"Mondializzazione", "globalizzazione" dell'economia : espressioni create apposta, per mascherare più che per fare chiarezza sulla realtà dell'imperialismo.

Stampa
Da Lutte de Classe n° 23 ("Mondializzazione", "globalizzazione" dell'economia...)
Novembre 1996

I termini "mondializzazione" e "globalizzazione" sono usciti da alcuni anni dai cenacoli degli economisti più insigni e dall'ambito del loro linguaggio professionale per diventare alla moda nei media e nel vocabolario dei politici.

Il vantaggio di questi termini è che essi non hanno di per se un gran significato e che dunque si può far passare attraverso essi quel che si vuole. Sono perciò adatti a completare giudiziosamente i termini "moneta unica", "criteri di convergenza" e, si capisce, l'inevitabile "Maastricht", per evocare, secondo gli uni, un avvenire di progresso e di felicità o, secondo gli altri, una calamità.

Tre anni fa la stampa e i commentatori hanno dato ampia pubblicità a un rapporto fatto per conto del Senato, a firma di un senatore di nome Arthuis, il medesimo che, in seguito, è diventato, come si sa, ministro dell'Economia. Questo rapporto dipingeva in termini catastrofici la mondializzazione come un movimento irrefrenabile di delocalizzazione. E, profettizzava allarmato Arthuis, poiché è in atto un vero e proprio scambio ineguale tra i paesi "a basso salario" e i paesi che egli chiama "ad alta protezione sociale", non ne possono derivare che distruzioni di posti di lavoro, disoccupazione e povertà in questi secondi.

E ancora pochi giorni fa, il presidente dell'Assemblea in persona, Philippe Seguin, ha attaccato la " class='texto'>"mondializzazione" e la "deregolamentazione generalizzata della sfera finanziaria", per proporsi come difensore di una $$o"base dedicata ai lavori precari e dequalificati o destinata alla disoccupazione".

Tanto Arthuis quanto Seguin sono sulla cresta dell'onda, poiché sono rari i padroni, o meglio i loro porta parola, nei mezzi di stampa o altrove, che non abbiano con grande compiacenza dissertato su quei paesi, come il Vietnam, la Cina ed altri, in cui i salari rappresentano 1/30° di quelli che sono pagati qui. Nei medesimi ambienti ci si guarda bene dal precisare che, se i capitali si delocalizzano, -e tali spostamenti si concentrano nei paesi a bassi salari- ciò non avviene per opera dello spirito santo, ma perché i loro possessori hanno considerato redditizi gli investimenti proprio in quei paesi. Per altro questo genere di discorsi è raramente l'annuncio, da parte di chi li formula, di reali investimenti in Vietnam, nel Madagascar o ad Haiti : evocare i salari miserabili di quei paesi è soprattutto un mezzo per fare pressione sui salari qui.

In termini più generali, la dissertazione sul tema della "mondializzazione" ha sovente come motivazione di base la volontà di stabilire una relazione di causa ed effetto tra la crescita degli scambi internazionali, le esportazioni di capitali più o meno assimilate a delocalizzazioni, e la disoccupazione. Oh, quanto sarebbe piacevole il capitale, se restasse nazionale ! Evidentemente sono solo parole e, anche quando le tirava fuori un allora ancora futuro ministro dell'Economia, esse non impedivano a un solo capitalista di andare ad investire altrove il suo denaro, se questo rispondeva ai suoi interessi. Ma tutto questo alimenta stupide affermazioni sulle cause della disoccupazione.

Tuttavia il Partito comunista è molto vicino ad una visione analoga. In un recente articolo dell'Humanité, F. Wurtz dice solennemente "no a una mondializzazione capitalista". E si prodiga a suggerire che ci sono dei mezzi adatti a limitare la capacità di nuocere dei "gruppi mondializzati" e a $$o"controllare il mercato". Per concludere in un volo lirico : $$o"la Francia, e in primo luogo le sue forze progressiste, devono dunque svolgere un ruolo nel contribuire a federare le resistenze e ad aprire prospettive comuni di cambiamento. Non si immagina quanto grandi sono le attese di azioni forti da parte del nostro paese". Il redattore dell'articolo non dice se "la Francia" che egli evoca e che si preoccupa di distinguere dalle "sue forze progressiste" comprenda, anche, le multinazionali francesi, giacché ve ne sono più d'una.

