La situazione internazionale

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Da "Lutte de classe" n° 47 (Testi della conferenza nazionale di Lutte Ouvriere)
Dicembre 1999 - gennaio 2000

Testo della maggioranza

Quest'anno ancora è stato un anno di conflitti, di guerre, di massacri per ragioni politiche o etniche. Il numero delle zone di conflitti non è diminuito fin dalla scomparsa del blocco sovietico. In alcune di queste zone, come il Medio-Oriente, si perpetuano situazioni che sono apertamente conflittuali da tempo. In altre, come nel Timor orientale, dove gli avvenimenti hanno preso un corso particolarmente drammatico quest'anno, si tratta dell'esplodere di bombe a scoppio ritardato, poste tempo fa. In altre ancora, come in alcuni paesi dell'Africa, si stanno creando tutti gli elementi di conflitti futuri.

Ai tempi dei blocchi, la burocrazia sovietica aveva le sue zone proprie di conflitti. Ma quelle del mondo imperialistico, molto più numerose, nella maggioranza non dovevano niente all'esistenza dell'URSS, anche se questa aveva trasformato alcuni conflitti locali come posta in gioco nel confronto tra superpotenze. Il dominio dell'imperialismo sul pianeta ha sempre generato guerre, perfino nei cosiddetti periodi di pace, che hanno preceduto o seguito le due conflagrazioni mondiali.

La responsabilità dell'imperialismo è diretta in una gran maggioranza di guerre locali, sia dal fatto degli interventi militari delle stesse potenze imperialiste, in associazione o in rivalità ; sia perché aizzare i popoli gli uni contro gli altri è una delle forme di competizione tra le varie potenze e una tra le principali forme di dominio per ciascuna.

La responsabilità dell'imperialismo è più generale ancora perché è questo sistema che mantiene la maggior parte del pianeta nella miseria e impedisce all'umanità di poter regolare le eventuali dispute tra i popoli in modo democratico e pacifico.

La guerra che ha segnato di più l'opinione in Europa, perché ci si è svolta, è ovviamente la guerra aerea delle grandi potenze imperialistiche contro la Serbia. Abbiamo denunciato questa guerra, denunciando nello stesso tempo la politica di genocidio e di terrore utilizzata per spostare la popolazione albanese ; politica battezzata "pulizia etnica" e praticata da Milosevic, dal suo esercito e dalle bande armate dell'estrema destra serba.

Ci siamo differenziati da quelli che hanno presentato questa guerra come una "guerra americana", oppure, il che è un altro modo di dire la stessa cosa, come l'espressione dell'impotenza dell'Europa a regolare lei stessa i conflitti scoppiati sul continente. Le relazioni gerarchiche tra le potenze imperialistiche che partecipavano alla coalizione militare rispecchiavano i rapporti di forze, ma non significavano tuttavia gradi diversi di responsabilità.

Lo scopo comune delle grandi potenze era dimostrare che toccava a loro, e non a Milosevic, definire l'ordine da far rispettare nella regione. Per ognuna delle potenze, la presenza militare, qualunque sia la sua importanza, prolungava e garantiva la sua presenza politica ed economica nei Balcani.

L'ordine imperialista, una volta ancora imposto ai Balcani dall'esterno e con la forza delle armi - questa volta con argomenti umanitari -, è tuttavia il motivo fondamentale della situazione catastrofica in cui si trovano i Balcani. I popoli di questa regione non sono mai stati maestri del proprio destino. Fin dall'inizio dell'imperialismo, i trattati che hanno fatto e disfatto i confini sono sempre stati imposti loro dall'esterno, secondo i rapporti di forze tra potenze occidentali rivali. Le conseguenze di questo passato, fatto d'interventi militari, successivi o simultanei, di tutte le grandi potenze, almeno europee, che si sono illustrate nei bombardamenti di quest'anno, si prolungano fino a oggi. Le distruzioni ed i saccheggi da tempi di guerra che hanno accompagnato le guerre balcaniche del 1912 e del 1913, e poi i successivi passaggi degli eserciti austro- ungheresi, turchi, tedeschi, francesi e inglesi, durante la Prima guerra mondiale, e finalmente gli interventi tedeschi ed italiani prima e durante la Seconda guerra mondiale, costituiscono una delle maggiori cause dell'incapacità di questa regione dell'Europa ad uscire dalla povertà. Altra causa è il "saccheggio ordinario", più discreto, da tempi di pace, cioè lo sfruttamento da parte dell'Occidente imperialista delle ricchezze miniere e degli uomini. E si sa che la povertà è il terriccio sul quale crescono l'oppressione e la violenza.

