Le delocalizzazioni (Testo maggioritario)

Εκτύπωση
Lutte Ouvrière - Testi del 34° congresso (2004)
5 dicembre 2004

La minaccia di delocalizzazione della loro impresa preoccupa i lavoratori tanto più che questo rischio é amplificato dai mass-media ed utilizzato dai padroni che se ne servono come strumento di ricatto anche quando non hanno alcuna intenzione di delocalizzare.

Nella mente dei lavoratori, la paura delle delocalizzazioni si confonde con quella dei licenziamenti. Invece per i politici, invocare le delocalizzazioni è un mezzo per non parlare delle vere ragioni dei licenziamenti e sviare le aspirazioni dei lavoratori verso strade senza uscita.

Da sinistra a destra, da Fabius a Sarkozy, le delocalizzazioni sono utilizzate nello stesso spirito demagogico e per propagare le stesse menzogne. Per gli uni come per gli altri, parlare di delocalizzazioni è nello stesso tempo un modo per cercare di captare i timori diffusi delle classi popolari ed un pretesto per presentare come necessario, corrispondente agli interessi di tutti, il fatto di concedere agevolazioni fiscali supplementari ai padroni per incitarli a rimanere qui.

Questa demagogia prende a tratti un aspetto nazionalista di bassa lega quando Sarkozy spiega le delocalizzazioni verso i paesi dell'est europeo con una fiscalità troppo debole praticata da questi Stati e chiede alle istituzioni europee di tagliargli ogni credito di solidarietà. Per lui non è neanche concepibile di prendersela con i gruppi capitalisti francesi che partono con tale motivazione !

Il partito comunista, dal canto suo, riprende gli stessi argomenti e avanza delle "proposizioni che mirano a vietare in tutta l'Europa questa pratica insopportabile delle delocalizzazioni". Stessa cosa per la CGT, che propone ai suoi militanti di utilizzare come argomento di discussione la richiesta "di organizzare al più presto una riunione tripartita - governo, padronato, sindacati - per preparare un vero piano anti-delocalizzazioni".

Ciò vuol dire non solo sviare i lavoratori dal vero problema che é quello di opporsi ai licenziamenti, qualunque ne sia la causa o il pretesto, ma per di più lascia credere ai lavoratori che i loro interessi possono essere difesi dal governo e dal padronato.

Non esistono statistiche precise sulle delocalizzazioni per il semplice motivo che, dietro questa parola, si nasconde una grande varietà di situazioni.

In senso stretto, delocalizzare vuol dire che un padrone chiude la sua impresa situata in Francia per aprirne una in un altro paese, laddove è più vantaggioso per lui, producendo la stessa cosa per gli stessi mercati (in generale per il mercato interno francese : una importazione si sostituisce alla produzione interna). Su scala europea occidentale, al massimo il 4,8% delle soppressioni di posti di lavoro potrebbe essere legato a questo tipo di delocalizzazione. E ancor meno per la Francia, dove la tendenza è soprattutto ad investire nel commercio - apertura di ipermercati o supermercati in Polonia o altrove - dove, per definizione, l'attività di un negozio in un paese dell'est non può essere destinata a sostituire quella di un negozio in Francia. In rapporto all'insieme della produzione manifatturiera in Francia, la produzione di queste imprese delocalizzate rappresenterebbe il 2,5%.

In senso più largo, l'opposizione alle delocalizzazioni può significare l'opposizione ad ogni investimento di capitali che comporti creazioni di posti di lavoro altrove che in Francia, con l'argomento che questi capitali farebbero meglio a creare posti di lavoro qui piuttosto che altrove.

Attribuire esplicitamente o implicitamente l'essenziale dei licenziamenti alle delocalizzazioni è dunque una menzogna grossolana. Rivendicare l'arresto delle delocalizzazioni col pretesto di frenare i licenziamenti è altrettanto utopistico che stupido e reazionario. Le delocalizzazioni sono vecchie quanto il capitalismo. La divisione internazionale del lavoro è emersa non solo come risultante della diversità delle risorse naturali ma anche come conseguenza dell'introduzione del capitalismo dappertutto nel mondo e della costruzione di un'economia mondiale come un tutto. Quanto all'imperialismo, che ha più di un secolo, è caratterizzato precisamente dall'esportazione di capitali a partire da un paese imperialista verso paesi meno sviluppati dove la redditività del capitale è più elevata.

Pretendere di fermare questo movimento è altrettanto utopistico di quanto lo sarebbe pretendere di operare per un capitalismo senza sfruttamento. Per di più è un'utopia reazionaria.

Rivendicare che l'imperialismo francese cessi di esportare capitali, che crei posti di lavoro produttivi qui invece di crearne altrove, è per di più stupido. La Francia oggigiorno è il paese che attira maggiormente i capitali esteri, appena dopo la Cina. Con 47 miliardi di dollari di investimenti diretti stranieri, la Francia ha ricevuto quasi tre volte più "capitali delocalizzati" venuti da altrove di quanti ne abbia ricevuto l'insieme dei paesi dell'Europa centrale ed orientale (18,5 miliardi di dollari), di cui si agita la minaccia. La pretesa "lotta contro le delocalizzazioni" si unisce al "produrre francese" nell'arsenale delle proposte riformiste, tanto irrisorie che nocive dal punto di vista della presa di coscienza di classe dei lavoratori.

