si può anche ricordare che lo Stato israeliano stesso, i cui capi guidano la repressione contro il popolo palestinese col pretesto della "lotta al terrorismo", si è imposto all'inizio con il terrorismo contro i Palestinesi, ma anche contro le truppe britanniche. Situazioni d'oppressione senza speranza come quella del popolo palestinese o quella del popolo curdo, sono un terriccio fertile per organizzazioni politiche con metodi terroristici.
Spesso in alcune regioni d'Africa si creano perfino delle situazioni in cui le bande armate costituitesi su basi regionali o etniche rappresentano forze tanto importanti quanto gli Stati ufficialmente riconosciuti, o addirittura prendono il posto di apparati di Stato smembrati. E non parliamo di altre forme di terrorismo o di guerriglia, che esprimono ancora di più la putrefazione del sistema imperialista, quali il narcoterrorismo o le narcoguerriglie, dalla Colombia ad alcune regioni del Sudest asiatico.
Anche solo il mezzo secolo che seguì la seconda guerra mondiale, quindi periodo di "pace" o di guerra solo fredda, ha visto più di un centinaio di conflitti armati relativamente importanti, dagli interventi militari diretti dell'imperialismo alle guerre locali. Alcuni hanno colpito l'opinione pubblica occidentale. Altri si sono svolti senza sollevare nessun interesse da parte dei mass media. Ma per le popolazioni coinvolte, anche le guerre ignorate in occidente sono guerre. Parlare di un "periodo di pace" dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi echeggia come un sinistro scherzo, perché le guerre locali e i conflitti armati incessanti hanno fatto più vittime della Prima guerra mondiale. L'imperialismo è di per se portatore di guerra.
Durante gli anni della guerra fredda, l'opposizione dei due blocchi nascondeva alcuni di questi conflitti : altri sembravano derivare dalla divisione del mondo in due. Non fu più così dopo il crollo dell'Unione sovietica. Le guerre locali o il terrorismo, come peraltro le attività armate delle mafie o dei boss della droga, appariscono sempre più per quel che sono : i sottoprodotti di un ordine internazionale iniquo.
Se gli attentati di New York e Washington hanno potuto impressionare l'opinione pubblica americana, per causa del loro carattere spettacolare ma anche perché per la prima volta l'imperialismo americano è stato colpito sul proprio territorio, non segnano alcuna fase nuova delle relazioni internazionali. I bombardamenti sull'Afghanistan, a cui si cerca di dare una legittimazione con questi attentati, si collocano nella lunga serie degli interventi dell'imperialismo americano, e sono della stessa natura dell'intervento contro l'Iraq nel 1991, in Somalia nel 1992, del bombardamento del Sudan nel 1998, dei bombardamenti della Serbia nel 1999, per parlare soltanto dei dieci anni appena scorsi.
Le reazioni popolari suscitate dagli attentati dell'11 settembre e, innanzitutto, dalle operazioni militari contro l'Afghanistan, sono anche stati rivelatori del sentimento di odio suscitato dalla dominazione imperialista, e non solo nella zona a popolazione araba o musulmana, aldilà della forma politica assunta dall'espressione di questo odio. Se un piccolo gruppo deciso, con l'aiuto delle possibilità finanziarie di un miliardario, può eseguire attentati come quelli di New York e Washington, quelli che li hanno attuati si sono appoggiati su sentimenti molto diffusi che hanno incanalato a loro favore.
Dato il ruolo dell'imperialismo americano nel sistema di dominazione imperialista, questo sentimento d'odio si esprime innanzitutto come un sentimento antiamericano. Gli imperialismi americano, francese, britannico, giapponese, ecc, si differenziano però gli uni dagli altri solo per i loro rispettivi mezzi e possibilità, e non affatto per la natura del loro ruolo in questo sistema e per la loro politica. Bisogna condannare ogni tentativo che, col denunciare il solo imperialismo americano, mira ad assolvere le responsabilità dell'imperialismo francese.
