L'altromondismo

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Testi del 33 congresso di Lutte Ouvrière (da "Lutte de classe" n 77)
dicembre 2003

La corrente "altromondista", dai contorni mal definiti, col suo linguaggio contestatario ma nel quadro dell'ordine costituito, coi suoi obiettivi utopistici benché derisori perché destinati a convincere le autorità politiche, occupa oggigiorno uno spazio crescente nell'attualità politica, non tanto per l'interesse che suscita quanto piuttosto a causa della perdita di credito dei partiti di sinistra, che si aggiunge alla perdita, ben più anziana, dei riferimenti al marxismo.

Questa corrente eterogenea afferma di incarnare la contestazione nei confronti di un fenomeno designato nel gergo di certi economisti col termine "mondializzazione " o, a volte, "globalizzazione" espressioni riprese dagli uomini politici e propagata dai mass-media. Presentata all'inizio come "antimondialista", oggi preferisce dirsi "altromondista". Vero è che il termine "antimondialismo" significa combattere la mondializzazione, cosa che sarebbe tanto chiaramente utopistica che reazionaria.

In Francia, l'organizzazione Attac si presenta come la principale rappresentante della corrente altromondista. Ma ben altre organizzazioni del cosiddetto movimento sociale, come la Confederazione contadina di José Bové, rivendicano l'appartenenza a questa corrente.

Per gli altromondisti , la "mondializzazione", nel senso in cui la intendono e la contestano, sarebbe un fenomeno relativamente recente, che si sarebbe imposto a partire dalla metà degli anni settanta circa, di cui il "neo-liberismo" di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher era l'espressione politica.

Al di là delle critiche della politica degli "altromondisti", bisogna dunque interrogarsi sulla validità dell'analisi dell'evoluzione dell'economia sulla quale questi pretendono fondarsi e sulla natura dei cambiamenti intervenuti nel funzionamento dell'economia mondiale nell'ultimo quarto del XX secolo.

La mondializzazione, nel senso dell'emergenza di un'economia mondiale, l'internazionalizzazione della produzione, sono inseparabili dallo sviluppo capitalistico. Nel 1848, più di un secolo e mezzo fa, il Manifesto comunista la descriveva come una delle caratteristiche del capitalismo : "il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia a insediarsi su tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve infiltrarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto creare relazioni. (...) All'antico isolamento locale e nazionale e all'autosufficienza, subentra uno scambio mondiale, una universale interdipendenza delle nazioni".

Marx fu il primo ad analizzare le conseguenze su larga scala della mondializzazione capitalistica citando come esempio la rovina della produzione tessile artigianale in India a causa dello sviluppo dell'industria tessile capitalistica in Inghilterra.

Gli "altromondisti" inoltre attribuiscono alla parola "mondializzazione" un altro senso : quello della dominazione delle "multinazionali" che dettano le loro leggi anche ai governi ; la vittoria del capitale finanziario sul capitale industriale ; i paesi "del sud" -designati in questo modo nel vocabolario altromondista per non dire paesi "sottosviluppati" o "poveri", espressioni considerate come peggiorative- soffocati dalla finanza dei paesi imperialisti ; una dominazione dell'economia di un piccolo numero di grandi potenze, essenzialmente quella degli Stati-Uniti, sul resto del mondo.

Ma neanche da questo punto di vista il fenomeno è veramente nuovo. Nel 1916, Lenin definiva così l'imperialismo : "l'imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l'esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell'intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici." e aggiungeva : "Monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un pugno di nazioni più ricche o potenti : sono le caratteristiche dell'imperialismo, che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente. Sempre più netta appare la tendenza dell'imperialismo 'a formare lo "Stato rentier", lo Stato usuraio, la cui borghesia vive esportando capitali e "tagliando cedole".

