L'Ulivo al governo

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Da "Lutte de Classe n°20 (Italia - L'Ulivo al governo)
Maggio-giugno 1996

Le elezioni del 21 aprile hanno dato la maggioranza parlamentare ad una coalizione di sinistra, per la prima volta da cinquanta anni. In effetti, dall'indomani della Seconda Guerra mondiale, l'Italia non ha conosciuto altro che una successione di coalizioni di governo sempre imperniate sul partito democristiano, che così per mezzo secolo ha fornito l'essenziale del personale politico.

La "sinistra" che accede così al governo non provoca per tanto la minima preoccupazione tra i possidenti d'Italia e del resto del mondo. Anzi, questi l'hanno salutata con segni incoraggianti tali il rialzo della Borsa di Milano o l'ascesa della lira sui mercati valutari. In effetti, gli ambienti dirigenti della borghesia italiana non hanno temuto l'arrivo di questa sinistra al governo, anzi hanno cercato di facilitarlo come un mezzo per uscire dalla crisi e dall'instabilità politica. Infatti la coalizione dell''"Ulivo" che ha vinto le elezioni fornisce certamente nel ventaglio politico così come è uscito dalla lunga crisi politica di questi anni, la migliore possibilità per la borghesia italiana di godere di un governo stabile e affidabile per quanto riguarda la difesa degli interessi dei possidenti. L'ex Partito comunista, ribattezzato da parecchi anni Partito democratico della Sinistra e maggiore componente dell'Ulivo, spera infatti di ricevere la sua definitiva consacrazione come partito di governo.

Una "sinistra" che rassicura la borghesia

Tale consacrazione è stata ricercata dai dirigenti del PC italiano, con continuità e perseveranza, sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Al crollo del regime fascista, la borghesia italiana aveva bisogno di partiti capaci di colmare la mancanza dello Stato e di contrastare ogni velleità rivoluzionaria della classe operaia. Il Partito comunista italiano fece questa parte e, come negli altri paesi d'Europa, aiutò la borghesia a ricostruire la sua autorità distrutta dalla guerra. Ma passato il breve periodo di collaborazione governativa dell'immediato dopoguerra, esso fu come gli altri rimandato all'opposizione.

Eppure i dirigenti del PC italiano, Togliatti tra l'altro, sono stati primi a teorizzare l'idea che i partiti comunisti occidentali avevano un proprio ruolo nazionale da giocare, e finalmente dovevano trasformarsi in partiti riformisti nazionali, riconosciuti come possibili membri dei governi borghesi. Ma paradossalmente, per ottenere dei posti di ministri, hanno dovuto aspettare molto di più che alcuni altri partiti meno disposti a rompere con il loro passato e rimasti di reputazione più stalinista, tali i partiti comunisti portoghese e francese. Pur avendo proclamato per anni la sua volontà di avere dei ministri, pur avendo fornito alla borghesia italiana molteplici prove della sua fedeltà al capitalismo, il PC italiano avrà dovuto aspettare quasi cinquanta anni per ottenere di nuovo una partecipazione al governo; avrà dovuto rinnegare anche il suo nome comunista e affermare di essere la versione italiana del partito socialdemocratico tedesco, e perfino del partito democratico americano; e finalmente avrà dovuto aspettare la crisi politica di questi ultimi anni, che ha sconvolto praticamente tutto il paesaggio politico.

Nel corso di questa crisi si è visto una moltiplicazione degli scandali et tra l'altro dei processi per corruzione intentati al vecchio personale politico in seguito alle inchieste dei giudici dell'operazione "mani pulite"; ad una serie di iniziative per modificare il sistema politico e tra l'altro per modificare la legge elettorale tramite la sostituzione del sistema proporzionale con un sistema maggioritario che consente un'alternanza politica. Tutto questo si è accompagnato con una riconversione generale degli uomini e apparati politici, di cui il cambiamento del nome del Partito comunista diventato semplicemente "democratico di sinistra" era insomma solo un elemento.