Il sostegno dato ai gruppi terroristici, islamisti tra gli altri, da una parte della popolazione povera del mondo, non giustifica per niente la loro politica. Quando è individuale, il terrorismo è l'arma dei poveri. Quando viene istituito come metodo di lotta sistematico o perfino come politica, mira sempre ad ingannare le masse. Al meglio, il radicalismo armato serve a nascondere l'assenza di radicalismo sul terreno sociale, il terreno di classe. Ma molto spesso il terrorismo serve ad imporre una dittatura, prima su quelli stessi che ne sono gli esecutori, per poi preparare l'instaurazione di una dittatura su quelli in nome di chi afferma di combattere. Di più, nel caso dei gruppi armati islamisti, gli obiettivi politici sono particolarmente reazionari, tanto nel campo politico quanto nel campo sociale. Gruppi come quello di Bin Laden o, più vicino, il GIA (Gruppo islamista armato) algerino, sono nemici feroci del proletariato.
Dato il carattere reazionario dei gruppi integralisti islamici in generale e delle loro forme più recenti quali i talebani o Bin Laden in particolare, gli strateghi dell'imperialismo li hanno usati, in passato, prima che gli sfuggano.
Nel caso dell'Afghanistan, i servizi segreti americani hanno armato, finanziato ed incoraggiato i gruppi islamisti, direttamente o tramite il Pakistan o l'Arabia saudita, per opporsi all'influenza dell'Unione sovietica. Ma l'utilizzo di tali forze politiche ubbidisce a meccanismi politici che la scomparsa dell'URSS non ha fatto sparire.
Nessuna potenza imperialista, neanche gli Stati-Uniti, unica superpotenza dopo la frantumazione dell'Unione sovietica, può garantire l'ordine mondiale solo con le sue proprie forze. Alla ricerca di forze politiche favorevoli al suo dominio, l'imperialismo è naturalmente portato a sostenere le forze più reazionarie.
All'indomani della Seconda guerra mondiale, la coalizione imperialista vittoriosa riuscì ad allontanare la minaccia di un'ondata rivoluzionaria proletaria simile a quella che seguì la Prima guerra mondiale. Ci riuscì grazie alla collaborazione del riformismo, tanto quello socialdemocratico quanto quello stalinista, che durante e dopo la guerra fece tutto il possibile per impedire la nascita di una coscienza rivoluzionaria nel proletariato. All'inganno, i vincitori aggiunsero la violenza : il bombardamento di Dresda o le bombe atomiche su Hiroshima non miravano a sconfiggere Hitler o Hiro-Hito, bensì a smembrare le concentrazioni operaie e terrorizzare i popoli e convincerli che ogni tipo di ribellione fosse impossibile.
Gli imperialismi vittoriosi non furono in grado però di evitare che immense masse dei paesi sottosviluppati si muovessero per por fine alla forma politica più umiliante della dominazione imperialista, la dominazione coloniale o semi coloniale.
I movimenti d'emancipazione dei paesi del terzo mondo impressero il loro segno sulla situazione mondiale per parecchi decenni. Le direzioni nazionaliste di questi movimenti non miravano a rovesciare la dominazione imperialista sul mondo. Cercavano di arginare la classe operaia dei loro propri paesi e di sottometterla alla dominazione di apparati statali rappresentanti degli interessi di classe della loro borghesia. Queste forze pur rivoluzionarie che fossero, nel senso di appoggiarsi sulle masse mobilitate e di essere portatrici di trasformazioni sociali, nondimeno erano profondamente ostili ad una politica di classe del proletariato, l'unica classe capace di portare la lotta contro la borghesia imperialista nel cuore stesso delle sue roccaforti politiche, economiche ed industriali.
L'imperialismo venne finalmente ai patti, rapidamente o dopo anni di affrontamenti, con i regimi sorti da questa ondata di "rivoluzioni coloniali". Pur senza minacciare l'imperialismo nelle sue fondamenta, i regimi sorti da questi movimenti d'emancipazione poggiavano su un largo consenso popolare che gli consentiva di contestare la dominazione politica diretta dell'imperialismo sui loro paesi e di allentare il suo controllo economico. Le potenze imperialiste, le loro diplomazie e servizi segreti erano particolarmente sensibili al rischio rappresentato da queste forze e cercavano di ostacolare la loro ascesa al potere. Nell'ambito dei due blocchi, a questa preoccupazione si aggiungeva quella di non lasciare questi paesi cadere nel campo sovietico o comunque trovarci i mezzi militari e diplomatici per giocare un ruolo autonomo.