Il termine "mondializzazione", così come lo utilizzano gli altromondisti, comprende in realtà un certo numero di cambiamenti, reali, che hanno accentuato alcuni tratti del capitalismo nello stadio imperialista senza tuttavia modificarli fondamentalmente. Essenzialmente, si tratta di un accrescimento degli scambi internazionali ben più forte di quello della produzione; l'eliminazione progressiva dei protezionismi imposta dagli Stati di fronte al movimento e agli investimenti di capitali ; la predominanza come mai raggiunta prima del capitale finanziario sul capitale produttivo, che aggrava il parassitismo del grande capitale ; la "deregolamentazione" e la rimozione delle barriere che toglie gli ostacoli giuridici che vietavano per esempio ad una banca di esercitare attività assicurative e reciprocamente, e infine l'ampiezza delle concentrazioni di capitali ed il rafforzamento della potenza dei trust multinazionali sull'economia mondiale. Queste variazioni di grandezza non hanno modificato i caratteri fondamentali dell'imperialismo che descriveva Lenin.

La discussione intorno all'utilizzazione del termine "mondializzazione" non è una semplice questione di vocabolario. Il termine è sufficientemente largo per metterci dentro tutto ed il suo contrario e nasconde soprattutto il fatto che anche i tratti dell'economia capitalistica mondiale che si sono modificati nell'ultimo trentennio risultano dallo sviluppo organico del capitalismo stesso. Questo termine è destinato a fare da punto d'appoggio all'idea politica suggerita dalla corrente altromondista che, per far fronte all'attuale situazione catastrofica, basterebbe ritornare al vecchio funzionamento dell'economia imperialista.

L'attuale tendenza all'abbassamento delle barriere protezionistiche è nuova solo se la confrontiamo al protezionismo esacerbato del periodo tra le due guerre, che si è prolungato durante e dopo la seconda guerra mondiale. Nei primi decenni dell'era imperialista, diciamo dal 1870 al 1914, l'economia ha conosciuto un primo periodo di grande mobilità dei capitali al di là delle frontiere e di fortissimo sviluppo del commercio internazionale. I grandi gruppi industriali e finanziari che soffocavano -già !- nelle frontiere nazionali si appoggiavano sulla potenza militare e sulla diplomazia dello Stato nazionale per "mondializzare" -già !- la loro produzione ed il loro mercato. La guerra del 1914 ha segnato la fine di questo periodo di "mondializzazione" e l'inizio del ripiego sul protezionismo, sulle monete nazionali e sul controllo dei cambi.

Ma in nessuno di questi due periodi, l'imperialismo è stato il terreno della libera concorrenza e delle pure leggi di mercato. La spartizione del mondo da parte di una mezza dozzina di grandi potenze imperialiste alla fine del XIX secolo è stata l'espressione nello stesso tempo del carattere mondiale dell'economia sotto l'imperialismo e del carattere protezionistico della dominazione imperialista di quest'epoca. Il controllo diretto, politico altrettanto che economico, delle grandi potenze su questa o quella parte del mondo, non mirava solo a preservare meglio la loro dominazione economica sui popoli interessati, ma, ancor di più, a difendere la loro sfera d'influenza contro la penetrazione delle potenze imperialiste concorrenti. La forma coloniale della dominazione imperialista era essenzialmente protezionistica. Gli Stati-Uniti erano occupati a quest'epoca nella conquista dell'ovest americano che si rivelò essere un elemento determinante dell'estensione del loro enorme mercato interno. Per il resto, gli Stati-Uniti non hanno provato il bisogno di proteggere la loro sfera d'influenza tramite un dominio coloniale, con qualche eccezione (Filippine, Portorico, l'America centrale ad una certa epoca). Questi avevano altri mezzi ben più efficaci : la loro potenza economica e, quando necessario, la loro potenza militare.

La grande crisi capitalistica mondiale dell'anno 1929 spinse il protezionismo verso l'esterno e lo statalismo all'interno ad un grado senza precedenti : l'economia tedesca sotto il nazismo ne fu il modello spinto all'estremo. Ciononostante durante la guerra, tutte le potenze imperialiste si incamminarono sulla stessa strada.

Statalismo al servizio del grande capitale e protezionismo furono le ultime armi dell'economia imperialista di fronte alla grande crisi cominciata nel 1929. Il protezionismo e lo statalismo al servizio del grande capitale furono soprattutto dei mezzi per sviluppare un'economia rivolta verso la guerra. Vi ci portarono naturalmente e perdurarono durante e nell'immediato dopoguerra.

