Situazione economica

Εκτύπωση
Da "Lutte de classe" n° 69 (Il 32° congresso di Lutte Ouvrière)
9 dicembre 2002

L'attuale crisi borsistica

La crisi borsistica, cominciata l'anno scorso con il crac delle azioni dei vari settori raggruppati sotto il nome di "nuova economia", non si è fermata con lo sgonfiamento della bolla speculativa. Si è proseguita ed allargata ad altri settori più o meno collegati alla telefonia, alle telecomunicazioni, all'informatica, o che non lo erano per niente.

Le azioni di imprese come la Vivendi, la Alcatel o altre, che erano considerate come investimenti sicuri, hanno subito perdite del 20%, 50%, e qualche volte il loro prezzo è stato diviso per dieci.

La stampa economica si preoccupa con compiacenza dei tormenti dei "risparmiatori". Eppure fra tutte le vittime della crisi presente, e soprattutto futura, quelle più da compiangere non sono questi "risparmiatori". Si tratta per l'essenziale di classi medie e le perdite che i loro membri lamentano sono in gran parte solo perdite rispetto a quello che pensavano di avere guadagnato al punto più alto della bolla speculativa. Quanto ai salariati spinti dalla loro impresa a comprare azioni a prezzi di favore, hanno fatto l'esperienza pratica di cosa rappresenta veramente questa cosiddetta conquista sociale dell'azionariato operaio. Invece la minaccia per le classi lavoratrici -che già si sta trasformando in realtà- risiede nelle ripercussioni della crisi speculativa sull'economia reale.

Sin dall'inizio, trenta anni, fa del periodo d'instabilità e di stagnazione economica, il sistema ha subito tante altre scosse borsistiche. Ma la caduta dei corsi registrata durante la presente crisi borsistica è la più importante di questo lungo periodo. Bisogna addirittura risalire al crac del 1929 per trovare una caduta più brutale, massiccia e profonda dei valori borsistici.

L'indice Dow Jones della Borsa di New York, da 10192 a metà ottobre del 2000, è indietreggiato a 9189 a metà ottobre del 2001 e a 7533 a metà ottobre del 2002. L'indice CAC 40 della Borsa di Parigi è passato da 6064 a 4338, poi a 2758. Il ribasso è stato quindi in due anni del 26 % a New York, e del 55 % a Parigi. Quanto all'indice dei valori tecnologici Nasdaq, è stato quasi diviso per tre, cadendo in questi stessi due anni da 3316 a 1654, poi a 1163. E se a parecchie riprese ci sono stati dei ribalzi, solo dei ciarlatani -una cosa di cui la professione di commentatore economico non manca- possono pretendere che si tratta dell'inizio di una nuova impennata borsistica.

"6700 miliardi di dollari partiti in fumo in due anni", questo era poco fa il titolo di un quotidiano economico. Certamente questi dollari erano più fittizi che reali. Ma è proprio per accumulare questi dollari fittizi all'estremità della catena finanziaria che all'altra estremità, dal lato della produzione, si frenano i salari, si riducono le maestranze con i licenziamenti collettivi, si aumentano i ritmi di lavoro, si generalizza la precarietà e si spreme il mondo operaio.

Abbiamo constatato l'anno scorso che la crisi borsistica, pur essendo l'espressione di una crisi di produzione già innescata nell'industria -in particolare nel settore dei computer o semiconduttori o nell'industria aeronautica- poteva esserne un fattore aggravante. Non è il caso di ritornare su questa constatazione che ha dimostrato il carattere limitato della fase d'espansione dell'economia americana negli anni 90.

Non ritorneremo neanche sulle varie stupidaggini intorno alle ipotetiche possibilità della cosiddetta "nuova economia" (Cf. testi del congresso 2001). Tanto più che se, tre o quattro anni fa, non si contavano più gli studi lodativi sulla "rivoluzione tecnologica" di cui sarebbe sorta la "nuova economia", sulle sue conseguenze sulla produttività e sul nuovo dinamismo che avrebbe portato all'economia capitalista, oggi non si contano più gli studi che vogliono demitizzare queste leggende. Ciò dimostra che gli economisti della borghesia sono solo capaci di prevedere il passato -anche se sono sempre incapaci di spiegarlo correttamente.

Se però dall'anno scorso non c'è stata una ripresa negli Stati-Uniti, questi sono stati raggiunti dall'Europa nel rallentamento della produzione. Quanto al Giappone, è in depressione da parecchi anni. Lo stesso commercio internazionale, in progressione continua durante venti anni e anche nei periodi di recessione, era in ribasso nel 2001 e continua di esserlo. L'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) parla di un ribasso del 4 % delle esportazioni di merci al primo semestre del 2002. Perciò i governi nazionali come gli organismi internazionali rivedono le loro previsioni al ribasso, alimentando dotte polemiche sull'importanza di questo ribasso. Non ci sono mai stati tanti uffici di previsione come nei nostri giorni. Ma sostituire la palla di cristallo con i computer non rende il mestiere di veggente più scientifico. L'economia capitalistica è imprevedibile per natura e il fatto che alcuni economisti della borghesia pretendono utilizzare la cosiddetta teoria matematica del "caos" per riuscire un giorno a prevederla non rende i loro commenti più scientifici, né rende l'oggetto del loro studio meno ... "caotico".

