Da "Lutte de classe" n° 197 - Febbraio 2019
Il movimento dei gilets gialli, nonostante i limiti, le illusioni e le confusioni, testimonia la profondità del malcontento della classe operaia. Ha mostrato la capacità di mobilitazione dei partecipanti, il loro rifiuto delle istituzioni che li dovrebbero rappresentare e che, in realtà, incanalano, sviano e soffocano l'espressione della loro rabbia.
Qualunque sia il suo futuro, il movimento dei gilets gialli sarà inevitabilmente seguito da altre reazioni sociali. Infatti, la profonda crisi dell'economia spingerà la classe capitalista ad aggravare lo sfruttamento dei lavoratori, ma anche a peggiorare le condizioni di vita di molti altri strati popolari: piccoli e medi contadini, artigiani, piccoli commercianti. La proprietà privata dei propri strumenti di lavoro, e talvolta l'impiego di pochi dipendenti, dà l'illusione d'indipendenza a molteplici categorie della piccola borghesia. In realtà, queste sono schiacciate dalle banche, dominate dalle grandi società committenti, derubate dalle catene di distribuzione capitalistiche. E molte di loro vengono costantemente respinte nella povertà.
Sarebbe inutile cercare di indovinare la forma che assumeranno le prossime reazioni popolari, o quale tra le mille ingiustizie di questa società provocherà nuove esplosioni di rabbia. È altrettanto inutile cercare di prevedere quali categorie saranno le prime a reagire e con quali mezzi cercheranno di farsi sentire. Le capacità immaginative delle masse in lotta per la sopravvivenza sono illimitate. Compito dei militanti comunisti rivoluzionari non è indovinare il futuro, ma proporre una politica che porti il proletariato a trovare la propria strada nell'intreccio dei vari interessi sociali, a prendere coscienza degli interessi di classe in modo che, educato dalla lotta, quella stessa coscienza giunga alla sua conclusione finale: la convinzione della necessità di rovesciare il potere della grande borghesia e di toglierle la proprietà privata delle grandi imprese e delle banche per porre fine al suo dominio sull'economia.
Le lezioni della rabbia espressa dai gilets gialli
È logico che, quando le masse entrano in movimento, i loro sguardi si concentrino su chi governa. Ciò è fondamentalmente giusto perché chi governa lo fa al servizio della classe dirigente, quella che in ultima analisi approfitta dello sfruttamento e dell'oppressione. Ma è anche fonte di illusioni perché coloro che governano sono in gran parte intercambiabili, e da tempi immemorabili le classi dirigenti sanno che in caso di minaccia devono potersi sbarazzare del personale politico al loro servizio. La borghesia dei paesi imperialisti ha persino imparato, nel corso della storia, a banalizzare l'operazione, ad usarla come misura preventiva, a farne una parte essenziale del suo sistema politico integrandola nel regolare funzionamento della democrazia borghese per il tramite di consultazioni elettorali. Questo consente di utilizzare il personale politico come valvola di sicurezza da cambiare se necessario, in modo che nulla cambi effettivamente per quanto riguarda la dominazione della minoranza capitalista.
È anche logico che un'esplosione di rabbia come quella che ha portato al movimento dei gilets gialli mescoli i malcontenti di varie categorie sociali. I lavoratori, i pensionati che lottano per sopravvivere, i disoccupati senza speranza di trovare un impiego nella loro regione, quelli che hanno trovato lavoro soltanto a decine di chilometri dal proprio luogo di residenza e coloro per i quali il prezzo del gasolio è una componente vitale del potere d'acquisto, le badanti, le madri single, i giovani che passano affannosamente da un lavoro precario ad un altro, gli operai e i tecnici di piccole aziende. Queste collere provenienti dal mondo dei lavoratori si sono mescolate a quelle dei piccoli borghesi che non riescono più a cavarsela. La diffidenza nei confronti dei partiti istituzionali, che assume facilmente la forma di una vera e propria apoliticità, affonda le sue radici nella volontà di preservare l'unità tra le varie componenti del movimento. Questa unità e la fratellanza forgiata sulle rotatorie occupate e nelle azioni compiute insieme appaiono come una garanzia di vittoria.