Ancora durante il periodo della ricostruzione economica, quando il ruolo degli Stati nazionali è stato decisivo, questi opposero le barriere doganali, il contingentamento, gli ostacoli tariffari e tecnici e il controllo dei cambi alla libertà di movimento delle merci e dei capitali.

Negli anni che seguirono la guerra, il movimento di decolonizzazione pose termine, più o meno rapidamente secondo i colonizzatori, alle riserve di caccia coloniali delle potenze imperialiste di secondo rango.

Fatto politico imposto dalla rivolta dei popoli colonizzati, la rivoluzione coloniale divenne essa stessa, sul piano economico, uno dei fattori dell'evoluzione dell'economia imperialista, aprendo più o meno le vecchie riserve di caccia alla concorrenza internazionale.

Se alcuni paesi, in seguito alle lotte di emancipazione coloniale, per esempio la Cina, tentarono di modernizzare la loro economia nazionale con mezzi statali e al riparo delle barriere protezionistiche, la maggior parte dei paesi diventati indipendenti si sono semplicemente ritrovati nella stessa situazione di quelli dell'America Latina di fronte agli Stati-Uniti. La loro indipendenza giuridica nascondeva non solo la dipendenza economica totale di fronte all'imperialismo, ma anche il carattere limitato della loro indipendenza politica.

Cosi' come gli Stati-Uniti hanno pesato e pesano sull'America Latina e intervengono direttamente e militarmente (Guatemala, Santo Domingo o Granada) oppure fomentando golpe militari (Cile, Argentina e ben altri), le potenze imperialiste secondarie hanno dovuto modificare il loro modo di influenzare le vecchie colonie.

Nelle relazioni inter-imperialiste, gli Stati-Uniti erano, fin dalla fine della guerra, in condizioni di pesare nel senso dell'abbassamento del protezionismo... soprattutto del protezionismo delle altre potenze imperialiste nei loro confronti. Le istituzioni internazionali messe in piedi, la Banca mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l'Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio (GATT) antenato dell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO), erano destinate a fare da quadro ai molteplici negoziati che miravano a far saltare più ostacoli possibile al commercio internazionale. Ma ciò che avvantaggiava gli uni sfavoriva gli altri, e questi accordi, sempre limitati, hanno avanzato lentamente. Gli accordi di Bretton-Woods che crearono un sistema monetario basato sul dollaro, esso stesso convertibile in oro, erano ugualmente previsti per facilitare il baratto e gli accordi bilaterali e trilaterali, che per molto tempo sono stati la sola forma di commercio internazionale, o tentare di mettere dell'olio nei circuiti degli scambi. Ma se il dollaro, diventato mezzo di pagamento universale, facilitava il commercio internazionale, serviva allo stesso tempo gli interessi degli Stati-Uniti, sola potenza che aveva la possibilità di finanziare le sue importazioni e soprattutto i suoi enormi prestiti agli altri paesi, con una moneta di sua fabbricazione.

La creazione del mercato comune tra un certo numero di paesi europei, i lunghi negoziati tra Stati per arrivare ad un abbassamento delle barriere doganali, il cammino verso la moneta unica sono stati la concretizzazione sul continente europeo dell'evoluzione globale dell'economia imperialista.

La crisi monetaria del 1971-1973, espressione di una vera crisi economica che aprì un lungo periodo di stagnazione o di debole crescita produttiva, accelerò il movimento per arrivare ad un situazione in cui i grandi trust cercarono di sancire giuridicamente quanto facevano già nei fatti, vale a dire investire liberamente dove volevano, quando lo volevano e come lo volevano.

Contrariamente alle stupidità propagate dalla corrente altromondista, i trust non sono arrivati a questo scopo frantumando la sovranità degli Stati. La politica di riduzione degli ostacoli protezionistici tra Stati, completata dalla "deregolamentazione", non è stata portata avanti contro gli Stati e contro la loro "sovranità", ma dagli Stati stessi, ognuno dei quali cercava di far prevalere gli interessi dei suoi propri gruppi industriali e finanziari. In effetti, nessuno di questi grandi gruppi può contentarsi del mercato nazionale.

