Da "Lutte de classe" n°244 - Dicembre 2024 e Gennaio 2025
Questi sono alcuni estratti delle discussioni preparatorie al congresso di Lutte ouvrière, svoltesi intorno ai testi d'orientamento sulla situazione internazionale, il Medio oriente, l'Ucraina, la Russia, Stati Uniti e Cina..
Sulla situazione internazionale
La situazione in Francia dipende in gran parte, se non completamente, dalla situazione internazionale segnata dalla crisi economica e dall'ascesa delle tensioni guerriere.
Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica si sono affrontati durante i quarantadue anni della Guerra Fredda, e durante questo lungo periodo, concluso dalla disgregazione dell'Unione Sovietica, ci sono state guerre, ed anche guerre importanti tra di loro. La guerra di Corea è durata tre anni, non si è conclusa ufficialmente con un trattato di pace e il Paese è ancora diviso in due, come ci ricordano gli ultimi avvenimenti in Corea del Sud. Poi c'è stata la guerra del Vietnam - la guerra americana - che ha fatto milioni di vittime. Ma le due grandi potenze non hanno mai usato armi nucleari. Possiamo quindi pensare che non c'è motivo per cui questa volta il clima di guerra debba finire con nuovi Hiroshima o Nagasaki moltiplicati per dieci o cento.
Ma questo ragionamento non porta a nessuna certezza, e se il futuro nucleare dell'umanità dipende da un faccia a faccia tra Trump e Putin, si parte male... Inoltre, la minaccia stessa fa parte della guerra. Durante i quarant'anni di Guerra Fredda, quanti capoccioni hanno sostanzialmente giustificato l'"equilibrio del terrore" suggerendo che era proprio l'unico equilibrio che l'umanità aveva trovato per evitare la guerra. Non è esattamente una garanzia che la pace regnerà finalmente sulla Terra.
Ma, in ogni caso, è giusto dire che, anche sotto forma di pura minaccia, la realtà di questa minaccia è molto più seria della commedia recitata dai politici a Palazzo Borbone.
Certamente il mondo è tutt'uno, e non solo grazie alla globalizzazione capitalistica. Ma anche se il capitalismo e poi l'imperialismo hanno ovviamente accelerato la globalizzazione, rendendola addirittura esplosiva, non è qualcosa che è accaduto ieri o l'altro ieri. Molto prima di essere capitalista, la globalizzazione era semplicemente umana. È uno degli elementi essenziali dell'intera storia della società umana e della sua espansione dalle origini in Africa al mondo intero.
Ma uno dei tanti aspetti delle contraddizioni del capitalismo nell'era imperialista è che proprio nel momento in cui l'umanità è più mescolata e il pianeta un insieme indivisibile, non ci sono mai stati così tanti confini, così tanto filo spinato, per dividere l'umanità in varie entità statali. La costituzione di queste entità nazionali alla fine dell'era feudale era progressista e ricca di possibilità, ma oggi è diventata un completo anacronismo. Soprattutto in un momento in cui i principali problemi, cominciando dall'aria che respiriamo, possono essere risolti solo su scala globale.
Il susseguirsi delle COP ne è la prova tangibile. Questa è la 29esima! E mentre i giornalisti si perdono in discorsi sul fatto che l'ultima COP si è tenuta in Azerbaigian, un Paese che produce petrolio ed è governato da un dittatore, segno di un'umanità che sta sprofondando sempre più nella barbarie, è il numero 29 che dovrebbe scandalizzare... Di fronte a problemi ecologici che minacciano la sopravvivenza stessa dell'umanità, è questa ripetizione per la 29ª volta, senza più efficienza della prima, a essere scioccante. È un segno della totale, assoluta incapacità della società capitalista di consentire all'umanità di affrontare i suoi problemi vitali.
Mentre la conoscenza continua a progredire e a raggiungere un livello senza precedenti, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la frammentazione statale bloccano lo sviluppo della società umana. La proprietà privata dei mezzi di produzione e la costante competizione tra capitalisti sono i principali ostacoli. La proprietà privata dei mezzi di produzione e la competizione permanente tra i loro proprietari capitalisti si combinano con la rivalità tra gli Stati nazionali.
Dalla pubblicazione dei testi discussi nelle varie assemblee locali, i principali aspetti della situazione internazionale, sono proseguiti e per forza si sono aggravati la crisi dell'economia capitalista e il moltiplicarsi dei conflitti armati. Il fragore delle armi e le esplosioni delle bombe si sono mescolate ai discorsi dei dirigenti. L'autorizzazione data da Washington a Zelensky di usare i missili americani a lungo raggio contro la Russia, e la risposta di Mosca con la minaccia nucleare, hanno portato il clima di guerra ad un nuovo livello.
Il percorso esatto verso una guerra generalizzata non è prevedibile. Lo diciamo dall'inizio della guerra russo-ucraina. Soprattutto perché questo percorso è definito dal suo stesso andamento. Come l'acqua che scorre lungo un pendio roccioso, non si può indovinare il percorso che farà ma non c'è nulla di misterioso nel suo esito. E possiamo dire che, se la guerra continuerà a dilagare, finirà in una conflagrazione generale che coinvolgerà tutti i Paesi del mondo, ancor più delle due guerre mondiali precedenti. E se oggi i due poli contrapposti sembrano essere le due grandi potenze che conosciamo, gli Stati Uniti, con i loro alleati, e la Russia, se la guerra continuerà a generalizzarsi, prima o poi coinvolgerà anche la Cina.
Sul Medio Oriente
In diverse assemblee locali, parte della discussione si è concentrata sul Medio Oriente. Per quanto riguarda la parte del testo Crisi e guerre nell'epoca del capitalismo senile dedicata al "Medio Oriente consegnato alla barbarie imperialista", il paragrafo più discusso è stato : "Nella guerra che lo Stato di Israele sta conducendo contro il popolo palestinese e che si sta generalizzando, auspichiamo la sconfitta militare di quest'ultimo, perché sarebbe una sconfitta per il campo imperialista e lo indebolirebbe. Tale sconfitta è al momento improbabile e non dipende da noi. Ma ciò che dipende da noi è lottare, ovunque ci troviamo, contro le politiche del nostro governo e quelle degli altri Stati imperialisti. È denunciare la loro partecipazione all'oppressione dei popoli e la loro complicità nei massacri in corso".
Il fatto che abbiamo detto e scritto, in questo mese di ottobre 2024, che siamo a favore della sconfitta militare dello Stato di Israele, ha suscitato molte discussioni. Non l'avevamo mai scritto prima, perché? C'è una ragione ovvia: dopo un anno di feroce repressione da parte dell'esercito israeliano a Gaza, il governo israeliano ha iniziato a estendere la sua guerra, prima contro Hezbollah in Libano e di fatto contro l'intera popolazione libanese, ma anche prendendo di mira l'Iran. Possiamo quindi legittimamente chiederci fino a che punto il governo Netanyahu voglia spingersi in un'operazione militare che va oltre la già terribile repressione a Gaza e in Cisgiordania e che assume una dimensione regionale. Dobbiamo quindi affermare, o meglio riaffermare, che in una guerra di questo tipo siamo favorevoli alla sconfitta del campo imperialista, e quindi dello Stato di Israele. E se questo sorprende alcuni compagni, è la prova che dirlo o ripeterlo era necessario.