La nuova tempesta borsistica ha messo a nudo la fragilità delle imprese, i cui considerevoli debiti sono garantiti da promesse di profitti che si rivelano chiaramente illusori.

Per spiegare l'alto livello dell'indebitamento delle imprese, si accusano i loro "sovra investimenti". Ma questi "sovra investimenti" riguardano solo per una piccola parte gli investimenti produttivi effettivi. Gli alti profitti degli anni 90 sono stati dedicati dalle grandi imprese a riacquistarsi l'una l'altra in operazioni di fusione- acquisizione, il cui numero è molto cresciuto, oppure -e questi due aspetti sono spesso collegati- a contendersi a colpi di miliardi le parti di mercato o le licenze d'uso che potevano assicurargli posizioni di monopolio o di mezzo monopolio su questo o quello mercato nazionale.

I consorzi della telefonia in generale, e in particolare la France Télécom, sono un perfetto esempio di questa situazione. Nonostante la France Télécom sia oggi considerata come un'impresa molto redditizia, si è eccessivamente indebitata per comprare imprese da tutte le parti del mondo per potere accedere ai loro mercati nazionali. Oggi vengono additati come colpevoli dell'indebitamento della France Télécom e suoi simili gli Stati che hanno venduto a prezzi altissimi le licenze d'uso di un mercato ancora inesistente, quello del sistema UMTS. Ma gli Stati non hanno fatto altro che precipitarsi nell'euforia borsistica per tentare di godere di una parte di un'ipotetica miniera d'oro. L'alto livello delle loro esigenze ha dato credito a questa euforia, poi ha accentuato il disastro, ma non è responsabile né dell'uno né dell'altro.

L'impero della Vivendi, l'ex Compagnia Generale dell'Acqua, non aveva licenze d'uso da comprare. Ma per speculare sui profitti futuri del settore audiovisivo, dei mass media, ecc, ha giocato -e perso- i profitti risultanti dal suo quasi monopolio sulla fornitura d'acqua, nonché il denaro prestato dalle banche, al punto di ritrovarsi sull'orlo della bancarotta.

La crisi borsistica si è accompagnata ed è stata amplificata da alcuni scandali strepitosi, la Enron, Worldcom o Tycoon negli Stati Uniti, la Vivendi ed alcuni altri in Francia. Il presidente della riserva federale (Banca centrale americana), pontificando dopo lo scandalo Enron sul fatto che "l'economia dipende in modo critico dalla fiducia" se l'è presa con "la cupidità" di alcuni padroni e con "la falsificazione e la froda" che "distruggono il capitalismo e la libertà dei mercati". Come se la crisi si riducesse ad una crisi morale che colpisce solo alcuni capitalisti incoscienti e irresponsabili ! Come se il capitalismo non fosse stato sin dall'inizio accompagnato da speculazioni, fregature, dalle bancarotte della Compagnia delle Indie o del sistema Law in Francia nel secolo 18 ai molteplici scandali che hanno accompagnato lo sviluppo delle società ferroviarie nell'Inghilterra o la Francia del secolo 19 o la costruzione dei canali di Panama o di Suez, alla corsa demenziale al profitto facile che precedette la crisi del 1929. La storia del capitalismo riproduce sempre lo stesso spettacolo, anche se lo fa ogni volta su scala più gigantesca.

Abbiamo notato l'anno scorso che "anche all'ora della "nuova economia", si è mantenuta la tendenza dell'accumulazione del capitale a prendere una forma essenzialmente finanziaria, tendenza che aggrava l'ipertrofia del settore finanziario". Ora se dal punto di vista del capitalista non importa qual'è l'origine del profitto, invece dal punto di vista dell'insieme dell'economia le conseguenze non sono affatto identiche. "Il capitale finanziario, direttamente o tramite lo Stato e il debito pubblico, preleva una parte dei profitti del capitale industriale, "solo modo d'esistenza del capitale in cui la sua funzione non consiste solo nell'appropriazione, ma anche nella creazione di plusvalore, ossia di sovrapprodotto" (Marx), creando un ceto meramente parassitario di redditieri, una "classe di creditori dello Stato" (Marx)." L'ininterrotto gonfiarsi del settore finanziario dagli anni settanta, conseguenza della stasi dell'economia capitalista, è diventato un fattore maggiore di aggravamento. Si nutre dell'aggravamento dello sfruttamento della classe operaia, nonché contribuisce a soffocare lo sviluppo economico." I mercati finanziari chiedono redditività a breve termine. La loro pressione tende non solo a diminuire le spese salariali ma anche a frenare gli investimenti a lunga scadenza e i progetti industriali che richiedono una lunga immobilizzazione del capitale prima di fruttare profitti.