Il WTO non è un'entità caduta dal cielo per imporre le sue volontà calpestando la "sovranità" degli Stati. Esso risulta piuttosto dalla volontà, condivisa dagli Stati imperialisti, di creare un quadro dove si possano negoziare accordi globali che concilino, nella misura del possibile, gli interessi contraddittori dei loro trust. E, contrariamente alla mitologia "altromondista", non sono tanto gli Stati-Uniti, abbastanza potenti da poter imperare nella giungla del mercato mondiale, ad avere bisogno di un organismo di arbitraggio quanto le potenze imperialiste di seconda zona.

Allo stesso modo, le istituzioni europee non costituiscono uno Stato sopranazionale che impone agli Stati nazionali politiche favorevoli al grande capitale. Queste risultano piuttosto da accordi lungamente mercanteggiati tra gli Stati nazionali, ognuno dei quali ha come obiettivo di assicurare una migliore posizione alla sua propria borghesia sul mercato europeo.

Si vede bene d'altronde che gli Stati europei più forti, i cui deficit del bilancio oltrepassano largamente il limite previsto del 3% teoricamente tollerato, calpestano senza nessun problema questa regola, riservata senza dubbio ai più deboli.

Non solo la "mondializzazione" non ha ridotto il ruolo degli Stati nazionali, ma in più gli fornisce dei campi supplementari di intervento per difendere gli interessi delle loro borghesie quali le organizzazioni internazionali -WTO, FMI, Banca mondiale- senza neanche parlare del ruolo crescente degli Stati per aiutare i loro capitalisti sui loro mercati interni (sovvenzioni, aiuti, molteplici forme di protezionismo aperto o mascherato, politiche di riarmo, ecc.). Questo vale anche per dei raggruppamenti politici-economici come l'Unione Europea. Gli Stati dell'Unione Europea -e neanche tutti...- hanno accettato di abbandonare qualche aspetto delle loro prerogative come il diritto di battere moneta. Per i trust francesi, tedeschi, olandesi o belgi è diventato vitale il fatto di far cessare la penalizzazione del commercio intraeuropeo con le fluttuazioni tra diverse monete. Da qui la decisione di creare l'euro. Ma gli Stati continuano a sorvegliarsi reciprocamente affinché questo "abbandono di sovranità" interessato non rechi danno alla loro borghesia , calpestando quando necessario le "regole comunitarie" che essi stessi hanno dettato. In questo braccio di ferro permanente tra gli Stati, ciò che decide sono ben più i rapporti di forza che queste regole, vale a dire le potenze rispettive delle loro economie ma, anche, degli Stati.

Gli scambi commerciali mondiali, la cui crescita è evocata dai fautori della globalizzazione come un'espressione dei legami supplementari tra gli uomini del pianeta, riguardano, per un terzo, scambi all'interno di uno stesso trust multinazionale e, per un altro terzo, tra i grandi trust mondiali.

Così, ciò che viene presentato come "l'apertura totale del mercato mondiale" non è né veramente mondiale né veramente un mercato. I legami finanziari e commerciali tessuti su scala planetaria lasciano ai margini paesi interi in Asia e in America Latina, o addirittura continenti interi come l'Africa. E, all'interno stesso dei grandi paesi integrati nei circuiti dell'economia capitalistica mondiale, lo sviluppo è disuguale : delle regioni ad alta concentrazione industriale e finanziaria costituiscono isole in paesi lasciati per altri versi sul bordo del cammino. Questa evoluzione scava ancor più il fossato tra i paesi e le regioni sviluppate ed i paesi e le regioni dove la miseria aumenta.

Negli anni settanta, la necessità di "riciclare" i dollari accumulati grazie all'esplosione del prezzo del petrolio e che la produzione, stagnante, era incapace di assorbire producendo profitto, ha portata i grandi gruppi finanziari a fare importanti prestiti a molti Stati del terzo mondo. Così, alcuni di questi si sono ritrovati con un potere d'acquisto che li ha integrati nel commercio internazionale con un tasso di progressione delle loro esportazioni e soprattutto delle loro importazioni spesso maggiore che tra paesi sviluppati.