Non si tratta certo di una posizione nuova. In tutte le guerre di Israele, abbiamo affermato la nostra piena solidarietà con il popolo palestinese e il nostro sostegno alle sue aspirazioni nazionali contro le politiche dei governanti sionisti. Dal giorno successivo al 7 ottobre 2023, abbiamo riaffermato questa solidarietà, il che significa che eravamo nel campo del popolo palestinese contro il colonialismo israeliano sostenuto dall'imperialismo, di cui è il braccio armato. E quando combattiamo contro un imperialismo che in qualche misura è anche il nostro, siamo per la sua sconfitta, così come siamo per la sconfitta del nostro imperialismo, l'imperialismo francese, nelle guerre che conduce, in particolare quando conduce le sue guerre coloniali. Il nemico principale è nel nostro stesso Paese, questo vale per la Francia e vale per i militanti rivoluzionari in Israele, che non dovrebbero esitare a dire che sono per la sconfitta militare del loro Stato e delle sue guerre imperialiste. Dalle sconfitte militari possono nascere le rivoluzioni.
Questa è una posizione che non è cambiata, che deriva da un'analisi che non è cambiata, l'analisi di ciò che il sionismo ha rappresentato e della natura delle crisi provocate dalla politica imperialista in Medio Oriente. L'unico problema dei militanti è sapere come esprimere questa posizione ad ogni momento, a seconda del corso degli eventi, per farsi capire meglio. Infatti, non solo affermiamo questa solidarietà elementare, ma vogliamo anche difendere la nostra politica comunista rivoluzionaria che deve diventare la politica del proletariato. Il fatto che ci affermiamo nel campo dei popoli e delle nazioni oppresse è inseparabile dal fatto che difendiamo allo stesso tempo questa politica proletaria. Le due cose sono collegate e non c'è contraddizione tra loro.
Non c'è contraddizione, ma ci troviamo comunque di fronte a due pressioni contraddittorie: da un lato, le pressioni che si riflettono nel diluvio di commenti provenienti dalla stampa e dai media, che esprimono il punto di vista israeliano in modo più o meno diretto, arrivando a definire antisemiti tutti coloro che lo criticano. D'altra parte, dobbiamo anche rispondere agli ambienti filo-palestinesi o filo-arabi, in particolare tra i lavoratori immigrati o di origine immigrata, che si sono sentiti vendicati dall'azione del 7 ottobre 2023, al punto di non accettare critiche ad Hamas o ai nazionalisti palestinesi in generale.
Quest'ultima reazione è comprensibile da parte di coloro che si sentono vittime dirette della politica israeliana, ma quando questa pressione proviene da organizzazioni di estrema sinistra, è solo la dimostrazione del loro opportunismo. Ad esempio, abbiamo dovuto rispondere a Révolution permanente che, secondo noi, si accodava in modo più o meno esplicito al Hamas definendolo "la resistenza palestinese", che quindi andava sostenuta acriticamente.
Per questo motivo, oltre a condannare ancora una volta la politica israeliana, siamo stati attenti ad affermare che non sosteniamo in alcun modo i metodi e le politiche di Hamas e dei nazionalisti palestinesi, o dei nazionalisti borghesi in generale. In questo caso, se all'indomani dell'attentato del 7 ottobre avessimo fatto della sconfitta dello Stato di Israele il nostro slogan, non solo non saremmo stati in linea con la realtà dei fatti, ma avremmo voluto confonderci con tutti coloro che hanno approvato Hamas per questo attentato, ritenendo che questa organizzazione islamista avesse finalmente rimesso all'ordine del giorno il problema palestinese, questione che il governo Netanyahu era riuscito a nascondere sotto il tappeto, e quindi che Hamas avesse effettivamente difeso bene il popolo palestinese. Non lo abbiamo fatto e il giorno dopo il 7 ottobre il nostro striscione condannava Hamas contemporaneamente a Netanyahu, dicendo "Proletari, uniamoci". Si trattava di essere chiari su questo punto, a differenza di gran parte dell'estrema sinistra per la quale, in questo contesto, lo slogan "Viva la Palestina" o "Viva la resistenza palestinese" è solo un modo di schierarsi con i nazionalisti, rinunciando a difendere un punto di vista di classe.
Allo stesso tempo, una politica che dice "Proletari di tutti i Paesi, unitevi" non deve essere sospesa in aria. Deve sprofondare nella realtà, altrimenti rischia di essere percepita come un modo per condannare ugualmente entrambe le parti, lavandosi le mani di ciò che sta accadendo e rifugiandosi in un futuro ideale. Per questo è necessario anche dichiarare con chi ci sentiamo solidali in un conflitto.
Oggi ribadiamo questa posizione - per la sconfitta dello Stato di Israele. È una posizione, non necessariamente uno slogan per le manifestazioni. Gli slogan possono cambiare a seconda della situazione, servono a farsi capire e possono essere più o meno ben scelti. Al di là di questi slogan, che possono cambiare, ciò che è fondamentale per noi è esprimere una politica comunista rivoluzionaria. Non è sempre facile farsi capire, innanzitutto perché per molti non è credibile. Ma l'affermazione di questa politica è una costante, mentre la scelta di un campo o l'affermazione della solidarietà nelle guerre in cui il proletariato non agisce come classe può cambiare e dipendere da molti fattori.
Nell'era imperialista, i campi possono seguire combinazioni complicate e mutevoli, il Medio Oriente ne è un buon esempio. Ad esempio siamo solidali con le aspirazioni nazionali dei curdi, ma fino a che punto possiamo esserlo quando vediamo che l'imperialismo le usa contro gli Stati che cercano di allentare la sua presa? Non è sempre semplice. Oggi possiamo dire che in una guerra israeliana contro l'Iran saremmo dalla parte dell'Iran, perché è chiaro che il regime iraniano è sotto attacco dell'imperialismo, ma domani le cose potrebbero cambiare, l'Iran potrebbe stringere altre alleanze e così via. Allo stesso modo, oggi, se l'imperialismo americano dovesse lanciare una guerra contro la Cina, noi staremmo dalla parte della Cina, ma chi può dire che l'attuale configurazione delle alleanze sarà la stessa domani, e che non vedremo la Cina, per esempio, girarsi e trovarsi dalla stessa parte dell'imperialismo americano contro la Russia?
Nel caso della Palestina, quando affermiamo la nostra solidarietà con il popolo palestinese e il nostro sostegno alle sue aspirazioni nazionali, lo facciamo come tendenza proletaria che vuole abbattere l'imperialismo e che crede che solo la lotta del proletariato possa porre fine a questo sistema e quindi portare al riconoscimento dei diritti delle nazioni oggi oppresse. Diciamo anche che il popolo israeliano potrà vivere in pace solo se troverà la strada della coesistenza con i suoi vicini, e questo significa smettere di essere il braccio armato dell'imperialismo contro i popoli vicini. Già oggi la politica di Netanyahu sta creando delle crepe in Israele, se non altro perché alcuni, sia tra la popolazione che tra i soldati, cominciano a essere stufi della guerra e a chiedersi dove li stia portando. È da lì che può cominciare una presa di coscienza, come spesso accade nelle guerre.