Ma la responsabilità delle potenze imperialiste non riguarda soltanto il passato. Le grandi potenze hanno incoraggiato quelli che hanno spinto verso lo scoppio di questa Iugoslavia, che non era un modello ai tempi di Tito ma dove i popoli almeno coesistevano, si mescolavano e dove si poteva ignorare la propria "etnia" per essere semplicemente Jugoslavo. Hanno contribuito ad imporre come confini di Stato dei limiti amministrativi che hanno separato i popoli e, così facendo, hanno contribuito a creare una situazione in cui praticamente ogni popolo veniva trasformato in minoranza oppressa in tal o talaltro Stato. Non restava più ai demagoghi nazionalisti e alle bande armate estremiste che inasprire i nazionalismi, scavare un fosso di sangue e di odio. Con l'opporre le cricche nazionaliste le une alle altre, e di conseguenza coll'incoraggiare la loro esistenza, le grandi potenze non hanno smesso di buttare olio sul fuoco.

Benché l'intervento militare abbia avuto un carattere ed una durata limitati, una vera "Unione sacra" si è costituita in Occidente, nei ceti politici, nei mass media, tra quelli che fabbricano "l'opinione pubblica", per imporre un'apparenza meramente umanitaria dell'intervento, cancellando il suo carattere imperialista e, a maggior ragione, le responsabilità delle potenze che intervenivano.

A tal proposito, bisogna sottolineare l'atteggiamento dei cervelloni dell'intellighenzia, che si sono divisi tra una maggioranza che giustificava il bombardamento della Serbia e del Kosovo ed una minoranza opposta ai bombardamenti ma che giustificava Milosevic e la sua politica. Bisogna anche notare che il pacifismo dei Verdi vale solo in tempi di pace.

La maggioranza della popolazione delle potenze occidentali che partecipavano ai bombardamenti è stata disorientata dall'assenza di prospettive alternative, espressa con frasi come : "ma che cosa si può fare per fermare le stragi etniche ?". Senza mai diventare "guerrafondaia", la popolazione ha subito un ricatto del tipo : non bombardare vuole dire lasciare le mani libere a Milosevic ed accettare "la pulizia etnica". I bombardamenti hanno però confortato il potere di Milosevic e contribuito a scatenare l'attivismo micidiale dell'estrema destra serba contro la popolazione albanese del Kosovo (e dopo il ritiro delle truppe serbe, da parte delle milizie albanesi contro la minoranza serba).

Pur sostenendo il diritto dei popoli del Kosovo all'autodeterminazione, compreso fino a scegliere l'indipendenza nei confronti dello Stato serbo, non siamo stati solidali con l'UCK, principale organizzazione che militava per l'indipendenza del Kosovo. Più che rappresentante della volontà di combattere della popolazione albanese del Kosovo, quest'organizzazione era la forza suppletiva dell'intervento della NATO ed il veicolo nella popolazione, di una politica di pulizia etnica a rovescio rispetto a quella delle bande armate di Milosevic. Associata oggi al potere, mette in pratica quando lo può questa politica, senza neanche parlare delle sue attività apertamente mafiose.

Coll'ottenere il cedimento di Milosevic, le potenze imperialiste escono dalla guerra a buon conto. Possono rivendicare la fine dell'oppressione e dell'esodo degli Albanesi del Kosovo. Tuttavia, sono gli Serbi e gli Zingari che sono oggi costretti alla partenza. I bombardamenti non potevano colmare l'abisso delle opposizioni etniche. Infatti, l'hanno aggravato, spingendo ancor di più ogni popolo a rendere l'altro responsabile, non solo dei crimini dei suoi nazionalisti estremisti, ma anche delle bombe occidentali che hanno fatto vittime da ambe le parti.

Lo statuto di protettorato internazionale, la divisione del territorio kosovaro tra più truppe di occupazione, si aggiungono all'ufficializzazione del frazionamento della Bosnia tramite gli accordi di Dayton, frazionamento ugualmente protetto da truppe di intervento straniere. Gli interventi diplomatici e militari successivi dell'imperialismo hanno contribuito a rendere la situazione dell'ex-Iugoslavia sempre più inestricabile, senza risolvere nessun problema della regione. A cominciare da quello della povertà, perché l'economia della regione sarà riportata indietro, anche se la ricostruzione del Kosovo - e forse, domani della Serbia - determinerà lo sblocco di alcuni crediti occidentali che saranno intascati dai Bouygues di ogni paese.

E se i popoli del Kosovo da una parte, e quelli della Serbia e del Montenegro dall'altra, escono dissanguati dalla guerra - senza neanche parlare dell'Albania e della Macedonia che hanno ugualmente sofferto delle conseguenze della guerra -, Milosevic è sempre al potere. In mancanza di un rivale un po più presentabile, e soprattutto capace di soppiantarlo, le potenze imperialiste potrebbero benissimo trattare con Milosevic, per consolidare i nuovi confini usciti dalla guerra e per ristabilire relazioni commerciali con la Serbia.