In realtà i capitalisti privati hanno sempre cercato la redditività a breve termine. Sin dall'inizio del capitalismo, lo Stato si è incaricato di una parte maggiore degli investimenti a lunga scadenza. Questo ruolo dello Stato negli investimenti a lunga scadenza ha avuto forme diverse secondo i paesi e secondo il contesto storico : gestione diretta, sovvenzioni, ordinazioni statali volte a garantire un mercato stabile e durevole, senza dimenticare il ruolo delle spese d'armamento e della ricerca militare.

In molti paesi d'Europa, di cui la Francia, fu lo Stato stesso o più precisamente il settore pubblico statale ad assumere gli investimenti a lunga scadenza. Per questo il contraccolpo dell'attuale corsa alla privatizzazione, cioè allo smantellamento, delle imprese statali, è di non compensare più l'insufficienza degli investimenti del settore privato.

L'intervento dello Stato nell'economia, cioè a favore del capitale privato, non ha mai smesso di aumentare, anche nei decenni del "liberismo" trionfante. Ma anche la forma di questo intervento tende a cambiare. Lo Stato vende al privato le imprese pubbliche, perfino pezzi interi di servizi pubblici, poi riversa in vari modi il denaro così recuperato al capitale privato.

Quando lo Stato si appoggia su di un forte settore nazionalizzato o, al contrario, quando sta privatizzando, in ambo i casi interviene a favore del capitale privato. Le conseguenze però non sono uguali per il funzionamento dell'economia. Le imprese statali si sottraevano, fino ad un certo punto, alla ricerca del profitto immediato per servire meglio alcuni interessi più generali della borghesia. Così tendevano a mantenere la produzione, fosse solo col fatto di fare investimenti anche quando non c'era speranza di ricavarne profitti a breve termine.

Smantellare il settore statale non significa, in queste condizioni, diminuire lo statalismo ma abbandonare più direttamente agli interessi privati le somme prelevate tramite le imposte. E' anche, da parte dello Stato, l'abdicazione crescente del ruolo regolatore che svolge, fino ad un certo punto, per conto degli interessi generali della borghesia di fronte all'anarchia dell'economia capitalistica. Non si statalizzano più le imprese, si consegnano più direttamente al privato le casse dello Stato.

Bisogna sottolineare il ruolo dello Stato anche nello sviluppo dei colossi della "nuova economia", quelli tra l'altro che resistono alla crisi del settore e incassano i guadagni.

Dai computer all'internet, ai microprocessori o ai semiconduttori, le tecnologie d'avanguardia risultano dalla ricerca pubblica o spesso sono state sviluppate dai contratti militari prima di essere trasferite al privato. Senza il contributo multiforme del campo pubblico, il consorzio Microsoft non avrebbe conosciuto questo sviluppo folgorante e Bill Gates non sarebbe alla testa della più grande fortuna privata del mondo.

Peraltro questi consorzi tendono a considerare le casse pubbliche come una tesoreria di riserva per le loro proprie spese in caso di difficoltà. Così le grandi imprese telefoniche, cariche di debiti, chiedono un piano europeo di salvataggio, considerando ovviamente che i fondi europei debbano servire ad aiuti finanziari per uscire dalla situazione in cui le hanno portate le loro speculazioni.

Nonostante i danni che porta all'economia, la speculazione prosegue come prima. Si continua a speculare sulle imprese che sembrano andare bene o di cui si può pensare, a torto o a ragione, che i loro profitti aumenteranno almeno per qualche tempo.

Difatti si tratta lì dello stesso meccanismo che si era accelerato per la cosiddetta "nuova economia", la telefonia e le telecomunicazioni, con il risultato che sappiamo. E' significativo, per esempio, che la piccola compagnia Ryanair sia diventata da poco tempo il numero uno delle compagnie aeree europee. La sua capitalizzazione borsistica di 4 miliardi di euro supera quelle della Lufthansa (3,5 miliardi) e a maggior ragione della British Airways o della Air France, il ché è proprio un'aberrazione tenuto conto del valore delle rispettive flotte aeree.

L'Europa e il suo allargamento - le relazioni tra le grandi potenze

L'allargamento dell'Unione europea da 15 a 25 paesi si sta avvicinando alla sua fase di attuazione in un momento di rallentamento economico.

Ovviamente non è un "ideale europeo" a spingere le potenze imperialistiche dominanti del continente (Germania, Francia, Gran Bretagna e in misura minore l'Italia) ad integrare all'Unione questo insieme disparato di dieci paesi costituito da quattro ex democrazie popolari (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia ed Ungheria), un ex membro della federazione iugoslava (Slovenia), tre ex Repubbliche dell'Unione sovietica (Estonia, Lituania, Lettonia), più Cipro e Malta (altri sono ancora in attesa). Non è neppure la constatazione, evidente per qualsiasi scolaro, che l'Europa geografica non si limita ai confini dell'attuale Unione europea. Questi dieci paesi appartengono già alla zona d'influenza delle potenze imperialiste europee. La loro ammissione all'interno della zona di protezione doganale europea significa rafforzare il controllo del gran capitale d'Europa di fronte alla concorrenza esterna.