Ma tutto sommato è a destra che la ricomposizione politica si è fatta nel maggiore disordine. E' stata segnata dall'emergenza di queste forze politiche concorrenti quali la Lega Nord di Bossi, il partito Forza Italia del capitalista della televisione Berlusconi, e l'Alleanza nazionale sorta dall'ex partito neofascista MSI, che cercava di conquistare la rispettabilità di un partito di governo e il cui dirigente Gianfranco Fini oggi si proclama "postfascista".

Certo, grazie alla loro coalizione in seno al cartello elettorale detto "Polo delle libertà", queste tre forze hanno potuto conquistare la maggioranza nelle elezioni dell'aprile 1994. Ma il governo Berlusconi che ne è uscito è durato appena sei mesi. La coalizione si è frantumata, sotto gli effetti coniugati del movimento popolare di protesta dell'autunno 1994 contro il piano d'attacco del sistema pensionistico e delle tentazioni dei tre membri della coalizione di riprendere la loro autonomia per poter dedicarsi meglio alla demagogia nei confronti degli elettorati di ciascuno.

Dopo la rapida interruzione dell'esperienza Berlusconi, il nuovo governo ha fatto capo a Lamberto Dini, ex esperto del FMI e dirigente della Banca d'Italia, ma innanzitutto ex ministro del Tesoro del governo Berlusconi e, in quanto tale, uno dei maggiori autori dei suoi piani di austerità. La differenza sta nel fatto che questo governo Dini, presentato come un "governo tecnico", ha ricevuto il sostegno della sinistra, cioè in primo luogo del PDS, che così ha appoggiato all'inizio del 1995 i piani di austerità che combatteva, a parole almeno, quando alla fine del 1994 erano promossi dal governo Berlusconi. Questo appoggio non è stato solo parlamentare, è stato anche sociale poiché le direzioni sindacali e in primo luogo la CGIL hanno permesso l'applicazione dei piani di Dini senza notevole opposizione della classe operaia.

Così il governo Dini è stato in qualche modo un banco di prova per ciò che sarà il governo di centrosinistra che adesso arriva al governo. La prova è stata convincente, poiché la pace sociale è stata tale in quest'anno 1995 che i vertici della borghesia italiana, a cominciare dalla Confindustria o da personaggi come Agnelli, hanno chiaramente indicato che speravano solo una cosa : la continuazione, sotto una forma o l'altra, della formula del governo Dini.

Prodi, un Dini-bis

E' stato fatto prima un tentativo per prolungare il governo Dini sotto forma di una coalizione allargata a destra, quindi non solo con l'appoggio del PDS, ma anche di Berlusconi e di Alleanza Nazionale. Il progetto è fallito, non per causa del PDS, che si è mostrato aperto a tutte le alleanze, incluso Berlusconi o il "post-fascista" Fini, ma per causa di Fini stesso che ha ritenuto più abile di provocare elezioni anticipate, che lui pensava di vincere.

Il calcolo, si vede, è stato sbagliato. Non perché l'Alleanza Nazionale di Fini avrebbe perso voti, e neanche gli altri partiti di destra. Il partito di Fini ha solo ricevuto meno voti che non glielo lasciavano sperare i sondaggi, dai quali si poteva concludere che AN poteva diventare il primo partito del Polo delle libertà al posto di Forza Italia, il partito di Berlusconi. E soprattutto, a differenza di quanto è successo nel 1994, il sistema elettorale maggioritario ha funzionato a profitto della sinistra.

Questa in effetti ha potuto vincere, nonostante non ci sia stato nell'elettorato, neanche un minimo spostamento di voti a suo favore. La ragione principale sta probabilmente nel fatto che la Lega Nord che, nel 1994, aveva raggiunto il cartello elettorale del Polo delle libertà, questa volta si è tenuta in disparte e ha ridotto il Polo a due principali elementi anziché tre. La sinistra invece, sotto direzione del PDS e con l'appoggio di settori significanti della borghesia, ha pienamente approfittato del sistema maggioritario.

L'elezione di tre quarti dei deputati col voto uninominale per collegio e con un solo turno di scrutinio -e di solo un quarto dei deputati con uno scrutinio di lista e alla proporzionale- rende necessario per chi vuole ottenere una maggioranza parlamentare di concludere, prima del voto, accordi di ripartizione dei collegi tra i vari partiti. Questo è stato il ruolo essenziale svolto, a sinistra, dalla coalizione dell'Ulivo.