Il ruolo diplomatico della Russia nei confronti della Serbia, uno tra i pochi atti da grande potenza di cui l'ex supergrande è stato ancora capace in questi ultimi anni, non può tuttavia nascondere il continuo erodersi del potere centrale nell'ex-URSS. La scadenza elettorale del 2000 che, teoricamente, non permette a Eltsin né di mantenersi né di ricandidarsi, inasprisce le lotte tra le diverse cricche dei vertici della burocrazia. Fin dall'inizio dell'anno, la Russia ha già visto passare tre primi ministri. Ovviamente, non si tratta dell'avvenire personale di Eltsin, ma di quello della cricca che lo circonda e che cerca con tutti i mezzi di assicurare la sopravvivenza delle proprie posizioni. Questo perché, per i "nuovi ricchi" della Russia, come per la burocrazia dell'ex-URSS, dalla quale provengono generalmente, la posizione nell'apparato dello Stato rappresenta l'accesso più sicuro alle possibilità di costruire fortune, utilizzando la prevaricazione, l'inganno, il saccheggio dei fondi dello Stato e delle imprese. La posta della battaglia tra oligarchi è il controllo delle banche, dei gruppi industriali e, ovviamente, della stampa e della televisione, mezzo di controllo dell'opinione pubblica : il pretesto democratico fa sì che le posizioni di potere devono ormai essere confermate da elezioni.

Durante le lotte di cricche, il saccheggio continua. L'essenziale del denaro sottratto in Russia continua a prendere la via delle banche occidentali. Esperti bancari svizzeri ritengono che l'ammonto totale del denaro accumulato col passare del tempo nelle banche occidentali, proveniente dai paesi sorti dallo smembramento dell'ex-Unione sovietica, si aggira sui 100 miliardi di dollari, una somma il cui aumento annuale sarebbe di 12 miliardi di dollari.

A titolo di paragone, gli investimenti stranieri nel settore produttivo sono stati di 2,2 miliardi nel 1998 (in calo del 65 % rispetto all'anno precedente). Il che significa che l'ammonto delle somme che hanno lasciato la Russia per essere investite nel sistema finanziario occidentale è stato sei volte più importante di quello che ci è entrato sotto forma di investimento.

Come i capitalisti d'Occidente, i burocrati saccheggiatori non si fidano ancora abbastanza dell'insediamento e del consolidamento di un capitalismo russo per rischiare i propri soldi coll'investire in Russia. Ceto parassitario da sempre, la burocrazia trova nuove fonti di profitto col riciclare, nel sistema finanziario internazionale,il denaro sottratto.

I banchieri occidentali stessi esprimono, stando ai loro esperti, la propria incapacità a determinare, tra le somme deposte da loro, ciò che proviene da operazioni commerciali cosiddette normali e ciò che proviene da sottrazioni illegali o addirittura da attività mafiose.

Il dominio economico e sociale della burocrazia assume un carattere sempre più mafioso.

Il cumulo delle conseguenze del crollo del vecchio sistema di produzione e del saccheggio burocratico è catastrofico per l'economia russa. Dallo studio recente di un ufficio di consulenti americani risulta che il prodotto interno lordo pro capite sia crollato del 40 % solo dal 1992. Eppure, conseguenza inattesa del crollo del rublo, quest'anno c'è stato una ripresa della produzione in qualche settore, come l'agroalimentare o l'industria leggera. Infatti, le importazioni provenienti dall'Occidente sono state ridotte da questo crollo del rublo - essendo lui stesso una delle fasi della "crisi asiatica" dell'anno scorso - che ha spazzato via questo "ceto privilegiato" che stava emergendo e sul quale contavano le imprese occidentali esportatrici verso la Russia. E' stato necessario che vengano sostituite dalle imprese locali. Invece di un nuovo calo della produzione interna annunciato per il 1999, si annuncia la sua stabilizzazione, il che è risentito come un successo.

Gli osservatori occidentali dell'economia russa parlano sempre meno di "economia di mercato", pure "in trasformazione", per sottolineare invece la demonetarizzazione dell'economia russa. Un indicatore tra altri : secondo le statistiche ufficiali, la parte del baratto negli scambi tra imprese continua ad aumentare ed è passata dal 47 % nel 1997 al 52 % nel 1998.

I rapporti degli esperti americani citati qui sopra, nell'analizzare le ragioni per cui l'introduzione del capitalismo si invischia in Russia, sottolineano anche la connivenza ed i legami di corruzione tra poteri locali e dirigenti d'imprese e la loro comune volontà di "mantenere una pace sociale relativa col sovvenzionare in un modo o nell'altro l'occupazione in industrie all'agonia" (rapporto citato dal giornale Le Monde).