Durante parecchi decenni, il filo conduttore della politica imperialista fu di ostacolare queste forze ; quando si riferivano abusivamente al comunismo come in Cina o nel Vietnam ; quando lo rivendicarono solo alla fine di un'evoluzione, come a Cuba ; o quando rimanevano sul terreno del nazionalismo radicale, come Nasser in Egitto o Sokarno in Indonesia.
Per questo obiettivo, l'imperialismo aveva una predilezione per le forze militari locali, finanziate, armate e qualche volta direttamente inquadrate. Dall'America latina all'Indonesia o all'Iran i tentativi di riforma agraria o di nazionalizzazione di questa o quella risorsa locale controllata dai gruppi imperialisti furono soffocate nel sangue da colpi di Stato militari.
La seconda guerra imperialista mondiale era stata presentata, con la complicità della socialdemocrazia e dello stalinismo, come una battaglia del mondo libero contro la barbarie nazista. Ma, una volta che il regime nazista fu seppellito sotto le macerie della Germania distrutta, il "mondo libero" ebbe un aspetto democratico solo in una dozzina di ricchi paesi imperialisti. Di fronte alla dittatura staliniana sull'Unione sovietica e i paesi dell'Est europeo, il cosiddetto "mondo libero" era costituito da innumerevoli dittature militari e civili. Anche le vicinanze della "grande democrazia" americana erano dirette da rappresentanti così tipici del "mondo libero" quali Battista, Trujillo, Duvalier, Somoza, senza parlare più tardi di Pinochet in Cile o dei seviziatori della soldatesca d'Argentina.
Però le stesse dittature militari non erano sempre affidabili per fare da basi locali alla dominazione imperialista. Qualche volta, le idee nazionaliste radicali trovarono un rifugio proprio nel seno dell'esercito, in generale al livello dei suoi capi intermedi. L'imperialismo americano ne fece l'esperienza prima in Egitto con Nasser, poi a vari gradi in Libia, Iraq, Siria o Etiopia. Per ostacolare l'influenza del nasserismo, accresciuta dall'intervento franco-israelo-britannico contro la nazionalizzazione del Canale di Suez, la Gran Bretagna prima, poi gli Stati Uniti, favorirono le forze islamiste.
Paradossalmente, fu precisamente questo corso reazionario delle cose su scala mondiale, segnato non solo dal riflusso di tutte le forze che -ben più spesso a torto che a ragione- si riferivano al comunismo, ma anche dal riflusso delle varie forme di terzomondismo, con gli aspetti antimperialisti della loro demagogia e qualche volta dei loro atti, che permise a queste forze reazionarie di darsi una base popolare.
Le prime forme dell'integralismo islamico, come i fratelli musulmani in Egitto, passavano ancora all'epoca per forze strumentalizzate dall'Occidente, e infatti lo erano. Coll'indietreggiare delle varie forme di nazionalismo "progressista", la demagogia integralista islamica ebbe tanto più facilmente un riscontro, in quanto le ingiustizie e disuguaglianze provocate dalla dominazione imperialista spingevano nuove generazioni a cercare un diversivo.
L'imperialismo subì il primo scacco di questi anni con Khomeiny. L'ayatollah reazionario era visto con favore dalle parti dell'imperialismo francese che lo accolse prima del duo ritorno dall'esilio, nonché dalle parti delle altre potenze, quando lo scià, protetto dagli Stati Uniti, apparse incapace di fermare l'ascesa rivoluzionaria che stava per abbatterlo.
Dopo l'arrivo al potere degli ayatollah, ancora una volta si poté verificare questa contraddizione di fronte alla quale si trovano le potenze imperialiste : i regimi -o le forze politiche sulle quali si appoggiano-, quando trovano una base politica, finiscono col riflettere, fosse in modo deformato o perfino reazionario, le frustrazioni e gli odi provocati da questa dominazione imperialista.
Per il momento, gli attentati dell'11 settembre hanno cristallizzato un certo numero di evoluzioni, rafforzato delle alleanze o ne hanno saldato altre che si stavano preparando. L'aspetto più notevole è la vasta coalizione di governi formatasi ed accodatasi all'imperialismo americano. Non è sicuro però, in caso di prolungamento dei bombardamenti sull'Afghanistan, che questa coalizione sarà duratura. Perché questo accodamento generale dei governi non significa accodamento dei popoli e, per molti regimi, il sostegno agli stati-Uniti sarà una nuova fonte di tensione.