Il Partito comunista si ritrova sul medesimo terreno del Fronte nazionale, come per Maastricht. Infatti l'organizzazione lepenista ha scelto la cittadina di Mamers, nella Sarthe, dove Moulinex prevede di sopprimere una fabbrica, per lanciare "una campagna nazionale contro la mondializzazione" e la delocalizzazione. Il dirigente del Fronte Nazionale Bruno Mégret, presente al momento del lancio della campagna, vi ha brandito la minaccia di un'azione dei suoi militanti "ogni volta che un'impresa francese sarà minacciata dalla mondializzazione". Siamo di fronte a un nuovo capitolo della demagogia lepenista che viene a completare quello contro i lavoratori immigrati.

Gli antenati politici di Le Pen parlavano di "capitale senza patria" o "cosmopolita" : "mondializzazione" è più al passo coi tempi. Ed ecco il Fronte Nazionale pronto a fustigare i sindacati, colpevoli di essere "complici del padronato e del governo", perché questi non organizzano la lotta contro la mondializzazione, o non lo fanno con forza sufficiente. Anche solo questa parentela con il Fronte nazionale dovrebbe ispirare ai militanti del Partito comunista riflessioni salutari sulla questione. Ma è pur vero che la direzione del loro partito ha da molto tempo canalizzato la loro indignazione politica su terreni diversi da quello della lotta di classe, per evitare di attaccare il capitalismo, limitandosi a denunciarne di volta in volta un singolo aspetto.

Quale realtà dietro le parole ?

Si ritiene che il termine mondializzazione comprenda un insieme di processi economici che potrebbero essere riassunti nei seguenti punti : -l'integrazione più radicale nel mercato mondiale dell'insieme del pianeta, dovuta alla liquidazione progressiva delle riserve di caccia delle potenze imperialiste di seconda zona (ex colonie francesi, britanniche, ecc.) e all'estinguersi del relativo isolamento dei paesi dell'ex blocco sovietico.

-L'intensificazione del commercio internazionale, favorita da accordi commerciali internazionali come quelli che sono sfociati nella creazione dell'Organizzazione mondiale del commercio, che si adopera a diminuire le barriere, doganali e non, suscettibili di costituire un ostacolo al commercio internazionale.

-La libera circolazione dei capitali, con il conseguente accrescersi di ciò che il gergo economista designa con il termine "investimenti diretti", tentando di separarli -senza riuscirci sul serio- dagli spostamenti puramente speculativi dei capitali. Teniamo comunque a precisare che i capitalisti chiamano "investimenti" sia il riscatto totale o parziale di imprese già esistenti sia la creazione di nuove imprese. L'incontestabile intensificarsi delle esportazioni di capitali nel corso degli ultimi quindici anni è dovuto essenzialmente al riscatto di azioni o di titoli di proprietà di imprese esistenti.

-L'accresciuta concentrazione di capitali derivata dalle fusioni di gruppi finanziari e dai loro acquisti e prese di controllo di imprese a livello internazionale. Un pugno di multinazionali gigantesche organizza l'attività economica di centinaia di migliaia, e persino di milioni di uomini in un gran numero di paesi del pianeta. Questi trust ragionano a livello di tutta la superficie del globo e trasferiscono la loro attività, reale o contabile, nei paesi che permettono loro di far fruttare al massimo i profitti nazionali.

-La preponderanza della finanza sull'industria e della circolazione finanziaria sulla circolazione delle merci.

-L'abbandono progressivo da parte degli Stati, sia nei paesi sviluppati, sia nei paesi poveri, della gestione diretta di settori più o meno importanti dell'economia, e finanche dei servizi pubblici.

Il prevalere del capitale finanziario sul capitale industriale, le esportazioni di capitali, il costituirsi di grandi gruppi finanziari importanti in un gran numero di paesi derivante da una crescente concentrazione di capitali costituiscono effettivamente elementi rilevanti, che segnano tutta l'economia, e più complessivamente, tutta la vita sociale e politica. Ma questa evoluzione ha già un secolo di vita !

Già nel 1916 Lenin aveva potuto constatare che "il ventesimo secolo segna una svolta in cui l'antico capitalismo fa strada al nuovo, in cui il dominio del capitale finanziario si sostituisce al dominio del capitale in generale".