Quest'atteggiamento prudente delle burocrazie locali tuttavia non impedisce la progressione della disoccupazione che colpisce ufficialmente il 12,5 % della popolazione attiva. E' una cifra paragonabile a quella della Francia, però in un paese in cui, qualche anno fa, la disoccupazione non esisteva.

L'abbassamento del livello di vita della stragrande maggioranza della popolazione è catastrofico. Lo stipendio reale di chi ha un posto di lavoro - e spesso bisogna averne parecchi per sperare di prendere almeno uno stipendio senza ritardo - ha perso il 15 % del valore in un'anno, solo per causa del crollo del rublo. Lo Stato censisce 40 milioni di persone - sui 148 milioni della popolazione russa - che vivono al di sotto della soglia della povertà : ne fanno parte l'80 % dei pensionati ed il 40 % dei bambini.

Mentre membri dell'alta burocrazia, "nuovi ricchi" e noti capi della mafia russa - per quanto si possano distinguere queste categorie - condividono i favori degli alberghi e dei commerci di lusso della Costa Azzurra, una frazione sempre più grande della popolazione sprofonda nella miseria.

I dirigenti della burocrazia russa hanno fatto una campagna xenofoba contro i Ceceni, o addirittura contro tutti i Caucasici designati come capri espiatori alla popolazione, e soprattutto hanno ripreso la guerra in Cecenia. Una guerra abietta in cui, sotto il pretesto di combattere l'ascesa dell'integralismo e la criminalità, l'esercito russo aggredisce la popolazione civile. Le ragioni della ripresa della guerra - ricordiamo che l'esercito russo aveva subito una grave sconfitta nella regione durante una prima guerra condotta tra il 1994 ed il 1996 - stanno senza dubbio nella prossimità delle elezioni, perché la cricca al potere vuole dimostrare la sua autorità a danno della popolazione civile di Cecenia. Gli scandali che hanno segnato la guerra precedente hanno mostrato inoltre che le sottrazioni a scapito delle truppe impegnate nella guerra, costituiscono una fonte di reddito apprezzata dai dignitari dell'esercito.

Del resto, questa guerra incontra solo un discreto rimprovero da parte delle grandi potenze imperialiste. E' vero che loro se ne intendono di bombardamento sistematico delle città, dei paesi e delle loro popolazioni civili !

Per quanto riguarda le altre repubbliche ex sovietiche, il crollo del rublo dell'estate del 1998 ha ricordato a che punto le loro economie erano interdipendenti. Col crollo del rublo, le monete di tutte queste repubbliche sono crollate anche loro, con conseguenze sociali ed economiche tanto più drammatiche, in quanto l'economia della maggioranza di questi Stati è meno sviluppata di quella della Russia.

Questa situazione è stata aggravata dalle scelte fatte, dopo il crollo dell'Unione sovietica, dalle burocrazie dirigenti locali che hanno spesso puntato tutto ai pochi prodotti naturali facili da esportare sul mercato internazionale e suscettibili di costituire una fonte di reddito in valute. Ma la specializzazione in una monocoltura o una produzione unica quale il gas, o nell'esportazione di uno o due prodotti minerali, mette questi Stati in una situazione di dipendenza verso il mercato mondiale, e subiscono l'urto frontale del calo generale del corso delle materie prime.

Le più povere tra queste repubbliche, Kirghizie, Tagikistan e perfino Georgia o Armenia, possono solo contare sull'aiuto della Russia per sopravvivere.

Per quanto riguarda le due grandi repubbliche non russe della parte europea dell'ex-Unione sovietica, l'Ucraina e la Bielorussia, le loro economie rimangono largamente integrate a quella della Russia, e la Bielorussia mantiene per di più la maggioranza delle forme e modi di funzionamento sovietici.

Delle ex repubbliche sovietiche, soli i paesi baltici hanno avuto un'evoluzione paragonabile alle ex Democrazie popolari. Questo risulta certamente tanto dalle dimensioni ridotte di questi paesi e della loro economia, quanto dalla data più recente della loro integrazione nell'ex URSS. Ma solo una di loro, l'Estonia, ha spinto le trasformazioni e l'integrazione nell'economia occidentale abbastanza lontano da stare, dietro alla Polonia, la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Slovenia, tra i paesi la cui integrazione nell'Unione europea sia oggi progettata.

