Relazione del Circolo Lev Trotsky del 24 novembre 2023
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Dopo che il governo israeliano ha accettato una breve tregua per dare tempo al trasferimento di alcuni ostaggi e di prigionieri palestinesi, la guerra riprenderà? Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che le operazioni militari dovranno continuare.
Per più di un mese e mezzo, i palestinesi di Gaza sono stati sottoposti quasi quotidianamente a bombardamenti israeliani pressoché permanenti, che hanno mirato le loro case, gli ospedali e altre infrastrutture... Le operazioni di terra hanno ulteriormente aggravato le conseguenze della guerra sulla popolazione civile.
È impossibile dire quante vite siano state perse a causa di questa guerra fino ad oggi: più di 14.000 morti, secondo il Ministero della Sanità palestinese, e ad ogni modo decine di migliaia di feriti, che non hanno un posto dove andare a farsi curare. I due milioni di abitanti di Gaza sono stati sottoposti ad un assedio totale, che li ha privati di acqua, cibo, medicine e del carburante che permette di alimentare i generatori di elettricità. Senza elettricità, gli ospedali non possono funzionare e le comunicazioni telefoniche e internet sono state interrotte. Gaza è stata tagliata fuori dal resto del mondo, minacciata dalla fame. Solo il timore di epidemie ha indotto il governo israeliano a consentire l'ingresso di camion di carburante, in piccole quantità.
Da 75 anni i governi israeliani perseguono la stessa politica di terrore che accompagna l'espropriazione dei palestinesi e la negazione dei loro diritti. Le scene di guerra e l'esodo di migliaia di palestinesi in fuga dalle bombe che si vedono attualmente a Gaza ne ricordano altre che si sono ripetute più volte. Lo stato di Israele è stato fondato su questa politica. E di fronte alla rivolta palestinese, che non è riuscito a sedare, il suo esercito ha dovuto impegnarsi in operazioni militari regolari e in spargimenti di sangue.
Hamas ha risposto a questo terrore di stato con una politica che segue la stessa logica dei dirigenti israeliani, solo con meno risorse. Il 7 ottobre, uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e bambini, i commando di Hamas hanno attaccato una popolazione che consideravano collettivamente responsabile delle decisioni del loro governo. I dirigenti di Hamas non solo hanno mostrato disprezzo per le vite dei civili israeliani, ma anche per quelle del loro stesso popolo, perché sapevano perfettamente che lo stavano esponendo alle rappresaglie dell'esercito israeliano.
Lo stato israeliano può compiere un massacro di massa a Gaza perché gode della complicità dei dirigenti delle principali potenze occidentali, a partire dagli Stati Uniti. Né Biden né Macron parlano di barbarie o terrorismo. Questi termini sono riservati ad Hamas. Per dare l'immagine di dirigenti che cercano di calmare il conflitto, si accontentano di invitare Israele a mostrarsi più moderato, ma non fanno nulla per costringerlo a esserlo.
Se i dirigenti degli Stati Uniti non hanno mai realmente agito per porre fine al conflitto israelo-palestinese, è perché in realtà hanno interesse alla sua permanenza. La situazione di tensione fa di Israele il loro fedele vassallo, il poliziotto di cui hanno bisogno in quella parte del mondo per difendere i loro interessi, tanto sono interessati alla ricchezza petrolifera e alla posizione strategica di questa zona.
Le ripetute guerre che insanguinano questa regione non sono il risultato di odi ancestrali o di un conflitto religioso tra ebrei e arabi. Sono le potenze imperialiste che hanno deliberatamente messo questi due popoli l'uno contro l'altro e hanno creato le condizioni di una guerra permanente per garantire il loro dominio sul Medio Oriente. Questo è iniziato all'inizio del XX secolo, all'epoca della Prima guerra mondiale, e continua ancora oggi.
Le potenze imperialiste si spartiscono il Medio Oriente
Prima del 1914, la Palestina e Israele facevano parte dell'Impero Ottomano, un vasto impero che, all'apice della sua potenza, si estendeva dalla Penisola Arabica ai Balcani e comprendeva gran parte del Medio Oriente. L'assenza di confini interni favorì una grande mescolanza di popolazioni. Per secoli, ebrei, arabi, per lo più musulmani, una cospicua minoranza cristiana, drusi e molte altre fedi hanno vissuto fianco a fianco in relativa pace.
All'inizio del XX secolo, l'Impero Ottomano era entrato in una fase di declino, sia economico che politico, ed era diventato il "malato d'Europa". Quando nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, l'Impero Ottomano si trovò al fianco della Germania. I dirigenti britannici e francesi videro in ciò un'opportunità per smantellare il vecchio impero e dividere tra loro il bottino. Nel marzo 1916 firmarono gli accordi Sykes-Picot, dal nome dei negoziatori britannici e francesi. Secondo i termini di questi accordi, l'area che comprende l'attuale Libano e la Siria sarebbe passata alla Francia, mentre ai britannici sarebbe stato dato il controllo dell'attuale Iraq e della Giordania. Per quanto riguarda la Palestina, non essendo riusciti a prendere una decisione, decisero che sarebbe stata posta sotto il controllo internazionale.
Questi accordi dovevano rimanere segreti ma, essendo stati firmati a Mosca con il patrocinio dello zar, che sperava di ottenere qualche briciola per sé, i diplomatici russi ne avevano conservato una copia che i bolscevichi resero pubblica dopo la loro ascesa al potere nell'ottobre 1917. Pubblicando questi trattati, si comportarono da rivoluzionari. Rompendo i metodi della diplomazia segreta, rivelarono i veri obiettivi bellici delle potenze imperialiste e le loro manovre per ingannare i lavoratori e i popoli.
E di manovre di questo tipo ce ne sono state molte in questo periodo e in questa regione del mondo. Mentre concordavano con i diplomatici francesi lo smembramento dell'Impero Ottomano, i governanti britannici promisero la regione allo Cherif della Mecca, Hussein, un rappresentante della potente famiglia araba degli Hashemiti. Sostenendo di lavorare per la "liberazione degli arabi dal giogo turco", si impegnarono a creare un grande regno che comprendesse la maggior parte delle province arabe dell'Impero Ottomano. I britannici lo aiutarono a costruire un esercito, fornirono armi e uno dei loro emissari, noto come Lawrence d'Arabia, non esitò a pagare personalmente partecipando ai combattimenti con i cammelli.
Allo stesso tempo, però, promisero la Palestina una seconda volta, questa volta al movimento sionista, che non rappresentava molto nella regione. Ma i diplomatici britannici sapevano esattamente cosa stavano facendo.
Il movimento sionista
Il fondatore del sionismo, il giornalista viennese Theodore Herzl, era di origine ebraica ma, essendo molto inserito nella società austriaca del suo tempo, non si dichiarò sionista finché non dovette occuparsi dell'affare Dreyfus nel 1896. Le manifestazioni antisemite su larga scala a cui assistette in quell'occasione, e il fatto che ciò potesse accadere in Francia, in uno dei paesi più avanzati e illuminati d'Europa, lo portarono a formulare l'idea che l'unico modo per gli ebrei di sfuggire all'antisemitismo fosse quello di avere uno stato proprio, uno stato ebraico. Questo fu il titolo del libro politico che scrisse all'epoca e che divenne il programma dell'Organizzazione Sionista Mondiale, fondata nel 1897.
Questo movimento nazionalista doveva risolvere un problema che derivava dalla particolare situazione degli ebrei, sparsi in tutto il mondo: su quale territorio costruire uno stato ebraico? La Palestina, la terra che, secondo la Bibbia, era stata promessa da dio al popolo ebraico, fu menzionata fin dall'inizio del movimento. Ma poiché la maggior parte dei sionisti, come lo stesso Herzl, non era particolarmente religiosa, vennero prese in considerazione altre regioni del mondo, come l'Argentina e l'Uganda. Un congresso risolse infine la questione nel 1903, scegliendo la Palestina. I sionisti potettero quindi affermare di far parte almeno della tradizione biblica.
In un'epoca in cui il mondo era diviso tra poche grandi potenze coloniali, Herzl cercò il sostegno di una di esse. Trascorse il resto della sua vita incontrando ministri e capi di stato, esaltando come il movimento sionista potesse servire i loro interessi. Il futuro stato ebraico in Palestina poteva essere, scrisse, "parte dei bastioni europei contro l'Asia, un avamposto della civiltà contro la barbarie".