Per noi, quindi, la popolazione israeliana deve porre fine allo Stato di Israele come apparato politico e militare della sua borghesia e della borghesia imperialista. Il fatto che questo Stato alla fine subisca una sconfitta militare è auspicabile perché ne sarebbe indebolito con la possibilità che l'unità nazionale sulla quale Netanyahu si appoggia cominci a sgretolarsi. Questo potrebbe aprire gli occhi alla popolazione israeliana e forse spianare la strada a una rivoluzione, a patto ovviamente che i proletari israeliani sappiano come intervenire e che ci siano rivoluzionari in grado di proporre le loro politiche. Certo, forse non ci saranno e la storia prenderà un corso diverso, probabilmente peggiore. Ma noi speriamo che ce ne siano, e se esistiamo è per difendere la possibilità che questa politica sia difesa e che rivoluzionari, in Israele e nel mondo arabo, la vogliano cogliere.
Dire che siamo per la sconfitta dello Stato di Israele non è dire che siamo per la partenza della popolazione ebraica. Né significa che siamo a favore della vittoria, ad esempio, di Hamas o dello Stato iraniano. Quando in Francia, durante la guerra franco-tedesca, dicevamo che il nemico principale era nel nostro Paese, non ignoravamo che anche la borghesia tedesca e il suo Stato erano nemici del proletariato. Ma ciò significava che dovevamo prima combattere la nostra borghesia per strapparle il potere, anche se ciò significava dover combattere altre borghesie in seguito. Ma poi avremmo dovuto affrontarle come classe operaia che aveva conquistato il potere, che avrebbe usato le sue armi di classe e si sarebbe rivolta alle classi operaie di altri Paesi per farne le nostre alleate contro le loro borghesie.
Naturalmente, questo ragionamento può essere applicato anche al Medio Oriente. Il proletariato israeliano deve regolare i conti con la propria borghesia, così come lo devono fare il proletariato palestinese e il proletariato iraniano. L'unica differenza è che la borghesia iraniana, ad esempio, usa l'esistenza di Israele per giustificare la sua politica agli occhi delle masse in nome dell'antimperialismo, come fanno molte borghesie dei Paesi sottosviluppati, come fa la borghesia algerina, ad esempio, usando una realtà che tutti conoscono. Ma anche in nome dell'antimperialismo, i rivoluzionari iraniani non devono accettare l'unità nazionale dietro la loro borghesia. Devono dire che stanno combattendo l'imperialismo come sistema di oppressione della borghesia mondiale e che la borghesia iraniana, o la borghesia algerina, o la borghesia nazionalista palestinese ne fanno parte, anche se pretendono combatterlo.
Quindi non dobbiamo perdere la bussola, anche se a volte è difficile nell'estremo intreccio di conflitti che il sistema imperialista può generare. Quando diciamo che siamo in un determinato campo, non è una contraddizione né un modo per prendere le distanze da una politica proletaria, è e deve essere la stessa cosa, sono due aspetti della stessa politica, che vogliamo continuare a difendere con la stessa bussola comunista rivoluzionaria.
La discussione al congresso ha portato un compagno ad astenersi dal voto sulla parte del testo di orientamento dedicata al Medio Oriente. La critica riguardava la frase che descriveva la politica di Netanyahu come "una vera e propria politica di pulizia etnica, portata avanti fin dalla creazione dello Stato di Israele, ma che non è mai riuscita a impedire al popolo palestinese di esistere e crescere", aggiungendo che la guerra in corso "non lo potrà fare scomparire". Per questo compagno, al contrario, dobbiamo prevedere il peggio e "Gaza non sarebbe l'unico esempio di un popolo costretto a spostarsi o a scomparire", come si è visto negli Stati Uniti dove, dopo il massacro degli indiani, "non c'è più alcun problema indiano".
Rispondiamo che i nostri testi congressuali non servono a fare previsioni sul futuro. Hanno lo scopo di analizzare la situazione e, sulla base delle nostre posizioni, di esprimere una politica che possa essere utile a coloro che vogliono combattere dalla parte degli sfruttati. Pur constatando che i dirigenti israeliani cercano lo sterminio dei palestinesi, concludere che ci riusciranno per forza significherebbe abbandonare ogni speranza di sconfiggere questa politica. Ma difendere una politica rivoluzionaria significa difendere la possibilità che la lotta delle masse riesca a invertire la tendenza attuale, ora o in seguito, in Medio Oriente o altrove. È in questa prospettiva che il testo intende collocarsi.
Tensioni internazionali
Nel nostro testo generale sulla crisi e le rivalità internazionali, abbiamo notato ancora una volta che la guerra economica non è solo tra l'Europa, compresa la Francia, e la Russia, ma ancora di più tra l'Unione Europea e gli Stati Uniti. E notiamo che il cambiamento dei rapporti di forza provocato dalla crisi è interamente a favore dell'imperialismo statunitense.
Al di là delle ragioni precise per cui l'imperialismo americano si è rafforzato a scapito di quello europeo, dobbiamo tornare ancora una volta al principale handicap dell'Europa rispetto agli Stati Uniti: la sua frammentazione in Stati indipendenti. L'Europa ha sofferto di questa frammentazione per oltre un secolo. È stata totalmente incapace di superarla, nonostante la pretesa di farlo con la cosiddetta costruzione europea. Si è tentato di superare questa frammentazione con la violenza della guerra sotto Hitler oppure con le discussioni. L'ultima disavventura di una forma di unione europea è quella attuale: l'UE.
Questa cosiddetta unione non è affatto la costruzione che pretende di essere. Le borghesie europee, che siano membri dell'Unione o che vi vogliano aderire, sono sempre rimaste divise dalle loro concorrenze e rivalità.
Un articolo scritto dai compagni della nostra tendenza nel 1949, pubblicato sul n. 2 di Lutte de classes con il titolo "Chi unificherà l'Europa?", dava una risposta che sarebbe la stessa oggi: "Nessuno, e di sicuro non la borghesia". Il sottotitolo dell'articolo recitava: "L'unificazione occidentale... una gamba di legno". Il testo commentava ciò che era l'attualità del momento: "[...] dieci nazioni parteciperanno il 28 marzo, a Londra, a una Conferenza che creerà definitivamente il Consiglio d'Europa. Questo è il primo risultato dell'azione intrapresa da Churchill in Inghilterra, Spaak in Belgio e Blum-Reynaud in Francia per creare una 'Unione Europea'".