I commentatori vantavano allora i progressi dei paesi "in via di sviluppo". Ma le "crisi del debito", la bancarotta del Messico, la crisi asiatica, la rovina di diversi paesi e della loro piccola-borghesia e la caduta spaventosa delle loro masse popolari nella miseria hanno mostrato quanto questa "integrazione economica" era disuguale. Lo sviluppo del commercio internazionale è, da diversi anni, dovuto all'interpenetrazione economica delle grandi regioni imperialiste : Stati-Uniti, Canada, Europa occidentale e Giappone.

L'economia funziona con un indebitamento surreale. Gli stessi Stati imperialisti, in primo luogo gli Stati-Uniti, sono indebitati fino al collo. L'insieme del debito americano raggiunge la somma inimmaginabile di 33 mila miliardi di dollari, più del triplo della produzione interna lorda di questo paese, vale a dire tre volte più che l'insieme dei beni e dei servizi prodotti in un anno dall'economia più potente del mondo ! Il debito pubblico stesso, vale a dire il debito dello Stato americano, è superiore al prodotto interno lordo. Ciò significa che il grande capitale preleva una decima anche sulla popolazione dei paesi imperialisti che deve pagare, tramite le tasse o tramite la degradazione dei servizi pubblici e delle condizioni di vita, gli interessi del debito pubblico.

Ma l'aspetto più rivoltante di questa economia di indebitamento generalizzato è senza dubbio il debito dei paesi del terzo mondo poiché, benché molto inferiore a quello dei paesi ricchi, il solo pagamento dell'interesse ha portato a dei prelievi usurai colossali che strangolano questi paesi e dissanguano i loro contadini poveri ed i lavoratori.

I trasferimenti quasi istantanei di capitali, facilitati dall'abbandono generalizzato del controllo dei cambi, la deregolamentazione e l'abolizione delle barriere tra diversi settori della finanza hanno portato a ondate di speculazioni, a delle crisi finanziarie ripetute e soprattutto, ad un immenso spreco di forze produttive, alla polarizzazione delle ricchezze, all'aumento dell'ineguaglianza tra classi sociali all'interno di uno stesso paese e tra paesi sviluppati e paesi poveri.

Il capitale finanziario spinge allo smantellamento dei servizi pubblici e, in questo modo, demolisce ciò che è utile a tutta la popolazione e trasforma i settori più redditizi in oggetti di speculazione. Lo smantellamento delle barriere protezionistiche si è applicato soprattutto ai paesi sottosviluppati. Il sogno accarezzato dai dirigenti nazionalisti di un certo numero di paesi sottosviluppati di assicurare lo sviluppo di un'industria nazionale grazie alla statalizzazione è stato distrutto.

La base stessa del movimento altromondista è estremamente eterogenea, e va da quelli che protestano contro questo o quel danno all'ecosistema o che si oppongono all'utilizzo di organismi modificati geneticamente, ai movimenti pacifisti ; mischia sindacalisti riformisti, studenti indignati dalle ingiustizie, contadini che difendono la loro esistenza.

Quanto alla direzione, ci si trovano sedicenti apolitici come José Bové, stalinisti non riconvertiti come Jacques Nikonoff, dirigenti reazionari di sindacati americani, politici "sovranisti" come Chevènement, socialdemocratici che, dopo aver passato anni al governo, cercano di rifarsi una verginità e anche, certo, qualche gruppo che si rivendica del comunismo rivoluzionario.

Necessariamente, questo insieme variegato non può ritrovarsi che su alcuni slogan, alcune rivendicazioni che, anche quando sono giuste, il che non è sempre il caso, propongono obiettivi che sono in qualche modo il minimo comune denominatore tra correnti eterogenee, la cui quasi totalità non si pone il problema di rovesciare il capitalismo ma solo di migliorarlo.