Fin dall'inizio, quindi, il sionismo fu un progetto coloniale. Tanto più che la Palestina non era "una terra senza popolo per un popolo senza terra", come proclamavano i sionisti. Era da lungo tempo abitata da popolazioni arabe. Per risolvere questo problema, Herzl, con la sua caratteristica visione colonialista, prevedeva la possibilità di un "trasferimento" di popolazioni, in altre parole una purificazione etnica, per usare il vocabolario di oggi. In ogni caso, questa organizzazione sionista si dotò rapidamente dei mezzi per iniziare ad attuare un trasferimento di terre. Istituì un Fondo Nazionale Ebraico per raccogliere donazioni per acquistare terreni in Palestina in modo che gli ebrei potessero stabilirvisi. Questi appezzamenti di terreno furono acquistati a proprietari terrieri assenti che vivevano in città lontane da queste campagne povere, e i contadini arabi furono estromessi senza poter avere voce in capitolo. Una simile impresa di colonizzazione non poteva non suscitare l'ostilità delle popolazioni locali, che ben presto si resero conto che il movimento sionista costituiva una minaccia per loro.
Nel 1914, la comunità ebraica rappresentava solo una piccolissima minoranza, con 80.000 ebrei presenti in Palestina su una popolazione totale di 750.000 persone. Fino alla Prima guerra mondiale, i dirigenti britannici non avevano mostrato particolare simpatia per il sionismo e non avevano fatto nulla per incoraggiarlo. Il loro atteggiamento cambiò quando, durante il conflitto, si resero conto di poter sfruttare questo movimento. Il 2 novembre 1917, il ministro degli Esteri, Lord Balfour, inviò una lettera a un rappresentante del movimento sionista, Lord Rothschild, in cui faceva una "dichiarazione di simpatia per le aspirazioni sioniste degli ebrei" e affermava: "Il governo di Sua Maestà guarda con favore alla creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico". Con questa "Dichiarazione Balfour", come venne chiamata, i dirigenti britannici promisero la Palestina una seconda volta, ben sapendo che stavano creando un conflitto tra ebrei e arabi. Ma intendevano usare queste opposizioni, che essi stessi contribuivano a creare, per imporre meglio il loro controllo sulla regione. Era un metodo che avevano già usato molte volte nelle loro colonie e avevano acquisito in questo un talento eccezionale.
Dopo la guerra, la divisione del Medio Oriente
Alla fine della guerra, quando lo smantellamento dell'Impero Ottomano sconfitto era all'ordine del giorno, i dirigenti arabi speravano che le promesse fatte loro sarebbero state mantenute. Gli Alleati decisero diversamente. All'indomani di una guerra in cui si era discusso del diritto dei popoli all'autodeterminazione, non era più possibile utilizzare un vocabolario eccessivamente coloniale. La Società delle Nazioni, l'antesignana dell'ONU, creata dopo la Prima Guerra Mondiale, decise quindi che Francia e Regno Unito avrebbero ottenuto mandati sulla regione, una formula ipocrita volta a presentare l'istituzione di un regime di protettorato come un aiuto benevolo. Fu deciso che la Siria sarebbe stata separata dal Libano e che entrambi sarebbero stati posti sotto l'amministrazione francese. L'Iraq e la Palestina passarono sotto il mandato britannico e una clausola prevedeva l'applicazione della Dichiarazione Balfour.
Non restava che imporla ai dirigenti arabi, che si sentirono ingannati. Nel luglio 1920, le truppe francesi occuparono Damasco dopo averla bombardata. Scoppiarono rivolte in Palestina e in Iraq. Per consolazione e per calmare un po' le acque, i governanti britannici insediarono Faisal, uno dei figli di Hussein, Cherif della Mecca, sul trono di un regno iracheno e misero suo fratello Abdallah a capo di quello che sarebbe diventato il regno di Transgiordania (l'attuale Giordania).
Rifiutando la creazione di un grande regno arabo, che trovavano più difficile da controllare, le potenze imperialiste imposero una divisione del Medio Oriente, tracciando i confini - che sono ancora quelli degli stati di oggi - in base ai loro calcoli diplomatici e militari, nel totale disprezzo delle aspirazioni dei popoli.
La Palestina sotto il Mandato britannico
La Palestina passò sotto il mandato britannico. Fu istituita un'amministrazione composta in maggioranza da cittadini britannici, guidata da un Governatore generale. Le autorità del mandato accettarono che gli ebrei della Palestina creassero le loro istituzioni, con un consiglio esecutivo nominato da un'assemblea, a sua volta eletta da tutti coloro che si erano registrati come ebrei. Nel 1929, un'Agenzia ebraica, istituita dall'Organizzazione sionista mondiale, svolse effettivamente il ruolo di governo per la popolazione ebraica palestinese. Le popolazioni arabe non ottennero mai la creazione di istituzioni analoghe. In questo modo, l'amministrazione britannica ha deliberatamente acuito le opposizioni tra ebrei e arabi, in modo da potersi porre come arbitro indispensabile.
Fu in queste condizioni che iniziò ad emergere una società ebraica completamente isolata dalla società araba. La maggior parte degli architetti di questa società proveniva dall'Europa orientale, in particolare dall'Impero russo, dove esisteva un forte movimento operaio da cui erano stati influenzati. Di conseguenza, molti di loro si dichiaravano socialisti. Ma il loro socialismo era limitato agli ebrei ed escludeva totalmente le popolazioni arabe. Lo dimostra il modo in cui sono stati sviluppati i kibbutz, questa forma collettiva di azienda agricola. All'interno dei kibbutz doveva regnare uno spirito egualitario che avrebbe dovuto incarnare un ideale socialista. Non c'erano salari, tutto era condiviso. Ma il vero obiettivo era la conquista del paese. I kibbutz furono costruiti su terreni acquistati da proprietari terrieri assenti e cacciando i contadini arabi che vi abitavano.
Nel 1920, queste organizzazioni "sioniste socialiste" crearono un sindacato, Histadrut (Confederazione generale dei lavoratori ebrei in Eretz Israel). L'Histadrut crebbe molto rapidamente: nel 1923 comprendeva quasi la metà dei lavoratori salariati ebrei in Palestina, arrivando al 70% nel 1927. Ma l'Histadrut non era solo un sindacato. Il suo vero obiettivo era organizzare un'economia esclusivamente ebraica, in grado di fare a meno della popolazione araba o addirittura di estrometterla. L'Histadrut organizzò una cassa malattia, mense, uffici di collocamento, una cooperativa di acquisto e vendita, un'impresa di costruzioni e persino una banca. Ma tutte queste organizzazioni erano riservate esclusivamente agli ebrei. I giovani dovevano imparare l'ebraico, la lingua della Bibbia, che era caduta in disuso e che i sionisti vollero imporre come lingua della nuova nazione ebraica.
L'Histadrut organizzò picchetti per opporsi all'impiego di lavoratori arabi in aziende gestite da ebrei che non avessero compreso la necessità di sviluppare il "lavoro ebraico", slogan principale del movimento. Oltre a questi picchetti, l'Histadrut organizzò anche una milizia, l'Haganah ("difesa" in ebraico). Più che un sindacato, l'Histadrut era di fatto l'embrione di un apparato statale. Non c'era posto per gli arabi nella società che questi cosiddetti socialisti volevano creare.
La stragrande maggioranza dei movimenti sionisti che si dichiaravano socialisti si unirono per formare il Partito laburista, Mapai, nel 1930, guidato da David Ben Gurion, che era stato anche il dirigente dell'Histadrut fin dalla sua fondazione. Il Mapai ottenne rapidamente il controllo delle istituzioni ebraiche in Palestina e nel 1935 Ben Gurion divenne presidente dell'Agenzia ebraica.
Tra le correnti provenienti dal movimento socialista, l'unica organizzazione che ruppe con il sionismo e cercò di rivolgersi alle masse arabe fu il Partito comunista palestinese. Fondato nel 1920, fu il primo partito comunista creato in Medio Oriente. Rimase debole e non ebbe mai più di mille membri. I suoi membri dovettero operare in un contesto difficile, mentre cominciava ad aprirsi un abisso di odio tra ebrei e arabi. La maggior parte dei suoi attivisti erano ebrei e dovevano affrontare, nel loro stesso ambiente di origine, l'ostilità dei sionisti. Furono anche sottoposti a una repressione particolarmente dura da parte delle autorità britanniche, furono spesso arrestati e talvolta espulsi arbitrariamente dalla Palestina.