L'articolo proseguiva spiegando: "Nel suo periodo di maturità (1789-1871), il capitalismo aveva creato, attraverso una serie di rivoluzioni borghesi, lo Stato nazionale. Indispensabile all'economia di mercato, questo Stato rappresentava un progresso rispetto alla frammentazione che lo aveva preceduto. Ma in seguito, a causa della crescita e della concentrazione senza precedenti dei mezzi di produzione nei Paesi industrialmente avanzati, il mercato nazionale che il capitalismo aveva creato per sé divenne troppo ristretto. E le barriere doganali erette da ogni Paese per proteggersi dalla concorrenza "straniera" finirono per racchiudere l'economia in tante camicie di forza. Per decenni (1871-1914), la conquista delle colonie fornì ad alcuni dei Paesi "primi arrivati" un'efficace via d'uscita, moltiplicando per dieci o vo venti il loro territorio nazionale. Ma questi Paesi, in particolare Inghilterra e Francia, provocarono una lotta spietata contro di loro da parte dei "ritardatari", come la Germania. La prima guerra imperialista del 1914-1918 fu combattuta per vedere chi, tra i briganti anglo-francesi e tedeschi, avrebbe occupato il primo posto nell'oppressione e nello sfruttamento dei popoli". L'articolo sottolineava che l'unificazione di un'Europa frammentata è una necessità sia economica che politica, la cui assenza è stata una delle ragioni della decadenza dell'Europa rispetto agli Stati Uniti, prima di aggiungere: "Per questo l'Internazionale Comunista, all'epoca di Lenin e Trotsky (1919-1924), metteva instancabilmente in guardia i lavoratori europei: Senza la rivoluzione proletaria, l'Europa soccomberà alla barbarie. Infatti, solo gli Stati Uniti socialisti d'Europa, unificando il vecchio continente, potrebbero salvarlo dal terribile destino che lo attende se rimane lo Stato nazional-capitalista".
Questo testo ha 75 anni. Le posizioni che vi sono esposte sono ancora le nostre. Anche le previsioni in esso espresse potrebbero essere prese alla lettera da noi. Il che non testimonia affatto la nostra capacità di previsione, ma piuttosto il ritardo della storia o, per meglio dire, l'incapacità della borghesia di fare ciò che il progresso dell'umanità richiede!
L'articolo prosegue: "Per comprendere il vero significato degli attuali sforzi di 'unificazione', non dobbiamo perdere di vista il fatto che la vittoria degli "alleati" nel 1945 non ha migliorato la situazione dell'Europa. Proprio come la vittoria di Hitler nel 1940, ha ancora peggiorato la sua situazione. Ai vecchi problemi se n'è aggiunto uno nuovo e decisivo: la cortina di ferro tagliando fuori l'Europa occidentale industriale dalle terre agricole dell'Est". E aggiungeva: "In realtà, i Paesi occidentali possono sopravvivere su base capitalistica solo con il sostegno finanziario, politico e militare degli Stati Uniti".
L'allusione alla cortina di ferro che si stava erigendo tra l'Europa occidentale e la zona controllata dall'URSS, anche se non più attuale, è comunque notevole. Questa verità, che i nostri compagni di allora avevano notato già nel 1949, non è stata più smentita da allora, nonostante la finta unità dell'Unione Europea, che si sta sgretolando sotto i nostri occhi. L'articolo si conclude così: "Ecco perché, in nessun caso, questi processi possono essere di aiuto a un'Europa mutilata più di quanto lo sia una gamba di legno per un veterano storpio".
Questo ci ricorda che se, nei circa 75 anni trascorsi dalla stesura di questo articolo, le borghesie europee non sono riuscite a creare una vera e propria Unione Europea, la burocrazia stalinista non ha fatto di meglio nella zona che occupava.
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Il movimento trotskista ufficiale, privo di una direzione dopo l'assassinio di Trotsky, guardava ai Paesi della zona occupata dall'Unione Sovietica con grande perplessità. La natura di classe dei loro Stati fu oggetto di numerosi dibattiti che aprirono la strada alla prima grande spaccatura della Quarta Internazionale ufficiale, tra una corrente che rivendicava ancora la continuità con la Quarta Internazionale di Trotsky e la corrente formatasi in particolare attorno a Pierre Lambert.
Inizialmente, la stragrande maggioranza di coloro che parteciparono a questo dibattito considerò giustamente che gli Stati ricostituiti sulle macerie degli apparati trovati dall'esercito sovietico occupante erano Stati borghesi. Poi, nel corso delle lotte tra i partiti in lizza per governare, man mano che si rafforzava l'influenza dei partiti comunisti, sostenuti dall'URSS, all'improvviso i suddetti Stati borghesi si trasformarono in Stati operai "deformati", senza rivoluzione proletaria. Con quale miracolo? Con il semplice fatto che le cricche staliniane al potere finirono col chiamarsi "democrazie popolari" e pretendere di rappresentare il socialismo nella variante staliniana che esisteva in URSS. Questa operazione dello Spirito Santo, compiuta da Pierre Frank, Michel Pablo e altri, fu chiamata "assimilazione strutturale"!
Va detto che in mezzo a queste divagazioni, che ne preannunciavano altre sulla Cina, sul Vietnam e, molto più tardi, sulla Cuba di Castro e persino su Zanzibar, il nostro movimento difese lo slogan "Ritiro delle truppe sovietiche dall'Europa dell'Est" non appena l'Europa dell'Est fu occupata dalle truppe della burocrazia.
La burocrazia sovietica non ha unificato l'Europa orientale sotto il suo dominio più di quanto le borghesie occidentali abbiano unificato i loro Stati. Questo sarebbe stato un passo avanti verso la riduzione della frammentazione statale. La burocrazia non ha mai pensato a fare questo, neanche nell'interesse della sua casta, cioè per promuovere il suo controllo sulla gestione economica dei Paesi conquistati. Creò una sorta di copia del Mercato Comune, chiamata Comecon. Ma soprattutto non voleva un'unificazione politica e c'era un motivo: unificare la zona sotto il suo controllo avrebbe significato creare un'entità con una popolazione di quasi 100 milioni di abitanti, a fronte della burocratizzata Unione Sovietica, che all'epoca contava 200 milioni di abitanti. Sarebbe stato per la burocrazia un rischio troppo grande da correre.
In questa parte centrale dell'Europa, il periodo della prima metà degli anni Cinquanta, scosso da un susseguirsi di rivolte e rivoluzioni, da Berlino Est nel 1953 all'Ungheria nel 1956, senza dimenticare la rivolta polacca, giustificò i timori della burocrazia sovietica. Nella prima metà degli anni Cinquanta, l'Europa orientale fu testimone di una vera e propria ondata di lotte politiche della classe operaia. Dai lavoratori edili della Stalinallee di Berlino nel 1953 alla rivoluzione ungherese dell'ottobre-novembre 1956, passando per le agitazioni popolari in Polonia e gli scioperi in Cecoslovacchia, i Paesi dell'Est europeo furono impegnati in una successione di forme di lotta diverse, che si influenzavano e si incoraggiavano a vicenda.
Questa ondata di proteste, in gran parte di carattere operaio, fu interrotta solo dall'intervento delle truppe dell'esercito di Kruscev contro la rivoluzione in Ungheria nei giorni successivi al 4 novembre 1956. Nonostante la diversità delle proteste più o meno profonde da un Paese all'altro, esse furono caratterizzate dall'intervento del proletariato. È necessario ricordare che la classe operaia ungherese è stata l'ultima, non solo in Europa ma nel mondo, a creare consigli operai? E, per una triste ironia della storia, questi consigli operai raggiunsero l'apice del loro ruolo di fronte al cosiddetto esercito sovietico, dopo la sconfitta militare della rivoluzione ungherese.