Ma quale vittoria sarà, di chi e contro chi? Il movimento dei gilets gialli è in difficoltà nel rispondere a queste domande e persino nel porle perché, dietro l'unità nella rabbia, gli interessi delle varie parti divergono, così come i modi per esprimere la rabbia stessa.
Il movimento, partito dalla protesta contro l'aumento della tassa sul gasolio, si è rapidamente trasformato in una protesta collettiva contro il calo del potere d'acquisto. Ma l'osservazione che il potere d'acquisto è insufficiente si è tradotto in esigenze diverse per un padrone del trasporto stradale, per un autista di ambulanze o per i loro rispettivi dipendenti.
Sono due soltanto gli obiettivi unificanti che rimangono: le dimissioni di Macron e l'istituzione del referendum d'iniziativa popolare. Il primo obiettivo unifica soprattutto la fauna dei politici borghesi, da Marine Le Pen a Mélenchon e tutti gli altri ex ministri e futuri ministri attenti allo spazio che l'indebolimento di Macron potrebbe aprire alle loro rispettive ambizioni. In quanto al secondo, esso non significa nulla, se non una nuova forma di falsa speranza per quella maggioranza priva di diritto di parola, che non lo avrà di più con il referendum d'iniziativa popolare e che, soprattutto, non avrà i mezzi per decidere. Il vero potere non sta nel numero di voti ottenuti in un referendum, ma nella forza materiale dell'apparato statale e nel potere del denaro dietro a quest'ultimo, cioè nell'immenso potere sulla società che il monopolio del grande capitale conferisce alla grande borghesia. Non a caso tutti i partiti della borghesia, macronisti compresi, sono pronti ad accettare il principio di questo tipo di referendum. Dopo tutto, i banchieri e i miliardari della borghesia svizzera, una delle più antiche e voraci d'Europa, non si sono mai sentiti minacciati nei loro privilegi dai voti referendari organizzati nella Confederazione Elvetica.
È dunque tanto più necessario per i comunisti rivoluzionari difendere un programma che corrisponda agli interessi materiali nonché politici del proletariato. Non solo perché i lavoratori non siano dimenticati in questa vicenda, anche se il governo dovesse cedere alcune cose. Non si tratta di un interesse categoriale in più da differenziare e ancor meno da opporre alla moltitudine di interessi categoriali delle classi lavoratrici vittime del grande capitale. Si tratta del fatto fondamentale per cui il proletariato, la classe sociale che ha soltanto la propria forza lavoro per vivere e che la proprietà privata non lega al capitalismo, è l'unica ad avere la forza e i mezzi per combattere il grande capitale fino alla fine, finché il capitalismo non sarà distrutto. È in funzione di questa prospettiva che la classe operaia deve prendere coscienza dei propri interessi politici e affermarli.
Segno dell'inizio di una ripresa di combattività, il 2018 è stato caratterizzato da due lotte che hanno coinvolto settori della classe operaia apparentemente molto diversi. In primavera, si è trattato di quello ritenuto come il più combattivo e anche tra quelli più influenzati dai sindacati tradizionali, ossia il settore dei ferrovieri. Qualche mese dopo, il movimento dei gilets gialli, molto più variegato socialmente, ha coinvolto i lavoratori delle piccole imprese, i disoccupati, i pensionati e le donne single. Nessuno di questi movimenti ha trascinato la maggioranza della classe operaia, quella delle grandi imprese. Ma entrambi hanno in comune il fatto di aver beneficiato, a modo loro, di un'ampia simpatia tra i lavoratori e non solo tra questi ultimi. Inoltre, un certo numero di lavoratori, compresi quelli delle grandi imprese, hanno partecipato individualmente ai blocchi e alle manifestazioni. In alcuni posti essi ne costituivano la parte maggiore, compresi gli attivisti sindacali, soprattutto della CGT, in opposizione de facto ai burocrati delle direzioni sindacali. Essi hanno scelto questo tipo di azione perché per molti di loro era, senza dubbio, la cosa più facile.