Era possibile una politica che cercasse di unire lavoratori ebrei e arabi in una stessa organizzazione e in una lotta comune, sia contro il colonialismo britannico che contro le classi feudali arabe? Quello che possiamo dire è che ai militanti che hanno cercato di attuarla non è mancato il coraggio. Ma la politica che fece loro attuare l'Internazionale comunista stalinista a partire dalla fine degli anni Venti era ben lontana dall'internazionalismo che sarebbe stato necessario per superare gli ostacoli che avevano di fronte. Il Partito Comunista fu costretto ad adottare una linea opportunista, prima verso il nazionalismo arabo, poi verso il sionismo, quando l'URSS cercò l'alleanza della Gran Bretagna. Queste politiche, che variavano a seconda degli interessi diplomatici dei dirigenti della burocrazia stalinista, portarono all'allontanamento di molti militanti e a diverse scissioni tra i settori arabi ed ebraici del partito.
La grande rivolta araba del 1936
A partire dal 1936, le crescenti tensioni portarono a vere e proprie rivolte popolari da parte delle masse arabe. La Grande Rivolta Araba, come venne chiamata, iniziò nell'aprile del 1936 con scontri tra ebrei e arabi. Cominciò a diffondersi un movimento di sciopero dei lavoratori arabi, guidato da comitati locali. I loro esponenti chiedevano la fine dell'immigrazione ebraica e l'elezione di un'assemblea rappresentativa. Sfidando l'occupazione britannica, il movimento era di natura anticoloniale, ma esprimeva anche la rivolta sociale delle classi lavoratrici arabe contro la povertà e le condizioni di vita che erano peggiorate dall'inizio degli anni Trenta, con la crisi economica. Nelle campagne, dei contadini si armarono e formarono milizie che attaccarono gli insediamenti ebraici, ma anche i grandi proprietari terrieri arabi. Questi ultimi li sfruttavano e monopolizzavano gran parte dei raccolti attraverso gli affitti che facevano pagare ai loro mezzadri o attraverso i debiti che i contadini avevano contratto e che non erano in grado di rimborsare.
Le classi privilegiate avevano molte ragioni per sentirsi minacciate da questa esplosiva rivolta popolare. All'inizio del movimento fu istituito un Alto Comitato Arabo per cercare di prenderne il comando. Esso riuniva tutti i partiti nazionalisti palestinesi, ognuno dei quali era legato a una diversa famiglia di notabili. Alla sua testa c'era il Gran Muftì di Gerusalemme, un titolo che lo rendeva massima autorità religiosa. Egli stesso proveniva da una delle più potenti famiglie di notabili, gli Husseini. Invitando a boicottare i negozi degli ebrei, l'Alto Comitato intendeva limitare la mobilitazione alla lotta contro la presenza ebraica, che rappresentava una minaccia sociale minore per le classi arabe privilegiate. Svolse quindi un ruolo di moderazione chiedendo, in ottobre, la fine dello sciopero generale. Ma la mobilitazione continuò, assumendo forme insurrezionali.
Per sedare la rivolta araba, le autorità mandatarie dovettero schierare in Palestina un contingente di 30.000 soldati. Scatenarono una guerra di terrore. Più di 20.000 case che ospitavano le famiglie degli insorti furono fatte saltare in aria. Parte dell'antica città araba di Jaffa fu distrutta e dei villaggi furono rasi al suolo. Degli aerei furono usati per bombardare le aree controllate dagli insorti. Quasi 50.000 palestinesi furono arrestati e ammassati in quattordici campi di detenzione e molti, compresi alcuni membri dell'Alto Comitato Arabo, seppure moderato, furono deportati nei possedimenti coloniali britannici, in particolare nelle isole Seychelles. Il numero di palestinesi uccisi, feriti o esiliati ammontò al 10% della popolazione araba.
Mentre i dirigenti palestinesi volevano presentare la rivolta araba come una lotta contro gli ebrei, le organizzazioni sioniste adottarono la stessa logica nazionalista e aiutarono gli inglesi a reprimere le popolazioni arabe. L'Haganah ricevette armi a questo scopo. Dei miliziani ebrei furono addestrati alle tecniche di combattimento dall'esercito britannico e persino integrati in unità appositamente formate per svolgere operazioni rapide e isolate. Questa collaborazione durò a tal punto che nel 1939 la forza di polizia del mandato britannico comprendeva quasi 21.000 ebrei, ovvero il 5% della popolazione ebraica della Palestina.
Questo periodo di rivolta sarebbe potuto sfociare in una lotta comune tra ebrei e arabi contro la presenza coloniale britannica? In ogni caso, le politiche perseguite dalle organizzazioni sioniste e da quelle che presero la direzione della rivolta araba non lo permisero. Al contrario, questo periodo segnò una tappa importante nell'evoluzione che portò i due popoli ad affontarsi, una trappola dalla quale non sarebbero mai usciti.
La Seconda guerra mondiale e le sue conseguenze
I dirigenti britannici non mostrarono gratitudine ai sionisti per il loro aiuto contro la rivolta araba. Con l'avvicinarsi della Seconda guerra mondiale, cercarono di dare un segnale positivo ai nazionalisti arabi nel tentativo di evitare che questi ultimi sostenessero la Germania.
Nel 1939, le autorità britanniche pubblicarono un Libro Bianco in cui, per la prima volta, dichiararono di voler "creare le condizioni che consentiranno di istituire lo stato indipendente di Palestina entro un periodo di dieci anni". Dichiararono inoltre l'intenzione di limitare severamente l'immigrazione ebraica e l'acquisto di terre da parte dei sionisti. Con lo scoppio della guerra, le misure di limitazione dell'immigrazione, lungi dall'essere attenuate, furono ulteriormente inasprite. Nel settembre 1939, le autorità mandatarie decisero di vietare l'ingresso in Palestina ai rifugiati provenienti da "paesi nemici" o "paesi occupati dal nemico". Questo provvedimento era rivolto agli ebrei tedeschi e polacchi, proprio quelli che avevano più bisogno di trovare un rifugio!
Ciò era particolarmente cinico, ma i dirigenti britannici non erano gli unici ad avere questo atteggiamento. In quel momento tutti i paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, adottarono misure per limitare l'immigrazione, colpendo sia gli ebrei sia tutti gli oppositori del nazismo che cercavano disperatamente asilo.
Quando parliamo delle responsabilità del capitalismo nelle tragedie di oggi, dobbiamo ricordare che è stata la crisi di questo sistema a far precipitare l'umanità nell'orrore della Seconda guerra mondiale e a portare alla barbarie dei campi di sterminio dove morirono sei milioni di ebrei.
E dobbiamo ricordare l'atteggiamento degli Alleati nel dopoguerra. I sopravvissuti ai campi di sterminio che si rifiutarono di tornare nei paesi in cui avevano vissuto prima della guerra, perché lì l'antisemitismo era stato particolarmente virulento, furono rinchiusi in altri campi in attesa di un paese disposto ad accoglierli. Ma ottenere un visto d'ingresso non era molto più facile di quanto fosse prima della guerra. Questi "sfollati", come li chiamavano gli Alleati, erano più di 100.000. E tra il 1945 e il 1948, gli Stati Uniti permisero a soli 25.000 ebrei europei di entrare nel loro territorio.
È quindi comprensibile che, in questo contesto e dopo essere sopravvissuti ai campi di sterminio, decine di migliaia di ebrei avessero sperato di trovare in Palestina un luogo dove ricostruire la propria vita.
Il sionismo era rimasto un movimento ultra-minoritario tra gli ebrei europei, che non avevano intenzione di trasferirsi in questa regione povera dove non erano i benvenuti. Ci sono voluti la barbarie delle persecuzioni naziste e dei campi di sterminio e l'indifferenza degli stati occidentali che si dichiaravano democratici, perché decine di migliaia di ebrei si rivolgessero, disperati, alle organizzazioni sioniste. Queste organizzazioni promettevano loro che l'unico modo per evitare di rivivere tali orrori era la creazione di uno stato ebraico, che li avrebbe protetti.