Come tutti i marxisti dell'epoca -anche se non tutti ne traevano le stesse conclusioni- Lenin chiamava imperialista questa nuova fase del capitalismo. Non combatteva questo nuovo stadio del capitalismo in nome dell'antico. Non combatteva l'emergere dei grandi gruppi finanziari in nome del ritorno al capitalismo familiare e di libera concorrenza. Non combatteva la selvaggia concorrenza internazionale, le esportazioni di capitali, "le delocalizzazioni" -il termine è nuovo, non la cosa- in nome dell'utopia della concorrenza contenuta all'interno di un solo paese. Non contrapponeva al libero scambio su scala internazionale il protezionismo nazionale. Sapeva bene che il capitale assume pratiche differenti, in proporzioni differenti, in funzione del rapporto di forze e delle necessità del momento. E soprattutto si guardava bene dal proporre al proletariato di far propria questa o quella politica borghese.

E neanche faceva appello a uno Stato nazionale più forte, per potere "resistere ai mercati finanziari". Sapeva che gli Stati imperialisti non sono "impotenti" di fronte ai trusts, ai gruppi finanziari, ma che ne sono gli strumenti.

E se aveva tratto una conclusione da tutto questo, essa consisteva nella convinzione che il capitalismo, allo stadio imperialista, fonte di marciume per la società, aveva allo stesso tempo accumulato tutti i materiali necessari alla sua distruzione e alla riorganizzazione razionale dell'economia sotto la direzione del proletariato. Il seguente passaggio de L'imperialismo, stadio supremo del capitalismo, suona più moderno e soprattutto più giusto di tutta la letteratura consacrata oggi alla mondializzazione o alla globalizzazione :

"Quando una grossa impresa diventa gigantesca e organizza metodicamente, tenendo esatto conto di indici multipli, la fornitura dei due terzi o dei tre quarti di tutte le materie prime necessarie a decine di milioni di uomini; quando si organizza sistematicamente il trasporto di queste materie prime nei luoghi di produzione più appropriati, talvolta separati da centinaia e centinaia di verste ; quando una centrale unica ha dominio assoluto su tutti gli stadi successivi del trattamento delle materie prime, ivi compresa la fabbricazione di tutta una serie di varietà di prodotti finiti ; quando la ripartizione di questi prodotti si compie in relazione a un piano unico tra decine e centinaia di milioni di consumatori (vendita del petrolio e in America e in Germania attraverso il "trust del petrolio" americano), e evidente che noi siamo in presenza di una socializzazione della produzione, e nient'affatto di un semplice intreccio di interventi, e che i rapporti dell'economia privata e della proprietà privata costituiscono un involucro che non corrisponde più al suo contenuto, che deve necessariamente marcire se se ne ritarda artificiosamente l'eliminazione, che può restare abbastanza a lungo in stato di putrefazione (se,alla peggio,la guarigione dal bubbone opportunista si trascina a lungo ) ma che tuttavia sarà di necessità eliminato".

Una semplice questione di vocabolario ?

Il fatto di presentare la "mondializzazione" come un fenomeno nuovo non è un puro e semplice cambiamento di vocabolario. Per altro non ci sfugge che il vocabolario, anch'esso, subisce necessariamente degli orientamenti. Dietro l'apparente neutralità dei termini "mondializzazione" o "globalizzazione" c'é un orientamento politico, c'é la volontà di occultare le relazioni di dominio tra un piccolo nucleo di paesi imperialisti e il resto del mondo.

Perciò il termine "mondializzazione" permette di suggerire che un gran numero di paesi si sono messi sulla strada dello sviluppo capitalista seguendo esattamente la stessa traccia di quelli che li hanno preceduti. D'altronde molti non si accontentano di suggerirlo, ma lo affermano. E si danno un gran da fare nell'evocare i folgoranti successi economici dei cosiddetti "draghi dell'Asia": Corea del Sud, Taiwan, Hong-Kong, Singapore. Va anche di moda discutere la data in cui la Cina sostituirà gli Stati Uniti come prima potenza economica del globo.

Stessa cosa per il commercio internazionale, per il quale la mondializzazione è presentata come l'ingresso di un numero sempre più vasto di paesi nel rango di concorrenti a pieno titolo, suscettibili di dare del filo da torcere ai paesi imperialisti, se non globalmente -ci mancherebbe altro !- almeno a un gran numero delle loro industrie. Ne discende naturalmente l'argomento che la disoccupazione è prodotta dalla concorrenza dei paesi a basso salario e che perciò i lavoratori dei paesi imperialisti devono sentirsi in competizione con quelli dei paesi poveri. Porre i problemi in termini di "paesi" -Corea del Sud, Indonesia, Malesia- offre anche l'occasione di occultare il fatto che le imprese industriali di questi paesi sono sovente controllate da gruppi finanziari delle vecchie potenze imperialiste.