Internet, e all'inizio anche le reti televisive, sembrava offrire un mezzo miracoloso di mobilitazione. Per i più isolati era un modo per uscire da questa situazione e a chi lavora nelle aziende evitava di doversi scontrare direttamente con i capi e con la direzione. Ma è un mezzo che allo stesso tempo comporta una debolezza. È più facile bloccare una strada, una rotatoria, che non le aziende in cui si creano i profitti. Questo è il principale limite del movimento dei gilets gialli.
L'atteggiamento scelto dai dirigenti sindacali, in particolare quello della CGT, invocando la presenza nel movimento di militanti d'estrema destra, poteva solo conseguire dall'ottusa mentalità di burocrati che confondono la lotta di classe con calcoli da bottegai. La presenza di militanti d'estrema destra, che cercano di utilizzare la situazione a vantaggio di Marine Le Pen, Dupont-Aignan o di gruppi ancora più reazionari, tutti nemici mortali della classe operaia, non avrebbe dovuto essere un pretesto per prendere le distanze da un movimento in cui era coinvolta tutta una parte del mondo del lavoro. Anzi, avrebbe dovuto incoraggiare i dirigenti sindacali ad impegnarsi nella lotta contro i tentativi dell'estrema destra. Ma tanto vale chiedere latte ad un caprone. Le burocrazie dei sindacati sono così avvezze alla loro funzione di ruota di scorta dell'ordine borghese da essere colte dal panico non appena quest'ordine viene un po' scosso dal basso.
Le crisi sociali, anche limitate come quella attuale, che sconvolgono il tranquillo andamento delle istituzioni parlamentari borghesi, si traducono in spinte verso gli "estremi". Non sono soltanto le varie forze di contestazione, ma anche le forze politiche che scavalcano la protesta al solo scopo di offrire alla grande borghesia una soluzione politica che rompa con il gioco ordinario dei partiti screditati. L'esito dello scontro è deciso dalla lotta tra coloro che si sollevano contro l'ordine capitalistico e coloro il cui obiettivo è di preservarlo, anche con la violenza di un regime autoritario. Ci sono candidati per questo ruolo. Far credere, come fanno i riformisti della sinistra politica e i leader sindacali, che si può rimanere neutrali in questa lotta, rifiutare di schierarci facendo riferimento ai bei tempi in cui la protesta era limitata ai dibattiti parlamentari e alle periodiche processioni sindacali, significa disarmare le masse che cominciano a protestare.
È proprio questa incapacità delle organizzazioni riformiste di farsi carico della rabbia degli strati più sfruttati della società, e di dare loro degli obiettivi, a favorire le forze politiche più ostili agli interessi politici dei lavoratori, che strumentalizzano questa rabbia per rivolgerla contro questi ultimi.
Se ciò continuerà, il declino della partecipazione a manifestazioni e blocchi lascerà sempre più spesso spazio alle manovre tra forze politiche, tanto più pericolose per il futuro in quanto spargitrici delle idee più reazionarie e più abiette sotto la maschera dell'apoliticità. Qualunque possa essere la sua evoluzione, tuttavia, il movimento dei gilets gialli non è stato un epifenomeno, uno sbalzo d'umore contro un governo arrogante, ma un'ulteriore espressione di una profonda crisi sociale.
Questa crisi da cui è sorto il movimento non è stata superata e non lo può essere. Il governo non può rispondere alle preoccupazioni delle classi lavoratrici di fronte alla crescente povertà perché la grande borghesia, il grande capitale non gli dà i mezzi per farlo. Tutto dipende dalla capacità della parte più forte della classe operaia, i lavoratori delle grandi imprese di produzione, della distribuzione e delle banche, di subentrare ai primi combattenti della classe sfruttata, colpendo gli interessi materiali della classe dirigente, e non solo del suo staff politico. Sarà l'entrata in lotta dei grandi contingenti del proletariato a dare un senso, e soprattutto una prospettiva di lotta, a chi ha avuto il coraggio di lanciarsi per primo nella contestazione.