D'Alema, segretario del PDS e principale promotore dell'Ulivo, ha in effetti accolto sotto questo simbolo, oltre il PDS stesso, il partito ecologista dei Verdi e innanzitutto il PPI, il Partito Popolare successore della Democrazia Cristiana, o perlomeno della frazione che ha scelto l'alleanza con la sinistra. Deciso innanzitutto a conquistare -o a non respingere- l'elettorato di centro, D'Alema ha fatto di tutto per includere tra i candidati dell'Ulivo le personalità meno di sinistra, a cominciare dall'ex democristiano di cui ha fatto la figura emblematica dell'Ulivo, Romano Prodi. La presenza di questo ex dirigente dell'IRI, che gode negli ambienti manageriali italiani e internazionali della fame di un buon gestore, mirava a dare la rassicurante promessa di una buona gestione dell'economia italiana, intesa secondo i criteri capitalistici.

Ma l'Ulivo ha anche tratto beneficio di un'altra cauzione al centro con la lista Dini. Il presidente del consiglio uscente ha in effetti costituito per queste elezioni il proprio partito, Rinnovamento italiano, che non ha aderito esplicitamente all'Ulivo ma ha concluso con questo un accordo di desistenza. E' probabile che il 4% dei voti raccolto dalla lista Dini -che certo sarebbe difficile considerare come dei voti di sinistra- ha avuto la sua parte nella vittoria della coalizione costituitasi attorno all'Ulivo. Ma innanzitutto Dini portava, più ancora che la presenza di Prodi alla testa di tale coalizione, la cauzione esplicita degli ambienti più responsabili della borghesia all'Ulivo. La sua lista era la testimonianza che questi ambienti facevano tutto il possibile per tentare di incanalare i voti dell'elettorato nella costruzione politica elaborata da D'Alema.

Eppure c'era ancora un rischio. Questa costruzione era talmente tesa verso il centro, di cui D'Alema voleva prendere i voti senza lasciarli fuggire verso il Polo delle libertà, che essa poteva invece inciampare sulla sinistra. E qui Rifondazione comunista ha avuto una parte essenziale.

Rifondazione Comunista e l'Ulivo

Rifondazione comunista è nata sulla scia dell'opposizione di una parte della base operaia dell'ex Partito comunista italiano alla sua trasformazione in un semplice Partito democratico della sinistra. Rifondazione comunista ha proclamato la sua opposizione alla politica sempre più centrista del PDS e affermato il suo attaccamento alla referenza comunista, ma la questione delle alleanze elettorali nel contesto del sistema maggioritario lo costringeva a scegliere : aderire all'alleanza con l'Ulivo, o perlomeno allearcisi, o mantenersi in disparte col rischio di essere accusato di facilitare la vittoria delle destre, e anche il rischio di non avere alcun deputato eletto nel voto maggioritario.

Certo, si tratta di un rischio politico che un partito chiaramente schierato sul terreno degli interessi operai avrebbe potuto e dovuto assumere. Tanto non era un gran rischio. Dal lato politico, il carattere di raggruppamento borghese della coalizione dell'Ulivo era tanto più chiaro per gran parte dell'opinione operaia che questa ha appena avuto, con il governo Dini, un assaggio di cosa sarà la politica di questa sinistra al governo. Dal lato parlamentare, Rifondazione comunista non rischiava neanche di perdere tutti i suoi deputati (e anche questa eventualità non avrebbe dovuto fare paura ad un vero partito operaio), siccome era sicura di avere degli eletti nel quarto dei deputati scelti alla proporzionale. Eppure la direzione di Rifondazione comunista non ha mai preso in considerazione seriamente la possibilità di tenersi in disparte da un accordo di desistenza con l'Ulivo. Certo, il partito non è entrato nell'alleanza dell'Ulivo stessa, e cioè si è presentato con il proprio programma. Ma esso ha concluso con l'Ulivo un accordo di ripartizione dei collegi esattamente come se ne fosse stato membro, con l'impegno di votare per l'Ulivo in tutti i posti in cui Rifondazione cedeva il passo ai candidati di questa coalizione, cioè nella maggior parte dei casi.