Portata e limiti dello sviluppo del commercio internazionale

L'economia è internazionale e da molto tempo dà segni che sta soffocando negli ambiti nazionali. Ma questi quadri nazionali persistono, e l'internazionalizzazione dell'economia è il risultato di una lotta permanente in cui ogni capitalista, ogni gruppo capitalista e i loro Stati cercano di proteggersi sul loro mercato nazionale pur tentando di allargare il loro ambito di intervento attraverso il mercato internazionale "liberato" dai vincoli. Malgrado il moltiplicarsi dei negoziati commerciali bipartiti, regionali o internazionali, malgrado l'Organizzazione mondiale del commercio, in funzione a partire dal 1°gennaio 1995, che ha come ambizione dichiarata quella di facilitare il libero scambio su scala internazionale, il mercato internazionale non è affatto "libero", nel senso di un accesso uguale per tutti. E' piuttosto un luogo di confronto dei rapporti di forza. I dirigenti della più potente nazione imperialista, gli Stati Uniti, per altro principali promotori dell'Organizzazione mondiale del commercio, non hanno ritegno nel dichiarare la loro disponibilità ad accettarne le regole nella misura in cui esse non mettano in discussione i loro interessi economici. Ancor più che al tempo in cui l'esistenza del blocco sovietico imponeva alla politica estera degli Stati Uniti preoccupazioni di ordine politico-militare, la diplomazia americana consiste in un aiuto alle strategie economiche dei trust. E' una presa in giro parlare di libero scambio nella guerra economica condotta, per esempio, dall'imperialismo americano e dall'imperialismo giapponese.

Tanto vale dire che soltanto i più forti accedono sul serio al mercato mondiale. Quando questo capita a un paese povero, molto spesso è perché un gruppo industriale di una potenza imperialista giudica più facile dissimularsi dietro un piccolo paese. Tutti sanno per esempio che, davanti alle barriere poste in certe epoche di fronte al loro commercio internazionale da parte degli Stati Uniti o da parte dei principali paesi europei- tasse elevate e soprattutto quote- i trust giapponesi hanno preferito aggirare gli ostacoli sostituendo i "made in Japan" con i "made in Indonesia" o "made in Malesia".

Il commercio internazionale si sviluppa da dopo la guerra più rapidamente della produzione. Ha svolto un ruolo di stabilità consistente nel fatto che la stagnazione economica da vent'anni in qua non si è trasformata in un disastro economico catastrofico. D'altra parte non c'è stata una accelerazione significativa della crescita degli scambi internazionali nel corso dei dieci o quindici ultimi anni. E' piuttosto il contrario. Da quanto ne dice Elia Cohen, economista del CNRS (Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese), in un recente libro : "Il commercio internazionale è cresciuto nella media annuale del 6,6% dal 1950 al 1980, ossia 2,3 punti di PIL in più della progressione della produzione. Negli anni '80, lo scarto è stato soltanto di 0,9 punti PIL. Il periodo 1991-1993 che si caratterizza nei paesi europei con un rallentamento della crescita del PIL, vede anche un rallentamento del commercio estero." E lo stesso economista afferma che, sul lungo termine, a partire dall'inizio del secolo, se "il mondo ha conosciuto dei periodi di apertura e di chiusura, non è, tutto sommato, più aperto di quanto lo fosse alla vigilia della Prima Guerra mondiale".

Dopo un lungo periodo di arretramento del commercio mondiale nel periodo tra le due guerre, conseguenza della caduta della produzione durante la grande crisi, ma anche delle politiche protezioniste degli Stati, il commercio internazionale si è certamente espanso in volume e in valore a partire dalla fine della guerra, ma la quota di produzione delle grandi potenze imperialiste che va sui mercati esteri è complessivamente dello stesso ordine che nel 1913.

I cambiamenti di frontiera quando se ne presenta la necessità, i cambiamenti nella natura dei prodotti, rendono molto approssimativi i paragoni. Tuttavia per gli Stati Uniti le esportazioni continuano a rappresentare soltanto il 7,1% della loro produzione, mentre esse toccavano già il 6,1% nel 1913. La quota delle esportazioni si è certamente accresciuta in modo significativo per i due paesi complementari che sono la Francia e la Germania, passando tra il 1913 e il 1992 rispettivamente dal 13,9 al 17,5% e dal 17,5 al 24% della produzione nazionale. Ma in compenso e contrariamente a molte idee preconcette, la quota di esportazione in rapporto alla produzione ha fatto passi indietro in Giappone e nel Regno Unito, cadendo tra il 1913 e il 1992 rispettivamente dal 12,3 al 9,2%, e dal 20,9 al 18,2%.