I bombardamenti sull'Afghanistan non sono ignobili solo perché fanno pagare gli attentati sul territorio americano alla popolazione civile di uno dei paesi più poveri del mondo. Di più, non hanno nessuno obiettivo reale dallo stesso punto di vista degli interessi dell'imperialismo nella regione perché mirano innanzitutto a dimostrare alla popolazione americana stessa, e secondariamente all'opinione pubblica mondiale, che l'imperialismo americano non lascia gli attacchi senza risposta.
I bombardamenti sono completamente inadatti a risolvere il problema politico posto dal terrorismo dei gruppi integralisti islamici, e invece stanno creando altri problemi, prima nello stesso Afghanistan. Il rovesciamento del governo talebano in Afghanistan è l'unico obiettivo che i dirigenti americani si sono potuto inventare per giustificare l'operazione militare. Ma è un obiettivo che pone loro nuovi problemi politici, senza risolvere nessuno di quelli precedenti. Il governo talebano ebbe per anni l'accordo tacito della diplomazia delle potenze imperialiste, senza che questa abbia veramente qualche scrupolo rispetto al carattere reazionario del regime. Malgrado la finta indignazione retrospettiva, i dirigenti imperialisti non sono preoccupati né dalla sorte delle donne afgane, né dall'applicazione della sharia, né dalla dittatura esercitata dai talebani sul loro popolo. Gli Stati Uniti peraltro accettano benissimo tutto questo in altri luoghi, tra l'altro in Arabia Saudita il cui regime è praticamente tanto reazionario quanto quello dell'Afghanistan.
I Talebani avevano, agli occhi del mondo imperialista, il merito di avere stabilizzato la situazione in Afghanistan dopo gli anni di anarchia militare che seguirono la caduta del regime di Najibullah dopo l'evacuazione dell'esercito sovietico. L'incessante rivalità dei capi di guerra tratteneva l'instabilità nell'Afghanistan, nonché minacciava di destabilizzare tutta la regione. La reticenza delle potenze imperialiste nei confronti di Massud e della sua Alleanza del Nord prima degli attentati dell'11 settembre rifletteva la loro perplessità rispetto alla capacità di Massud di sostituire efficacemente i Talebani.
Adesso questa reticenza non è sparita completamente, nonostante la recente miticizzazione dell'uomo assassinato. L'Alleanza del Nord rimane una coalizione incoerente di capi di guerra rivali, per di più venuti da etnie minoritarie. Di più, il Pakistan, di cui gli Stati Uniti hanno bisogno nella guerra attuale, la considerano come una forza politica ostile ai suoi interessi.
Ma i dirigenti americani non hanno molte scelte. Sanno che non sarà la quantità di bombe lanciate su Kabul e Kandahar ad offrire loro la soluzione politica stabile che non hanno ancora trovata. Per il momento, gli Stati Uniti stanno cercando di inventare la quadratura del cerchio, cioè la combinazione politica con cui potranno affermare alla loro opinione pubblica che l'obiettivo sarà stato raggiunto e il regime talebano abbattuto, pur accettando di associare uomini venuti dal movimento talebano -se ne trovano- ad un futuro governo di coalizione. Ogni combinazione che apparirebbe troppo apertamente come un'emanazione degli Stati Uniti -anche se venisse sistemata con aiuto dell'ONU- rischia di prolungare la guerra e di minacciare gli Stati Uniti di impantanarsi.
Ovviamente l'imperialismo americano può rassegnarsi all'instabilità della situazione in Afghanistan. Ci sono nel mondo molti regimi poco stabili, o anche governi la cui influenza non va oltre i limiti della capitale dove hanno sede, e questo non impedisce all'imperialismo di vivere. Da molto tempo ha imparato a fare i conti con situazioni instabili. E gli esempi del Congo, del Liberia, o del Sierra Leone -per parlare solo di questi- dimostra anche che sa come ricavarne profitti. Durante le guerre locali e i massacri etnici, gli affari vanno avanti : lì con la droga, là con le pietre preziose di contrabbando, e col traffico d'armi, dappertutto.
Il pericolo di prolungare troppo l'intervento in Afghanistan è però di aggravare l'instabilità nei paesi vicini, strategicamente importanti per gli Stati-Uniti.