Si trattava di un'aspirazione legittima. Ma non implicava necessariamente che sarebbe stata realizzata contro le popolazioni arabe, derubandole della loro terra e del loro diritto di vivere in Palestina, che era ancora più legittimo a causa della durata della loro presenza in questa regione. In realtà, in questi territori palestinesi c'era spazio per una convivenza armoniosa tra i due popoli, purché nel rispetto dei diritti di ciascuno. Questa avrebbe potuto essere l'occasione per una lotta comune contro il colonialismo britannico, che aveva appena dimostrato fino a che punto disprezzava tanto il destino degli ebrei quanto quello degli arabi. Ma la politica delle organizzazioni sioniste fu una continuazione di quella perseguita durante il periodo mandatario e all'epoca della rivolta araba degli anni Trenta. Grazie alle migliaia di immigrati in arrivo dall'Europa, i movimenti sionisti trovarono le truppe per imporre la creazione di uno stato ebraico contro l'imperialismo britannico, ma anche contro le popolazioni arabe.
I governanti britannici avevano tutte le intenzioni di rimanere in Palestina dopo la guerra. Aumentarono la loro presenza militare fino a 100.000 soldati e cercarono di opporsi all'arrivo degli ebrei dall'Europa. I sionisti risposero creando reti clandestine per trasportare gli ebrei in Palestina. Coloro che furono arrestati venivano rinchiusi in campi sull'isola di Cipro, prima di essere rispediti in Europa.
Le organizzazioni sioniste intrapresero azioni militari contro l'esercito britannico, che oggi chiameremmo azioni terroriste, senza le quali lo stato di Israele non sarebbe stato creato. L'Haganah era un vero e proprio esercito che gli inglesi avevano contribuito ad addestrare militarmente. Un'organizzazione di estrema destra, l'Irgun, rapiva soldati britannici, li uccideva e riempiva i loro cadaveri di esplosivo per provocare ancora più vittime. Arrivò a far saltare in aria l'intero King David Hotel di Gerusalemme, dove si trovava il quartier generale delle forze britanniche. Il capo dell'ala militare era Menachem Begin, che in seguito sarebbe diventato primo ministro di Israele.
I dirigenti delle organizzazioni sioniste si affidarono anche alla loro azione diplomatica, cercando in particolare il sostegno degli Stati Uniti. Di fronte a queste pressioni, e incapace di porre fine ai disordini in Palestina, il governo britannico si rassegnò a ritirare le sue truppe, lasciando alle Nazioni Unite il compito di decidere il destino della regione.
Nascita di Israele ed espulsione dei palestinesi
Il 29 novembre 1947 l'ONU votò un piano di spartizione della Palestina che prevedeva la creazione di uno stato ebraico e di uno stato arabo, primo abbozzo di una soluzione a due stati. Agli ebrei, che rappresentavano solo un terzo della popolazione e occupavano poco più del 10% del territorio palestinese, fu concesso il controllo del 55% della Palestina. Questo piano fu votato dagli Stati Uniti, ma anche dall'Unione Sovietica, le due superpotenze che all'epoca condividevano il desiderio di ridurre l'influenza britannica in Medio Oriente.
Gli stati arabi si opposero a qualsiasi idea di spartizione e respinsero questo piano che, inoltre, avvantaggiava molto le popolazioni ebraiche. I dirigenti dell'Agenzia ebraica dichiararono di accettare il piano delle Nazioni Unite. Ma, in realtà, non intendevano accontentarsi dei confini proposti e si prefiggevano l'obiettivo di occupare il massimo territorio possibile. Si prefiggevano anche l'obiettivo di cacciare il maggior numero possibile di arabi, in modo che gli ebrei fossero la maggioranza nel futuro stato ebraico. Per realizzare questa purificazione etnica fu elaborato con cura un piano, il Piano Daleth, che iniziò ad essere attuato nel dicembre 1947, ancor prima della partenza degli inglesi. Nell'aprile del 1948, le milizie sioniste iniziarono a condurre campagne militari su larga scala, dinamitando sistematicamente i villaggi lungo alcuni percorsi, come quelli tra Tel Aviv e Gerusalemme. Duecento villaggi arabi furono svuotati della loro popolazione. I miliziani dell'Irgun massacrarono 254 abitanti del villaggio di Deir Yasin, uccidendo uomini, donne e bambini. Il loro scopo era quello di terrorizzare gli arabi palestinesi e farli fuggire all'arrivo dei miliziani dell'Haganah. Città come Haifa, Tiberiade, Jaffa e San Giovanni d'Acri persero più del 90% dei loro abitanti arabi.
Il 14 maggio 1948, poche ore prima della partenza delle truppe britanniche e senza attendere il periodo di transizione previsto dal piano delle Nazioni Unite, Ben Gurion proclamò la nascita dello stato di Israele. Il giorno dopo, gli eserciti di diversi stati arabi entrarono in Palestina. Iniziò la prima guerra arabo-israeliana. Gli eserciti arabi furono sconfitti ovunque. Non avevano l'esperienza, il morale e la determinazione delle truppe mobilitate dal nascente stato di Israele. Erano anche più piccoli, con un massimo di 25.000 soldati, rispetto a un esercito israeliano che contava 35.000 soldati alla fine di maggio 1948, saliti a 100.000 alla fine di dicembre 1948. Infine, l'esercito israeliano godette della consegna di armi ed equipaggiamenti moderni dalla Cecoslovacchia, espressione concreta del sostegno sovietico, che contò molto contro gli eserciti arabi poco attrezzati.
La guerra terminò nel luglio 1949, dopo la firma di una serie di armistizi, ma in seguito non fu firmato alcun accordo di pace. I capi di stato arabi non vollero riconoscere ufficialmente l'esistenza di Israele agli occhi della loro opinione pubblica. Continuarono a dichiararsi a favore di una Palestina araba indipendente, ma in realtà si accontentarono della nuova situazione. Si spartirono i territori che, secondo il piano delle Nazioni Unite, avrebbero dovuto formare lo stato palestinese. Re Abdallah di Transgiordania annesse la Cisgiordania. L'Egitto, da parte sua, prese il controllo della striscia di Gaza, istituendovi un'amministrazione ma senza incorporarla ufficialmente nei propri confini. Non rimase nulla dello stato arabo di cui le Nazioni Unite avevano votato la creazione.
Alla fine della guerra, lo stato di Israele controllava il 78% del territorio dell'ex Palestina e la parte occidentale di Gerusalemme. Più di 700.000 palestinesi erano stati espulsi dalle loro terre, in quella che i palestinesi chiamano la Nakba (la Catastrofe). A circa 370 villaggi palestinesi furono dati nomi israeliani per cancellare completamente le tracce dei precedenti occupanti.
I palestinesi espulsi trovarono rifugio nei paesi vicini. Nel 1950, Giordania, Libano e Siria ospitavano quasi 300.000 persone in 35 campi. All'inizio, questi campi sembravano una successione infinita di grandi tende. Man mano che la prospettiva di un ritorno diventava più remota, le tende furono gradualmente sostituite da strutture permanenti. Questi campi esistono ancora oggi, e formano vere e proprie piccole città con migliaia, a volte decine di migliaia di abitanti.
Nel campo di Jenin, in Cisgiordania, vivono più di 15.000 persone. Il più grande è quello di Aïn el-Hélué, in Libano, che ospita più di 54.000 rifugiati registrati, ma certamente più di 100.000 in realtà.
Israele: religione, segregazione, razzismo...
Tra il 1948 e il 1951, il nuovo stato di Israele accolse più di 550.000 immigrati. I primi arrivarono dall'Europa, chiamati ebrei ashkenaziti. Seguirono gli ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, i sefardim (oggi si usa il termine mizrahim). Ma gli ebrei arrivati in questo modo dai paesi arabi non erano considerati molto meglio degli arabi in Israele. Erano ebrei, e questo faceva la differenza rispetto agli arabi palestinesi - ci torneremo più avanti - ma avrebbero costituito gli strati più poveri della società israeliana, occupando posti di lavoro di operai, i meno qualificati e meno pagati.
Il Partito Laburista, che si trovava alla guida di Israele, aveva di fatto creato uno stato come tutti gli altri, con le sue classi sociali, basato come tutti gli altri sullo sfruttamento. Questi militanti che si dichiaravano socialisti non hanno costruito una società socialista, ma non sono stati nemmeno capaci di fondare una repubblica laica, simile a quelle esistenti nei paesi più sviluppati. Il governo laburista creò infatti uno stato in cui la religione aveva un ruolo centrale.