Per una parte della base di Rifondazione comunista, tale accordo di desistenza era difficile da accettare. Certo il fatto di votare per la lista di Rifondazione nella parte proporzionale non era affatto un problema. Invece l'impegno nel patto elettorale con l'Ulivo significava concretamente che per il secondo voto, quello per i deputati eletti al voto maggioritario, i militanti e elettori di Rifondazione dovevano, nella maggior parte dei collegi, votare per un rappresentante del PDS, dei Verdi o per un Democristiano spesso abbastanza compromesso. Alcune federazioni hanno espresso la loro aperta opposizione a questa politica, e alcuni militanti hanno comunque scelto di limitarsi al voto per Rifondazione alla proporzionale, con un voto bianco o un'astensione al maggioritario.

"Accordo tecnico" o sostegno politico ?

Eppure la direzione di Rifondazione comunista ha difeso questo accordo con l'argomentazione che si trattava di un accordo "tecnico", di cui lo scopo era solo di "battere le destre", e non di un accordo politico. Essa ha cercato di segnare una distanza con l'Ulivo col presentarsi in queste elezioni sotto il proprio programma.

Ma, oltre il fatto che tale programma in realtà non era tanto diverso da quello dell'Ulivo, è ovvio che l'accordo di desistenza non era solo tecnico. Il fatto di affermare che votare per un democristiano, un verde, un rappresentante del PDS o uno di Rifondazione è solo una questione tecnica, significa almeno riconoscere qualche parentela politica tra queste diverse forze. E infatti il solo discorso sulla necessità di "battere le destre" portava a nutrire nell'elettorato operaio l'illusione che nella politica dell'Ulivo c'era qualcosa di diverso, rispetto alla coalizione di destra, che poteva essere più favorevole, o meno sfavorevole, agli interessi dei lavoratori. Ma di più, come si poteva considerare questo accordo solo "tecnico" -cioè con l'unico scopo, se capiamo bene, di garantire l'elezione di deputati nonostante un sistema elettorale sfavorevole- mentre stava per essere completato con l'annuncio dell'appoggio al governo che sarebbe uscito dalla vittoria dell'Ulivo.

In effetti, col proclamare che il primo obiettivo era di "battere le destre" il giorno del voto, Rifondazione già si collocava, politicamente, nel campo dell'Ulivo. Ma non gli era possibile di confessarlo apertamente nei confronti della propria base, e la campagna elettorale imponeva a Rifondazione di avere un doppio discorso e, nella propaganda elettorale, di provare a segnare la differenza con l'Ulivo.

Questo era l'obiettivo del programma portato avanti da Rifondazione comunista, che doveva dimostrare la sua indipendenza politica nei confronti dell'Ulivo. Tale programma veniva presentato come un insieme di "dieci punti per i primi cento giorni della prossima legislatura" "da attuare nei suoi primi mesi di vita", dopo avere ottenuto, nel voto del 21 aprile, la sconfitta delle destre". Si presentava come "una terapia d'urto riformatrice per i primi cento giorni" che Rifondazione proclamava di volere esigere dal governo di centrosinistra in tal modo che segni "una svolta netta e radicale rispetto alle politiche del governo Dini".

In effetti, era prevedibile, molto prima del voto del 21 aprile, che Rifondazione comunista si sarebbe rafforzata elettoralmente, traendo beneficio dal semplice fatto di essere apparsa, per un anno, l'unica opposizione di sinistra al governo Dini. Tutto il discorso tenuto dai dirigenti di Rifondazione comunista durante la campagna elettorale mirava a mantenere questa immagine, passando sulla contraddizione che c'era nel presentarsi come degli oppositori alla politica di Dini mentre, allo stesso tempo, si faceva parte di un raggruppamento elettorale che andava appunto da Rifondazione a... Dini, via D'Alema e Prodi.

