Da "Lutte de Classe" n°235 - Novembre 2023
Questo testo è stato votato dal Congresso di Lutte ouvrière, il 3 dicembre 2023
* * * * * * * * *
Se l'attacco a Israele da parte di Hamas il 7 ottobre ha innalzato molto rapidamente le tensioni in Medio Oriente, non è stato una sorpresa. È stato preceduto dalla radicalizzazione del governo israeliano, in particolare dall'arrivo di nuovi ministri di estrema destra, chiamati da Netanyahu per farsi una maggioranza. Le operazioni repressive e le provocazioni contro i palestinesi hanno già portato in diverse occasioni a risposte armate da parte di Hamas, che cerca così di affermarsi come organizzazione combattente che li rappresenta e li protegge. Chiudendo ogni speranza di un'evoluzione in qualche modo favorevole della situazione dei palestinesi, questo governo israeliano, come quelli che lo hanno preceduto, a sua volta doveva prima o poi provocare una reazione.
La politica di Netanyahu è un vicolo cieco per il popolo israeliano, così come quella di Hamas lo è per il popolo palestinese. Ma il conflitto che da decenni contrappone i due popoli non è solo un conflitto tra due nazionalismi per un territorio conteso. È una parte di tutti i conflitti del Medio Oriente. Alimentati per tutto il XX secolo dall'intervento imperialista, questi conflitti hanno fatto di tutta la regione un punto caldo, alimentando una situazione esplosiva che va ben oltre il solo conflitto israelo - palestinese.
Se l'Impero Ottomano era stato per secoli un quadro di relativa convivenza tra molti popoli di lingue e religioni diverse, la Prima guerra mondiale l'ha portato al crollo, seguito dalla sua spartizione da parte delle principali potenze imperialiste, per le quali il controllo del Medio Oriente era di importanza strategica. Anche la presenza di una materia prima importante come il petrolio stuzzicava i loro appetiti.
A partire dal 1918, con il pretesto di un "mandato" della Società delle Nazioni, Francia e Gran Bretagna, in qualità di potenze coloniali, tracciarono i confini del Medio Oriente secondo i propri gusti, reprimendo ferocemente i sentimenti nazionali delle popolazioni. Allo stesso tempo, l'imperialismo britannico incoraggiò l'immigrazione ebraica in Palestina come mezzo per controbilanciare l'ascesa del nazionalismo arabo. Lo strumento di questa impresa fu il movimento sionista e, al suo interno, molti militanti ispirati da ideali socialisti. Tuttavia, questo "socialismo", illustrato ad esempio dalla natura collettiva di aziende agricole come i kibbutz, voleva essere esclusivamente ebraico. Mettendo in disparte e spesso espellendo le popolazioni arabe e indigene locali, si è trattato di un'impresa coloniale che le ha depredate e ha totalmente ignorato le loro aspirazioni.
Dopo la Seconda guerra mondiale e lo sterminio di milioni di ebrei, il movimento assunse un carattere più massiccio: molti dei sopravvissuti videro nell'emigrazione in Palestina il mezzo per sfuggire a una società europea che li aveva respinti e per costruire uno Stato che fosse veramente loro. Questo diritto poteva essere riconosciuto, ma la strumentalizzazione delle loro aspirazioni permise ai leader sionisti di usarli come truppe, non solo per impegnarsi nella lotta contro il colonizzatore britannico della Palestina, ma poi per costruire uno Stato, lo Stato di Israele, che si definì fin dall'inizio come uno Stato ebraico. Dopo che le milizie sioniste ebbero cacciato gran parte della popolazione araba dal territorio, trasformandola in profughi per anni, gli arabi rimasti entro i confini di Israele divennero cittadini di seconda classe. Avevano meno diritti di qualsiasi cittadino ebreo arrivato dall'Europa o dall'America, dal momento che, in nome della Legge del Ritorno, godeva del diritto di stabilirsi nel Paese e di acquisirne la cittadinanza.
In un momento in cui le aspirazioni dei poveri del Medio Oriente a uscire dalla loro condizione erano molto presenti, e in cui erano scossi da rivolte, i dirigenti sionisti preferirono voltar loro le spalle. Non solo si perse un'occasione storica per unire le aspirazioni dei sopravvissuti ai campi e quelle delle masse povere della regione in un'unica lotta contro l'imperialismo, ma il nuovo Stato si sarebbe rivelato a sua volta uno strumento di oppressione al suo servizio.