Siccome da parecchi anni, la trasformazione dell'economia e della società dell'ex URSS non va avanti, proprio stando a quelli che si sono augurati che sia veloce, non abbiamo ragioni per cambiare la nostra caratterizzazione della società, dell'economia e, pertanto, dello Stato sovietico, più di quanto ne avevamo due o cinque anni fa. La Russia, come la maggioranza degli Stati nati dall'URSS, rimangono ancora sotto il dominio di burocrazie, frazionate tra una moltitudine di centri di potere, all'interno stesso di ogni nuova entità, con economie che legano la predazione fortemente mafiosa con la pratica del baratto in quanto espressione più diffusa della divisione del lavoro. Molti dei tratti essenziali delle entità statali nate dalla disgregazione dell'ex URSS sarebbero incomprensibili senza riferirsi al passato sovietico, alla sua economia centralizzata e pianificata e ai suoi rapporti sociali. Possiamo solo riprendere ciò che abbiamo detto l'anno scorso per concludere l'analisi delle trasformazioni, dieci anni dopo la perestrojka : "L'economia ex sovietica è stata rovinata, ma non ancora ristrutturata su una base capitalistica. Malgrado lo sfacelo economico - o meglio, precisamente a causa di questo - dovremmo ancora oggi proporre la politica che avremmo portata avanti otto o dieci anni fa se avessimo avuto forze militanti laggiù... A parte il fatto che non si tratta più di lottare per il mantenimento dell'economia pianificata, ma per il suo ristabilimento sotto il controllo della democrazia proletaria".

Dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino e la scomparsa dei cosiddetti regimi di "democrazia popolare", dopo le congratulazioni di rigore, i giornalisti evocano qualche volta con un certo stupore la "nostalgia" per il passato che sopravvive in questi paesi, come se si trattasse di un sentimentalismo fuori luogo. Ma questa "nostalgia" si basa su realtà sociali.

I regimi delle Democrazie popolari erano infami, e non solo per causa dell'assenza di libertà, ma anche della differenziazione sociale crescente, ben prima che i sostenitori di questi regimi smettano di proclamarsi "socialisti" o "comunisti" (differenziazione che ha del resto largamente preparato il cambiamento del dopo 1989). Ma nello stesso tempo, questi regimi avevano assicurato una certa protezione sociale per tutti e la disoccupazione non esisteva. Per i disoccupati, per i lavoratori minacciati di diventarlo, per i pensionati, per le categorie più vulnerabili della popolazione, il cambiamento di regime si esprime nel degrado delle loro condizioni di vita, nell'insicurezza e, per l'insieme dei paesi, nell'aggravamento della povertà. E l'arricchimento sfacciato di un ceto della popolazione non è affatto una consolazione per gli altri. La sufficienza e l'arroganza trionfante dei profittatori del capitalismo sembrano più insopportabili ancora di quella dei dirigenti della dittatura declinante - tanto più che si tratta spesso delle stesse persone !

Non c'è stato peraltro nessun avvenimento politico maggiore nei paesi dell'Est dell'Europa. Tutt'al più si può menzionare che tre dei paesi meno poveri della zona, la Polonia, l'Ungheria e la Repubblica Ceca, che sono anche quelli più legati all'economia dell'Europa occidentale e più subordinate ai suoi capitali, hanno avuto quest'anno il grande onore di essere integrati alla NATO (ben prima che la loro domanda di adesione all'Unione Economica Europea sia accettata). Quest'integrazione alla NATO ha preso effetto appunto durante le settimane in cui l'alleanza militare occidentale ha cominciato i bombardamenti sulla Serbia ed il Kosovo. Benché il ministro degli Esteri polacco, uno tra gli ex dirigenti di Solidarnosc, abbia salutato l'evento coll'affermare che "l'entrata nella NATO significa accostare in un porto tranquillo", la prima manifestazione di questa "tranquillità" è stata per questi paesi il fatto di ritrovarsi in stato di guerra con la Serbia vicina. Oltre ciò che questo significava dal punto di vista delle relazioni tra i popoli di questa regione, l'economia di tutti i paesi che costeggiano il Danubio ha subito, per causa della guerra prima e della distruzione dei ponti dopo, le conseguenze dell'interruzione della navigazione fluviale, essenziale per gli scambi.

Per quanto riguarda la Romania, una tra le più estese e più popolate delle ex Democrazie popolari, e anche tra le meglio provviste in ricchezze naturali, la sua economia continua a sprofondare, con un calo del suo prodotto nazionale di più del 5 %, che si aggiunge al più del 20 % nei dieci ultimi anni. Questo regresso economico si unisce ad un aumento folgorante dell'ineguaglianza sociale per fare di questo paese uno di quelli in cui la miseria delle classi popolari è più insopportabile ; ed anche il più grande provveditore di candidati all'emigrazione verso l'Europa occidentale. Emigrazione clandestina per forza : le restrizioni all'ingresso nei paesi occidentali hanno sostituito la "cortina di ferro" di una volta. L'anno è stato segnato in questo paese dalla lotta decisa dei minatori. Sfortunatamente, quelli che si trovano da parecchi anni alla testa della lotta dei minatori sono legati all'estrema destra ultranazionalista. L'eventualità che i nazionalisti estremi incanalino il malcontento sociale è una minaccia tanto più grave per la classe operaia e l'insieme della società, che il paese comporta importanti minoranze nazionali e che, in mancanza di forze politiche che possano dare prospettive alle classi lavoratrici, esiste il pericolo di un'evoluzione "alla Jugoslava".