Bisogna per altro aggiungere che una parte importante del commercio internazionale di oggi è costituita unicamente da scambi tra imprese di un medesimo trust, e persino tra settori o reparti di una stessa impresa. Le esportazioni interne a un medesimo trust rappresentano oggi per esempio il 33,5% delle esportazioni degli Stati Uniti ! L'ampia interpenetrazione delle economie si realizza essenzialmente all'interno dei grandi trust internazionali.

L'Europa e la concorrenza internazionale

Il commercio ha un'importanza primaria per le potenze imperialiste europee, in stato di vero e proprio strangolamento nell'ambito dei loro esigui territori. Per tutte queste potenze è vitale il commercio inter-europeo.

Questa è la ragione per cui i paesi più sviluppati d'Europa sono impegnati da più di quarant'anni nell'operazione che essi chiamano la "costruzione europea". Alla borghesia tedesca, francese, britannica, italiana e, con un peso minore, olandese e belga, dagli interessi allo stesso tempo concorrenti e complementari, sono occorsi più di quarant'anni di mercanteggiamenti, di piccoli avanzamenti e arretramenti per liquidare più o meno completamente le barriere doganali, gli ostacoli tariffari e per tentare di mettere un po' d'ordine nella giungla delle iniziative che ogni Stato nazionale può assumere per rendere più difficile la penetrazione di capitali del concorrente in casa sua e per favorire la penetrazione dei suoi in casa degli altri. E una volta che le principali potenze economiche del continente -principalmente la Germania, la Francia e l'Inghilterra e, in una certa misura, l'Italia- ebbero ottenuto il risultato di creare un mercato comune, se non unico, agli altri paesi industriali del continente non restava altra scelta che quella dell'allineamento. E' ciò che hanno fatto e che continuano a fare, gli uni dopo gli altri.

La recente crisi della mucca pazza ha d'altronde ricordato con quale rapidità possono essere ripristinate le barriere. La loro "costruzione europea" non ha affatto soppresso gli Stati nazionali -non ha mai espresso quest'ambizione- e ogni Stato può teoricamente disfare ciò che è stato fatto con il suo consenso.

Le dispute su "sovranazionalità" contro "sovranità nazionale" nelle quali si è impegolato il PC dietro una parte della destra e del Fronte nazionale sono a dir poco oziose, in realtà menzognere. Sono menzogneri i discorsi sulle "autorità di Bruxelles che impongono le loro direttive agli Stati". L'autorità di Bruxelles non ha sostituito l'autorità degli Stati, che continuano a rappresentare gli interessi delle rispettive borghesie. Ne è solo l'emanazione. Bruxelles si limita a fare ciò che risulta dalle decisioni degli Stati, o, in ogni caso, dai compromessi da loro accettati, sulla base dei rapporti di forza tra le borghesie in questione. Gli Stati più potenti dell'Unione europea, tra cui la Francia, sono in possesso di tutti i mezzi per rifiutare le direttive che non vogliono applicare -e non hanno remore a farlo, come ha di recente dimostrato Juppé col suo rifiuto di applicare una direttiva ecologista di Bruxelles (per altro votata dal delegato francese ) poiché essa portava pregiudizio alla sua maggioranza sul piano elettorale.. Ciò non impedisce ai dirigenti politici di rifugiarsi dietro le "decisioni di Bruxelles" o "le direttive della Commissione europea" quando questo gli fa comodo

al fine di non imporre decisioni impopolari. Ma designare Bruxelles come responsabile della politica della sua propria borghesia è ancora una volta un modo di ingannare i lavoratori.

Per favorire la loro propria borghesia, uno dei principali mezzi mantenuto dagli Stati nazionali fino ai nostri giorni, consiste nell'utilizzo della loro moneta nazionale come arma di guerra contro gli altri. Le famose "svalutazioni competitive" messe in atto nel recente periodo da Spagna, Portogallo, Italia e Gran Bretagna, forniscono una dimostrazione dell'utilizzo di questo sistema.

Ecco perché è la Germania e la Francia, i due pilastri della costruzione europea -sono queste in fondo a riporvi il massimo interesse- si impegnano da molti anni a far deporre a tutti quest'arma creando una moneta unica europea. Questo richiede una certa omogeneizzazione delle politiche budgetarie, un certo livellamento dei tassi d'interesse e una inflazione più o meno similare. Questa è la base dei "criteri di convergenza" stabiliti da Maastricht che altro non sono se non l'accordo tra borghesie europee per imporre alcune regole e per prevenire qualche colpo basso.