Al di là delle discussioni sul posto di questi paesi nelle varie istituzioni europee, questa integrazione non significherà uguaglianza, bensì subordinazione. Questi paesi, il cui reddito medio pro capite rappresenta solo il 40% di quello dei Quindici, con in più forte disparità tra di loro, non hanno scelta. Si tratta di piccoli paesi, di mercati nazionali stretti, perfino insignificanti, che a pena di asfissia non possono rinchiudersi nelle loro frontiere nazionali. Ovviamente, i rivoluzionari non possono essere che favorevoli all'allargamento, anche su basi capitalistiche, senza smettere però di dire che, su questa base, non c'è salvezza per le nazioni non imperialiste d'Europa, c'è solo la continuazione, sotto altre forme giuridiche, del controllo dei consorzi imperialisti sulla loro economia. A maggior ragione, questa integrazione non è una protezione per le masse lavoratrici di questi paesi.

Il processo d'integrazione all'Unione europea cominciato da un decennio si esprime, per l'essenziale, con la trascrizione nella loro legislazione delle 80000 pagine di norme e direttive che risultano da quaranta anni di mercanteggiamenti tra i paesi fondatori dell'Unione.

Ma né l'integrazione, né queste direttive proteggeranno questi paesi dalle conseguenze brutali della loro apertura al gran capitale internazionale, un'apertura che peraltro non risale alla loro adesione all'Unione europea : liquidazione delle imprese statali troppo poco redditizie per essere privatizzate, crescita brutale della disoccupazione e diminuzione delle protezioni sociali, ma anche sparizione di milioni di piccole imprese agricole, in paesi dove i contadini rappresentano ancora una parte importante della popolazione.

Questo porta i più accaniti fautori dell'allargamento in seno alle forze politiche borghesi a temere le conseguenze di questa integrazione nel momento in cui le stesse economie occidentali ristagnano e difficilmente potrebbero dare lavoro alle centinaia di migliaia di disoccupati che potrebbero uscire dai paesi dell'Est. Ma comunque questi non saranno autorizzati a cercare lavoro durante tutto il periodo in cui il diritto alla libera circolazione non riguarderà i cittadini dei paesi nuovamente integrati. Saranno gli attuali Stati membri dell'Unione a potere scegliere durante sette anni il grado d'apertura del loro mercato del lavoro ai cittadini dei paesi candidati. I cittadini di questa Europa allargata saranno uguali, ma alcuni saranno più uguali degli altri ! Forse non ci sarà bisogno di passaporti nazionali per spostarsi all'interno dell'Unione. Ma i cittadini dei paesi poveri avranno forse bisogno di passaporti interni per spostarsi verso i paesi ricchi...

La stessa economia tedesca, anche se la più potente d'Europa, non è riuscita ad integrare l'ex Germania dell'Est, che sin dalla riunificazione è stata in preda alla disindustrializzazione, alla disoccupazione, con tutte le conseguenze sociali e politiche che ne risultano. Infatti l'immagine del tipo di relazioni che si stabiliranno tra la parte sviluppata e occidentale dell'Europa e la sua parte orientale semisviluppata ci viene data con molta probabilità dalle relazioni attuali tra le due parti della Germania, in modo attenuato però, poiché la Germania orientale, ai tempi della RDT, era la più sviluppata di tutte le democrazie popolari. Inoltre le due Germanie parlano la stessa lingua, hanno un passato comune e la loro riunificazione si è svolta nell'ambito di uno Stato unico. Non sarà così tra gli Stati d'Europa occidentale e gli Stati dell'Europa dell'Est. Per integrare veramente questi ultimi in un'entità unica, ci vorrebbe un tutt'altro dinamismo economico, sociale e culturale, una capacità d'integrazione di cui l'Europa capitalistica, dominata da alcune potenze imperialistiche, è completamente sprovvista.

Se il gran capitale dell'Europa occidentale può trovare il suo interesse in questa unificazione storta e non ha nessuna ragione di lamentare l'esistenza nell'Est dell'Europa di un serbatoio di manodopera qualificata ma a buon mercato, niente garantisce che l'integrazione all'Unione europea, invece di diminuire il populismo d'estrema destra che imperversa in modo endemico nei paesi dell'Est europeo, non gli darà al contrario un nuovo slancio.

I problemi sollevati dall'allargamento dell'Unione europea sono una nuova illustrazione del carattere contraddittorio dell'unificazione europea sotto direzione della borghesia. Questo allargamento, pur utile per il controllo del gran capitale tedesco, e anche francese, inglese, ecc... su questi paesi, potrebbe al tempo stesso diventare un altro fattore di disgregazione.

In modo più generale, le potenze imperialistiche europee hanno bisogno dell'Unione per fare buona figura nella concorrenza sui mercati mondiali e tra l'altro per provare a resistere alla concorrenza degli Stati-Uniti. Ma a questa forza centripeta si oppongono altre forze, centrifughe, provenienti dalle divergenze d'interessi che separano e spesso oppongono tra di loro le principali potenze del continente. Gli imperialismi britannico, francese, tedesco, non hanno la stessa concezione della difesa degli interessi dell'Europa nei confronti degli Stati-Uniti. Al contrario di questi ultimi, l'Europa rimane una fragile aggregazione di Stati.