Di più, è una rivendicazione reazionaria ancora per un'altra ragione: suggerisce che, per conservare i posti di lavoro qui, bisogna privarne i lavoratori altrove.

Invece di opporre i lavoratori alla classe capitalista che monopolizza i capitali suscettibili di essere investiti nella produzione e di creare posti di lavoro, quelli che se la prendono con le delocalizzazioni oppongono i lavoratori dei differenti paesi gli uni agli altri.

E' lo stesso tipo di demagogia di quello che consiste ad accusare i lavoratori stranieri di prendere il lavoro di quelli di qui e di essere responsabili della disoccupazione.

Nella sua formulazione concreta, la pretesa "lotta contro le delocalizzazioni" propone implicitamente di rendere i lavoratori francesi complici del loro imperialismo. Sono sempre le delocalizzazioni verso i paesi poveri dell'est europeo, verso la Cina o verso il Maghreb che sono presentate come una minaccia, e non quelle verso gli Stati Uniti o la Gran Bretagna. Ora, più dei tre quarti degli investimenti dei paesi sviluppati vanno verso altri paesi sviluppati e non verso i paesi poveri. E, tra i paesi sottosviluppati, solo una mezza dozzina, che dispone sia di un mercato interno potenziale, sia di una situazione geografica favorevole - Cina, Brasile, Messico, in particolare -, attirano una quantità significativa di capitali.

Per quanto riguarda la Francia, la parte degli investimenti esterni investita nei paesi sottosviluppati rappresenta solo il 4%.

Gli Stati-Uniti attirano molti più capitali - che si tratti di impianti o di delocalizzazioni -a causa dell'estensione del loro mercato, delle infrastrutture, del carattere della loro fiscalità e della loro manodopera, altamente qualificata in un gran numero di settori - senza parlare della sicurezza degli investimenti.

Pretendere che i capitali venuti dalla Francia svilupperanno la competitività dei paesi poveri e che ciò rappresenti una minaccia grave per l'occupazione qui è una stupidanigge. Dopo decenni di delocalizzazioni dei trust americani in Messico, quest'ultimo rimane un paese povero, e gli investimenti non l'hanno arricchito nei confronti degli Stati Uniti, al contrario l'hanno impoverito.

Non sono i lavoratori che dirigono l'economia. Non hanno nessuna responsabilità da assumere rispetto al sottosviluppo, ai salari bassi ed alla miseria delle classi popolari dei paesi più poveri.

L'interesse dei lavoratori non è certo di condurre una vana agitazione contro gli investimenti dei "nostri" capitalisti nei paesi dell'est europeo, in Africa o in Cina. Il loro interesse è, al contrario, che il proletariato di questi paesi si rafforzi e, ciò facendo, acquisti la combattività che lo porti a lottare per le sue condizioni di esistenza e ad imporre salari corretti.

Opporre i lavoratori gli uni agli altri all'interno di un paese, come tra differenti paesi, è vecchio quanto il capitalismo. Engels si alzava già contro tutto ciò nel La situazione della classe operaia in Inghilterra, scritto nel 1844. Il Manifesto comunista, dal canto suo, afferma che "i comunisti non si differenziano dagli altri partiti proletari che su due punti". Il primo è che "nelle diverse lotte nazionali dei proletari, portano avanti e fanno valere gli interessi comuni a tutto il proletariato ed indipendenti dalla nazionalità".

Ai tempi in cui il movimento operaio era rivoluzionario ed internazionalista, non sarebbe sorta l'idea di pretendere di difendere i lavoratori in Francia con l'opporsi agli investimenti della loro classe capitalista in America Latina, in Turchia o in Russia. Nessuno, nel movimento operaio, invocava argomenti del genere "se i nostri capitalisti delocalizzano verso questi paesi, ciò farà concorrenza alla nostra industria e si tradurrà in disoccupazione qui, in Francia".

Il movimento operaio dell'Occidente industrializzato era solidale delle lotte dei lavoratori nei paesi dall'industria nascente quando questi lottavano per aumenti di salario, per il diritto di organizzarsi, ecc., per la semplice ragione che consideravano i lavoratori di tutti i paesi come parte dello stesso proletariato mondiale. E le rivendicazioni delle "tre- otto" - otto ore di lavoro, otto ore di tempo libero, otto ore di sonno - non erano destinate solo ad una frazione privilegiata del mondo del lavoro, ma a tutti.

La storia ha fatto un brutto scherzo ai capitalisti : è grazie ai capitali francesi ed inglesi che la Russia arretrata si è dotata di un'industria concentrata nelle grandi imprese. Il proletariato russo è stato all'avanguardia della rivoluzione operaia, il primo - e fino ad ora il solo - a conquistare ed a mantenere per un certo tempo il potere. Contrariamente ai calcoli degli " investitori capitalisti", la giovane industria russa non ha avuto l'occasione di inondare il mercato occidentale di prodotti a buon mercato. Sono le idee del comunismo rivoluzionario che la Russia "esportò" - almeno finché la burocrazia non soffocò la rivoluzione.

