Da "Lutte de classe" n° 221 - Febbraio 2022
Il 1° gennaio, il raddoppio del prezzo del carburante, compreso il GPL, utilizzato dall'80% dei veicoli locali, ha dato fuoco alla polveriera in Kazakistan, paese dell'Asia centrale nelle mani di una cricca burocratica predatrice, quella dell'ex presidente Nazarbaiev e del suo nuovo successore, Tokaiev. Protetta da un regime poliziesco, questa cricca al potere si è arricchita a miliardi nei tre decenni successivi alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, di cui il Kazakistan era una delle 15 repubbliche, attraverso una corruzione diffusa e, soprattutto, negoziando con i giganti industriali occidentali per saccheggiare le immense risorse naturali del paese.
Il Kazakistan è grande quanto i due terzi dell'Unione europea e si dice che abbia 99 dei 100 elementi della tavola periodica di Mendeleiev [1]. È quindi ricco di risorse energetiche e minerarie, fra cui soprattutto gas, petrolio, carbone, uranio e cromo, dei settori fra i quali è tra i principali produttori ed esportatori del mondo.
Questo l'ha portato ad essere descritto dai circoli d'affari internazionali del paese come un freddo Eldorado, o addirittura come la Svizzera dell'Asia centrale, secondo un articolo del quotidiano d'affari online La Tribune pubblicato il 30 dicembre, due giorni prima di un'esplosione sociale e politica che ha sorpreso i governanti locali e stranieri. Ma il Kazakistan non ha nulla di un Eldorado per le sue masse lavoratrici, con stipendi per lavoratori qualificati che non superano i 150.000 tenge (l'equivalente di 300 euro) e un tasso di povertà (ufficiale) del 17%. Questa situazione è peggiorata con l'aggravarsi della crisi globale. Poiché la crisi ha ridotto la domanda di materie prime, e quindi le esportazioni e la valuta estera che portano, i ricchi al potere e a capo delle imprese statali o miste hanno scaricato quello che vedono come un mancato guadagno sui lavoratori, sotto forma di licenziamenti (11% dei posti di lavoro in un anno) e di tagli salariali per quelli che hanno mantenuto il posto.
Sullo sfondo dell'aumento dei prezzi dei prodotti base, questo aveva portato a un'ondata di scioperi nelle regioni occidentali del petrolio e del gas sin dall'estate del 2021. Tra le decine di aziende colpite, spesso subappaltatori di grandi gruppi internazionali, aziende di trasporto o logistica, citiamo, in ordine di entrata nella lotta: Kezbi e OzenMunaïGaz (1.200 lavoratori ciascuno), il giacimento Karajanbas, MunaïSpetzSnab, UzenMunaïGaz, Kunan Holding, Oilfield Equipment & Service, BatysGeofisServis, KazPromTekhKompani, Tazalyk-S, NBC, UTS Llc, Eurest Support Services, i giacimenti di Tenguiz e Kashagan, Karajanbasmunai (570 lavoratori), Industrial Service Resources, KMG EP-Katering e Abuev Group. Anche altre aree sono state toccate, anche se in misura minore: il 28 giugno, madri con famiglie numerose che chiedevano lavoro e maggiori sussidi per l'infanzia invasero il Ministero dell'Industria nella capitale Astana[2]; l'8 luglio, i corrieri della Globo si misero in sciopero ad Almaty (l'ex capitale Alma-Ata), la principale città del paese, così come i ferrovieri di Chymkent; alla fine di luglio, scoppiò uno sciopero nel servizio ambulanze di Almaty, tra gli autisti di autobus a Semipalatinsk, tra gli operatori di gru e macchine per cantieri ad Astana...
Quasi ovunque, gli scioperanti chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Queste lotte, spesso vittoriose e talvolta sfociate in aumenti salariali del 50% o addirittura del 100%, mostravano la strada da seguire, quando il prezzo dei carburanti raddoppiò improvvisamente.
Il regime scosso da un'esplosione operaia e popolare
Gli stessi lavoratori dell'energia dell'ovest, che avevano appena scioperato con successo, diedero il via a un movimento che questa volta avrebbe assunto proporzioni nazionali.