Tutte le grandi questioni in ballo, dalla politica agricola comune fino all'atteggiamento nelle grandi trattative commerciali, illustrano queste divergenze d'interessi tra le stesse potenze europee, cominciando dall'euro stesso.

Difatti se dopo un anno d'esistenza concreta l'euro oggi è accettato come moneta unica, bisogna ricordare che lo è solo per dodici paesi sui quindici che compongono l'Unione. La Gran Bretagna in particolare, una delle principali grandi potenze, conserva per il momento la propria moneta nazionale. Di più, le discussioni recenti sul rispetto dei "criteri di convergenza" dimostrano la fragilità della base su cui poggia la moneta comune. Infatti la moneta è comune e c'è una banca centrale europea, ma gli Stati nazionali rimangono padroni del loro bilancio. Certamente non c'è divergenza tra i vari Stati d'Europa rispetto al fatto che questo denaro deve servire in gran parte a sostenere il gran capitale privato. Ma nessuna delle borghesie nazionali ci tiene a finanziare il disavanzo di bilancio delle altre. Questa è la ragione per cui, per potere creare la moneta unica, l'euro, i vari paesi partecipanti si sono accordati per mantenere questi disavanzi e i loro rispettivi indebitamenti entro certe margini (i famosi "criteri di Maastricht").

Ma con la recessione e i vari regali fatti alle loro borghesie, sono proprio gli Stati più potenti della "zona euro", la Francia e la Germania, ad avere i più forti disavanzi. E così, si dimenticano i criteri di Maastricht, e le autorità di Bruxelles, che hanno saputo fare gran voce per mettere in guardia piccoli paesi come la Grecia e il Portogallo in modo da portarli ad una politica d'austerità finanziaria, calpestano i criteri di Maastricht respingendo l'applicazione a più tardi... o forse mai !

Nonostante questo i governi in causa si impegneranno comunque in una politica di rigore nei confronti delle classi popolari, come ha chiaramente fatto capire per la Francia il ministro delle Finanze Francis Mer. Si dirà allora che sia "la colpa di Bruxelles" e che le si ubbidisce nell'interesse dell'unificazione europea.

Se la recessione proseguirà, si accentueranno i dissensi economici tra Stati-Uniti ed Europa. Lo hanno dimostrato quest'anno vari conflitti commerciali, tra l'altro rispetto alla siderurgia.

L'atteggiamento degli Stati-Uniti rispetto all'Unione europea ha un carattere contraddittorio. Da un lato il gran capitale americano trova sicuramente il suo tornaconto nell'unificazione economica di un continente che costituisce il principale mercato d'esportazione degli Stati-Uniti e la sua principale zona d'investimento all'estero. Le filiali tedesche della General Motors o della Ford non sono meno interessate della Volkswagen nell'esistenza di un mercato unico europeo.

D'altra parte gli Stati Uniti, approfittando della loro potenza industriale, vogliono solo -come già diceva Trotski negli anni venti- "un'Europa ridotta allo stretto necessario", cioè un'Europa che faccia concorrenza agli Stati-Uniti solo nei campi in cui questi accettano la concorrenza. Oggi, mentre gli Stati-Uniti sono più che mai la potenza imperialistica dominante, tanto per la forza della loro industria quanto per la loro forza militare o la loro diplomazia, non hanno nessuna intenzione di lasciarsi mettere bastoni tra le ruote dall'Europa. Le gesticolazioni dei commissari europei, anche appoggiati dalle sentenze dell'Organizzazione mondiale del commercio, non cambiano il rapporto delle forze. Gli Stati-Uniti, che tanto contribuirono ad abbattere le barriere doganali o statali che potevano opporsi alla penetrazione dei loro capitali o delle loro merci, non si fanno scrupolo di prendere provvedimenti protezionistici quando gli interessi dei consorzi della loro industria siderurgica, agroalimentare, o altra, lo esigono.

Il bilancio dei trenta anni scorsi

Durante i trenta anni del periodo di crisi e di instabilità economica apertosi all'inizio degli anni settanta, abbiamo notato nei nostri testi le varie tappe con cui si spinsero sempre più avanti le tendenze fondamentali dell'economia imperialista già notate da Lenin e Trotski: crescente dominio della finanza sulle attività produttive, dimensioni sempre maggiori di immensi consorzi finanziari che dominano l'economia mondiale, integrazione delle zone più remote del pianeta all'economia finanziaria, interdipendenza sempre più stretta delle economie tutte sotto controllo di poche potenze imperialiste di cui quella predominante, di gran lunga, è gli Stati Uniti.

Con l'aiuto politico dei governi, i consorzi imperialisti hanno garantito la libertà di investire e spostare i loro capitali, abbattendo tutti gli ostacoli che li potevano frenare. I primi furono i regolamenti e un certo tipo di interventismo statale imposti negli anni che seguirono la grande Depressione per salvare il capitale privato dal disastro, conservati poi per fare la guerra, e poi per fare fronte alle necessità della ricostruzione dell'economia su basi capitalistiche.