La moneta europea non è ancora una realtà e certe potenze maggiori del continente, in particolare la Gran Bretagna, non hanno per il momento l'intenzione di associarvisi. E' comunque verosimile oggi pensare che essa si realizzi almeno tra la Germania e la Francia e nei paesi della loro sfera d'influenza, poiché essa corrisponde agli interessi della grande borghesia. Sarà un fattore di unificazione -puramente consensuale e forse temporaneo, ma in ogni caso fattore di unificazione- tra paesi d'Europa. Contemporaneamente sarà uno strumento di guerra economica contro l'esterno. La moneta europea non esiste ancora, eppure quattro grandi padroni, due francesi e due tedeschi, esigono, in una tribuna libera recentemente apparsa su Le Monde, che la sua parità sia rapportata al dollaro e allo yen in modo tale da avvantaggiare le esportazioni. Le imprese tedesche e francesi non potranno prendere la testa della rincorsa con una tale palla al piede, insistono, nel caso che l'"euro" fosse troppo forte in rapporto alle divise americana e giapponese.

"L'Europa unita" non è nient'altro che l'organizzazione conflittuale della sfera d'influenza delle principali potenze europee, nel medesimo tempo rivali tra di loro e obbligate ad intendersi di fronte a potenze più forti di loro (gli Stati Uniti e il Giappone). L'esigenza stessa di una moneta unica non fa che riflettere una situazione in cui persino la più potente delle economie, quella della Germania, non è in condizione di imporre la sua moneta, il deutschemark, come moneta accettata da tutti. Gli Stati Uniti non hanno questo tipo di problema all'interno della loro propria sfera di influenza regionale organizzata, il NAFTA, di cui fanno parte anche il Canada e il Messico, tanto il dollaro copre la funzione di moneta comune indiscussa.

Delocalizzazioni e concorrenza asiatica

Quando Arthuis e molti altri evocano il pericolo rappresentato dai paesi a basso salario per l'industria e, dunque, per il lavoro in Francia, essi intendono parlare di un certo numero di paesi asiatici. Sarebbe più difficile dar loro credibilità se brandissero la minaccia del Mali, del Senegal e, più in generale, dell'Africa ben più tendente a disindustrializzarsi che il contrario.

In ogni caso c'è indubbia malafede nell'evocare la penetrazione delle vetture o dei computer sud coreani nel mercato francese, evitando di aggiungere che, se la borghesia francese accetta di schiodare le sue frontiere davanti a importazioni di questo tipo, è perché spera nella contropartita di vendite di TGV o aerei alla Corea. Anche in questo caso, nella concorrenza sono gli interessi che agiscono e non delle forze economiche immateriali. E lo Stato non subisce forze contro le quali potrebbe essere impotente : esso mercanteggia per conto dei suoi capitalisti.

Che ne è delle famose "delocalizzazioni" verso i paesi a basso salario ?

Escluso qualche raro settore, esse sono trascurabili. E' una sfrontata menzogna dare ad intendere che l'apertura delle frontiere alla concorrenza asiatica sarebbe responsabile, almeno in parte, dei cinque milioni di disoccupati o semi-disoccupati di questo paese.

Gli investimenti di capitali francesi all'estero -soprattutto imprese riscattate- sono certamente aumentati in modo considerevole (sono stati quadruplati tra il 1986 e il 1992). Ma nella loro quasi totalità, hanno lo scopo di accedere a grandi mercati e sono stati diretti verso paesi già industrializzati. Soltanto il 6% di questi investimenti sono andati a paesi sottosviluppati, e di questi solo il 2% in Asia orientale. Inoltre circa la metà degli investimenti dei paesi imperialisti nei paesi sottosviluppati riguarda il settore minerario, oppure il turismo, settori in cui non si tratta di trasferire un'impresa francese in un paese a basso salario.

Per quanto bassi possano essere i salari nei paesi africani o dell'Asia orientale, sono ben lungi dal poter esercitare l'attrazione fatale sul grande capitale francese nella quale Arthuis vede la minaccia principale per l'industria francese. I bassi salari in realtà non compensano facilmente l'insufficienza o la cattiva qualità delle infrastrutture, l'inferiore produttività del lavoro, l'insicurezza e l'eventuale instabilità politica, per non parlare del costo del trasporto. Nei pochi paesi semi-sviluppati che non pongono questi problemi, o hanno smesso di trovarsi in tali condizioni, in particolare la Corea del Sud o Taiwan, grazie alle lotte operaie i salari sono in aumento. Un operaio che lavora in una grande impresa di Seul si avvicina a percepire, a uguale qualifica, un salario equivalente a quello di un lavoratore della regione parigina.