Già il 2 gennaio manifestarono contro l'aumento dei prezzi del carburante, come i lavoratori della raffineria di gas kazaka di Janaozen e quelli di diverse fabbriche nella grande città vicina, Aktau. Il giorno dopo, sono stati i lavoratori dei campi petroliferi di Kalkamas e Karajanbas ad entrare in sciopero. Poi quelli di ArcelorMittal a Termitau (14.000 dipendenti) e Kazakhmys (37.000 lavoratori). In diversi luoghi, i lavoratori minacciarono di scioperare se il governo non avesse annullato questi aumenti e, non avendo ricevuto risposta, misero in atto la loro minaccia. Alla KazChrome di Khromtau, gli operai chiesero il raddoppio dei loro salari (come il prezzo del gas!), richiesta a cui la direzione rispose minacciando di licenziare 4.000 lavoratori e di chiudere la fabbrica. D'altro canto già il 6 gennaio i giganti americani ExxonMobil e Chevron avevano chiesto alle autorità di ristabilire l'ordine, perché il movimento, partito dalle grandi imprese dell'ovest del paese, si stava diffondendo in tutte le regioni.
Quasi dall'inizio, oltre alle loro richieste economiche, su prezzi, salari, occupazione e disoccupazione, gli scioperanti e i manifestanti aggiunsero richieste apertamente politiche contro il regime o alcuni dei suoi aspetti più odiosi: per la destituzione del governo, l'isolamento dell'ex presidente Nursultan Nazarbayev, padrino e simbolo di un odiato regime mafioso, l'organizzazione di libere elezioni, il diritto di creare sindacati indipendenti... Ciò ricordava quello che era successo un anno e mezzo prima all'estremità occidentale dell'ex Unione Sovietica, in Bielorussia. Ma questa volta con un intervento ancora più marcato della classe operaia, nel corso di un'insurrezione fin dall'inizio più radicale, e con scontri armati tra i campi opposti.
Rappresentante del campo al potere, il presidente Kassym-Jomart Tokaiev cercò di placare la rabbia che si stava diffondendo. Annullò l'aumento del GPL e dichiarò che lo stato avrebbe regolato i prezzi di alcuni prodotti per sei mesi. Dissolse il governo, reso responsabile degli aumenti del gas. E attaccò Nazarbaiev, che, dopo più di 30 anni alla direzione del paese, lo aveva ufficialmente nominato capo di stato nel 2019, ma mantenendo il controllo delle principali leve di potere e sulle fonti di arricchimento. Tokaiev sperava di ottenere due cose. In primo luogo, liberarsi di un mentore e di un clan che lo tenevano in pugno, perché, mentre fingeva di farsi da parte, Nazarbaiev si era accordato la presidenza a vita del Consiglio di Sicurezza e lo status costituzionale di Padre della Nazione, senza dimenticare di piazzare parenti stretti in posizioni chiave, come la figlia maggiore a capo del Senato e suo nipote a quello della polizia politica, il KNB. E Tokaiev sembrava dare soddisfazione a coloro che nelle strade scandivano: "Via il vecchio!".
Ma non bastava concedere qualcosa, in questo caso spodestare un rivale che era al centro dell'odio della popolazione, perché le classi povere perdessero di vista il fatto che era l'intero sistema che detestavano. Così la protesta aumentò. E soprattutto si radicalizzò ad Almaty, dove attirò una parte della gioventù, compresi i contadini che erano venuti dalle campagne abbandonate o dai paesi vicini nella speranza di trovare un lavoro in questa città di quasi due milioni di abitanti, ma che non avevano trovato altro che disoccupazione, insicurezza e miseria.
Queste migliaia di giovani, che non avevano nulla da aspettarsi dal regime, si sono trovati in prima linea negli scontri con la polizia e la Guardia Nazionale. Per difendersi, alcuni di loro si procurarono armi nei negozi di questa città, mentre altri ne presero da membri delle forze di repressione. Questa preoccupazione di neutralizzare e disarmare gli inviati contro di loro era già stata messa in pratica da alcuni operai nei giorni precedenti. Nella provincia di Manghistau, dove il movimento era iniziato, degli operai in corteo erano stati visti marciare attraverso un posto di blocco della polizia, attirando con sé alcuni poliziotti. E ad Aktau, il capoluogo provinciale, non solo la popolazione aveva tagliato la strada all'aeroporto dove gli uomini della Guardia Nazionale erano appena sbarcati, ma gli operai si erano messi a disarmare i soldati che erano bloccati lì.