Si può dire che, oltre servire i propri interessi, la burocrazia stalinista ha fatto un ultimo favore all'imperialismo europeo. Non solo ha schiacciato un'insurrezione operaia nell'Europa orientale, ma ha anche impedito che si diffondesse nella parte occidentale del continente. Naturalmente non si può riscrivere la storia, ma lo stesso fermento di protesta era all'opera nella classe operaia da entrambi i lati della futura cortina di ferro. In un certo senso, schiacciando un'insurrezione operaia all'Est, nel 1956, a Budapest, la burocrazia sovietica completò la responsabilità dei partiti comunisti stalinisti nel soffocare lo sviluppo delle possibilità rivoluzionarie in Occidente.
Con la classe operaia sconfitta in Ungheria, il futuro sarebbe appartenuto a lungo ai dirigenti nazionalisti che sempre più apertamente sognavano di unirsi al campo occidentale, anche durante l'ondata di scioperi del 1980 in Polonia, controllata da Walesa e dalla Chiesa cattolica.
È lo stesso approccio, divide et impera, che ha caratterizzato l'atteggiamento della borghesia francese durante la decolonizzazione, basandosi sulle piccole entità create sotto il colonialismo per progettare i nuovi Stati cosiddetti indipendenti, piuttosto che sulle entità più grandi come l'AEF (Africa Equatoriale Francese) o l'AOF (Africa Occidentale Francese).
Sulla crisi dell'economia capitalista
Appena un mese fa, nel nostro testo affermavamo che: "La stampa borghese, in particolare quella economica, sembra ossessionata dalla paura di una possibile crisi finanziaria in un mondo capitalista ampiamente finanziarizzato, che potrebbe portare a un crollo economico paragonabile a quello del 1929, forse anche peggiore". E ancora: "Lo spettro di una grande crisi finanziaria ha di che spaventare la grande borghesia!"
Sembra che ciò che gli economisti borghesi temevano stia accadendo. Scriviamo e ripetiamo negli editoriali dei nostri bollettini di fabbrica che la guerra della grande borghesia contro la classe operaia si sta aggravando e che reagire al peggioramento di questa guerra sta diventando una necessità vitale per la classe operaia, semplicemente per difendere le sue condizioni di vita di base.
Non siamo gli unici a dirlo, visto che la stessa stampa borghese lo ripete. Ma siamo gli unici a farlo con un linguaggio comunista rivoluzionario e non con il discorso dei dirigenti della sinistra politica e degli apparati riformisti di ogni tipo che danno consigli alla borghesia, come ad esempio la necessità di rilanciare l'industria francese, ecc. È un ragionamento che inizia dicendo che, di fronte alla crisi crescente, non c'è altra soluzione per il proletariato che prendersela con la grande borghesia, con l'obiettivo della rivoluzione operaia contro le fondamenta stesse del suo sistema, cioè la rivoluzione che mira al rovesciamento rivoluzionario e all'espropriazione della borghesia.
In conclusione
I tempi che ci aspettano saranno duri. Duri per la nostra classe, il proletariato. Duri per la società. Duri per l'umanità. Duri, ovviamente, per noi militanti. Sono già stati duri da dieci anni per coloro che vivono nell'Ucraina orientale, direttamente coinvolti nella guerra attiva. Sono ancora più duri a Gaza, che è già stata distrutta al novanta per cento. È dura per chi vive in Ucraina, in Russia e in Medio Oriente. I tempi sono duri, anche se in misura diversa, per chi fa militanza come i nostri compagni di Haiti e della Costa d'Avorio. Al di là delle due regioni già in guerra ad alta intensità che stanno attirando l'attenzione dei media occidentali, i tempi sono duri anche per altre regioni, dall'Etiopia al Sudan, ecc. dove le guerre, di cui si parla poco, hanno fatto più vittime, morti e distruzioni che nelle due regioni citate. Ma è dura anche per le innumerevoli vittime delle carestie nei Paesi poveri, sia a causa della crisi economica che delle guerre e sanzioni.
Poi la catastrofe climatica si è aggiunta all'elenco dei disastri di cui l'imperialismo è responsabile. Un mese fa, abbiamo notato la reazione della popolazione di Valencia contro il re e il primo ministro spagnoli e le grida di "assassino" rivolte a loro, giustificate se non altro dalla loro incapacità di mobilitare immediatamente l'esercito per cercare i morti annegati nei parcheggi sotterranei. E se tutte le radio e le televisioni sono state costrette a testimoniare la rabbia della popolazione, sia contro il re che contro il primo ministro democraticamente eletto, è perché la Spagna si trova in Europa e questo potrebbe accadere - ed è già accaduto - in Germania, Francia, Italia e Belgio. E, ancora una volta, si tratta di ricchi Paesi europei, grandi potenze imperialiste, così pronte e veloci a mobilitare i loro eserciti quando si tratta di tenere al guinzaglio le loro ex colonie.
E mentre i governi - compreso il nostro quando ce n'è uno - moltiplicano le campagne ipocrite che invitano a cambiare i comportamenti individuali, come spegnere le luci quando si esce, trascurano la responsabilità delle grandi imprese, cioè la sete di profitto dei loro proprietari capitalisti, ai quali non ne importa nulla del cambiamento climatico, purché possano risparmiare sulle misure da adottare.
La crisi economica e le guerre si fondono sempre più in un'unica entità che nessuno può controllare, soprattutto la grande borghesia che pretende di governare il mondo. Dai tre o quattro anni in cui la crisi economica si è unita alla diffusione dei conflitti armati, tutti possono constatare che la situazione peggiora continuamente. Per ora, il peggio non è accaduto e possiamo solo osservare l'incapacità di coloro che governano il mondo in nome della borghesia, che non sanno fare altro che gestire la propria impotenza e farla pagare alle classi sfruttate e agli oppressi.
Non ha senso speculare su come la guerra si generalizzerà, a quale ritmo, a che punto le guerre locali si espanderanno in guerre regionali e come tutte queste guerre potranno confluire in una Terza Guerra Mondiale. Per molti versi, questa Terza guerra mondiale è già iniziata. Non con la stessa intensità di Gaza, del Libano o di alcune zone dell'Ucraina. Ma, diciamocelo, basta guardare il modo in cui le cose si sono sviluppate negli ultimi tre anni per capire che sta crescendo e si sta intensificando.