Così i tabelloni elettorali di Rifondazione furono adornati con un gran manifesto che proclamava "ma Dini no", col motivo che il partito non chiamava a votare Dini nel collegio in cui esso si candidava nell'ambito dell'accordo con l'Ulivo. Ma chi era questo strano oppositore che, in tutti gli altri casi, chiamava a votare per i candidati di D'Alema, Prodi ed altre componenti dell'Ulivo che, appunto, promettevano di proseguire la politica di Dini, e tra l'altro concludevano un accordo con lui ?

l programma elettorale di Rifondazione Comunista

Il programma dei "cento giorni" di Rifondazione mirava quindi a far capire che il partito avrebbe sostenuto un eventuale governo di centrosinistra solo nell'ipotesi in cui questo governo si sarebbe chiaramente impegnato a difendere alcuni obiettivi. Ma da un lato, il segretario di Rifondazione Bertinotti non diceva mai chiaramente cosa avrebbe fatto, caso mai tale governo avesse rifiutato, comme era prevedibile, di impegnarsi su questi obiettivi. D'altra parte e innanzitutto, questi obiettivi venivano espressi in un modo abbastanza vago per lasciare tutte le porte aperte.

Così i "dieci punti" del programma di Rifondazione erano, come al solito, un catalogo di discorsi generici tra i quali si trova : una politica del pieno impiego, una nuova politica economica e la rinascita del Sud, un'equa e radicale riforma fiscale, , la difesa e la riforma dello Stato sociale, della scuola pubblica e della libertà della cultura, un'informazione pulita e la difesa dell'ambiente, il diritto alla casa, la difesa e lo sviluppo della democrazia e l'indipendenza della magistratura, una politica di pace... Tanti discorsi sui quali si possono impegnare i riformisti di tutti i paesi, nella misura in cui non contengono, in genere, un solo impegno concreto e preciso rispetto ai diritti operai.

In effetti, sotto questo aspetto, l'unico punto un po preciso che conteneva il programma di Rifondazione riguardava la scala mobile dei salari, e non per caso esso è stato evocato dalla stampa come unico ostacolo possibile per un accordo tra Rifondazione e il centrosinistra. Si tratta di una questione sensibile, poiché la scala mobile dei salari, dopo una serie di tagli, è stata soppressa nel 1993 da un accordo tra le confederazioni sindacali e il governo Ciampi -un predecessore di Dini che godeva, già, della neutralità più che favorevole del PDS. Questa misura ha aiutato il calo sempre più sensibile del potere d'acquisto operaio in un paese che rimane, tra i paesi dell'Unione europea, uno dei paesi di forte inflazione. Ma è notevole che, su questo punto, Rifondazione ha scelto una formulazione elastica che, tra l'altro, non rivendicava il ripristino immediato di ciò che era stato soppresso ma la reintroduzione "di una indicizzazione automatica dei salari e degli stipendi : una nuova "scala mobile"".

Con tale formulazione, è chiaro che basterebbe che il governo Prodi si dichiari d'accordo per studiare una misura del genere, rimandandola per esempio ad un'ulteriore negoziazione tra il padronato e i sindacati sotto gli auspici del governo, per permettere a Rifondazione di giustificare il suo voto a favore di questo governo, pur pretendendo di non avere rinnegato il suo programma. In effetti, Bertinotti a già detto, su questa questione della "scala mobile", che era "abituato a trattare", un modo per fare capire che era aperto a tutti i compromessi.

In effetti, le elezioni hanno dato a Rifondazione l'8,6% dei voti (invece del 6% del 1994) e i voti dei suoi deputati sono indispensabili al governo Prodi, a meno che questo riesca ad aprire la sua maggioranza ad una frazione della destra, o alla Lega del Nord. Questa è stata l'altra vincitrice di queste elezioni e la sua demagogia "secessionista" mira ad alzare il prezzo di un accordo con il governo, o ad approfittare elettoralmente del malcontento che Prodi susciterà inevitabilmente. Invece tutto l'atteggiamento di Bertinotti mira a giustificare un appoggio a Prodi, e non una rottura.

Rifondazione con le spalle al muro

In effetti la vittoria elettorale del centrosinistra mette a Rifondazione le spalle al muro. In cinque anni di esistenza, il partito si è accontentato di presentarsi come l'unica opposizione di sinistra, nello stesso tempo che il PDS ere impegnato in una marcia forzata verso il centro per presentarsi ad ogni costo come un partito di governo. Rifondazione, e tra l'altro Bertinotti dal momento che è stato segretario del partito, hanno fatto il necessario per sfruttare al meglio il capitale elettorale che la marcia a destra del PDS lasciava scoperto a sinistra. Invece Rifondazione non ha fatto alcun sforzo per tentare di dare, a questa opposizione, il contenuto di lotta di classe che avrebbe potuto darle un carattere altro che elettorale e parlamentare.