Il 5 gennaio, con poco controllo sulla situazione, Tokaiev ordinò alle sue truppe di sparare senza preavviso e poi chiese alla Russia di Putin di venire in suo soccorso.
L'esercito russo in soccorso della dittatura
Il 7 gennaio, 3.000 soldati russi arrivarono con i loro carri armati ad Almaty. Ufficialmente, venivano ad aiutare un paese alleato che era stato attaccato da "20.000 terroristi e combattenti islamici manipolati da un centro situato all'estero", un pretesto invocato da Tokaiev e ripreso più volte dalla propaganda del Cremlino. Questa forza di spedizione avrebbe messo in sicurezza gli edifici ufficiali, gli aeroporti e le sedi del potere, dato che le autorità locali non erano state in grado di impedire che i manifestanti li sequestrassero o li bruciassero. Schierando paracadutisti delle forze speciali con una reputazione sinistra, Putin voleva spaventare la popolazione, ma anche sollevare la Guardia nazionale kazaka da un certo numero di compiti, in modo che dovesse solo sedare la protesta.
Il 15 gennaio, il generale che comandava la forza di spedizione annunciò che si sarebbe presto ritirato perché aveva completato con successo la sua "missione di mantenimento della pace".
Per quanto riguarda la pace, si tratta della pace dei cimiteri. Il governo kazako ha certo abolito la pena di morte appena un anno fa, senza dubbio per presentare un'immagine più rispettabile in Occidente, ma non ha mai smesso di versare il sangue degli oppositori, et soprattutto quello della classe operaia. Così, alla fine del 2011 a Janaozen, non lontano dal Mar Caspio, il governo, celebrando a modo suo il ventesimo anniversario dell'indipendenza, aveva fatto sparare su una manifestazione di lavoratori del petrolio in sciopero che chiedevano migliori salari e condizioni di lavoro, nonché il diritto di creare sindacati indipendenti: bilancio ufficiale, 16 morti. Nel gennaio 2022, è con un tweet che Tokaiev ha ordinato ai suoi scagnozzi di sparare per uccidere.
Dopo due settimane di silenzio sulle vittime della repressione, a metà gennaio le autorità hanno annunciato 235 morti. Si tratta di una cifra irrisoria, mentre ogni giorno la gente fa la fila davanti agli obitori di Almaty per identificare il corpo di un parente. Per quanto riguarda gli arresti, il governo ne dichiara 10.000. Anche qui, questa cifra sottovaluta senza dubbio la realtà. In particolare, non dice nulla sugli arresti di oppositori e attivisti sindacali che il KNB ha effettuato all'inizio del movimento, nel tentativo di decapitarlo, né sulla tortura sistematica dei detenuti senza processo, né sui nuovi arresti e sulle condanne ad anni di prigione che il regime darà, come al solito, per "ristabilire l'ordine": il suo ordine, e quello di tutta una serie di forze coinvolte, dalla Russia di Putin alle grandi potenze, garanti degli interessi delle imprese americane, europee e cinesi stabilite in Kazakistan o in rapporti d'affari con questo paese, come l'Unione Europea che è diventata recentemente il suo principale partner commerciale. Queste forze sono tutte interessate, anche se non per le stesse ragioni, a far sì che nulla leda i loro interessi in questo Eldorado del mondo degli affari sottomesso alla dittatura di Nazarbayev, Tokayev e altri.
Un Putin rispettoso dell' "ordine mondiale"
Ed è proprio questo, sullo sfondo della quasi-permanente instabilità dei regimi emersi dal crollo dell'URSS, che rende possibile che, da Tokaiev al leader cinese Xi Jinping (che si è congratulato con lui per aver soffocato una "rivoluzione di colore", come quelle che scuotono lo spazio post-sovietico negli ultimi quindici anni), passando dal presidente americano Biden e dalle autorità dell'Unione Europea, tutti abbiano approvato più o meno discretamente l'intervento militare russo. O ad ogni modo, erano sollevati dal fatto che Putin se ne occupasse, poiché loro stessi non potevano permetterselo, in una regione del mondo dove i grandi gruppi energetici e atomici, tra gli altri, hanno grandi interessi.