Cercando l'appoggio dei rabbini e dei religiosi, il primo ministro laburista Ben Gurion abbandonò l'idea di dare a Israele una costituzione, perché per i religiosi ebrei l'unico testo di riferimento poteva essere solo la Bibbia! Ben Gurion non si accontentò di questa decisione simbolica. Diede ai religiosi notevoli poteri, lasciando lo stato civile, i matrimoni, i divorzi e tutte le questioni familiari ai tribunali rabbinici. Per questo motivo, in Israele non sono ancora possibili i matrimoni misti tra ebrei e non ebrei. L'unica soluzione è sposarsi all'estero, con il risultato che i figli sono considerati "illegittimi". Anche il divorzio non è riconosciuto e solo il marito ha il diritto di rompere il matrimonio ripudiando la moglie. Ancora oggi, le coppie che si oppongono totalmente a queste pratiche antiquate sono costrette a ricorrervi per separarsi; ma anche per questo devono presentarsi davanti ai rabbini per giustificarsi...
Dal 1948, i rabbini hanno organizzato l'intera vita sociale. Il giorno di riposo settimanale è il sabato, perché è il sabato il giorno in cui, secondo le regole religiose, non è consentita alcuna attività. E ancora oggi i più religiosi continuano a lottare perché tutta la vita in Israele si fermi in questo giorno, compresi i trasporti e il cinema. Il sistema educativo comprende una rete di scuole laiche, ma anche una rete di scuole religiose nonché una rete di scuole ultra-ortodosse. Tutte queste scuole ricevono finanziamenti statali e in ogni caso, anche nelle scuole laiche, le lezioni di religione sono state rese obbligatorie.
Nessun ebreo può evitare di avere a che fare con le istituzioni religiose, ma resta da risolvere lo spinoso problema di stabilire chi sia ebreo... Ciò è tanto più importante in quanto, in base alla Legge del Ritorno approvata nel 1950, ogni ebreo nato a Parigi, New York o altrove che desideri vivere in Israele - fare aliyah, per usare il termine usato dai sionisti, che proviene dal vocabolario religioso - può acquisire la cittadinanza israeliana e quindi ottenere più diritti dei palestinesi le cui famiglie vivono lì da diverse generazioni... Quindi, chi può stabilire chi è ebreo, se non i rabbini! E poiché ci sono molti rabbini, e un rabbino capo per gli ashkenaziti e un altro per i sefarditi, i dibattiti possono durare a lungo... Gli ebrei etiopi hanno dovuto aspettare fino al 1975 perché la loro "ebraicità" fosse riconosciuta ufficialmente! Ma oggi, in quanto neri, affrontano il razzismo e sono vittime della stessa discriminazione degli arabi e degli altri immigrati dall'Africa. Un paese che si prefigge di distinguere tra ebrei e altri, a maggior ragione in una situazione di guerra, è inevitabilmente afflitto dal razzismo.
Gli arabi che non erano fuggiti al momento della creazione di Israele rimasero sotto uno status militare fino al 1966. Questo status li rendeva dipendenti da un governatore militare, al quale dovevano chiedere un lasciapassare per i loro spostamenti e che poteva anche confiscare le loro proprietà e terre. Una volta terminato questo regime speciale, gli arabi palestinesi non potevano ancora godere degli stessi diritti degli ebrei. Infatti, la legge distingue tra le diverse nazionalità dei cittadini israeliani (ebrei, drusi, circassi, cristiani, arabi, ecc.), a cui sono concessi diritti diversi, e solo gli ebrei sono cittadini a pieno titolo in questo senso. Gli arabi israeliani sono considerati potenziali nemici interni e non possono prestare il servizio militare, il che nega loro l'accesso ad alcuni benefici.
Sì, Israele è effettivamente uno stato ebraico nel senso teocratico del termine, dove la religione gioca un ruolo importante come in Arabia Saudita, con tutta la segregazione che ne consegue. Ma mentre il regime saudita è stato creato da capifamiglia beduini che si sono sempre dichiarati musulmani, lo stato israeliano è stato creato da militanti che si dichiaravano socialisti, molti dei quali erano atei. Ma i dirigenti laburisti erano prima di tutto nazionalisti che scelsero di allearsi con le forze più reazionarie in nome dell'unità nazionale. Così facendo, rafforzarono le correnti religiose di destra e di estrema destra che in seguito sarebbero state in grado di estrometterli dal potere e di giocare un ruolo sempre più importante.
Israele diventa il gendarme dell'imperialismo in Medio Oriente
I dirigenti laburisti hanno anche scelto consapevolmente di diventare i gendarmi dell'imperialismo in questa regione, per ottenere il suo sostegno contro gli stati arabi.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il malcontento popolare cresceva in tutto il Medio Oriente contro l'imperialismo e i regimi ad esso legati. Nel 1951, il re Abdallah di Transgiordania, criticato per aver annesso la Cisgiordania, fu assassinato da un palestinese. In Egitto, nel 1952, la monarchia filo-inglese fu rovesciata da un gruppo di ufficiali nazionalisti. Uno di loro, Gamal Abdel Nasser, che alla fine divenne il capo del nuovo regime, nel luglio 1956 nazionalizzò il canale di Suez, controllato fino ad allora da Francia e Regno Unito. Questo annuncio fu accolto con entusiasmo dalla popolazione egiziana.
I dirigenti britannici e francesi, il conservatore Anthony Eden e il socialista Guy Mollet, decisero di organizzare un intervento militare per riprendere il controllo del canale e addirittura rovesciare Nasser. A tal fine, ricevettero proposte di collaborazione da parte del primo ministro israeliano Ben Gurion.
Il 29 ottobre 1956, dichiarando di temere per la propria sicurezza, Israele lanciò un'offensiva contro l'Egitto. Le sue truppe attraversarono il deserto del Sinai e si diressero verso il canale. Il 5 novembre, con il pretesto di frapporsi, un corpo di spedizione franco-britannico fu paracadutato nella zona del canale. Tutto sembrava andare per il meglio e l'Operazione Moschettieri, come era stata chiamata, si preannunciava come un successo... eppure, il giorno dopo, fu chiaro che i tre moschettieri erano caduti su un ostacolo e avevano perso la partita! La reazione delle superpotenze americana e sovietica fu immediata: una dopo l'altra, chiesero la fine dell'intervento militare. I governi francese e britannico dovettero ottemperare alle loro ingiunzioni e ritirare i loro soldati.
L'imperialismo americano voleva dimostrare ai suoi alleati, ma comunque rivali, che d'ora in poi sarebbe stato lui e solo lui a decidere il destino di questa regione e dei governi al potere.
Ben Gurion, a quanto pare, aveva sperato di mantenere i territori conquistati. Questa volta non fu possibile. L'esercito israeliano li evacuò e l'Egitto riprese possesso del deserto del Sinai. Sebbene sconfitto militarmente, Nasser uscì politicamente rafforzato da questa prova di forza. Agli occhi delle masse arabe, questo lo rese il campione della lotta contro la dominazione imperialista e la sua popolarità fu enorme negli anni successivi. Nasser era un dirigente nazionalista che cercava di allentare la morsa dell'imperialismo al solo scopo di servire gli interessi delle classi dirigenti egiziane. Altri regimi nel mondo arabo, in particolare in Siria e in Iraq, cercarono di seguire la stessa strada. Di fronte a loro, i governanti di Washington si convinsero, dopo l'avventura di Suez, di poter usare Israele per difendere i loro interessi contro gli stati arabi. Il governo israeliano aveva dimostrato di essere pronto a farlo e di essere in grado di mobilitare la sua popolazione in una guerra contro uno stato arabo, presentandola come necessaria per la sopravvivenza di Israele. Ci vollero ancora alcuni anni prima che i dirigenti americani decidessero di dare il loro appoggio incondizionato al governo israeliano.
La svolta decisiva e definitiva, almeno fino ad oggi, avvenne nel giugno 1967. Approfittando di uno degli episodi di tensione che si verificavano regolarmente con la Siria e l'Egitto, l'esercito israeliano lanciò un'offensiva lampo e ottenne una vittoria schiacciante in meno di una settimana, da cui il nome che le è rimasto: la Guerra dei Sei Giorni. Sostenuto dall'appoggio americano, lo stato israeliano poté adottare un atteggiamento intransigente nei confronti degli stati arabi, decidendo di mantenere il controllo dei territori conquistati.