E per quanto riguarda la crisi economica, non è l'aumento della produzione di armi di ogni tipo, o la costruzione di bunker come in Germania, che ci potrebbero far dimenticare che la crisi attuale non è finora sbocciata in un crollo finanziario che le potrebbe dare una dimensione completamente diversa. Ciò che sembra evidente è che il proletariato non è preparato a opporsi alla guerra e ancor meno in grado di impedirla. In uno dei suoi ultimi testi, Bonapartismo, fascismo e guerra, dettato il 20 agosto 1940 poche ore prima di essere assassinato da Stalin, Trotsky tornava sulla guerra precedente per dire:
"Nel 1914 siamo stati colti impreparati. Durante l'ultima guerra, non solo il proletariato in generale, ma anche la sua avanguardia e, in una certa misura, l'avanguardia di questa avanguardia sono stati colti impreparati. Lo sviluppo dei principi di una politica rivoluzionaria nei confronti della guerra iniziò in un momento in cui essa stava già travolgendo il mondo da ogni parte e l'apparato militare aveva il comando incontrastato. Un anno dopo lo scoppio della guerra, la piccola minoranza rivoluzionaria era ancora costretta ad adattarsi alla maggioranza centrista della Conferenza di Zimmerwald. Prima della Rivoluzione di febbraio e anche dopo, gli elementi rivoluzionari non si vedevano come contendenti al potere, ma come rappresentanti dell'opposizione di estrema sinistra. Persino Lenin relegò la rivoluzione socialista a un futuro più o meno lontano. [...]
Nei suoi scritti del 1915, Lenin alludeva alle guerre rivoluzionarie che il proletariato vittorioso avrebbe dovuto intraprendere. Ma si trattava di una questione di prospettiva storica imprecisa, non del compito del domani. L'attenzione dell'ala rivoluzionaria era rivolta alla questione della difesa della patria capitalista. Ovviamente, i rivoluzionari risposero negativamente a questa domanda. Era giusto così. Ma questa risposta puramente negativa serviva come base per la propaganda e l'educazione dei quadri. Non poteva conquistare le masse che non volevano un conquistatore straniero.
Nella Russia prebellica, i bolscevichi costituivano i quattro quinti dell'avanguardia proletaria, cioè gli operai che partecipavano alla vita politica (giornali, elezioni, ecc.). Dopo la Rivoluzione di febbraio, il potere illimitato passò nelle mani dei sostenitori della difesa nazionale, dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari.
È vero che, nel giro di otto mesi, i bolscevichi conquistarono la stragrande maggioranza dei lavoratori. Non fu il rifiuto di difendere la patria borghese a giocare il ruolo decisivo nella conquista della maggioranza. Fu la parola d'ordine: "Tutto il potere ai soviet", e solo questa parola d'ordine rivoluzionaria!
La critica all'imperialismo e al suo militarismo, il rifiuto di difendere la democrazia borghese, e così via, non avrebbero mai fatto conquistare ai bolscevichi una maggioranza crescente della popolazione".
Le nostre prospettive fondamentali e i nostri compiti immediati
Le nostre prospettive non sono cambiate da quando, in un precedente congresso, abbiamo citato queste righe scritte da Rosa Luxemburg, nel 20° anniversario della morte di Marx, il 14 marzo 1903:
"Se dovessimo formulare in poche parole ciò che Marx ha fatto per il movimento operaio di oggi, potremmo dire che Marx ha scoperto la classe operaia moderna come categoria storica, cioè come classe soggetta a determinate condizioni di esistenza e il cui posto nella storia risponde a leggi precise. Prima di Marx, nei Paesi capitalisti esisteva indubbiamente una massa di salariati che, spinti alla solidarietà dalla somiglianza delle loro esistenze all'interno della società borghese, cercavano una via d'uscita dalla loro situazione e talvolta un ponte verso la terra promessa del socialismo. Marx li ha elevati al rango di classe solo collegandoli a un particolare compito storico: la conquista del potere politico per realizzare una trasformazione socialista della società. [...]
Solo Marx è riuscito a collocare la politica della classe operaia sul terreno della lotta di classe cosciente, facendone un'arma fatale contro l'ordine sociale esistente. La base dell'odierna politica socialdemocratica [oggi comunista rivoluzionaria] della classe operaia è la concezione materialista della storia in generale e la teoria dello sviluppo capitalistico di Marx in particolare. Solo coloro per i quali l'essenza della politica socialdemocratica e l'essenza del marxismo sono un mistero uguale possono concepire la socialdemocrazia, e più in generale una politica consapevole della classe operaia, al di fuori della dottrina di Marx".
In uno dei suoi ultimi testi programmatici, il Manifesto d'allarme della Quarta Internazionale, scritto nel maggio 1940, cinque mesi prima del suo assassinio, Trotsky affermava: "La lunghezza del documento è determinata dalla necessità di presentare nuovamente il nostro programma nel suo complesso in relazione alla guerra. Il partito non può mantenere la sua tradizione senza ripetere periodicamente le idee generali del nostro programma".
Se non troviamo una formulazione equivalente in Lenin, basta leggere tutte le sue opere politiche fondamentali per rendersi conto che passa il tempo a battere sullo stesso chiodo. Quindi, se citiamo ancora una volta queste frasi di Rosa Luxemburg, è perché riassumono l'essenziale del marxismo, ossia ciò che è fondamentale nel marxismo. Ma c'è anche quello che non dicono, ma che sono idee altrettanto eloquenti di quelle che dicono. Ciò che è essenziale non è solo l'idea fondamentale del Manifesto Comunista: "La storia di ogni società fino ai nostri giorni non è stata altro che la storia delle lotte di classe". Questa osservazione costituisce la base dell'idea centrale del socialismo scientifico. Finora "i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi. L'importante è trasformarlo" (Marx, Tesi su Feuerbach). In altre parole, non c'è solo l'analisi scientifica del funzionamento della società capitalista, ma soprattutto il ruolo del proletariato.
Sì, ciò che distingue i comunisti rivoluzionari è che non sono commentatori, giornalisti o chiacchieroni che pretendono di essere intellettuali, che interpretano il mondo e ne descrivono tutti i mali, ma che non indicano la classe sociale che è in grado di trasformare il mondo ed è l'unica a poterlo fare, al di là della sua psicologia nel momento attuale, al di là del male di cui la società soffre in un dato momento.
Essere comunisti rivoluzionari non significa solo ragionare partendo dalla constatazione che la storia dell'umanità è storia di lotta di classe. Significa indicare il proletariato come l'unica classe la cui lotta, portata alla sua logica conclusione, cioè la presa del potere, distruggerà il capitalismo.
Ma dicendo qual è il fondamento del marxismo, Rosa Luxemburg ha anche detto ciò che non è. Per fare un solo esempio: gli ecologisti, anche quelli più onesti - e ce ne sono alcuni, non tra i politici che si dichiarano ecologisti o ecologiste, ma tra gli scienziati che cercano soluzioni alle molteplici conseguenze del capitalismo in relazione all'ecologia (riscaldamento globale, scomparsa di specie, ecc.), pongono questi problemi senza mai o raramente mettere in discussione l'organizzazione capitalistica della società. A maggior ragione, lo fanno senza indicare la classe sociale che ha il compito storico e la capacità di distruggere il capitalismo.
Soppesiamo ogni frase di Rosa Luxemburg quando dice: "Prima di Marx, esisteva indubbiamente nei Paesi capitalisti una massa di lavoratori salariati che, spinti alla solidarietà dalla somiglianza delle loro esistenze all'interno della società borghese, cercavano una via d'uscita dalla loro situazione e talvolta un ponte verso la terra promessa del socialismo". La suddetta massa di lavoratori non aveva bisogno della scienza fornita da Marx per combattere e difendere le proprie condizioni di esistenza. Ma il contributo di Marx, in altre parole il marxismo, fu quello di elevare il proletariato "al rango di classe del futuro", "collegandolo a un compito storico particolare: il compito di conquistare il potere politico in vista della trasformazione socialista della società".