Partendo dalle preoccupazioni concrete dei lavoratori, il che vuol dire tener conto del timore delle delocalizzazioni e, eventualmente, della volontà di opporcisi nelle imprese dove appaiono come la causa dei licenziamenti, i militanti rivoluzionari devono difendere una politica che alzi la coscienza dei lavoratori. Una politica che opponga i lavoratori ai loro padroni e, al di là, alla borghesia e che nello stesso tempo sottolinei che i lavoratori di tutti i paesi e di tutte le nazionalità hanno gli stessi interessi fondamentali.

Il fatto che un gruppo capitalista compri un'impresa in un altro paese vuol dire che possiede abbastanza soldi per farlo. Il sistema capitalista gli dà il diritto e la possibilità di utilizzare i suoi capitali dove vuole. I lavoratori devono, al contrario, tramite la lotta collettiva, imporgli di prendere una parte del profitto realizzato sulle loro spalle per mantenere i posti di lavoro qui, eventualmente con la ripartizione del lavoro tra tutti. Sostituire la pretesa "lotta contro le delocalizzazioni" alla lotta contro i licenziamenti, vuol dire sviare i lavoratori dalla lotta contro il padronato ed impedirgli di condurla sul terreno dove questa lotta può essere efficace.

I riformisti pretendono opporre alla mondializzazione del capitale i loro vano augurio che si limiti a rimanere nazionale. La prospettiva dei comunisti è di togliere il potere al capitale.

Allo stesso modo bisogna intervenire da comunisti su quest'altra idea, veicolata tanto dai politici borghesi che dai dirigenti del movimento operaio, della "disindustrializzazione", legata o meno alle delocalizzazioni. Secondo questa idea la Francia - o gli Stati-Uniti oppure gli altri paesi imperialisti - si disindustrializza, perde le sue fabbriche, a vantaggio dei paesi più poveri, e i licenziamenti sono inevitabili poiché l'evoluzione economica li rende inevitabili.

Dal punto di vista dei fatti, si tratta di un'affermazione in larga misura falsa. Anche se delle imprese chiudono, e soprattutto se una parte più o meno grande dei posti di lavoro sono soppressi, la produzione industriale della Francia, come anche quella degli Stati Uniti, è in crescita. In Francia, l'industria ha perduto più di un milione e mezzo di posti di lavoro tra il 1978 ed il 2002 ed ha registrato una diminuzione del 30% del suo organico. Ciononostante una parte di questi posti di lavoro non è scomparsa : i lavoratori interinali così come un certo numero di funzioni esternalizzate sono stati tolti dal calcolo della produzione industriale per essere contabilizzati come servizi. Ma la produzione industriale ha continuato ad aumentare in volume, del 2,5% circa in media annua. La parte dell'industria nel prodotto interno lordo non è praticamente diminuita tra il 1978 ed il 2002 (rispettivamente il 20,1% ed il 19,5%).

Ciò rappresenta un aumento della produttività nei settori considerati. Questo aumento è dovuto in parte ad un accrescimento dello sfruttamento dei lavoratori: allungamento della durata ed intensificazione del lavoro, ecc. E da questo punto di vista dev'essere combattuto. E' dovuta anche ai progressi tecnologici. Da quest'altro punto di vista, l'atteggiamento dei comunisti deve essere di non opporcisi. Come più in generale è di non opporsi al progresso scientifico e tecnico suscettibile di facilitare il lavoro umano, anche se questo progresso si traduce in una disparizione di intere professioni. I comunisti non devono reclamare la riapertura delle mine di carbone, per esempio, "per creare posti di lavoro".

Al contrario, devono mostrare come, nell'economia capitalista, un aumento della produttività del lavoro umano, invece di giovare all'insieme della collettività, si traduce in una crescita della disoccupazione, redditi che stagnano, o addirittura diminuiscono, per i lavoratori, e al contrario in un aumento del profitto per i padroni. Non è il progresso tecnologico che bisogna rimettere in discussione bensì l'uso che ne viene fatto nell'economia basata sul profitto privato.

L'avvenire comunista verrà sicuramente la scomparsa di una gran parte dei lavori faticosi e sporchi, grazie all'automatizzazione di alcune attività e, di conseguenza, una diminuzione della quantità di lavoro necessario, a vantaggio di attività umane scelte liberamente.

E' necessario che, partecipando alla lotta concreta condotta dai lavoratori, spesso con le spalle al muro, non cessiamo di intervenire su tali questioni, e non come sindacalisti, ma come militanti comunisti. Per una moltitudine di problemi prodotti dall'economia capitalista non c'è soluzione nell'ambito di questa organizzazione sociale. Non è compito nostro cercare pseudo-soluzioni piacevoli. I riformisti lo fanno già, con la scarsa efficacia che conosciamo.

25 ottobre 2004