Per certi prodotti che riguardano essenzialmente due settori (il tessile e la componentistica) l'attrazione dei bassi salari conta. I parchi industriali, soprattutto quelli organizzati in Indonesia o a Singapore, in cui la mano d'opera a buon mercato è consegnata in contemporanea con le opere di pianificazione, attirano un certo numero di trust dell'elettronica o dell'audiovisivo (Thomson, Schneider in particolare, a fianco di Philips, ATT o Sanyo). Ve ne sono altri del tessile, che traggono profitto dalla mano d'opera ancor peggio pagata delle "zone speciali" in Cina. Ma non va dimenticato che per i principali settori in cui è coinvolto il grande capitale, la parte del capitale variabile si fa sempre più debole in rapporto a quella del capitale costante. La parte dei salari sarebbe meno del 10% in rapporto al capitale investito nell'industria automobilistica, del 5% nelle imprese che fabbricano televisori di ultimo tipo, del 3% nel filone dei semi-conduttori. Quando Citroën investe in Cina, trae certamente profitto dalla mano d'opera a buon mercato, non per far invadere la Francia da vetture "made in Cina", ma per venderne alle classi privilegiate cinesi.

E la delocalizzazione verso altri paesi industrializzati ?

La "mondializzazione" e il "dumping sociale" sono ancora stati invocati quando, nel 1993, l'impresa Hoover decise di trasferire la sua fabbrica da Digione in Scozia. E ancora sono invocati per l'attuale spostamento della fabbrica JVC dalla Lorena, sempre in Scozia.

C'è da essere sconvolti dal "diritto" di un padrone di chiudere di testa sua la sua fabbrica, per spostarla dove vuole lui, in funzione unicamente dei suoi interessi. C'è da rimanere sconvolti, nel caso di JVC, impresa che aveva ricevuto forti sovvenzioni per installarsi in Lorena e che si appresta a riceverne altre -colmo dei colmi, da parte di Bruxelles- là dove va a installarsi.

Ma questo genere di spostamento, sempre per le stesse ragioni, non risulta migliore quando il luogo lasciato e quello di destinazione sono entrambi in Francia. Lo sviamento della questione verso il protezionismo nazionale è ancor più ridicolo in quanto né Hoover né JVC non sono imprese "francesi".

Da un punto di vista più generale, se la Francia è una delle principali potenze esportatrici di capitali del mondo, essa è nel medesimo tempo una delle prime importatrici. Insistere soltanto sui 2,2 milioni di lavoratori di altri paesi che hanno trovato lavoro in imprese sotto controllo di capitali francesi esportati, potrebbe essere semplicemente ridicolo, poiché le aziende a capitale straniero danno lavoro a quasi un quarto dei salariati in Francia.

La mondializzazione permette ai paesi poveri di diminuire le distanze dai paesi ricchi ?

E' un'affermazione stupida, ampiamente estesa e rispondente a precisi interessi. Essa poggia in primo luogo sull'imbroglio che consiste nell'estrapolare, a partire da una ventina di paesi semisviluppati dell'Asia e dell'America latina, generalizzazioni sull'insieme dei paesi poveri.

L'amministratore del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo che, a giudicare dalle sue funzioni, non è certamente un rivoluzionario, ha recentemente dichiarato in un'intervista rilasciata a le Monde :"C'è un primo mito da combattere, quello di un mondo in sviluppo che, grazie alla globalizzazione dell'economia mondiale, andrebbe di bene in meglio sotto la guida di una quindicina di draghi." In realtà, $$o"in più di un centinaio di paesi, il reddito per abitante è oggi più basso di quanto non fosse quindici anni fa. Per parlare chiaro, circa 1,6 miliardi di individui vivono in condizioni peggiori che all'inizio degli anni ottanta".


"Nello spazio di una generazione e mezza, lo scarto tra paesi ricchi e paesi poveri si è espanso. All'inizio degli anni sessanta era di 1 a 30 tra i 20% più ricchi del pianeta e i 20% più poveri. Oggi, esso è da 1 a 60, proprio mentre la ricchezza globale è aumentata considerevolmente (...)."
"I tre quarti del flusso di investimenti stranieri destinati ai paesi poveri si concentrano infatti su meno di una dozzina di paesi, situati in maggior parte in Asia. In quanto all'Africa, essa ha diritto soltanto a briciole (6%) e i paesi meno avanzati, di cui il continente nero fornisce il contingente più forte, a un magro 2%."