E' una corrente che non sarebbe esatto qualificare di "riformista" nel senso che questo termine aveva alle sue origini come insieme di idee e di rivendicazioni prodotte dal movimento operaio. In primo luogo perché l'altromondismo non ha alcun legame né passato né presente col movimento operaio. E poi, precisamente perché le correnti riformiste si appoggiavano, se non altro per canalizzarla, sulla forza del proletariato organizzato e potevano imporre un certo numero di riforme effettive alla borghesia - vero è che si trattava di un altro contesto- mentre la corrente altromondista che non ha nessuna influenza nel mondo operaio resta a piagnucolare di fronte ai rappresentanti politici del grande capitale, a chiedere di tener conto almeno un po' delle sue aspirazioni, sfruttare un po' di meno, saccheggiare un po' meno i paesi poveri o tassare, un po', i movimenti internazionali del capitale finanziario.

La corrente altromondista è recente ma le idee che propaga si trovano nel novero di quelle che il movimento operaio rivoluzionario ha sempre combattuto.

Per esempio, criticare la ripartizione e non la produzione capitalista è una vecchia ossessione degli economisti riformisti, come se si potesse separare l'una e l'altra allorché la produzione -la scelta di quanto si produce, la quantità, ecc.- è determinata dal mercato, vale a dire in realtà dalla ripartizione. Chiedere soccorso agli Stati per opporsi alle inuguaglianze e alle ingiustizie prodotte dall'economia imperialista, vuol dire mascherare il fatto che gli Stati sono al servizio del grande capitale imperialista. Discutere sull'"umanizzazione del mercato" oppure manifestare per affermare che "il mondo non è una merce" senza mettere in discussione la libera concorrenza e la proprietà privata, vuol dire nel migliore dei casi farsi delle illusioni, e nel peggiore propagarle coscientemente. Criticare, anche se con un linguaggio radicale, "l'ultra-liberismo" non significa criticare il capitalismo e, ancora meno, combatterlo. Difatti vuol dire propagare l'idea che alcuni degli aspetti più rivoltanti dell'economia attuale non sono le conseguenze inevitabili del capitalismo, ma il prodotto di una politica che basterebbe cambiare.

Criticare il "social-liberismo" come lo fa Attac non vuol dire criticare i grandi partiti di sinistra che, quando sono al governo, portano avanti la politica della borghesia, ma piuttosto, giocando sui termini e sul vocabolario, permettergli di ingannare le classi lavoratrici per cercare di ritornare al potere -e ricominciare la stessa politica.

Malgrado il carattere timoroso delle sue rivendicazioni, la corrente altromondista non cerca di darsi volontariamente i mezzi per imporle. Si accontenta di cercar di convincere le autorità nazionali o internazionali della loro giustezza. Considera come estremamente importante che dei deputati votino risoluzioni senza effetto che vanno nel senso dei suoi slogan, o che dei ministri partecipino in qualche occaione a tale o tale altra manifestazione.

Attac, la principale organizzazione che incarna in Francia la corrente altromondista, pretende di essere apolitica mentre in realtà è un partito politico, con una direzione inamovibile ed irresponsabile di fronte alla propria base. Il suo apoliticismo di facciata nasconde la vicinanza della sua direzione con l'ex sinistra plurale. Essa propaga, inoltre, un'altra idea nefasta dal punto di vista degli interessi politici dei lavoratori : quella secondo cui si potrebbe fare a meno dei partiti politici. Si tratta di un inganno grossolano, mentre quello che manca alla classe operaia è proprio un partito politico che rappresenti i suoi interessi storici, vale a dire un partito il cui obiettivo fondamentale sia la distruzione dell'organizzazione capitalistica dell'economia e della società.

Al contrario di quanto affermano, i militanti rivoluzionari che pretendono che dato l'interesse destato da Attac presso alcuni ambienti giovanili, bisogna parteciparvici, nel suo seno sono ridotti all'impotenza. Non solo le strutture antidemocratiche di Attac permettono alla sua direzione di evitare ogni contestazione che non abbia il suo consenso, ma in più Attac non costituisce neanche un ambiente militante. Non ci sono veri contatti tra gli aderenti, tranne tramite Internet, nessun incontro al di fuori di qualche riunione ogni tanto che permette al massimo di scambiare qualche statistica economica, qualche informazione utile, ma al servizio di una politica che, anziché innalzare le coscienze fino alla comprensione della necessità di rovesciare l'ordine capitalistico mondiale, le ne allontana.