Putin sta facendo rivivere ciò che la propaganda del Cremlino chiama "le gloriose tradizioni della Grande Russia". In questo caso, quelle dello zarismo, i cui eserciti giocarono il ruolo di gendarme della reazione in Europa durante tutto il XIX secolo, schiacciando ripetutamente le rivolte dei popoli. Lo stesso fu per lo stalinismo quando, alla fine della seconda guerra mondiale, l'esercito della burocrazia occupava l'Europa centrale e orientale: Stalin si prese la responsabilità di schiacciare qualsiasi rischio - dal punto di vista dell'ordine imperialista - che vi scoppiassero rivoluzioni operaie, come era avvenuto alla fine della prima guerra mondiale.
Dal punto di vista del capo della burocrazia russa, l'opportunità di dare una mano ai burocrati kazaki, e attraverso loro ai grandi gruppi occidentali, è arrivata al momento giusto, proprio mentre i diplomatici russi e i rappresentanti della NATO tenevano a Ginevra delle discussioni, avviate da Biden e Putin, su quella che alcuni chiamano la crisi ucraina. Un termine che in realtà nasconde male il desiderio continuo della NATO, e quindi dell'imperialismo, di spingere sempre più le sue pedine in quello che la Russia chiama il suo "estero vicino": Ucraina, Georgia, Kazakistan e in generale le ex repubbliche sovietiche dell'Europa e dell'Asia.
Intervenendo in Kazakistan, Putin si è posizionato come il rappresentante di una grande potenza che non può essere ignorata nel mantenere l'ordine in quella che la Russia considera la sua naturale sfera di influenza. Il Cremlino sperava senza dubbio di aver dimostrato che, pur difendendo i suoi specifici interessi nel proprio cortile, dava la prova della sua responsabilità verso l'ordine mondiale, di cui la NATO è il principale guardiano.
Questa NATO, creata dagli Stati Uniti all'inizio della guerra fredda come coalizione militare di Stati ostili all'Unione Sovietica, lungi dallo scomparire con l'implosione dell'URSS trent'anni fa, ha continuato a rafforzarsi, nonostante le promesse fatte da Washington a Mosca, a scapito della Russia, installando basi militari in questi paesi dell'Est che erano stati un involucro protettivo per l'URSS. Lo stesso vale per le ex repubbliche sovietiche dei tre stati baltici. Anche in Kazakistan, dove Nazarbaiev ha permesso all'aviazione americana di stabilirsi per condurre la sua guerra nel vicino Afghanistan. Dietro il pretesto di aiutare la lotta contro il terrorismo islamico, terrorismo che è una forma che la contestazione dei regimi dell'Asia centrale prende a volte, c'era la volontà della burocrazia kazaka di ottenere i dividendi di una cooperazione militare e, in misura minore, economica con l'imperialismo in generale, e l'imperialismo americano in particolare.
Questa tendenza ad avvicinarsi all'imperialismo a spese della Russia è evidente in varia misura in tutti gli altri stati emersi dall'URSS. L'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), decisa dalla Russia nel 1992 e di cui fanno parte la Bielorussia, l'Armenia, ma anche il Kazakistan, il Tagikistan e il Kirghizistan, è certo la più capace, perché è già in funzione, di salvare la causa delle cricche al potere che affrontano il loro popolo nello spazio ex-sovietico. Ma, di fronte al mondo imperialista, questo non cambia il declino dell'attrazione economica della Russia verso il suo "vicino estero". E in termini strettamente militari, il CSTO non può nemmeno essere paragonato al defunto Patto di Varsavia, il già gracile blocco difensivo che Stalin aveva creato per cercare di contrastare la NATO.