Prima nel Pakistan. Questo paese risulta, ricordiamolo, dalla sanguinosa divisione dell'ex impero britannico delle Indie, ed ha fatto a lungo da contrappeso all'imperialismo per pesare sulla politica dell'India, attratta da una forma di neutralismo. Il rientro dell'India nei ranghi portò gli Stati Uniti a prendere qualche distanza rispetto al Pakistan. Il regime militare pachistano fu ancora finanziato e sostenuto dagli Stati-Uniti, ma in modo più discreto. Per trovare un certo sostegno popolare su basi reazionarie, sviluppò una certa demagogia integralista e protesse le organizzazioni che la esprimevano.
Per disporre di una base d'attacco nel Pakistan, gli Stati Uniti sciolsero le poche sanzioni economiche decise in passato, sbloccarono crediti supplementari ed esigerono dai dirigenti pachistani un accodamento completo dietro loro. Questo ovviamente mette il regime militare in una posizione difficile. Benché sembri che fino a questa parte riuscisse ad arginare le organizzazioni integraliste islamiche, la situazione rimane sotto la minaccia di una destabilizzazione.
Per di più, la presa di posizione più aperta a favore del regime pachistano potrebbe sconvolgere il complicato equilibrio tra questo paese e l'India. Anche se il governo indiano partecipa pienamente alla cosiddetta alleanza antiterroristica al lato del nemico giurato quale il Pakistan -col quale prosegue una guerra interminabile per il controllo del Kashmir-, questa situazione potrebbe alimentare un altro fondamentalismo nella regione, quello degli induisti in India, in ascesa anche lui.
Il pericolo di destabilizzazione è anche grande per l'Arabia saudita, che con Israele è l'elemento decisivo del sistema di alleanze americano nel Medio Oriente. Molto prima della pressione degli avvenimenti attuali, questo paese era minato da contraddizioni che, pur soffocate, rimanevano esplosive. Le contraddizioni politiche del regime, che rivendica una delle forme più retrograde del fondamentalismo islamico mentre al tempo stesso apre il suo territorio per accogliere basi militari americane, risultano da contraddizioni sociali più profonde. Grazie alla sua ricchezza petroliera, la classe dirigente ha un piede nel 21° secolo e l'altro nel Medioevo, ed impone al paese strutture anacronistiche.
Non a caso il movimento islamista trovò dei quadri in questo paese, incluso lo stesso Bin Laden. Non a caso in questo paese i gruppi terroristici trovarono gente pronta a commettere attentati suicida, con per di più il livello tecnico necessario per prepararli efficacemente. Benché l'inquadramento dell'esercito saudita al vertice fosse stato formato dagli Stati Uniti, sarebbe naturale che il suo inquadramento medio e inferiore sia influenzato da forze islamiste.
Una destabilizzazione del regime dell'Arabia saudita avrebbe conseguenze incalcolabili per gli Stati Uniti, sia per la situazione geopolitica di questo paese che per le sue considerevoli risorse petrolifere.
L'atteggiamento dei dirigenti dell'Iran e della Siria dà invece un pretesto agli Stati Uniti per normalizzare un po' le loro relazioni con questi due regimi, puntati ancora poco fa come Stati terroristici. Ma, anche lì, il prolungarsi della guerra può mettere in forse questo inizio di riavvicinamento.
Rimane il problema principale della regione : la questione della Palestina. Bush, dopo l'arrivo al potere, ha lasciato ogni libertà a Sharon per attuare una politica di repressione. L'ha lasciato utilizzare i mezzi superiori di uno Stato moderno per reprimere l'Intifada di giovani palestinesi disarmati. L'accanimento del governo israeliano a mantenere e moltiplicare le colonie ebraiche, perfino all'interno dei territori concessi all'Autorità palestinese, l'aperto rifiuto di ogni concessione, anche quelle consacrate dagli accordi internazionali, hanno chiuso le prospettive politiche del popolo palestinese.