Dall'altra parte del mondo, le stragi dell'esercito indonesiano prima di lasciare il Timor orientale non possono essere evocate senza sottolineare le responsabilità schiaccianti delle potenze occidentali. C'è ovviamente una responsabilità storica : la specificità del Timor orientale - ex colonia portoghese in un arcipelago a lungo colonizzato dai Paesi Bassi - risulta da secoli di rivalità tra potenze europee. Ma c'è anche una responsabilità molto più attuale : l'esercito indonesiano che ha massacrato è stato ammaestrato dagli Stati Uniti per altre stragi "dimenticate" dalla maggioranza di quelli che hanno fatto finta di indignarsi di fronte a quello che è successo nel Timor : la strage delle massi lavoratrici della stessa Indonesia e del Partito comunista indonesiano. E quando l'esercito indonesiano ha occupato il Timor, vent'anni fa, l'ha fatto con l'accordo, almeno tacito, di tutte le grandi potenze.

Ovviamente, era escluso per noi raggiungere il coro di tutti quelli - e le loro file hanno perfino contato parte dell'estrema sinistra - che, di fronte all'orrore delle stragi, hanno chiesto l'intervento delle potenze imperialiste. Oltre il carattere ridicolo della domanda, era un modo per assolvere l'imperialismo per le sue responsabilità passate e un'appoggio per quello che farà in futuro, nella regione o altrove, a nome di questo "diritto d'intervento" che è di moda giustificare con argomenti umanitari.

Le potenze imperialiste possono essere condotte ad intervenire in tante circostanze per cercare di risolvere una situazione inestricabile creata da loro stesse. I comunisti rivoluzionari non hanno da giustificare nessun aspetto della politica imperialista, e ancora meno hanno da suggerire all'imperialismo una "buona" politica . Devono fare sì che il proletariato prenda coscienza della necessità di distruggere l'imperialismo.

Le discussioni per lo statuto definitivo della Palestina sono cominciate. Probabilmente sboccheranno sulla proclamazione di uno Stato palestinese. Tuttavia non è difficile prevedere la realtà, dietro a quel cambiamento di statuto giuridico.

Essendo il suo esercito incapace di fermare la "guerra delle pietre", Israele ha fatto, qualche anno fa, la concessione di un mini-stato palestinese, in scambio con il fatto che Arafat e l'OLP accettino di utilizzare la loro autorità per calmare la popolazione palestinese. Quello che è stato presentato da alcuni come la prima tappa del percorso verso uno Stato palestinese si è rivelato invece un mezzo di respingere questa scadenza.

Il territorio concesso all'Autorità palestinese è minuscolo, frazionato, non vitale economicamente e per di più, asfissiato ogni volta che il governo israeliano decide di chiudere i passaggi sulle linee di demarcazione.

Le poche concessioni fatte hanno tuttavia rafforzato l'estrema destra israeliana, insieme al rafforzamento delle organizzazioni integraliste palestinesi di fronte al carattere irrisorio di queste concessioni.

Anche se Israele finisce coll'accettare che l'Autorità palestinese si trasformi in uno Stato internazionalmente riconosciuto, sarà uno di quelli mini-Stati di cui il mondo è pieno, che permetterà ad un piccolo ceto di dirigenti di dividersi alcuni posti e posizioni. Tutti quelli che la povertà costringe ad andare a lavorare in Israele dovranno farlo ancora, a parte che i reticolati che circondano i territori sotto autorità palestinese si trasformeranno in confini di Stato. Ciò non permetterà né una coabitazione su un piede di parità tra popolo palestinese e popolo israeliano, né soprattutto alla maggioranza della popolazione palestinese di vivere in modo corretto.

Ma il fatto che non ci sia soluzione per il popolo palestinese implica anche che non ce ne sia per il popolo israeliano. In base alla politica che è quella dei suoi dirigenti fin dalla creazione dello Stato d'Israele, cioè la scelta di essere l'alleato fedele delle potenze occidentali in generale e degli Stati Uniti in particolare, contro le masse popolari dei paesi arabi vicini, la popolazione d'Israele sarà sempre costretta al ruolo di guardia carceraria.