Ma Putin e lo stato maggiore russo, oltre a ricordare ai loro alleati più o meno attirati dall'Occidente che sono ancora lì e capaci di intervenire, hanno probabilmente visto un altro vantaggio all'intervento militare in Kazakistan. Mentre l'aggravarsi della crisi economica mondiale provoca esplosioni sociali e politiche, anche alle frontiere della Russia, i dirigenti russi, che sanno che la loro popolazione potrebbe un giorno prendere la stessa strada dei lavoratori bielorussi o kazaki, vi si stanno indubbiamente preparando, e vi preparano le loro forze di repressione, alle quali questa operazione sarà servita anche come prova generale di fronte all'inizio di un'insurrezione popolare e operaia.
Il regime kazako: tra predazione e repressione
Quando l'Unione Sovietica implose alla fine del 1991, sotto la pressione delle lotte tra i clan dominanti della burocrazia che cercavano di sfuggire ad ogni controllo e consolidare il loro potere, il che aprì la strada al saccheggio del paese da parte di milioni di burocrati, il Kazakistan, la seconda più grande delle quindici repubbliche sovietiche in superfice, fu l'ultima a dichiararsi indipendente: il 16 dicembre 1991, una data che da allora è diventata quella della sua festa nazionale.
Se il Kazakistan, come la maggior parte delle repubbliche sovietiche, fu lento a riconoscere la dissoluzione dell'URSS, che era stata proclamata dai capi della burocrazia russa, ucraina e bielorussa, Eltsin, Kravciuk e Shushkievic, fu innanzitutto perché alle componenti non slave dell'URSS fu presentato il fatto compiuto. In secondo luogo, e soprattutto, una repubblica come il Kazakistan aveva un'economia che è stata costruita da zero dopo la rivoluzione d'ottobre del 1917, come parte di un piano concepito sulla scala dell'URSS. E poteva funzionare solo in modo integrato con il resto dell'economia sovietica. Inoltre, ciò che produceva sarebbe stato difficile da esportare, poiché si trovava nel cuore del continente eurasiatico.
Quando l'economia del Kazakistan è crollata ancora più bruscamente di quella della Russia a seguito della rottura dei legami fra le vecchie componenti dell'URSS, la burocrazia locale si è impossessata di tutto ciò che aveva valore nelle industrie, principalmente estrattive.
Per consolidare il suo potere su questo campo di rovine, e per offrire un illusorio diversivo alla miseria in cui sprofondava la popolazione, Nazarbaiev decise di giocare sulle differenze di origine nazionale all'interno di questa popolazione. Dopo tutto, questo aveva funzionato per lui nell'URSS di Gorbaciov. Nel giugno 1989, quando era ancora solo primo ministro della Repubblica del Kazakistan, aveva, usando la demagogia nazionale, spodestato un russo dal posto di numero uno del partito unico e preso il suo posto. Questo spinse avanti la sua carriera, dandogli accesso al vertice della struttura di potere dell'URSS, l'ufficio politico.
La burocrazia kazaka post-indipendenza, come la maggior parte delle sue consorelle, si sarebbe impegnata a consolidare il suo potere attraverso la demagogia nazionale.
Fu solo dopo la rivoluzione del 1917 che il Kazakistan cominciò ad uscire dallo stadio di una società pastorale e seminomade. È stato il potere dei soviet a fissare la lingua kazaka, a dotarla di un alfabeto e a permettere alla popolazione di avere accesso all'istruzione per la prima volta, e nella propria lingua. L'arretratezza culturale in cui lo zarismo l'aveva confinata, a causa del modo in cui trattava le cosiddette popolazioni non autoctone, non poteva sparire immediatamente. E per molto tempo, per riempire i posti di lavoro qualificati in ogni campo in Kazakistan, è stato necessario ricorrere alla manodopera di altre repubbliche, e in primo luogo della Russia. La burocrazia stalinista e post-stalinista approfittò di questa situazione per russificare la società kazaka. Così, al momento della scomparsa dell'URSS, sebbene il paese avesse quasi tanti cittadini sovietici di origine kazaka quanti cittadini sovietici che si dichiaravano russi o erano considerati tali, i primi rimanevano molto sottorappresentati nei lavori qualificati e nelle posizioni di responsabilità.