La parte orientale di Gerusalemme fu annessa e la città riunificata divenne la capitale di Israele. Le alture del Golan, al confine con la Siria, furono occupate prima di essere annesse pochi anni dopo, nel 1981. Gli altri territori occupati, la Cisgiordania e Gaza, non furono annessi. Ufficialmente, i dirigenti israeliani dissero di volerli usare come merce di scambio per futuri negoziati di pace. Ma non era l'unica ragione. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, più di 300.000 palestinesi della Cisgiordania fuggirono in Giordania, in particolare quelli i cui villaggi o campi profughi erano stati distrutti. Ma, a differenza del 1948, la maggioranza degli abitanti dei territori conquistati nel 1967 rimase; si trattava di oltre un milione di persone. L'annessione di questi territori avrebbe quindi aumentato notevolmente la percentuale di cittadini non ebrei in Israele, cosa che il governo israeliano non poteva assolutamente immaginare.
Fu quindi istituita un'amministrazione dei Territori Occupati sotto la direzione dell'esercito. I governi laburisti dell'epoca iniziarono ben presto a incoraggiare la creazione di insediamenti ebraici per rafforzare e perpetuare la loro presenza. Negli anni a venire, questo movimento di colonizzazione avrebbe giocato un ruolo importante nell'evoluzione sempre più a destra dell'intera società israeliana.
Di fronte al discredito degli stati arabi, la rivolta palestinese
La Guerra dei Sei Giorni ebbe anche molte conseguenze politiche per i palestinesi. Portò a Nasser e a tutti i capi di stato arabi un grave discredito tra le masse popolari del Medio Oriente. Ciò fu particolarmente vero per la giovane generazione di palestinesi cresciuti nei campi dopo il 1948.
Come tutte le loro famiglie, questi giovani avevano sperimentato condizioni di vita molto difficili, ma avevano potuto godere di istruzione e formazione scolastica. L'ONU aveva istituito l'UNRWA, un'agenzia che si occupava specificamente dei rifugiati palestinesi, e aveva aperto scuole in tutti i campi. Di conseguenza, il tasso di scolarizzazione dei palestinesi era il più alto del Medio Oriente, anche se erano trattati come paria nei paesi in cui vivevano. Queste scuole non erano religiose e, per di più, erano miste, cosa eccezionale per quell'epoca.
Così queste donne e questi uomini si trovarono privi di qualsiasi prospettiva, prigionieri di un campo profughi, ma avevano ricevuto l'educazione necessaria per esserne consapevoli e per capirne le cause.
C'erano tutte le condizioni per forgiare una generazione di ribelli, persino di rivoluzionari. Decine di migliaia di giovani palestinesi intrapresero la lotta, determinati a combattere e a rischiare la vita. Volevano lottare per i loro diritti di palestinesi, ma molti volevano anche una rivoluzione che abbracciasse l'intero mondo arabo. Diventando Fedayeen, come venivano chiamati ("combattenti pronti al sacrificio"), entrarono a far parte delle organizzazioni palestinesi e delle milizie armate che esse avevano creato.
Tutti i movimenti palestinesi furono raggruppati nell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l'OLP, costituita nel 1964. Inizialmente, l'OLP era un'emanazione degli stati arabi, in particolare dell'Egitto. Dopo la sconfitta del 1967, che dimostrò il fallimento militare di questi stati, alcuni gruppi palestinesi decisero di condurre da soli la lotta armata, utilizzando le proprie risorse. Crearono dei commando che penetravano in Israele per compiere attentati. Nel marzo 1968, i Fedayeen di Fatah, il movimento creato da Yasser Arafat, riuscirono a contrastare le forze israeliane, in superiorità numerica, che avevano lanciato un attacco al villaggio giordano di Karameh. La battaglia di Karameh conferì a Fatah un'aura speciale, consentendogli di rafforzare la sua influenza all'interno dell'OLP, al punto che Arafat riuscì ad assumere la guida dell'OLP nel 1969.
Le masse arabe guardavano ai palestinesi e ammiravano il coraggio e lo spirito combattivo di questi Fedayeen, che rappresentavano un esempio. In questo periodo di turbolenze e contestazioni crescenti, i palestinesi erano un fermento rivoluzionario e, anche senza la volontà dei loro dirigenti, risvegliavano le speranze degli sfruttati del mondo arabo, che si riconoscevano nella loro lotta. Negli anni Settanta, i palestinesi si trovavano in una situazione che avrebbe potuto renderli l'avanguardia di una rivoluzione il cui obiettivo sarebbe potuto essere quello di porre fine alla morsa dell'imperialismo in questa regione e che, diffondendosi in tutto il Medio Oriente, avrebbe potuto spazzare via le classi dirigenti arabe e i loro regimi dittatoriali e corrotti. La dispersione dei palestinesi in molti paesi dava loro l'opportunità di promuovere questa lotta. Perché ciò avvenisse, un'organizzazione avrebbe dovuto avere la volontà di guidare la lotta delle masse arabe con un tale programma. Ma la politica dell'OLP non fu affatto quella di cercare di sfruttare queste possibilità rivoluzionarie, tutt'altro.
Arafat era un combattente, che aveva guidato le operazioni militari a Karameh. Ma era un nazionalista piccolo-borghese e la lotta armata che propugnava non mirava affatto a rovesciare l'imperialismo, e neanche a sconvolgere l'ordine sociale e politico del Medio Oriente. Il suo obiettivo si limitava alla creazione di uno stato che potesse rappresentare la borghesia palestinese accanto alle altre borghesie arabe, con la sua bandiera e il suo apparato amministrativo e militare, che sarebbe esistito nel quadro dell'ordine imperialista e dei suoi confini di stato.
L'OLP rivendicava la creazione di questo stato su tutto il territorio occupato da Israele. Ma cosa ne sarebbe stato degli ebrei israeliani in un tale stato? Secondo lo statuto del movimento, gli unici ebrei che vi avrebbero trovato posto erano quelli "che vivevano normalmente in Palestina prima dell'invasione sionista". A quando bisognava risalire? E cosa ne sarebbe stato degli altri? Nella loro logica nazionalista, i dirigenti palestinesi hanno rifiutato di riconoscere il diritto a un'esistenza nazionale per gli ebrei che ora vivono in Palestina. In questo modo hanno contribuito a rafforzare i governi israeliani che, sostenendo che i palestinesi volevano "gettare gli ebrei in mare", hanno presentato la loro politica di guerra come l'unica risposta possibile a tale minaccia.
Inoltre, la lotta armata sostenuta da Arafat consisteva nell'organizzare attacchi contro i soldati israeliani, oltre a attentati, mitragliamenti di autobus e prese di ostaggi, talvolta nelle scuole. Queste azioni non potevano che rafforzare il riflesso di unità nazionale della popolazione israeliana dietro il suo governo. Ma questo non preoccupava Arafat, che era consapevole di tutto ciò e anche del fatto che i commando palestinesi non sarebbero stati sufficienti a sconfiggere l'esercito israeliano. Organizzando azioni armate, egli cercava il riconoscimento degli stati arabi e il loro sostegno diplomatico sulla scena internazionale. Inoltre, il suo obiettivo era quello di ottenere il riconoscimento delle grandi potenze, che voleva convincere ad accettare la creazione di uno stato palestinese.
Le azioni condotte dai commando avevano anche un altro interesse politico. Le condizioni di clandestinità dovute alla repressione israeliana permettevano di giustificare la creazione di un apparato militare lontano dal controllo delle stesse masse palestinesi. E questo era un aspetto importante agli occhi di Arafat, che in questo modo gettava le basi di un futuro apparato statale che sarebbe stato in grado di governare sulla sua popolazione, ed eventualmente di reprimerla.
All'interno dell'OLP, alcune organizzazioni si dichiaravano marxiste, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) di George Habash e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) di Nayef Hawatmeh, che era una scissione del FPLP. Ma pur dichiarandosi marxisti, questi gruppi non consideravano affatto che i lavoratori avessero un ruolo nella loro lotta da svolgere come classe, e soprattutto non un ruolo di guida. Si sono mantenuti sul terreno esclusivo della lotta contro Israele, facendo un ulteriore passo avanti nell'organizzazione di attentati o prese di ostaggi molto visibili. Ad esempio, il FPLP creò un'unità specializzata nel dirottamento di aerei. Sembrava più radicale, ma non proponeva una politica realmente diversa da quella del Fatah di Arafat e, come quest'ultimo, il suo obiettivo era cercare di affermarsi nel gioco diplomatico, cercando il sostegno degli stati arabi.