Le diverse frazioni dell'Autorità palestinese, le cui limitate prerogative si esercitano su un territorio piccolo e frazionato, possono essere isolate le une dalle altre dall'esercito israeliano ad ogni momento. E con l'accordo più o meno tacito di Bush, la politica di Sharon significa chiaramente che perfino questa caricatura di Stato palestinese era già una concessione troppo importante per l'estrema destra al potere in Israele. Togliere ogni prospettiva ad un popolo spogliato da decenni, sottoposto a condizioni di vita umilianti nel proprio paese, ferocemente represso in caso di contestazione, era un modo di indurre inevitabilmente una frazione della gioventù verso azioni disperate, verso gli attentati-suicida. Questo fa parte della logica della politica di repressione ma è anche l'obiettivo politico apertamente dichiarato dall'estrema destra israeliana : rifiutare l'idea di uno Stato palestinese e dare a questo popolo una scelta unica, tra lasciare il proprio paese e accettare di viverci senza diritti come carne da sfruttare nelle imprese israeliane, quando e dove queste ne hanno bisogno. Il crollo eventuale dell'Autorità palestinese e perfino l'eliminazione di Arafat non preoccupano l'estrema destra israeliana. E' su questo punto che la politica dell'amministrazione americana diverge : essa è cosciente del ruolo che Arafat ed il suo mini-apparato statale possono giocare, malgrado la perdita di una parte del suo prestigio, per far pazientare il proprio popolo.
Desideroso di non dispiacere troppo ad i suoi alleati arabi o, più precisamente, per non metterli in situazioni troppo difficili, Bush ammorbidisce un po' il suo atteggiamento. Ha appena riconosciuto l'eventualità di uno Stato palestinese. Arafat ha voluto interpretare questo come una vittoria politica, un'importante concessione degli Stati Uniti, e l'ha immediatamente ripagato col lanciare la sua polizia alla ricerca dei responsabili dell'assassinio di uno dei ministri d'estrema destra del governo israeliano. Anche se i mass media riconoscono la sua abilità ad accodarsi alla politica dell'imperialismo americano in Afghanistan mentre invece durante la guerra del Golfo si era schierato, almeno in parole, con l'Iraq niente garantisce che tale abilità possa ridargli un prestigio nelle masse palestinesi. Infatti malgrado la sua dichiarazione a favore di un eventuale Stato palestinese, Bush non ha nessun intenzione di soddisfare le aspirazioni del popolo palestinese.
Questa concessione ipocrita di Bush forse aprirà nuove negoziazioni, cioè nel migliore dei casi un nuovo accordo analogo a quello di Oslo. Ma quest'ultimo ha dimostrato che non poteva portare ad uno Stato palestinese che possa essere considerato come tale dalla popolazione.
Qualunque siano le variazioni del suo linguaggio a secondo delle circostanze e delle necessità del momento, l'imperialismo americano non è in grado di trovare una soluzione al problema palestinese.
In questa regione del Medio Oriente, la cui importanza strategica si aggiunge alla ricchezza petroliera, gli stati Uniti hanno bisogno dell'alleanza d'Israele. E ovviamente Israele ha ancora più bisogno del sostegno degli Stati- Uniti. E' l'unico paese del Medio Oriente di cui la politica filoamericana poggia su un largo consenso popolare. Anche l'Arabia saudita o la Giordania, i cui dirigenti sono altrettanto sottomessi agli interessi dell'imperialismo in generale e degli stati Uniti in particolare, sono in balia di colpi di Stato militari o di rivolte popolari che potrebbero sistemare regimi desiderosi di prendere qualche distanza con gli Stati Uniti.
Nel caso d'Israele, tale eventualità esigerebbe un cambiamento ben più fondamentale, l'installazione di un regime in rottura con la politica sionista condotta, fin dall'origine, da tutti i dirigenti dello Stato israeliano, e di una politica orientata verso la ricerca di alleanze con i vicini popoli arabi contro i loro regimi. Tale politica sarebbe stata possibile in passato e potrebbe certamente esserlo in futuro. Sarebbe anche l'unica politica che potrebbe assicurare alla popolazione d'Israele un'esistenza che non sia quella di guardiani di campi di concentramento per Palestinesi, sempre inquieti per la propria vita.
Ma conquistare la fiducia del popolo palestinese e dei popoli arabi, è possibile solo sulla base di una politica rivoluzionaria, cioè di una politica mirante alla prevalenza degli interessi comuni delle masse lavoratrici oppresse.
Il rischio di destabilizzazione, che potrebbe frenare i dirigenti americani per prolungare troppo i bombardamenti sull'Afghanistan o per aprire un secondo fronte contro l'Iraq, non si limita al Medio Oriente o alle vicinanze dell'Afghanistan. Lo dimostrano le manifestazioni antiamericane svoltesi in posti tanto lontani dalla zona di guerra quanto l'Indonesia da un lato e il Nord del Nigeria dall'altro. L'imperialismo sta alimentando l'ascesa dell'integralismo religioso e leva nuove generazioni di terroristi.