Per modellare ancora di più il mondo in rapporto ai loro interessi, i grandi gruppi hanno approfittato di cambiamenti politici che spesso risultavano dalle loro proprie attività, aperte o sotterranee. E anche se non era il caso o lo era solo in parte, ne hanno tratto profitto.

Uno di questi cambiamenti è stato il crollo dell'Unione sovietica e della zona da lei controllata. Un'altro è stato la fine dei regimi di paesi poveri la cui politica, pur senza voler mettere in questione il sistema imperialista, cercava di ostacolare la libera penetrazione del capitale imperialistico (Etiopia, Algeria e molti altri). E non dimentichiamo la Cina che, pur senza cambiare regime, si è aperta largamente ai capitali imperialisti, in un contesto in cui il potere politico americano aveva, dal canto suo, abbandonato il suo ostracismo rispetto alla Cina.

Ma innanzi tutto i grandi monopoli capitalisti hanno approfittato dell'assenza, perfino della quasi sparizione, del movimento operaio e a maggior ragione del movimento operaio rivoluzionario, il che ha assicurato al capitalismo se non la pace sociale, comunque di non essere minacciato nella sua esistenza stessa.

Oggi il grande capitale si trova dappertutto di fronte ad uno spazio libero. Per tanto questo non ha aperto un nuovo periodo di crescita del capitalismo. Anzi, si è accentuato il suo carattere usurario. Anche la crescita economica, così come appare nelle ingannevoli statistiche sulla progressione dei PIL, lodata dagli economisti durante i periodi d'espansione tra due periodi di recessione, non significava tanto la fabbricazione di prodotti nuovi e di servizi supplementari per gli uomini, quanto la trasformazione in merci di beni e di servizi che prima non lo erano.

Col privatizzare servizi pubblici un po' ovunque, col trasformare in beni commerciali le forme moderne di solidarietà (casse pensionistiche sostituite dai fondi pensione; assicurazioni private al posto della previdenza sociale) o quelle vecchie (forme di solidarietà paesana in Africa, ecc..), col distruggere gran parte delle conquiste della Rivoluzione del 1917 nell'ex Unione sovietica, il gran capitale spinge a trasformare in merci, cioè in sopporti per fare profitti, le cose che prima gli sfuggivano. Già da tempo è stato trasformato in merce, cioè in fonte di profitti, un elemento tanto naturale e indispensabile alla vita umana quale l'acqua: da tempi remoti l'irrigazione, e adesso l'acqua potabile con la distribuzione d'acqua sempre più cara o di acqua in bottiglie. La reciproca di questa evoluzione sta nel fatto che una parte importante dell'umanità, quella che non ha il potere d'acquisto necessario, è completamente privata d'acqua potabile. Possiamo fidarci dei trust per trovare il modo di trasformare in merce anche l'aria che respiriamo ! Gli Stati imperialisti infatti hanno trovato il modo di trasformare in merce il diritto di inquinare, che si può comprare e rivendere. Il processo raggiunge l'apice con la trasformazione dello stesso genoma umano in merce!

Questa evoluzione non ha fatto uscire l'economia dalla sua lunga depressione di trenta anni, e non l'ha neanche resa più stabile, anzi.

Il dominio della finanza sull'economia, del profitto tratto dalla speculazione borsistica e monetaria, ha reso i sobbalzi economici ancora più irrazionali.

Il bilancio complessivo degli ultimi trenta anni è disastroso, sia per la classe operaia mondiale che per i paesi poveri. Per l'una e per gli altri, è l'insieme del periodo, e non solo le sue fasi più o meno lunghe di recessione, che rappresenta una regressione considerevole.

Nei paesi imperialisti stessi, la permanenza della disoccupazione o della disoccupazione parziale ha trasformato una parte importante del proletariato in un sottoproletariato escluso dal sistema economico, che vive nella miseria economica e anche spesso nella miseria culturale e morale.

Al di là dell'inumanità che rappresenta la disoccupazione per chi la vive, l'esclusione di parecchi milioni di persone dall'attività sociale nei paesi industriali più ricchi, cioè laddove sono concentrati i mezzi di produzione costruiti dal lavoro sociale del passato, costituisce una condanna senza appello dell'organizzazione capitalista dell'economia.

L'importanza della disoccupazione è uno degli elementi essenziali del regresso generale della condizione operaia, segnata nei paesi ricchi dalla generalizzazione della precarietà sotto le forme più varie, il quasi generale indebolimento delle protezioni sociali e il degrado dei servizi pubblici, quali l'istruzione o la sanità, che fino ad un certo punto compensavano l'insufficienza del reddito delle classi popolari.

I falsi progressi non possono nascondere i veri indietreggiamenti. Grazie alla diminuzione dei prezzi che risulta dall'aumento della produttività, i salariati possono comprare telefoni cellulari o addirittura computer, come in altri tempi hanno potuto comprare frigoriferi o lavatrici. Ma bisogni ben più fondamentali come quello di un alloggio conveniente non sono meglio soddisfatti, anzi, rispetto a trenta o quaranta anni fa.

In Francia, molti alloggi sociali costruiti negli anni sessanta, praticamente in mancanza di manutenzione, diventano tuguri, e le baraccopoli sparite a quell'epoca risorgono intorno ad alcune città.