Il massacro del Settembre nero
Ma questi stati arabi si dimostrarono nemici capaci di avere contro i palestinesi la stessa ferocia dello stato israeliano. Erano sospettosi dei Fedayeen, che appartenevano a organizzazioni e milizie che rifiutavano il controllo delle autorità locali e non esitavano a sfidarle. A prescindere dalla politica dei dirigenti dell'OLP, e anche nonostante la loro politica di ricerca dell'alleanza degli stati arabi, questi Fedayeen palestinesi rappresentavano una minaccia che i capi di stato arabi cercavano di ridurre con tutti i mezzi possibili.
La prima volta che ciò accadde fu in Giordania. In questo paese i palestinesi rappresentavano la metà della popolazione. Alcuni erano arrivati a occupare posizioni di responsabilità all'interno dell'apparato statale. Le milizie palestinesi contavano 40.000 Fedayeen e non esitavano a sfidare apertamente le autorità giordane, con le quali si comportavano sempre più come un potere indipendente e persino concorrente. I militanti palestinesi non avevano motivo di rispettare il re di Giordania, Hussein, erede della famiglia hashemita, che traeva il suo potere dagli inglesi e il cui regime era basato su strutture feudali.
Deciso a smantellare le organizzazioni dei Fedayeen, Hussein lanciò il suo esercito contro i campi palestinesi il 12 settembre 1970, utilizzando veicoli blindati e l'aviazione. Nonostante la superiorità militare, l'esercito impiegò diversi giorni per vincere la resistenza dei Fedayeen. Ma i Fedayeen furono abbandonati a se stessi dai dirigenti dell'OLP, che cercarono di prendere tempo. L'esercito giordano disarmò i combattenti palestinesi e compì dei massacri per ottenere che il maggior numero possibile di loro fugga in un altro paese. In totale, furono uccise più di 5.000 persone.
Questi massacri del "settembre nero", come furono chiamati, non impedirono Arafat di partecipare, il 27 settembre, ad un incontro di "riconciliazione" organizzato da Nasser alla vigilia della sua morte. Mentre dei combattimenti erano ancora in corso, Arafat strinse spettacolarmente la mano a Hussein, come se si fosse trattato di un semplice malinteso, pagato con migliaia di morti da parte palestinese. Con questo gesto e con tutto il suo atteggiamento durante questi eventi, Arafat voleva dimostrare a tutti i capi di stato arabi che era un dirigente affidabile e responsabile e che non intendeva mettere in pericolo il loro potere, qualunque fosse il prezzo da pagare per il suo movimento.
La maggior parte dei combattenti palestinesi di Giordania si rifugiò in Libano e l'OLP stabilì il suo quartier generale nella capitale, Beirut. È in questo paese che si consumò un altro atto decisivo del movimento dei Fedayeen.
I palestinesi al centro della guerra civile libanese
Il Libano era soprannominato la "Svizzera del Medio Oriente" perché una borghesia, composta principalmente da cristiani maroniti, godeva di un insolente benessere. Ma migliaia di uomini e donne vivevano in baraccopoli alla periferia di Beirut, in condizioni che non avevano nulla da invidiare a quelle dei campi palestinesi. Di conseguenza, per la maggior parte della popolazione, la situazione politica e sociale del Libano non era in alcun modo paragonabile a quella della pacifica Svizzera.
I palestinesi si trovarono al centro della guerra civile scoppiata nel 1975. Inizialmente, essa contrappose la fazione più reazionaria degli strati privilegiati cristiani, i falangisti delle milizie di estrema destra, alle masse più povere, compresi i palestinesi. Ma Arafat si rifiutò di assumere politicamente questa lotta. Nel giugno 1975, dichiarò che il "vero campo di battaglia" era in Palestina e che quanto stava accadendo in Libano era "una battaglia marginale che avrebbe deviato [la rivoluzione palestinese] dal suo vero cammino".
Nonostante gli sforzi di Arafat, il Libano divenne un campo di battaglia per l'OLP, perché questa organizzazione non poteva restare in disparte, un campo di battaglia in cui si trovò associata a una coalizione di forze cosiddette "palestinesi-progressiste", e un campo di battaglia in cui dovette confrontarsi con uno stato arabo, la Siria, che fino ad allora era sembrato uno dei più impegnati a favore della causa palestinese. Quando l'esercito siriano entrò in Libano, nel giugno 1976, diede il suo appoggio alle milizie cristiane di estrema destra in un momento in cui sembravano in difficoltà, impedendo ai palestinesi e ai loro alleati di vincere. In questo modo, i dirigenti siriani cercarono di far prevalere i propri interessi in Libano. Ma svolgendo il ruolo di poliziotto, garante della stabilità regionale e capace di mettere in riga i palestinesi, la Siria faceva anche un gesto nei confronti delle potenze imperialiste, proponendosi come interlocutore responsabile che non poteva essere ignorato.
Dopo la Siria, fu Israele a completare la distruzione delle forze dell'OLP in Libano. A partire dal 1978, l'esercito israeliano iniziò a compiere incursioni in Libano e occupò il sud del paese. Nel giugno 1982, più di 100.000 soldati israeliani lanciarono un'offensiva su larga scala che li portò fino a Beirut. L'obiettivo dichiarato era quello di distruggere completamente le capacità militari dell'OLP. La capitale libanese fu assediata e bombardata giorno e notte. Quasi 30.000 persone furono uccise. In seguito a un accordo raggiunto con il patrocinio di un emissario americano, Arafat riuscì a lasciare Beirut e trovò rifugio a Tunisi. Ma della forza militare dell'OLP in Libano non era rimasto nulla: 15.000 Fedayeen erano stati evacuati, ma avevano dovuto accettare di essere disarmati prima di essere dispersi in tutto il Medio Oriente.
Dopo la partenza dei combattenti, quando i palestinesi non erano più in grado di difendersi, le milizie cristiane di estrema destra entrarono nei campi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, e compirono massacri per due giorni, dal 16 al 18 settembre 1982. Ciò avvenne con la complicità delle forze armate israeliane, che permisero ai miliziani cristiani di attraversare le loro linee e addirittura illuminarono i campi di notte affinché i massacri potessero continuare. I palestinesi contarono oltre 3.000 vittime, la maggior parte delle quali donne e bambini.
All'epoca il governo israeliano era guidato da Begin, ex terrorista dell'Irgun, e il suo ministro della Difesa era l'ex generale Ariel Sharon, che fu allora soprannominato il "Macellaio di Beirut". Riuscirono a espellere i combattenti dell'OLP dal Libano. Ma aprirono anche la strada al movimento islamista fondamentalista Hezbollah (il Partito di Dio). Creato nel 1982, al momento dell'invasione israeliana, questo partito fondamentalista, reazionario e anticomunista, che assassinava i militanti che gli si opponevano, riuscì a guadagnare sempre più popolarità conducendo una guerriglia contro la presenza dei soldati israeliani nel sud del Libano. L'esercito israeliano fu infine costretto a evacuare il Libano meridionale nel maggio 2000, dopo 22 anni di occupazione. Da allora, Hezbollah si è insediato stabilmente al confine con Israele ed è diventato uno dei principali partiti del Libano.
Questa serie di sconfitte e massacri aveva indebolito notevolmente l'OLP. Ma i dirigenti delle grandi potenze non volevano che scomparisse. Nel 1974, Arafat ottenne persino un seggio di osservatore all'ONU e poté tenere un discorso all'Assemblea generale. Per i capi di stato occidentali, Arafat era un interlocutore responsabile da tenere in riserva, nel caso in cui fosse necessario fargli svolgere il ruolo di pompiere di fronte a una rivolta palestinese. Ed è quello che successe alla fine degli anni '80, con lo scoppio dell'intifada nei territori occupati da Israele.
L'intifada del 1987 e le sue conseguenze
Durante i primi vent'anni di occupazione israeliana, non ci furono grandi rivolte in Cisgiordania o a Gaza. Sebbene questi territori non siano stati annessi, furono integrati nell'economia israeliana. I palestinesi ottenevano facilmente permessi di lavoro che consentivano loro di recarsi in Israele e di occupare i posti di lavoro meno retribuiti nell'edilizia, nella ristorazione, nelle fabbriche e nelle aziende agricole.