Sarebbe anche necessaria una vera e propria organizzazione che consenta alle masse sfruttate di andare oltre. Politici e commentatori borghesi hanno lamentato l'assenza di un'organizzazione e di leader capaci di rappresentare i gilets gialli, leader in realtà suscettibili di tradire gli interessi del movimento e di soffocarne rabbia riconducendola alle istituzioni ufficiali della democrazia borghese: partiti, sindacati, elezioni, sfilate sindacali ben gestite, prevedibili e programmate. La questione dell'organizzazione, nondimeno, scaturisce molto più dalla prospettiva opposta: quella di incarnare la volontà delle masse di imporre il diritto ad una vita dignitosa. La mobilitazione dei lavoratori delle grandi imprese in sciopero offrirebbe possibilità di organizzazione fraterna come quelle spontaneamente mostrate dai partecipanti in molti punti di blocco, ma molto più efficaci e, soprattutto, più aperte al futuro. Le assemblee generali di un'azienda in difficoltà, accogliendo qualsiasi lavoratore, disoccupato o pensionato del territorio circostante, sarebbero un quadro naturale per discutere collettivamente i problemi, per creare un'unità del mondo del lavoro superando le sue divisioni, per individuare gli obiettivi. E i comitati di sciopero eletti da queste assemblee potrebbero e dovrebbero diventare gli embrioni di una direzione di classe.
La rivolta contro le tasse che "dissanguano gli sfortunati"
Le ribellioni contro i prelievi statali, le tasse, che sono percepite come ingiuste, sono tra i punti salienti della storia della lotta di classe. La decadenza del capitalismo finanziarizzato conferisce loro una nuova rilevanza. Lo Stato, oltre al suo ruolo regale nella difesa dell'ordine capitalistico, svolge sempre più spesso quello di ufficiale giudiziario incaricato di prelevare direttamente dalla popolazione le somme necessarie per completare il plusvalore generato dallo sfruttamento diretto e metterle a disposizione delle classi superiori.
Nascondere questa truffa dietro il cosiddetto interesse generale diventa tanto più difficile in quanto ciò che nei servizi pubblici è utile alla maggior parte della popolazione - scuole, accesso alle cure sanitarie, case per la vecchiaia, trasporti pubblici degni di questo nome - viene lasciato in abbandono anche se le tasse sono in aumento. Il crescente parassitismo del grande capitale costringe il suo Stato a dirottare sempre più risorse finanziarie verso le grandi imprese private e verso i loro proprietari e azionisti, anche se questo significa demolire quei servizi pubblici che sono utili al maggior numero di persone. Tale processo erode la credibilità dello Stato borghese nella sua pretesa di rappresentare gli interessi generali della popolazione.
Il "macronismo" si presentava inizialmente come la soluzione alla perdita di credito dei partiti borghesi che incarnavano l'alternanza sinistra-destra. Ora, al contrario, è diventato il problema. La democrazia borghese sta sprofondando nel ristagno. Le esitazioni del governo in preda al panico di fronte a una crisi politica, tutto sommato per ora limitata, ha un significato più profondo della piccola persona di Macron e della corte di arrivisti qual è la sua maggioranza parlamentare. È l'autorità stessa dello Stato ad essere messa in discussione.
Questo non vale solo per la Francia. Nelle forme più svariate, la stessa evoluzione si sta verificando nei paesi più sviluppati del pianeta, tanto è vero che per gli altri, cioè la maggioranza sottosviluppata o semi-sviluppata del pianeta, la forma democratica del potere borghese non è mai stata altro che una finzione. Ovunque, la stessa ragione fondamentale è l'agonia prolungata dell'organizzazione sociale capitalistica. Il problema della società va oltre la ridicola agitazione dei partiti tradizionali della borghesia e di coloro che cercano di avere la meglio. Esso non sta nel modo di gestire gli affari della borghesia, né tanto meno in quello di scegliere chi li gestisce. La questione sta nella legittimità della borghesia a guidare la società allorché la conduce al disastro.