Nel campo sindacale per esempio, è notevole che, se Bertinotti ha criticato la compromissione dei dirigenti delle confederazioni con il governo Dini -e i suoi predecessori-, esso è stato attento a non dare ai militanti di Rifondazione un qualsiasi orientamento che avrebbe portato la direzione del partito a prendere le sue responsabilità di fronte alla politica dei vertici del sindacato. Eppure, pur se le sue forze sono limitate, pur se la maggior parte dei quadri sindacali della CGIL si è schierata dalla parte del PDS, Rifondazione comunista è un partito di almeno 100000 tesserati, di cui molti lavoratori, e non sarebbe affatto senza possibilità per portare avanti, nel sindacato e nella classe operaia, una politica che non sarebbe solo elettorale.

Oggi, la situazione mette Bertinotti all'incrocio. La soluzione migliore per lui sarebbe senz'altro di potere mantenersi in questa situazione di opposizione di sinistra, puramente verbale. Ma l'Ulivo deve potere contare sul sostegno parlamentare di Rifondazione. E innanzitutto ha bisogno di dimostrare alla borghesia che è capace di neutralizzare le possibili opposizioni di sinistra, e che dispone da questo lato, con Rifondazione, di una cauzione che è garanzia di pace sociale.

Per l'Ulivo e il PDS, non c'è ragione di lasciare Rifondazione occupare comodamente tale posto di oppositore, nel momento in cui essi si impegnano in una politica che comporterà, ovviamente, numerosi attacchi anti-operai. L'attuale sistema elettorale, e ancora di più i progetti di riforma elettorale che l'Ulivo è pronto ad adoperare con il probabile sostegno di una parte della destra, sono un mezzo di ricatto possibile contro Rifondazione per costringerla a sostenere l'Ulivo, o almeno a non combatterlo seriamente. Questo ricatto è già stato efficace nel periodo preelettorale e lo sarà ancora, certamente, se Rifondazione cerca di mercanteggiare il suo sostegno, come tale ricatto alla desistenza lo può essere nei confronti di un partito essenzialmente elettoralistico; e questo è il caso, appunto, di Rifondazione.

Se essa si attiene alla politica sinora proclamata, che sarebbe di appoggio esterno e di vigilanza affermata nei confronti del governo dell'Ulivo, la direzione di Rifondazione dovrà nel prossimo periodo perfezionare questa politica doppia. Di questo tipo di politica si è avuto un esempio in Francia con l'atteggiamento assunto per molti anni dal Partito comunista francese nei confronti dei governi socialisti, dopo la sua uscita da questi governi : una politica fatta da critiche verbali, qualche volta anche radicali, ma che non ha mai rifiutato di dare un sostegno parlamentare quando era necessario.

La direzione di Rifondazione comunista riuscirà a cavarsela in tale situazione ? Ovviamente questo dipenderà di molti fattori, dell'ampiezza della crisi, della politica del governo Prodi, delle reazioni della classe operaia. Forse gli sarà più facile di giustificare questa politica nel primo periodo del governo Prodi, in cui questo può godere di qualche benevolenza dell'opinione, che in seguito. Ma questo riguarda la direzione di Rifondazione, non i militanti rivoluzionari.

Quale opposizione rivoluzionaria ?

Purtroppo, in Italia, l'estrema sinistra rivoluzionaria ha attraversato in questi anni un periodo di decomposizione quasi completa. Questo ha portato una parte dei suoi militanti a rifugiarsi nell'attività d'opposizione sindacale, con l'illusione che da questa sola attività potesse rinascere un sedicente "sindacato di classe" nel quale pensano di vedere, alcuni un possibile sostituto al partito rivoluzionario, gli altri un'eventuale scorciatoia verso la creazione di tale partito. Un'altra parte di questi militanti -e qualche volta gli stessi- è stata portata, vuoi per scelta politica, vuoi perché non trovavano più nessuna altra possibilità concreta, a raggiungere le file di Rifondazione. E l'adesione della direzione di questo partito al governo Prodi potrebbe rendere la situazione politicamente sempre più difficile per tutti quelli che si rivendicano ancora delle idee rivoluzionarie.