Collegare il movimento operaio o più precisamente la sua avanguardia con il marxismo, cioè con l'analisi scientifica del capitalismo e del suo funzionamento, fu una scoperta fondamentale, sia per il movimento operaio sia, allo stesso modo, per l'umanità e il suo futuro. È una scoperta fondamentale che il riformismo socialdemocratico prima e lo stalinismo dopo, hanno distrutta e fatta dimenticare completamente. Ma come? Attraverso quali sconfitte o tradimenti?
Non ci torneremo quest'anno. Vi abbiamo dedicato gran parte del congresso dell'anno scorso. Gli episodi della storia del movimento operaio fanno parte, e devono far parte, della nostra cultura politica collettiva. Ne sono la base. Dobbiamo acquisire e trasmettere la conoscenza e la comprensione sia dei successi che delle sconfitte (molto più numerose), in modo che fecondino tutta la nostra politica.
È questa la nostra identità e la nostra ragione d'essere. Oggi siamo forse gli unici a voler trasmettere tutto questo. Non è per la ricchezza della nostra esperienza, che è molto limitata, ma perché le idee marxiste e soprattutto il loro legame con il movimento operaio, completate da Lenin che lo ha dimostrato nella pratica, fanno parte dell'eredità che abbiamo ricevuto dal movimento operaio del passato.
Prima di Marx, la lotta di classe come forza motrice della storia era stata pensata da altri, come Michelet. Ma Marx è stato il primo a stabilire il legame tra l'analisi scientifica della marcia del capitalismo e il percorso per il suo rovesciamento. Per noi oggi non si tratta di rivedere il marxismo. Per questo ci accusano di settarismo. Non siamo settari; nel maggio-giugno 1968 abbiamo avuto una politica unitaria nei confronti delle altre organizzazioni del movimento trotskista. Ma ciò che ci caratterizza è la fedeltà al ragionamento marxista, che siamo gli unici a difendere. E ancor più della fedeltà, è la consapevolezza che il capitale politico lasciatoci in eredità dai nostri predecessori è stato il punto più alto della scienza rivoluzionaria, sviluppato in situazioni estreme in cui la lotta di classe si è esacerbata al massimo.
Sì, essere marxisti significa lottare per la conquista del potere politico da parte della classe operaia! Il marxismo inizia da lì, e finché non ci si identifica con quel compito, finché non si vede l'evoluzione della società e tutti gli attuali sconvolgimenti con quegli occhi, con quella prospettiva e, per essere più concreti, con quell'obiettivo, non si è marxisti. Essere marxista non significa simpatizzare con la condizione degli operai, aiutarli ad andare in pensione a 60 anni invece che a 62, significa puntare alla distruzione della società capitalista nell'unico modo possibile: strappando il potere politico alla borghesia. Significa fare campagna affinché la classe operaia prenda il potere politico, espropri la borghesia e sostituisca l'organizzazione capitalista assumendo la gestione dell'intera società.
Non vediamo la classe operaia solo come una classe sociale sfruttata e oppressa, una classe sociale per cui piangiamo, ma la classe sociale potenzialmente in grado di lottare e spingere la lotta fino alla sua conclusione finale, la distruzione della classe borghese come classe sfruttatrice. Tutto il resto ne consegue. Essere comunisti rivoluzionari non è essere riformisti, anche se dobbiamo lottare anche per la minima riforma. Internazionalismo non è solidarietà, anche se è nell'interesse del proletariato essere solidale con una moltitudine di categorie sociali oppresse, e persino contendere la guida delle loro lotte ai nazionalisti, alle femministe e così via. E, più in generale, tutte le rivendicazioni avanzate negli scioperi a livello elementare o nei grandi scontri di classe non hanno senso se non vengono portate avanti con l'obiettivo di distruggere il capitalismo.
Il carattere rivoluzionario del Programma di transizione non risiede in questa o quella rivendicazione particolare. Ognuna di esse può trasformarsi in un blando infuso riformista, come la scala mobile tradotta in indicizzazione dei salari. Il carattere rivoluzionario del Programma di transizione sta nel fatto che, seguendo la dinamica delle lotte operaie, mira a far progredire la coscienza dei lavoratori verso la necessità di prendere il potere. Anche le frasi migliori, anche le più accurate, sono solo frasi. Ciò che cambia la società sono le forze sociali, cioè le classi sociali. Non appena lo si dimentica, non si può più capire nulla e al massimo si può chiedere la tessera di una delle organizzazioni che si definiscono la Quarta Internazionale, ma che non hanno più nulla di rivoluzionario. Le rivendicazioni più radicali del Programma di transizione non hanno alcun significato e alcuna virtù se non portano al passo successivo, cioè alla volontà di distruggere il potere della borghesia e sostituirlo con il potere dei lavoratori.
Un articolo tratto da Inprecor (rivista di informazione e analisi pubblicata sotto la responsabilità dell'Ufficio esecutivo della Quarta Internazionale, anche se precisa che gli articoli non rappresentano necessariamente il punto di vista dei redattori), maggio 2024, intitolato "Crisi mondiale, conflitti e guerre. Quale internazionalismo per il XXI secolo?", è un'intervista a Pierre Rousset che, si legge in fondo alla pagina, è "un dirigente di lunga data della Quarta Internazionale e un militante del Nuovo Partito Anticapitalista. Ha partecipato alla fondazione e diretto l'Istituto Internazionale di Ricerca e Formazione (IIRE-IIRF) della Quarta ad Amsterdam e poi a Parigi". Si tratta di una precisazione utile affinché nessun lettore ignori che questa intervista rappresenta la politica di questo raggruppamento che si dichiara trotskista! Ebbene, in questo articolo programmatico non c'è una parola sulla divisione della società in classi, non una parola sulla lotta di classe, non una parola sul marxismo, sul bolscevismo o sul trotskismo.
Il lettore imparerà qualche nuova espressione come "crisi mondiale multidimensionale" o "policrisi". L'unica idea che se ne può trarre è che la parola "internazionalismo" può essere facilmente sostituita dalla parola "solidarietà". Avrebbe potuto altrettanto facilmente aggiungere l'espressione "Amiamoci gli uni gli altri", con 2000 anni di ritardo e con la firma "Gesù Cristo"!
I nostri compiti oggi e nel prossimo futuro
Se, per esempio, ci fosse uno sviluppo delle idee di estrema destra e i nostri bollettini dovessero essere distribuiti in aziende dove sono presenti militanti di estrema destra - e conosciamo situazioni del genere - dovremmo ovviamente difendere la loro distribuzione. Il pericolo per questa nostra attività potrebbe riguardare i militanti esterni e forse anche quelli interni.