La burocrazia di Nazarbaiev, in modo clanico e clientelare, introdusse una forma di preferenza nazionale nei posti di lavoro che dipendevano da lei. Cercò anche di prendere facili distanze dal recente passato abbandonando (ufficialmente) l'alfabeto cirillico a favore di quello latino, bandendo (ufficialmente) il russo dalla sfera pubblica... In pratica non cambiò molto, se non che questo nazionalismo più o meno marcato spinse molti russi a lasciare il paese - rappresentano solo il 18-19% della popolazione - un esodo che ha privato molte città di una parte significativa dei loro medici, insegnanti, ingegneri, ecc. Poco importava ai vari Nazarbaiev che in fin dei conti ciò non abbia giovato né a quelli che andavano via, né a quelli che restavano: come i loro compari leader nelle altre ex repubbliche sovietiche, speravano che suscitare il nazionalismo avrebbe distolto l'attenzione della popolazione dai loro veri oppressori.
Al volgere del 2000, quando la situazione cominciò a stabilizzarsi e a riprendersi dalle conseguenze del crollo dell'URSS, la cricca di Nazarbaiev si impegnò in un gioco permanente di altalena tra la Russia, che rimaneva di gran lunga il suo maggiore cliente e fornitore, e le potenze occidentali. Queste ultime cominciavano infatti a rendersi conto che un paese che si classificava primo al mondo per la produzione di uranio, ottavo per le riserve di carbone, tredicesimo per la produzione di petrolio (1,7 milioni di barili al giorno nel 2009, 2 milioni nel 2020) e quindicesimo per le riserve di gas, tra le altre cose, rappresentava una torta enorme sulla quale i loro grandi gruppi dovevano buttarsi.
Per aiutarlo ad attirare gli investitori e dare al regime un'immagine più rispettabile di quella dei mafiosi e dei dittatori, Nazarbaiev ricorse i servizi di un consigliere speciale, l'ex primo ministro laburista britannico Tony Blair, dal 2011. I suoi consigli e, soprattutto, la sua rubrica di indirizzi, molto ben pagati (9 milioni di euro all'anno, si diceva), hanno senza dubbio dato i loro frutti. Almeno per lui e per il regime, vista la lista dei giganti mondiali che sono venuti a fare profitti in questo paese: ExxonMobil, TotalEnergies, British Gas, ArcelorMittal, Areva, Framatome, filiali della russa Gazprom, la principale compagnia petrolifera cinese, ecc. La Cina, da parte sua, ha costruito un terminal ferroviario al confine con il Kazakistan, un asse strategico sulla sua "nuova via della seta". E i leader statunitensi firmano regolarmente contratti del valore di miliardi di dollari, soprattutto nel quadro della loro "partnership strategica per il XXI secolo". Per quanto riguarda i leader europei, stanno mirando ai contratti nel campo dell'aviazione o dello spazio, perché il cosmodromo sovietico di Baikonur, da cui è partito Gagarin, situato nelle steppe del Kazakistan, è ancora in servizio.
Ma sono gli idrocarburi (75% delle esportazioni del Kazakistan, 35% del suo PIL) che concentrano gli appetiti degli stati imperialisti, e che costituiscono sia la fonte principale della dipendenza del paese dai mercati capitalisti, sia la fonte delle prebende che i burocrati kazaki ne ricavano, come intermediari tra il mercato mondiale e la loro popolazione. Una popolazione che continuano a far sudore profitti per i grandi gruppi americani, inglesi, francesi e altri, a colpi di canna e, se non basta, con la frusta di Putin.
Dopo il "gennaio sanguinoso"...
Già il 7 gennaio, con l'arrivo delle truppe russe, Tokaiev aveva detto: "L'ordine costituzionale è stato ripristinato". Da vedere. Ne ha certo potuto approfittare per sgombrare i corridoi del potere. Ha infatti eliminato il clan Nazarbaiev, e - non si è mai troppo prudenti - ha rimosso i funzionari ritenuti vicini a Mosca, ma dopo tutto è sempre attraverso le crisi, non le elezioni, che si rinnovano i dirigenti dei regimi autoritari e dittatoriali. Ma non c'è nulla che dica che il gruppo che tiene le redini dello Stato, anche leggermente rinnovato, abbia finito di urtarsi al profondo malcontento sociale, se non alla sua espressione esplosiva.