Nel febbraio 1947, la Gran Bretagna consegnò il suo mandato all'ONU, che votò la divisione della Palestina tra uno Stato ebraico e uno Stato arabo, in accordo con tutte le principali potenze, compresa l'URSS di Stalin. Poiché entrambe le parti rifiutarono di accettare la spartizione, la proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948 fu seguita da una prima guerra tra le milizie sioniste e gli Stati arabi confinanti, poi dall'allargamento di questo Stato e dal suo riconoscimento da parte delle grandi potenze. Invece lo Stato arabo palestinese previsto non fu concretizzato. La Cisgiordania e Gaza rimasero occupate da Giordania ed Egitto rispettivamente e questo Stato non doveva mai vedere la luce.
In Medio Oriente, la partenza delle potenze colonizzatrici ha portato alla creazione di Stati come Libano, Siria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita e altri. In quanto strumenti delle borghesie e delle feudalità locali e delle loro rivalità, hanno dato all'imperialismo i mezzi per continuare a dominare la regione giocando sulle loro divisioni. Se lo stesso valeva fondamentalmente per lo Stato di Israele, le condizioni della sua creazione potevano renderlo un alleato più specifico dell'imperialismo, che non tardò a verificarlo.
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, la maggior parte degli Stati arabi vide l'insediamento di governi nazionalisti che cercavano di opporsi alla pressione dell'imperialismo. Ma quando, nel 1956, l'Egitto di Nasser decise di nazionalizzare il Canale di Suez, si scontrò con l'intervento militare di Francia e Gran Bretagna, con Israele come alleato. Le due potenze dovettero infine fare marcia indietro sotto la pressione degli Stati Uniti e dell'URSS. Per l'imperialismo americano fu l'occasione di prendere il sopravvento, ma anche di verificare quanto Israele poteva essere un alleato affidabile per lui. La guerra successiva, nel 1967, vide Israele affrontare la Siria e l'Egitto, indebolendo i loro governi nazionalisti con la soddisfazione dell'imperialismo e con il sostegno di tutti i suoi dirigenti.
La guerra del 1967 si concluse con l'occupazione militare della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est, provocando una nuova ondata di profughi verso i Paesi arabi vicini. Segnava anche la scelta assunta dai leader israeliani di ancorarsi per lungo tempo al campo imperialista. Conducendo questa guerra, scacciando ancora una volta centinaia di migliaia di palestinesi, scegliendo di colonizzare nuovi territori, si crearono però altri nemici. Allo stesso tempo, instillarono nella popolazione israeliana la sensazione di essere sotto assedio, senza altra scelta se non quella di allearsi con l'imperialismo per far fronte a un ambiente ostile.
È stata questa situazione a fare di Israele il sostegno più sicuro delle potenze imperialiste della regione. Anche se gli Stati arabi o l'Iran dello Scià potevano essere punti d'appoggio, la loro alleanza era molto meno affidabile a causa della loro instabilità politica e delle pressioni contrarie della loro popolazione, come si è verificato in diverse occasioni. Talvolta muovendo guerra contro di loro, e in ogni caso rappresentando una minaccia militare permanente, Israele dimostrò quanto fosse utile all'imperialismo come strumento per assicurare il proprio dominio sulla regione.
La situazione creata dalla guerra del 1967 ha portato all'inizio di una radicalizzazione rivoluzionaria tra i palestinesi che avrebbe potuto invertire il corso degli eventi. Il discredito dei dirigenti arabi dopo la sconfitta militare spinse i palestinesi verso organizzazioni nazionaliste sempre più radicali. Il sostegno sempre più visibile che ricevevano dalle masse popolari dei Paesi vicini divenne un fattore destabilizzante che minacciava i poteri politici, tanto che la prima repressione violenta che i palestinesi dovettero affrontare venne dagli Stati arabi. Durante il Settembre nero del 1970, l'esercito del re di Giordania schiacciò le milizie formatesi nei campi profughi, che erano diventate un pericolo per il suo potere. Nel 1975, poi, la guerra civile fu scatenata in Libano dall'offensiva delle milizie falangiste di estrema destra contro i palestinesi dei campi, la cui mobilitazione ebbe un'eco crescente tra le stesse masse libanesi.