Ma anche il preteso sviluppo di questa dozzina di paesi che beneficiano della quasi totalità dei flussi di investimenti occidentali non è altro che un'estrapolazione, orientata, a partire dall'industrializzazione e dall'aumento rapido della produzione di certe zone franche in funzione dei bisogni dei commendatari imperialisti.

In via di sviluppo la Cina ? In via di sviluppo il Messico ? "Il privilegio" di beneficiare degli investimenti occidentali corrisponde soprattutto a più intenso saccheggio e sfruttamento o al rafforzarsi di un ceto locale privilegiato, più o meno compradore, con la conseguenza, unico aspetto positivo per l'avvenire, della trasformazione di una frazione -piccolissima- delle classi povere in proletariato. E poi, forse che le imprese straniere in Cina sono relativamente più importanti di quanto fossero nel 1927 ?

E' possibile citare alcune grandi società multinazionali coreane o brasiliane. Per ciascuna bisognerebbe inoltre vedere qual'è la parte di capitali americani o giapponesi. In ogni caso, tra i cento più importanti trusts che dominano l'economia mondiale, non c'è n'è uno solo sortito dai paesi del Terzo mondo. I tre quarti (75 su 100) si suddividono tra cinque paesi imperialisti : gli Stati Uniti, naturalmente, il Giappone, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania. I rapporti di forza tra potenze imperialiste sono cambiati dall'epoca in cui Lenin ha scritto L'imperialismo, stadio supremo del capitalismo, ma non l'identità dei principali briganti che saccheggiano il pianeta.

Mondializzazione e statalismo

La "mondializzazione" non ha ridotto il ruolo degli Stati. Al contrario. E non solo sul terreno della diplomazia economica. In tutti i paesi imperialisti, anche quelli i cui dirigenti fanno più professione di fede nel liberalismo, il budget dello Stato, le casse pubbliche sono trasformate in serbatoi destinati a finanziare il parassitismo dei grandi gruppi finanziari. Da qui l'abbandono crescente dei servizi pubblici, anche nei paesi più ricchi. Da qui anche l'indebitamento consistente e sempre in crescita degli Stati.

E' un punto di vista particolarmente mirato quello che orienta a considerare gli Stati imperialisti vittime impotenti dei mercati finanziari. Gli Stati non sono vittime passive dell'evoluzione economica, ma piuttosto agenti in piena consapevolezza. Sono loro, i loro deficit, i loro prestiti per colmarli, i loro bisogni di finanziamento per aiutare la loro grande borghesia, anche le loro politiche di privatizzazione, ad alimentare i capitali speculativi.

Perciò rivendicare un ruolo più importante degli Stati come antidoto alla mondializzazione, sinonimo di sfrenato capitalismo, presentare tutto ciò come un'idea progressista, come lo fa il PC, è una stupidità reazionaria.

Non c'è un ritorno indietro per quanto riguarda l'imperialismo. E se l'imperialismo si sentisse costretto da una crisi, da uno sconvolgimento economico, a proteggersi dietro politiche protezioniste, questo avverrebbe al prezzo di un abbassamento ancor più catastrofico del livello di vita della classe operaia ed anche al prezzo di regimi autoritari o fascisti per imporlo. L'interesse del proletariato non è quello di combattere l'internazionalizzazione della produzione, l' interpenetrazione delle economie, ma quello di battersi per il rovesciamento dell'ordine capitalista su scala mondiale. La riorganizzazione dell'economia su una base superiore, razionale -il comunismo- è possibile solo sulla base di un'economia che, checché ne dicano i reazionari di tutte le parrocchie, è da molto tempo internazionalizzata. E se, in qualità di modesti sottoprodotti delle esportazioni di capitali imperialisti, nascono imprese industriali in luoghi dove prima non ce n'erano, se questo fa sprigionare un proletariato industriale là dove fino ad ora non v'erano che masse povere sottoproletarie, ebbene, tanto meglio. I lavoratori della Corea del Sud, dell'Indonesia o della Cina non sono avversari, e neppure dei concorrenti, ma i nuovi contingenti del proletariato mondiale che, esso solo, può strappare il potere alla borghesia e mettere fine al capitalismo e alla sua estrema metamorfosi, l'imperialismo.