Quello che caratterizza le crisi economiche è che possono mettere in moto categorie sociali che sono minacciate o si sentono minacciate. Quali sono queste categorie? In quale ordine cominciano a combattere? Fino a che punto la borghesia e i suoi servi le possono spingere l'una contro l'altra? Il prossimo futuro dipenderà da questi aspetti. Una forma di mobilitazione degli agricoltori è già in corso. E, per citare un dato, il numero di fallimenti di piccole e medie imprese registrati dalla Banque de France negli ultimi dodici mesi supera 5.300. In altre parole, nell'ultimo anno più di 5.300 di queste aziende hanno dovuto chiudere i battenti. Il precedente record risaliva al periodo successivo alla crisi dei subprime del 2008, quando i fallimenti erano stati circa 4.800. Se si osserva la curva dei fallimenti, si nota che negli ultimi due anni è aumentata costantemente. E non c'è nulla che faccia pensare a un rallentamento.
Dietro le cifre in aumento dei fallimenti di piccole e medie imprese ci sono interi settori della piccola borghesia spinti dalla rabbia. Rabbia contro chi? Contro la grande borghesia, contro i banchieri che li spingono al fallimento o contro la classe operaia? O contro una qualsiasi delle sue componenti ("gli immigrati che ci invadono", "i dipendenti pubblici che sono pagati troppo bene per quello che fanno", "i disoccupati che sono disoccupati perché non vogliono attraversare la strada per trovare lavoro", ecc.) In questo campo abbiamo una piccola esperienza del passato, quando gli avversari contro cui dovevamo combattere erano gli stalinisti, ma oggi non hanno più il peso necessario per cercare di tenerci fuori.
Ricordiamo che i bollettini aziendali, inventati nel contesto della situazione francese di un certo momento (quella di piccoli gruppi di pochi militanti per i quali era una forma di espressione che poteva essere garantita anche in condizioni difficili), si sono rivelati strumenti utili in situazioni diverse come quella della Martinica e della Guadalupa, quella degli Stati Uniti, e successivamente anche in Costa d'Avorio e persino ad Haiti. Se avessimo dei compagni militanti in Ucraina, non c'è motivo per cui, nonostante la guerra, non potremmo continuare a far circolare i bollettini, e non solo per distribuzione interna, ma forse, almeno di tanto in tanto, per distribuzione esterna.
Nelle aziende, per il momento, se ci sono reazioni puntuali tra i lavoratori, per prendere solo l'esempio recente della Michelin, si sente che l'aria è carica di elettricità di fronte agli attacchi dei padroni, e c'è una buona ragione per questo! Quando la direzione annuncia piani di licenziamento in un'azienda, dobbiamo anticipare la situazione e dobbiamo inviare non solo i compagni pensionati dell'azienda, ma anche i compagni esterni intorno a loro. Bisogna essere attenti e soprattutto reattivi. Non dobbiamo avere paura di anticipare e proporre oggi ciò che le persone saranno pronte a fare domani. Bisogna essere in grado di sentire il clima, misurare la rabbia e proporre azioni che permettano di misurare quale è lo stato d'animo.
Cosa si può fare e come? Ovviamente non possiamo fornire un "libretto rosso" o un "breviario del militante", sullo stile degli opuscoli che abbiamo visto fiorire nel periodo del maggio 68, che davano consigli su cosa fare di fronte alla polizia, e così via. Ovviamente, le cose non funzionano così. Una lotta, qualsiasi lotta, richiede una politica che non possiamo discutere in generale, a parte il fatto che dobbiamo fare tutto il possibile per parteciparvi e che dobbiamo puntare a far sì che i lavoratori dell'azienda costituiscano comitati di sciopero democratici durante la mobilitazione. Senza parlare di un "breviario del militante", dobbiamo tutti tenere presente il nostro programma, il Programma di transizione, scritto in un'epoca diversa dalla nostra, ma non così lontana. Ovviamente non sappiamo come si svilupperà la crisi e, di conseguenza, non sappiamo quali parole d'ordine proporre, e non necessariamente in quale ordine. In uno dei nostri congressi di qualche anno fa abbiamo avuto modo di sottolineare la rapidità con cui l'inflazione, e la sua entità, ha portato alla ribalta l'obiettivo di una scala salariale mobile.
Per concludere, insistiamo sul fatto che la nostra identità, la nostra ragione d'essere, è quella di lottare per la rivoluzione comunista internazionale, che può essere innescata, come diceva Lenin in L'estremismo, da "una circostanza tanto "imprevista" e tanto 'insignificante' quanto uno di quei mille e uno trucchi disonesti del militarismo reazionario (l'affare Dreyfus) per portare i popoli a un soffio dalla guerra civile", ma che deve concludersi con la presa del potere da parte del proletariato. Come e dove avverrà, non lo sappiamo ma lì sta il nostro obiettivo fondamentale. E per questo la semplice solidarietà, che ha dato luogo a varie discussioni tra i nostri compagni, e per quanto questa scelta possa sembrare importante in un dato momento, ha solo un posto limitato nella storia dell'umanità e per il suo futuro.
Queste sono le nostre idee fondamentali e il nostro impegno. Ma questo impegno può essere realizzato solo se ci sono le donne, gli uomini, i militanti che sono pronti a dedicarvi la loro vita. E, come marxisti, siamo convinti che il capitalismo non possa essere il futuro dell'umanità. Il marxismo, in altre parole il leninismo e il trotskismo, rimane la migliore guida per garantire che la rivoluzione sociale cessi di essere un sogno e diventi un obiettivo di lotta per le future generazioni di lavoratori. Abbiamo detto che i tempi che ci aspettano saranno duri. Ma i tempi più duri non fermano il corso della storia. Per molti versi, è vero il contrario. I tempi duri sono indispensabili, per così dire, per incoraggiare donne, uomini e soprattutto giovani a diventare militanti. Sono essenziali per selezionarli, insegnare loro come essere inventivi, come resistere alla repressione e alle condizioni difficili. I nostri compagni in Africa e soprattutto in Haiti ce ne danno un'idea.
Anche se dobbiamo diffidare delle previsioni, c'è una probabilità molto maggiore che questa generazione regredisca alle condizioni di Haiti che non il contrario, cioè che i compagni di Haiti vivano nelle condizioni dei privilegiati di qui. Dobbiamo avere il coraggio e soprattutto la capacità politica di resistere trovando i mezzi adeguati per farlo! I partiti da costruire, l'Internazionale, saranno i portavoce di una necessità storica e gli artefici della sua realizzazione. In un nostro testo del 1992 sulla situazione internazionale, refutando l'affermazione dello storico americano Francis Fukuyama su La fine della storia, scrivevamo che "le leggi dello sviluppo storico, cioè le vite e le azioni dei circa otto miliardi di esseri umani che popolano il pianeta, sono infinitamente più potenti dei vaneggiamenti di un singolo o anche dell'agitazione disordinata di tutti i decisori del mondo".
Aggiungiamo, parafrasando Engels ne L'origine della famiglia, che è lì, nella lotta vittoriosa per l'instaurazione del comunismo, che inizierà la vera storia. L'umanità uscirà finalmente dalla barbarie, dalla società di classe, e inizierà la parte cosciente della sua storia civile. Ma questa storia potrà iniziare solo quando il potere della borghesia sarà stato rovesciato dalla vittoria della rivoluzione proletaria!
8 dicembre 2024