Noi siamo sempre stati e siamo ancora per il diritto di ogni popolo della regione a viverci. Appare però evidente che né i dirigenti d'Israele, né quelli dei regimi arabi vicini, sono capaci di portare avanti una politica che permetta ai loro rispettivi popoli di stabilire relazioni democratiche che consentano una fraterna coesistenza. E' difficile immaginare tali relazioni tra popoli nell'ambito di un sistema basato, all'interno stesso dei popoli, su relazioni di sfruttamento e di oppressione.

Il continente africano è diventato quello che comporta probabilmente il più grande numero di conflitti di ogni genere. Gran parte del continente sta sprofondando nel caos ed il regno di bande di uomini armati, ufficiali o ufficiose.

In alcuni di questi paesi, come lo Zaire, il potere centrale si esercita solo in zone limitate. In altri, come la Somalia, non c'è affatto un potere centrale. Malgrado "piani di pace" e "riconciliazioni nazionali" periodiche, il Liberia e la Sierra Leone non riescono ad uscire dalla guerra civile che li insanguinano da tanti anni, non più che il Ruanda ed il Burundi. In Angola sono stati conservati apparati militari che risalgono ai tempi della lotta contro il dominio coloniale portoghese. Tra l'Etiopia e l'Eritrea, si tratta di una pace armata.

Sia il loro reclutamento in base ad un'opposizione politica oppure semplicemente etnica, le bande armate reclutano molto spesso innanzi tutto perché il possesso di un'arma diventa una possibilità di sopravvivenza, o addirittura l'unica.

Il regno delle bande armate, più o meno strumentalizzate da potenze imperialiste quando queste ci hanno interesse per poi essere abbandonate quando questo interesse svanisce, è uno dei fattori che aggravano le conseguenze del saccheggio imperialista. L'Africa è il continente che, nel suo complesso, continua ad impoverirsi, non solo nei confronti dei paesi imperialisti, ma anche in assoluto.

Benché la Costa d'Avorio non sia tra i paesi d'Africa più sfavoriti dalla sorte, conviene parlare della situazione di questo paese che è la base principale di estensione dell'imperialismo francese, in direzione della sua "riserva" dell'Africa occidentale. Questo statuto gli permette di beneficiare della presenza di un numero abbastanza grande di gruppi industriali e bancari francesi, così come dell'esercito francese.

La campagna per l'elezione presidenziale del 2000 ha preso una piaga sempre più aspra tra i due principali candidati, Konan Bedié e Alassano Ouattara. Tutti e due sono uomini della borghesia e per di più, usciti dallo stesso serraglio politico, quello del vecchio partito unico di Houphouet-Boigny. L'uno è stato l'ultimo primo ministro di Houphouet-Boigny, mentre l'altro era presidente dell'Assemblea nazionale nello stesso periodo. L'unica differenza tra loro è certamente che Bedié, l'attuale presidente della Repubblica, è più legato alla Francia e ai suoi interessi di Ouattara, a lungo importante funzionario internazionale del FMI e più vicino agli Americani.

Bedié, il presidente in posto, protetto dalla Francia, ha subito collocato la campagna della presidenziale sotto il segno dell'etnismo, coll'accusare il suo rivale, nato da un'etnia del Nord a cavallo con il Burkina Faso, di non essere della Costa d'Avorio e negandogli il diritto di aspirare alla presidenza. Le truppe di Ouattara non hanno tardato a rispondere nello stesso modo, prendendosela col monopolio dei Baoule - etnia di fu Houphouet-Boigny e di Bedié -sul potere.

I mass media agli ordini del potere riprendono ed accentuano il carattere etnico degli scontri, col propagandare delle idee in nome delle quali, domani, si potranno mobilitare le etnie le une contro le altre, il che in questo paese che ne conta una sessantina avrebbe conseguenze drammatiche. Tanto più che l'etnismo può fare, e fa già, da diversivo di fronte ad una situazione economica in via di deterioramento, segnata da importanti aumenti dei prezzi dei prodotti di grande consumo in un paese dove già il potere d'acquisto delle masse lavoratrici è irrisorio.

I due uomini che, nella loro lotta per il potere, si servono della demagogia etnista, per il momento se ne servono solo in modo verbale. Nel Liberia vicino, non completamente uscito da una lunga guerra civile, la lotta per il potere si è svolta le armi alla mano, ma anche con delle pseudo-giustificazioni etniche. Bisogna ricordarsi che, nel Ruanda, i massacri etnici sono anche stati preceduti e preparati dall'etnismo verbale. E' sotto gli occhi dei loro protettori delle grandi potenze imperialistiche sedicenti civilizzate, della Francia in particolare, che gli ambienti dirigenti stanno innescando nella Costa d'Avorio una bomba a scoppio ritardato che potrà esplodere a qualsiasi momento.