Quanto agli avvenimenti spettacolari, le grandi manifestazioni di cui si vanta la direzione di Attac, sono sporadici, vale a dire che non permettono un lavoro regolare. E sono generalmente il prodotto dell'apporto di organizzazioni, in particolare sindacali, che sostengono Attac ma che non possono ridursi a quest'organizzazione.

E' possibile che l'adesione ad Attac possa essere una tappa in un'evoluzione individuale -anche se ciò è vero solo per un'infima minoranza. Ma militare in Attac vuol dire darsi l'illusione di fare qualcosa mentre al meglio, non si fa niente e, al peggio, se ne giustifica la politica.

Se distinguiamo i dirigenti di Attac, la sua politica e le sue attività, dalle migliaia di giovani o di militanti di associazioni diverse o di sindacalisti, lo sviluppo della corrente altromondista non ha un significato completamente negativo. Possiamo perfino considerare, in questa epoca di apoliticismo totale e di rigetto dei partiti operai completamente discreditati per il loro ruolo in seno all'apparato di Stato della borghesia, che il movimento altromondista ha almeno qualche aspetto positivo. Che le infamie del capitalismo spingano all'indignazione questi giovani, questi sindacalisti e questi militanti associativi di ogni sorta, e che ciò si esprima tramite grandi manifestazioni, da Porto Alegre a Genova o a Saint-Denis, è in sé una pubblicità importante alla critica delle malefatte di questa società. Il fatto che quelli che partecipano a queste manifestazioni sognino di un "altro mondo" e che lo dicano ne è un altro.

Un'altra ancora è il sentimento di un buon numero dei suoi partecipanti di essere cittadini del mondo, sentimento coltivato dal carattere internazionale come dai temi delle grandi manifestazioni altromondiste. Coltivato anche dalla volontà manifestata da Attac di appartenere un'organizzazione internazionale e di svilupparla, anche se questo carattere internazionale oppure il fatto di prendersela con degli organismi internazionali della borghesia non fanno per questo del movimento un abbozzo d'internazionale, così come una giustapposizione di "sovranisti" non fa l'internazionalismo.

Queste indignazioni di fronte alle conseguenze dell'evoluzione del mondo capitalistico spiegano perché un buon numero di giovani o di sindacalisti mettono le loro speranze nella sola corrente che sembra oggi esprimerla, tanto più per questi ultimi che non si tratta di partito, né di rivoluzione.

Quindi i trotskisti non possono ignorare che questi sentimenti sono, almeno in parte, all'origine del successo e della stima riscossi dalla corrente altromondista. Così come non possono dimenticare che una delle spiegazioni di questo successo è l'assenza di una corrente comunista forte.

Così noi siamo in competizione diretta con la corrente altromondista come lo siamo con tutti i movimenti riformisti ed in particolare con il PCF. Ciò ci porta in primo luogo a combattere politicamente le fondamenta della maggior parte delle sue idee, a mostrare i limiti che impone tanto ai suoi obiettivi che alle sue lotte. Ciò non esclude il fatto di essere solidali con alcune sue iniziative e di ritrovarci puntualmente in alcune delle sue lotte o di partecipare ad alcune delle sue manifestazioni, esattamente come possiamo partecipare o essere solidali con azioni o manifestazioni del PCF, dei sindacati o di associazioni umanitarie. Ma certamente ciò non vuol dire militare in seno a questo insieme eterogeneo di associazioni diverse e ancora meno volere assumerci responsabilità.

L'altromondismo non è certamente l'espressione di un nuovo internazionalismo, ma una delle ultime metamorfosi caricaturali del riformismo, in un'epoca in cui la realtà di una vera Internazionale operaia, come d'altronde di un vero partito operaio rivoluzionario, sembra lontana nel passato, allorché deve essere l'obbiettivo primordiale.Rapporto sulla situazione internazionale.

20 ottobre 2003