Nei paesi poveri, il degrado è ancora più evidente. Alcuni di loro, quali il Brasile o l'Argentina, erano presentati come paesi che avessero preso il treno dello sviluppo economico. Il carattere drammatico della crisi argentina dimostra però che gli ammortizzatori statali elaborati nei paesi imperialisti per evitare che le crisi borsistiche o economiche abbiano conseguenze sociali così brutali come nel 1929, non riguardano i paesi poveri, neanche quelli meno sottosviluppati.

I cosiddetti paesi "emergenti" del Sud-Est asiatico hanno fatto la stessa triste esperienza alcuni anni fa. Alcuni di loro non si sono ancora rialzati.

I Paesi sorti dall'ex Unione sovietica, Russia in testa, pagano un pesante tributo alla loro integrazione nel sistema imperialistico mondiale, che appare perfino nelle cifre della demografia che indicano l'indietreggiamento della durata media della vita.

Quanto all'Africa subsahariana, a parte alcune succursali del gran capitale, è rimandata indietro a tal punto che il sistema imperialista ha rinunciato a sfruttare la maggior parte degli abitanti , esclusi dal processo di produzione, ridotti a vivacchiare senza altra speranza che un'ipotetica emigrazione. Questo non toglie che i gruppi capitalisti proseguono nel saccheggio delle risorse naturali di alcuni paesi e nel fare profitti grazie ai contratti firmati con gli Stati, i cui apparati si mantengono ricattando le popolazioni.

Il Rapporto mondiale sullo sviluppo umano 2002, di una delle ufficialissime succursali dell'ONU, è un vero requisitorio contro il capitalismo. Con il solito eufemismo di questo tipo di documento, constata che "secondo gli elementi limitati a disposizione, pare che il divario" (tra ricchi e poveri all'interno stesso di questi paesi) "sia aumentato durante i trenta anni scorsi. Su 73 paesi per cui ci sono dati disponibili (ossia l'80% della popolazione mondiale), 48 hanno visto le disuguaglianze aumentare sin dagli anni cinquanta, 16 non hanno visto cambiamenti, e solo 9 (ossia appena il 4% degli abitanti del mondo) hanno registrato un miglioramento."

Nonostante questa constatazione, il cui significato non può sfuggire a nessuno, lo stesso rapporto si chiede stupidamente : "quanta crescita ci vuole per ridurre la povertà?". Ma se la crescita dei trenta anni scorsi ha avuto questo risultato disastroso, come si fa a credere che, anche se ci fosse una crescita durante i trenta prossimi anni, questa avrebbe risultati diversi ?

In questo scorcio di secolo, "815 milioni di persone nel mondo erano malnutrite : 777 milioni nei paesi in via di sviluppo (in realtà i paesi poveri), 27 milioni nelle economie in transizione (cioè gli ex paesi dell'Est) e 11 milioni nel mondo industrializzato". Questa constatazione viene riproposta dalla FAO (organizzazione delle Nazioni Unite per l'agricoltura a l'alimentazione) con le sue statistiche : 25000 persone muoiono di fame ogni giorno, 6 milioni di bambini di meno di 5 anni muoiono ogni anno per mancanza di cibo, una cifra equivalente all'insieme dei bambini di questa età in Francia e Italia riunite.

Chi legge tali rapporti ha solo l'imbarazzo della scelta per rilevare le illustrazioni lampanti dell'inanità di questo sistema economico ! E' vero però che il capitalismo è capace di assorbire nei suoi ingranaggi la sua propria contestazione. La constatazione della crescita della miseria umana non fa emergere le soluzioni : non fa altro che moltiplicare il numero delle commissioni ufficiali che producono rapporti a tonnellate, dando un impiego ad economisti più o meno distinti ed eventualmente nobelizzabili.

E' di moda dare ai cambiamenti di questi ultimi trenta anni il nome di "globalizzazione". E' una parola neutra che oscura, ben più che chiarisce, la natura di questi cambiamenti. Pone l'accento sul carattere mondiale dell'evoluzione nel corso dell'ultimo terzo del 20° secolo, ed è vero che il capitalismo odierno stringe l'economia e la vita sociale di tutto il pianeta in una rete dalle maglie sempre più strette.

Questa parola però nasconde concretamente il carattere di classe di tale evoluzione, il dominio della borghesia dei paesi imperialisti sul resto del mondo e il fatto che l'accumulo senza precedenti delle ricchezze ad un polo risulta proprio dalla crescita della povertà all'altro. Nasconde innanzi tutto il fatto che non si tratta di un carattere che in qualche modo verrebbe aggiunto al capitalismo, e con questo suggerisce che basterebbe che i governi cambino di politica per fare tornare il mondo allo stato precedente delle cose (e ovviamente questo stato precedente non è un'ideale di società). Quello che oggi viene designato con questa parola ambigua di "globalizzazione" risulta dall'evoluzione dell'imperialismo stesso i cui tratti caratteristici si sono ancora accentuati rispetto ai tempi in cui Lenin li descriveva. E l'imperialismo stesso, sotto i suoi aspetti vecchi e nuovi, risulta dallo sviluppo organico del capitalismo. Senza una politica mirante a porre fine all'organizzazione capitalista dell'economia, cioè senza una politica di classe che difenda questo obiettivo in seno al proletariato, l'unica classe capace di compirlo, la battaglia antiglobalizzazione si riduce, al meglio, ad una protesta sincera ma inefficace. Ma la facilità con cui i politicanti riformisti della borghesia possono riprendere al proprio conto tutto o una parte del programma antiglobalizzazione dimostra innanzi tutto che questo può diventare un mezzo, neanche veramente nuovo, per ingannare ancora le classi lavoratrici.