La santa alleanza sotto il segno dell'antiterrorismo ha portato gli Stati Uniti e la Russia a rendere più strette le loro relazioni. E' uno scambio : la Russia facilita l'introduzione di truppe americane negli Stati dell'Asia centrali sorti dal crollo dell'Unione sovietica quali l'Uzbekistan o il Tagikistan, mentre reciprocamente le potenze occidentali si asterranno di ogni tipo di rimprovero, anche del tutto platonico, nei confronti della guerra di repressione fatta in Cecenia.
Per di più, ben altre repressioni, attuate da molti altri regimi autoritari o dittature, troveranno l'assoluzione dalle parti della diplomazia imperialista. Assoluzione dei militari algerini e della loro politica di repressione e di stragi di manifestanti, in Kabilia in particolare, senza parlare della profonda corruzione del regime poiché, col combattere il GIA, questo può pretendere di combattere il terrorismo. Assoluzione del dittatore d'Uzbekistan poiché accetta di fornire alle truppe americane una base d'operazioni contro l'Afghanistan. Assoluzione del regime cinese, tra l'altro della sua politica di soffocamento della minoranza uigura nel Xin-Jiang, poiché si dice d'accordo con la crociata di Bush. Quanto al regime turco, può mettere le sue operazioni militari nel Kurdistan o le sue infamie contro i prigionieri politici sotto il segno della lotta al terrorismo del PKK.
I nuovi focolai di tensione alimentati o che lo potrebbero essere se la guerra contro l'Afghanistan si prolungasse, si aggiungono a tanti altri che si stanno preparando in molti paesi, come nella zona balcanica. Nella penisola balcanica in particolare, le potenze imperialiste non avevano neanche avuto il tempo di giustificare in modo retroattivo i bombardamenti sulla Serbia con il rovesciamento di Milosevic, quando la Macedonia fu a sua volta trascinata nel meccanismo dei conflitti etnici. Per opporsi alla Serbia, gli Stati Uniti incoraggiarono le organizzazioni nazionaliste del Kosovo come l'UCK. Una volta lanciata, l'UCK non si fermò laddove gli interessi delle grandi potenze l'avrebbero dettato. Estese le sue ambizioni politiche verso la Macedonia. Non pare che il recente accordo di disarmamento reciproco tra le forze paramilitari albanesi da un lato e quelle slave dall'altro abbia stabilizzato la situazione.
Dopo lo scoppio della Iugoslavia, i popoli dei Balcani vivono in uno stato di guerra quasi permanente, con tutte le conseguenze che ne derivano. Un segno è il fatto che, dopo la Bosnia e il Kosovo, sia stata la Macedonia a diventare ufficialmente una specie di protettorato collettivo dell'Occidente imperialistico. Torniamo a situazioni che assomigliano a quelle dell'indomani della Prima guerra mondiale, quando nel Medio Oriente gli imperialismi inglese e francese si divisero le spoglie del crollato impero ottomano.
Non c'è futuro per i popoli dei Balcani nel micronazionalismo, che riflette la putrefazione dell'ordine imperialistico mondiale e in nessun modo una maggiore libertà per i popoli, non più che di futuro per i popoli d'Africa nell'ascesa dei conflitti etnici.
L'attuale situazione internazionale, in cui a rappresentare la contestazione dell'ordine mondiale sono delle forze reazionari, pone ovviamente problemi politici ai dirigenti imperialisti, ma non minaccia affatto la dominazione imperialista sul mondo. Al contrario, la sta perpetuando sotto una forma particolarmente barbara, in cui gli attentati terroristici e le operazioni militari del tipo di quella che è in corso oggi in Afghanistan si alimentano a vicenda, a spese delle popolazioni civili coinvolte, creando un clima di barbarie.
L'unica alternativa è la rinascita del movimento operaio rivoluzionario, per aprire all'umanità una prospettiva che non sia la manifestazione sempre rinnovata ed allargata della barbarie.
Le prospettive fondamentali dipendono dalla capacità della classe operaia a giocare di nuovo sulla scena internazionale il ruolo che giocò nel periodo dell'ascesa mondiale del socialismo nella seconda metà del 19° secolo o dopo la Rivoluzione russa del 1917.
25 ottobre 2001