Fu durante queste crisi che i limiti politici anche del nazionalismo palestinese più radicale diventarono più evidenti. L'eco che aveva avuto in tutto il mondo arabo gli aveva dato l'opportunità storica di andare oltre i suoi obiettivi specificamente palestinesi e di esprimere le aspirazioni delle masse a porre fine all'oppressione e a scrollarsi di dosso la tutela dei vari regimi e dell'imperialismo. Ma l'obiettivo dei dirigenti palestinesi, e in particolare del Fatah di Yasser Arafat e dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), non era né la rivoluzione sociale né una rivoluzione nazionale panaraba che avrebbe abbracciato i vari Stati e abbattuto i confini artificialmente stabiliti dalla colonizzazione. Al contrario, pur rispettando questa divisione, l'obiettivo era quello di cercare di ottenere l'appoggio dei diversi regimi, e non solo dell'imperialismo, per il riconoscimento del diritto della borghesia araba palestinese ad avere un proprio Stato, anche se su un territorio necessariamente molto limitato. Col rifiutare di esprimere le aspirazioni rivoluzionarie delle masse arabe, il nazionalismo palestinese si faceva complice delle borghesie, ma al tempo stesso perdeva gran parte delle sue possibilità di successo.
Alla repressione da parte dei regimi arabi seguì quella da parte dello stesso regime israeliano, in particolare con la spedizione militare del giugno 1982 in Libano, che portò il suo esercito fino a Beirut per affrontare le milizie palestinesi nei campi profughi e provare ad abbattere l'OLP. Il Fatah, l'OLP e Arafat ebbero un'altra possibilità solo quando, a partire dal 1987, una nuova ondata di rivolta, l'Intifada, scosse le masse palestinesi, in particolare i giovani. Le difficoltà del regime israeliano a ristabilire l'ordine attraverso la repressione portarono agli accordi di Oslo del 1993-1995, con i quali si diede all'OLP un embrione di potere sotto forma di Autorità Palestinese. Questa Autorità aveva infatti il compito di collaborare con lo Stato israeliano per tenere a bada le masse della Cisgiordania e di Gaza alimentando la lontana speranza di una soluzione politica che avrebbe posto fine all'occupazione.
Ciò che è seguito ha dimostrato che il regime israeliano non era nemmeno disposto a lasciare che la borghesia palestinese avesse uno Stato con reali prerogative sul suo piccolo territorio. L'ipotesi che il conflitto potesse essere raffreddato da una soluzione "a due Stati" è fallita, fondamentalmente perché la politica dell'imperialismo e del suo protetto Israele non le ha lasciato spazio. In Israele, la scelta di questa politica aggressiva unita al colonialismo ha fornito il terreno per lo sviluppo di tendenze religiose ebraiche sempre più reazionarie, ultranazionaliste e fondamentaliste, apertamente razziste o che spingono per l'espulsione di tutti gli arabi. Mentre i governi della sinistra laburista incoraggiavano o cedevano a queste tendenze, si è andato verso governi sempre più di destra. Ciò ha messo la stessa popolazione israeliana nella posizione di essere costantemente mobilitata per condurre una guerra contro i suoi vicini. Questa radicalizzazione a destra dei governi li ha portati a escludere qualsiasi compromesso reale con i dirigenti palestinesi.
Gli accordi di Oslo non sono stati altro che una fugace parentesi, portando alla creazione di un'Autorità Palestinese che fu rapidamente screditata. Ciò ha portato allo sviluppo tra i palestinesi di tendenze radicali di tipo nuovo, in rottura con il nazionalismo più o meno progressista dell'OLP, che sostengono la lotta armata per la distruzione di Israele, spesso fondamentalisti islamici. Hamas è un tale esempio di organizzazione islamista, inizialmente favorita dai leader israeliani per contrastare l'influenza delle organizzazioni nazionaliste, ma che ha guadagnato influenza solo radicalizzando gradualmente il suo discorso e le sue azioni contro Israele.
A Gaza, l'impossibilità per i leader israeliani di controllare la situazione li ha portati a porre fine all'occupazione del territorio nel 2005, ma solo per farla seguire da un blocco militare ed economico permanente, mantenuto in collaborazione con l'Egitto e destinato a peggiorare continuamente la situazione della popolazione. Il risultato prevedibile di questa politica è stata nel 2007 la conquista del potere nel territorio da parte di Hamas, che ha cercato di affermare la propria immagine di organizzazione combattente lanciando razzi contro Israele in diverse occasioni. I leader israeliani hanno risposto non solo mantenendo il blocco, ma anche scatenando guerre successive contro Gaza, in particolare nel 2008-2009 e nel 2014, e conducendo operazioni repressive qualunque ne sia il costo per la popolazione civile. L'obiettivo israeliano dichiarato di "spezzare Hamas" doveva essere costantemente rinnovato, poiché un risultato prevedibile di queste operazioni era di risvegliare nuove vocazioni combattive.