In Algeria, con le dimissioni di Zeroual, l'esercito ha lasciato il proscenio politico. Ma le condizioni stesse che hanno portato all'elezione di Buteflika alla presidenza della repubblica hanno dimostrato quanto l'esercito rimane in prima fila per controllare e sorvegliare la vita politica. La stampa internazionale ha insistito sul successo che il recente referendum sulla concorda nazionale avrebbe rappresentato per Buteflika. Ma se Buteflika dovesse riuscire a riassorbire il terrorismo islamista, questo certamente non risulterebbe dal suo successo elettorale ma dal disgregamento della guerriglia islamista stessa.

E' ben difficile sapere fino a che punto tale disgregamento è reale poiché ogni tanto degli attentati ricordano che l'esercito rimane ben lungi dall'avere vinto l'islamismo armato. Ma, ben al di là di questo aspetto della situazione, il regime più o meno civile di Buteflika non sarà capace, più dei suoi predecessori, di porre fine alla corruzione e innanzitutto alla povertà. Ora, è stata questa povertà a fornire il terriccio dal quale sono cresciuti i movimenti islamici in genere e le loro emanazioni armate in particolare.

E bisogna anche lì ricordare la schiacciante responsabilità dell'imperialismo francese e i danni da lui causati in questo paese durante 130 anni di dominio coloniale, poi durante gli otto anni di una guerra atroce. E l'indipendenza dell'Algeria non è stata la fine del saccheggio con cui la borghesia francese continua di accrescere i suoi profitti, col mantenere nella miseria le classi lavoratrici dell'Algeria, come d'altra parte dell'insieme del Nord- Africa.

Il recente colpo di Stato militare nel Pakistan ricorda la fragilità dei regimi di un gran numero di paesi poveri che vengono abusivamente chiamati "democrazie". Non è neanche sicuro che i militari che hanno ripreso il potere non abbiano beneficiato di un certo consenso, tanto la democrazia pakistana era notoriamente corrotta. Evidentemente le cose non andranno diversamente con i militari, ma la dittatura avrà più possibilità di nascondere la corruzione.

In materia di corruzione le cose sono uguali nell'India vicina che il linguaggio giornalistico chiama con grande compiacenza la più grande democrazia del mondo.

Le forme parlamentari, che non sono mai sparite in India e sono state più o meno generalizzate in un gran numero di paesi poveri durante lo scorso decennio, mal nascondono in questi paesi l'onnipotenza dell'esercito, della polizia e delle bande armate private, e innanzitutto della dittatura della fame.

Se pare che le potenze imperialistiche, spinte dai loro interessi commerciali, riallaccino rapporti col regime dell'Iran, detto "in via di democratizzazione" per l'occasione, la situazione dell'Iraq rimane immutata. La popolazione di questo paese nel suo complesso, come le sue minoranze curde e sciite, continua, non solo di sopportare la dittatura di Saddam Hussein, ma anche di subire il boicottaggio economico e i bombardamenti periodici delle grandi potenze, Stati Uniti in testa.

L'imperialismo punisce il popolo iracheno per i crimini del suo dittatore, pur accettando facilmente l'esistenza di una dittatura di più in questa regione, con le sue forti tensioni nazionali e sociali.

Il periodo rimane caratterizzato su scala del mondo dall'ascesa dei micro nazionalismi, dell'integralismo di tutte le religioni, dell'etnismo, e dalla regressione che tutto questo rappresenta.

Conviene però ricordare che l'imperialismo, pur "mondializzato" che sia, ha sempre saputo convivere con molte forme di nazionalismo o di micro- nazionalismo nei paesi poveri, quando non le ha create lui stesso. Ricordiamoci dei mini-Stati creati in America centrale, le cui frontiere coincidevano spesso con i limiti delle terre dell'United Fruit o simili. O di questi mini-Stati disegnati intorno ai pozzi di petrolio nel Koweit, Abu-Dabi o in questi Emirati Arabi, cosiddetti Uniti per derisione.

Ma le idee progressiste hanno bisogno di essere portate da forze sociali. Da molto tempo la borghesia non è più portatrice di alcun idea progressista. Con il crollo dello stalinismo che le ha fatto da modello, l'intellighenzia piccolo- borghese stessa ha abbandonato le sue infatuazioni passate per quello che chiamava "socialismo", "comunismo" o "nazionalismo progressista", per ricollegarsi con le idee più reazionarie.

La rinascita della vitalità delle idee progressiste è legata alla rinascita del proletariato quale forza politica portatrice delle idee autenticamente comuniste e capace, in nome di queste idee, di pesare sulla vita politica.

10 novembre 1999