Certo, in seno a Rifondazione, è chiaro che molti hanno abbandonato ogni preoccupazione di questo genere. E' il caso della maggior parte degli ex dirigenti di Democrazia proletaria, che dopo avere raggiunto Rifondazione comunista nel momento della sua fondazione, si trovano oggi nel cerchio dirigente attorno a Bertinotti. E' anche il caso dei maggiori rappresentanti dell'ex gruppo del Segretariato Unificato della Quarta nternazionale in talia, tra l'altro Livio Maitan, che chiaramente hanno scelto di non differenziarsi più dal gruppo dirigente bertinottiano.

Dell'ex gruppo della Quarta nternazionale in talia, solo una minoranza rappresentata alla direzione di Rifondazione da Franco Grisolia e Marco Ferrando e raggruppata attorno alla rivista "proposta", ha scelto di opporsi chiaramente alla politica filogovernativa di Rifondazione. Ma in realtà molti altri militanti del partito non si accontentano affatto dell'orientamento bertinottiano. Alcuni provengono dalla vecchia estrema sinistra, ma molti altri provengono dall'ex PC e avevano pensato che la nascita di Rifondazione rappresentasse la possibilità di un vero orientamento comunista. Questo stato d'anima, fatto di diffidenza rispetto a tutto ciò che ricorda la tradizionale politica di collaborazione di classe dell'ex PC italiano, non è affatto trascurabile all'interno di Rifondazione. I precedenti voti interni -tra l'altro quello del 1994 a proposito dell'eventualità dell'entrata di Rifondazione al governo in caso di vittoria della sinistra- hanno dimostrato che questa area poteva rappresentare fino al 30% dei militanti.

Certo questi militanti potrebbero rappresentare la possibilità che nascano in Italia, nei prossimi mesi e anni, altre possibilità politiche per la classe operaia. Sarebbe in effetti indispensabile che rinasca una vera corrente comunista rivoluzionaria, abbastanza radicata nella classe operaia e abbastanza influente per far nascere un vero partito comunista. La condizione per questo sarebbe di segnare, fin da oggi, un'indipendenza completa nei confronti della direzione bertinottiana, della sua doppiezza e delle sue ambiguità che sono in linea con una certa tradizione italiana di "massimalismo" a parole e di riformismo nei fatti.

Certo, per i militanti che porterebbero avanti tale politica, il successo non sarebbe garantito. Non sarebbe sufficiente proclamare un'opposizione alla linea di Bertinotti e proporre un'altro programma. Bisognerebbe ancora battersi alla base, nella classe operaia, in Rifondazione e fuori di Rifondazione, conquistare la fiducia dei lavoratori e dei militanti, essere in grado di proporre nelle lotte operaie una politica giusta e di avere dei successi. E' una strada difficile ma è la condizione perché, un giorno o l'altro, possa emergere una vera direzione rivoluzionaria della classe operaia, e non essite un'altra strada.

Bisogna porre la questione della creazione di un vero partito rivoluzionario, di un partito proletario orientato verso la lotta di classe. Questo può dipendere dei militanti, relativa mente numerosi, che oggi esprimono delle reticenze rispetto all'orientamento sempre più collaborazionista della direzione bertinottiana. Ma se essi si limitano a questo tipo di reticenze, a questo cattivo umore di cui molti partiti comunisti sono stati il teatro in situazioni simili senza che questo portasse ad una vera rottura con la politica della direzione, allora questi militanti rimarranno immancabilmente prigionieri di questa catena di solidarietà che va dalla sinistra di Rifondazione a Bertinotti, da Bertinotti a D'Alema e al PDS, dal PDS a Prodi e da quest'ultimo alla borghesia. Essi rischiano allora di non conoscere altro futuro politico che la riproduzione dell'elettoralismo e del parlamentarismo tradizionali del vecchio PC togliattiano. (9 maggio 1996)