L'intera storia del conflitto israelo - palestinese è stata quindi segnata dalla radicalizzazione di entrambe le parti, in una corsa a perdifiato che le ha portate in un'impasse e in un conflitto senza fine. Ma l'assenza di soluzione non è dovuta a una presunta incompatibilità storica tra la popolazione ebraica e quella araba, sia essa musulmana o cristiana, perché in Medio Oriente c'era e c'è spazio per tutti questi popoli. In ogni fase del conflitto, l'influenza dell'imperialismo è stata decisiva, in particolare nell'incoraggiare lo Stato di Israele, i suoi dirigenti e le loro tendenze più reazionarie a fare le scelte più estreme e nel fornirgli ogni mezzo per armarsi. Tranne che in rare e brevi occasioni, i dirigenti imperialisti non hanno fatto nulla per spingere verso soluzioni di compromesso, anche se avrebbero avuto tutte le opportunità per farlo, coprendo tutti gli abusi del regime israeliano.
Le ragioni sono molteplici, tra cui il potere delle lobby filo-israeliane negli Stati Uniti o anche in Paesi imperialisti come la Francia il cui ruolo è ora molto più marginale, che rendono politicamente difficile esercitare pressioni sui dirigenti di Israele. Ma queste ragioni circostanziali ricoprono un motivo ben più fondamentale. L'imperialismo ha interesse a che questo conflitto continui, per poter continuare ad avere un alleato obbligato come Israele, affidabile e con un potente esercito da lui equipaggiato, che lo aiuti a controllare la regione mediorientale e a minacciare tutti coloro che potrebbero essere tentati di scuotere la sua tutela.
La necessità dell'imperialismo di mantenere questo conflitto è tanto più forte in quanto le sue stesse politiche hanno provocato e acuito tutta una serie di crisi nel corso degli anni, al di là del solo conflitto israelo - palestinese. La rivoluzione iraniana del 1979 ha portato al potere il regime della Repubblica Islamica, che ha cercato di scrollarsi di dosso la sua tutela, subendo in cambio sanzioni e guerre. Tentativi simili da parte dell'Iraq di Saddam Hussein e della Siria di Assad hanno portato all'intervento imperialista e ai bombardamenti israeliani. Una conseguenza di questi interventi è stato anche lo sviluppo di milizie come lo Stato Islamico in Siria e Iraq e Hezbollah in Libano, destabilizzando questi Paesi e portando a nuovi interventi militari.
Questa instabilità e queste crisi non sono solo la conseguenza del dominio dell'imperialismo sulla regione, ma gli forniscono anche le opportunità e i mezzi per intervenire al fine di mantenerlo. Anche se a volte si presenta come il pompiere che vuole spegnere l'incendio, è un pompiere piromane e un incendiario. Come nel caso di altre zone calde del pianeta, l'imperialismo ha tutti i motivi di mantenere i conflitti in Medio Oriente senza risolverli, per alimentare le fiamme e fornire il combustibile necessario, anche solo sotto forma di forniture di armi. La molteplicità dei conflitti lascia aperta anche la possibilità di una generalizzazione della guerra.
Il conflitto in cui sono intrappolate le popolazioni israeliana e palestinese mostra l'impasse a cui conduce il nazionalismo borghese nell'epoca di declino dell'imperialismo. Se c'era ancora uno spazio per il loro sviluppo, in una regione come il Medio Oriente questo spazio si è ridotto a nulla, e gli infiniti conflitti irrisolti nella regione lo testimoniano. Oggi più che mai, l'unica strada percorribile per i popoli del mondo è quella di darsi i mezzi per porre fine alla dominazione imperialista, ai regimi che ne sono il veicolo e ai confini che li dividono. L'unica forza in grado di portare a termine questo compito è il proletariato, se ignora le sue divisioni nazionali. L'unico modo per porre fine alle guerre permanenti e al sottosviluppo cronico è la rivoluzione proletaria per arrivare ad una federazione socialista dei popoli del Medio Oriente e del mondo.
13 ottobre 2023