Il dibattito tra fautori ed avversari della globalizzazione è un falso dibattito, anche quando non si svolge solo nelle pagine dei libri d'economia o nelle colonne di pubblicazioni economiche o politiche e quando si prolunga nelle strade di Seattle, Porto Alegre, Genova o altre città.

L'opera distruttiva dell'imperialismo alla nostra epoca non si limita al campo materiale. Si prolunga nel campo delle idee.

Nei paesi imperialisti, i grandi partiti riformisti ne sono stati a lungo gli artefici, praticamente quando, sin dall'inizio della crisi, si sono messi a lodare i vantaggi del profitto e della crescita economica per l'insieme della società. Grazie a questi partiti, PCF compreso, i punti di vista borghesi più reazionari hanno finito col prevalere nella borghesia piccola o grande, il che fa parte dell'ordine delle cose, ma anche nel movimento operaio. Si può misurare questa opera distruttiva nel fatto che un movimento come Attac, le cui idee un quarto di secolo fa sarebbero state considerate alla destra del movimento operaio, oggi passa per un movimento radicale.

Nello stesso modo, per esempio, la rivendicazione dell'annullamento del debito dei paesi del terzo mondo, cioè tutt'al più del debito dei loro Stati, passa per radicale. Certamente, siamo solidali con questa rivendicazione in quanto esprime l'aspirazione delle masse povere ad allentare il peso dell'imperialismo sui loro paesi. Ma, utilizzata dai loro dirigenti o addirittura da alcune forze della borghesia imperialista, diventa un modo per ingannare le loro masse popolari che crepano di miseria e di fame e hanno bisogno di una prospettiva politica del tutto diversa.

Nei paesi saccheggiati ed oppressi dalla borghesia imperialista, questo riflusso reazionario si evidenzia con vari ripiegamenti communitari : ripiegamento nazionalista o etnico, ripiegamento religioso, ecc... Le masse povere prive di una vera prospettiva sono portate a credere che le solidarietà etniche, nazionali o religiose costituiscano una specie di protezione. Ma non è neanche così. Questi ripiegamenti innalzano nuove barriere che frantumano le masse popolari, le scompongono, aizzano i loro elementi gli uni contro gli altri ed aggiungono a tutte le conseguenze della dominazione imperialista sul mondo un aspetto supplementare sanguinoso e sterile.

Proprio alla nostra epoca, in cui il marxismo viene seppellito dai fautori trionfanti dell'economia capitalista, in cui viene ufficialmente abbandonato dal movimento staliniano, in cui viene trascurato o "rinnovato" anche da molti che oggi si appellano all'estrema sinistra, il marxismo dimostra di essere l'unica chiave per capire la marcia del sistema economico capitalista sotto la sua apparenza odierna.

La rinascita di una forza politica capace di incarnare l'unica prospettiva che si opponga a quella del mantenimento della barbarie capitalistica non sarà ovviamente solo un movimento di idee. Ma la classe operaia, che rimane l'unica forza di trasformazione della società, potrà ridiventare portatrice di questa prospettiva solo se si impadronisce delle idee che la esprimono, cioè del marxismo.

Da molto tempo il mantenimento del sistema capitalistico non è più assicurato dalla sua dinamica interna, bensì da ciò che Trotski aveva chiamato a suo tempo "la crisi della direzione rivoluzionaria del proletariato".

L'umanità paga caro il fatto di non controllare la sua propria economia. Eppure i progressi delle scienze e delle tecnologie forniscono mezzi tecnici che non si potevano neanche immaginare ai tempi di Marx, per fare l'inventario delle ricchezze, per organizzare razionalmente la produzione divenuta mondiale e per pianificare coscientemente e in rapporto ai bisogni, pur salvaguardando l'ambiente naturale, la produzione su scala internazionale come su scala locale.

Ma i mezzi tecnici, i formidabili strumenti moderni di comunicazione e di scambio su scala del pianeta, le formidabili possibilità di mettere in comune le conoscenze, tutto questo inciampa nell'anacronismo dei rapporti sociali. Sconvolgere questi rapporti sociali, sopprimere la proprietà privata dei grandi mezzi di produzione, non è più solo una necessità per fare saltare gli ostacoli che si innalzano davanti all'umanità e si oppongono alla sua marcia in avanti. Diventa sempre più una necessità per impedire l'indietreggiamento verso la barbarie o addirittura la distruzione delle condizioni stesse della vita sulla terra.

28 ottobre 2002