Gli assi dell'intervento dei comunisti rivoluzionari
La caratteristica dei movimenti di massa, anche se limitati, è quella di rendere concreti e percepibili problemi e obiettivi che prima apparivano astratti, addirittura inimmaginabili. La prima lezione del movimento dei gilets gialli sta nel fatto che ha potuto esistere con il suo aspetto inaspettato e imprevedibile. Dopo un lungo periodo di rassegnazione e di scetticismo delle classi sfruttate sulla possibilità stessa di agire, la risposta è venuta da una delle loro frange, quella più schiacciata, più indifesa, più abbandonata al suo destino di massa popolare, anche la più frammentata. Quelli delle classi popolari che si sono impegnati nella contestazione l'hanno fatto con i loro pregiudizi, le loro illusioni, la loro disorganizzazione, la loro apoliticità, con tutto ciò che questo significa in quanto agli ostacoli, all'assenza di una bussola. Ma vi si sono impegnati. L'entrare nella contestazione ha segnato l'inizio di un apprendistato, l'unico che sia dato alle masse del popolo. Stavano emergendo forme di comunicazione. Stavano sorgendo forme di organizzazione. Donne e uomini, anziani che vivono nell'isolamento hanno scoperto, attraverso discussioni e fraternizzazioni, che la loro disgrazia non è individuale. È ancora poco, ma è già enorme. Da soggetti passivi sottomessi alla legge dei più potenti e alla loro costante propaganda, si sono fatti sentire e hanno anche cominciato ad influenzare la vita politica. Così comincia la coscienza, che può diventare contagiosa.
L'attività dei militanti rivoluzionari deve semplicemente facilitare questa coscienza, darle una formulazione, anticipare i passi successivi. La cultura marxista fornisce i mezzi per farlo. L'impegno da parte del proletariato, la fiducia nelle capacità e nelle possibilità dei lavoratori farà il resto. Sono le masse in movimento che possono capire le idee marxiste, il programma rivoluzionario, e farne una forza capace di scuotere il mondo.
La grande massa delle persone sfruttate non sta ancora combattendo e nemmeno contestando. Ma anche la sfida di una minoranza solleva interrogativi, permette di discutere. Queste opportunità devono essere colte. Anche se oggi rimangono limitate, possono diventare utili domani. Le lotte sociali sono solo all'inizio.
La concomitanza di decisioni, come l'abolizione dell'irrisoria imposta sul patrimonio dei ricchi e l'amputazione della pensione degli anziani, ha sollevato fin dall'inizio la questione della disuguaglianza sociale. A prima vista, sembrava ingiustamente aggravata da "l'uomo dei ricchi" che si trovava all'Eliseo. Questo è però l'inizio di un ragionamento che può essere facilmente portato avanti. Macron, che egli stesso ha affermato di volere un esercizio della presidenza "da dio Giove", è visto come un presidente tagliato fuori dal popolo e arrogante. Ma questo suscita riflessioni sulla natura del potere, indipendentemente da chi lo esercita in questa società disuguale. La decisione arbitraria di aggiungere una tassa sul gasolio, con le sue implicazioni sul potere d'acquisto, fa riflettere sull'uso delle tasse e delle imposte. E quanti gilets gialli, che non avevano mai partecipato a una manifestazione, hanno scoperto quando sono saliti a Parigi, a Tolosa o a Bordeaux, che la polizia non era solo il poliziotto municipale della loro località, un vicino o un cugino, nel momento in cui hanno scoperto, pur non essendo venuti a dimostrare per distruggere, i lacrimogeni e i cannoni ad acqua. Per molti, tutto questo è un'esperienza politica, elementare ma nuova.
La maggior parte dei partecipanti al movimento vi si è lanciata semplicemente per il diritto di vivere con dignità. Avere un lavoro per chi non ne ha, il potere d'acquisto necessario per far fronte alle spese quotidiane della famiglia, una pensione dignitosa. Rivendicazioni modeste, che la società dovrebbe essere in grado di soddisfare per ciascuno dei suoi membri. Queste domande sono ritenute tanto più legittime in quanto la stessa società permette ad una piccolissima minoranza di accumulare ricchezze incomprensibili.