Per quanto si può giudicare da lontano, sembra che dei combattimenti siano continuati anche dopo questa "restaurazione dell'ordine". In ogni caso, non ha messo fine definitivamente agli scioperi. Così, l'8 gennaio, mentre la polizia è riuscita a vietare le manifestazioni a Janaozen e Aktau, lo stesso giorno gli scioperanti di Kazakhmys hanno ottenuto un aumento salariale del 20%. Il giorno dopo, i lavoratori del petrolio di Tenguiz hanno ripreso il lavoro dopo aver ottenuto un aumento salariale del 50%. Per quanto riguarda la direzione di KazChrome, che aveva minacciato di chiudere quando i suoi 4.000 lavoratori chiedevano un raddoppiamento dei salari, sembra che l'abbia finalmente accettato.
Certo, queste informazioni, che sono molto frammentarie e devono essere confermate, riflettono nel migliore dei casi solo un aspetto molto piccolo di una situazione che in gran parte ci sfugge. Ma quello che sappiamo è che in Kazakistan c'è una grande e concentrata classe operaia - che è una delle conquiste dell'era sovietica e dell'industrializzazione che quest'ultima ha permesso - e che continua ad occupare un posto decisivo nell'economia del paese e nella vita sociale in generale. E possiamo vedere che i precedenti scontri sanguinosi con il regime non l'hanno spezzata né le hanno impedito di fare scioperi (conosciuti come scioperi selvaggi, in quanto vietati) e che, come nelle ultime settimane, è di fatto in prima linea nella lotta della grande maggioranza della società contro il regime mafioso di Nazarbaiev e Tokaiev.
Durante queste due settimane, gli oppositori democratici hanno qua e là predicato per l'instaurazione di un regime che hanno definito "più sociale". Questi lamenti riformisti non hanno alcun senso quando la dittatura spara per uccidere coloro che chiedono salari più alti, se non quello di coprire un'operazione che equivale alla semplice sostituzione di un autocrate logoro con uno che non è ancora troppo logoro. Questo potrebbe essere ciò a cui stiamo assistendo in Kazakistan.
Altre voci si sono sentite dalla cosiddetta estrema sinistra in Kazakistan, chiedendo la formazione dei cosiddetti sindacati indipendenti come primo obiettivo delle lotte dei lavoratori.
Gli unici sindacati che il regime tollera, al limite, sono certo completamente asserviti ad esso. Ma appunto, che la lotta dei lavoratori del Kazakistan sia accompagnata o meno dalla presenza di piccole organizzazioni sindacali indipendenti dalle autorità, essa si trova fin dall'inizio di fronte a problemi e ostacoli della più alta natura politica. Ed è stato fin dall'inizio che gli scioperanti e i manifestanti hanno combinato le loro richieste economiche con quelle politiche.
Infatti, se queste due settimane hanno posto una grande questione, è la questione del potere, di chi, di quale classe lo eserciti e contro chi. La questione è decisiva per coloro che si definiscono comunisti e vogliono rovesciare la borghesia, il suo sistema capitalista e tutti i regimi che la servono, anche se eredi di altri strati o classi sociali: feudatari in Medio Oriente oppure ex burocrati stalinisti più o meno convertiti al nazionalismo mafioso come in Kazakistan e in altri stati usciti dall'URSS.
A questa questione di potere, non c'è altra risposta positiva che quella della rivoluzione operaia e, in questa prospettiva, della costruzione di organizzazioni comuniste rivoluzionarie nella classe operaia che, sola, può permettere al proletariato di elevarsi al livello dei compiti che la storia gli assegna: aprire all'umanità il cammino verso una società libera da ogni oppressione, da ogni sfruttamento, una società socialista e comunista su scala pianetaria.
18 gennaio 2022
[1] Creata nel 1869 dal russo Dmitri Mendeleev, elenca tutti gli elementi chimici presenti in natura, classificandoli secondo il loro numero di protoni (o numero atomico).
[2] Nel 1997, Astana divenne la capitale del Kazakistan. Nel marzo 2019 prese il nome di Nursultan, in omaggio al padrino del regime, Nazerbaiev, di cui è il nome.