Da lì deve cominciare l'agitazione dei comunisti rivoluzionari. Dimostrare che l'attuale organizzazione sociale si oppone anche a queste domande di base. Che l'enorme ricchezza della minoranza capitalistica si basa, in modo particolarmente rivoltante in un contesto di crisi economica, sull'impoverimento di coloro il cui lavoro, la cui attività produttiva hanno appunto creato la ricchezza che questa minoranza fa sua e sperpera.
Tutti dovrebbero avere un lavoro con una retribuzione dignitosa. Se non ci sono abbastanza posti di lavoro, il lavoro deve essere distribuito tra tutti. La disoccupazione è una tragedia per chi la vive, ed è un'aberrazione sociale, perché chi lavora contribuisce a creare la propria parte di ricchezza sociale. L'attività delle generazioni passate di lavoratori - soprattutto di quelli in età pensionabile - ha creato enormi forze produttive, fabbriche, banche, reti di trasporto e distribuzione. I responsabili della disoccupazione sono coloro che monopolizzano queste forze produttive, autorizzati dall'attuale sistema economico a disporne a propria discrezione, anche se a spese di migliaia di donne, uomini, di un'intera città o di un'intera regione quando un'azienda chiude o si trasferisce.
Il potere d'acquisto deve essere garantito da un'indicizzazione automatica dei salari e delle pensioni in rapporto all'aumento dei prezzi. È inaccettabile che sia in costante aumento il numero di lavoratori poveri, donne e uomini che, pur contribuendo al funzionamento della società, sono spinti verso la povertà materiale e quindi morale. Una società che tollera questa situazione è una società che si suicida.
Questi sono i primi passi essenziali per proteggere i lavoratori e i pensionati dalla decadenza. Passi che possono essere superati solo con la lotta. Questa lotta indispensabile e inevitabile non deve essere rivolta solo contro coloro che ci governano. Essa deve anche attaccare coloro che monopolizzano la ricchezza creata dall'attività collettiva. Questo è legittimo. È una cosa morale e una necessità vitale per evitare che il sistema distrugga coloro le cui attività fanno funzionare l'intera società.
Non è che autodifesa da parte delle classi lavoratrici di fronte al pericolo immediato e letale per la componente attiva della società che esse costituiscono. Ma per rimuovere definitivamente la minaccia che incombe sull'umanità, occorre strappare il potere alla grande borghesia. Bisogna espropriare la minoranza di grandi detentori capitalisti che esercitano un potere dittatoriale sull'economia portandola nel vicolo cieco delle crisi ripetute.
Ai lamenti piagnucolanti dei riformisti di ogni tipo, che propongono una "migliore condivisione della ricchezza", dobbiamo opporre l'espropriazione dei grandi capitali, delle grandi imprese e delle banche. La grande borghesia non accetta la condivisione. E il problema della società non sta nel condividere meglio la ricchezza accumulata nelle mani di una manciata di grandi capitalisti. Si tratta di porre fine ad un sistema economico che, finché dura, drena inesorabilmente verso questa manciata di capitalisti ciò che deriva dall'attività e dalla creatività della comunità umana. Questo sistema economico ingiusto e irrazionale, e lo è sempre stato, ora si trova in una situazione di evidente fallimento.
Non c'è un giusto compromesso tra la grande borghesia e il proletariato. Non esiste un'organizzazione economica intermedia tra quella della borghesia capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, la corsa al profitto privato e alla concorrenza, e quella della classe operaia. Un'economia, quest'ultima, organizzata sotto il controllo di chi lavora, e progettata per soddisfare in via prioritaria i bisogni materiali e culturali di tutti, tenendo conto dei mezzi disponibili.
Chi vincerà, la borghesia o il proletariato? La questione sollevata dal Manifesto del Partito Comunista è l'unica decisiva per il futuro. Schierarsi dalla parte del proletariato in questa lotta, contribuendo alla sua rinnovata coscienza del proprio compito storico, rimane la guida di ogni militante, di ogni organizzazione comunista rivoluzionaria, specialmente durante le crisi sociali.
3 gennaio 2019