Ma per ottenere un permesso di lavoro, dovevano passare attraverso l'amministrazione militare. E questo valeva per tutte le procedure. L'esercito israeliano si vantava di praticare un'occupazione umana, ma non esiste un'occupazione umana che rispetti le popolazioni! I palestinesi dovevano sopportare trattamenti arbitrari e umiliazioni continue. Chi era sospettato di simpatie per l'OLP veniva perseguitato, così come la sua famiglia. L'esercito israeliano usava il ricatto per costringere alcuni a collaborare e a denunciare altri palestinesi, a volte anche all'interno della loro stessa famiglia. Migliaia di palestinesi furono arrestati, detenuti arbitrariamente, picchiati e torturati. Ripetendo la pratica delle forze di occupazione britanniche durante il periodo del mandato, l'esercito israeliano ha sistematicamente fatto saltare in aria le case dei militanti dell'OLP, privando le loro famiglie di un alloggio.
Questa situazione opprimente finì per provocare un'esplosione di rabbia in tutti i Territori Occupati, soprattutto tra i giovani. La prima Intifada (« sollevamento » in arabo), come venne chiamata questa rivolta, iniziò nel dicembre 1987. Per diversi anni, giovani palestinesi, spesso di età inferiore ai 15 anni, affrontarono l'esercito israeliano con fionde come uniche armi. Si è parlato della "guerra delle pietre". Ma da parte israeliana, i soldati rispondevano sparando munizioni vere. Il ministro della Difesa israeliano, Itzhak Rabin, del partito laburista, ordinò alle sue truppe di "rompere le ossa" ai lanciatori di pietre.
Ma questa repressione, che provocò migliaia di morti, alimentò ancora di più la rabbia e l'odio dei palestinesi. Fu l'esercito israeliano a logorarsi e a demoralizzarsi. Al suo interno i giovani soldati che prestavano il servizio militare erano sempre meno in grado di capire perché venivano trasformati in aguzzini. Una minoranza si è persino rifiutata di prestare servizio nei Territori Occupati. Questi "refuznik", come venivano chiamati, venivano spesso condannati alla prigione.
Questo sviluppo portò i dirigenti israeliani a cambiare atteggiamento nei confronti delle organizzazioni palestinesi. Iniziarono i negoziati, cosa che fino ad allora si erano totalmente rifiutati di fare. Il 13 settembre 1993, sotto gli auspici del Presidente americano Clinton, Arafat e il laburista Rabin, che era diventato primo ministro dopo aver vinto le elezioni un anno prima, firmarono il primo accordo di Oslo, dal nome della capitale norvegese dove si era svolta la maggior parte dei negoziati.
Gli accordi di Oslo e la creazione dell'Autorità Palestinese
Questo testo prevedeva l'istituzione di un'Autorità Palestinese su aree autonome e un calendario di negoziati che avrebbe dovuto portare alla creazione di uno stato palestinese entro i confini della Cisgiordania e di Gaza, facendo risorgere lo stato arabo nato morto nel 1947. Nel settembre 1995 fu firmato un secondo accordo, l'accordo di Oslo II, che definiva lo status della Cisgiordania, dividendola in tre zone. Solo le zone A e B furono gestite dall'Autorità Palestinese, mentre la terza zona, che rappresenta oltre il 60% della Cisgiordania, comprese tutte le colonie, rimase sotto il controllo dell'esercito israeliano.
Dopo anni di occupazione e umiliazione, le aspettative dei palestinesi erano alte: sentivano di aver ottenuto una vittoria. Ma era certamente di questo sentimento che i dirigenti israeliani diffidavano. Volevano mantenere il controllo della situazione e continuare a dimostrare che il rapporto di forza era ancora a loro favore. Non appena furono firmati gli accordi con l'OLP, Rabin organizzò le prime chiusure dei Territori Occupati, tagliando fuori la Cisgiordania e Gaza dal resto del mondo e vietando ai palestinesi di entrare in Israele.
Questa dura presa di posizione nei confronti dei palestinesi aveva anche lo scopo di rassicurare la destra e l'estrema destra israeliana. Quest'ultima si impegnò in campagne di odio contro Rabin, chiedendo il suo assassinio. Una di esse ebbe infine successo nel novembre 1995, dopo la firma del secondo accordo di Oslo. Rabin non era mai stato una "colomba", come venivano chiamati i dirigenti israeliani più moderati. Era sempre stato un "falco", cioè un sostenitore della linea dura, dell'intransigenza verso i palestinesi. Ma il solo fatto di aver riconosciuto l'OLP come interlocutore lo aveva reso un uomo da abbattere, letteralmente, agli occhi dell'estrema destra nazionalista.
I dirigenti israeliani hanno davvero pensato di spingersi fino al riconoscimento di un vero e proprio stato palestinese? È lecito dubitarne, visto l'atteggiamento tenuto nel settennato tra il 1993 e il 2000. Si è parlato di un cosiddetto "processo di pace" perché, a differenza del periodo precedente, gli emissari israeliani hanno accettato di incontrare i rappresentanti dell'OLP in vertici successivi, senza ottenere alcun risultato.
In realtà, a seguito dell'intifada, che li aveva messi in difficoltà, i dirigenti israeliani erano stati costretti a concedere un embrione di stato ai palestinesi. L'Autorità Palestinese ebbe sede a Ramallah, in Cisgiordania, e disponeva di un'amministrazione e, soprattutto, di una forza di polizia: dei 135.000 dipendenti pubblici che alla fine costituirono l'Autorità Palestinese, la metà lavorava nei vari servizi di sicurezza. Questa forza di polizia ha rapidamente acquisito la reputazione di essere peggiore dell'esercito israeliano, con il quale collaborava per reprimere i militanti troppo irrequieti. Da questo punto di vista, l'obiettivo dei dirigenti israeliani fu raggiunto. E nessuno dei successori di Rabin, dopo il 1995, ha voluto andare oltre questa autonomia molto limitata, che ha trasformato alcuni palestinesi in tutori dell'ordine e ausiliari dell'esercito israeliano.
Durante il periodo del cosiddetto processo di pace, le condizioni di vita della maggior parte della popolazione dei Territori Occupati non hanno fatto che peggiorare, la repressione si è inasprita e la colonizzazione non si è mai fermata un attimo. La Cisgiordania è stata definita un territorio "a pelle di leopardo", a causa della frammentazione causata dalla presenza di colonie ebraiche, che era escluso potessero essere sotto il controllo palestinese.
Ma anche se si trattava di uno stato fantasma, non riconosciuto ufficialmente come stato a sé stante, l'Autorità Palestinese serviva gli interessi di pochi privilegiati, nei limiti delle sue limitate risorse. C'erano tutti coloro che potevano trarre profitto dal clientelismo, funzionari pubblici in grado di ottenere tangenti. C'erano anche dei veri e propri borghesi, discendenti delle vecchie famiglie di notabili palestinesi, che, vivendo nei paesi del Golfo, misero le mani sulle società di import-export sorte dopo il 1995. L'Autorità Palestinese aveva i suoi "nuovi ricchi", i suoi "nuovi nababbi", come venivano chiamati, mentre la maggioranza della popolazione palestinese viveva nella disoccupazione e in condizioni di vita sempre più difficili.
Tra i palestinesi, la delusione fu grande quanto le aspettative erano state numerose, e portò al discredito di Fatah. L'organizzazione islamista Hamas vide crescere il suo pubblico, godendo del fatto che non aveva mai accettato di riconoscere gli accordi di Oslo.
Dai Fratelli Musulmani alla nascita di Hamas
I membri fondatori di Hamas provenivano dai Fratelli Musulmani, una confraternita religiosa sorta in Egitto prima della Seconda guerra mondiale. Quando nel 1970 crearono un'associazione islamista a Gaza, le autorità di occupazione israeliane permisero loro di sviluppare le loro attività per diminuire l'influenza dell'OLP. Hanno potuto aprire luoghi di preghiera, che erano anche veri e propri centri sociali, con dispensari, sale sportive e distribuzioni di pasti a beneficio degli abitanti dei campi profughi. Nel 1978, l'amministrazione israeliana ha autorizzato la creazione di un'università islamica a Gaza, che nel corso degli anni ha formato migliaia di militanti islamisti. Negli anni '80, per consolidare il loro controllo sulla popolazione, i Fratelli Musulmani hanno intrapreso campagne di intimidazione contro i "miscredenti", coloro che bevevano alcolici o manifestavano il loro ateismo. L'amministrazione israeliana chiudeva un occhio perché era ben contenta di vedere i militanti dell'OLP attaccati da islamisti che non facevano nulla per opporsi all'occupazione israeliana.
Ma con lo scoppio della prima intifada, i Fratelli Musulmani si resero conto che se volevano mantenere la loro influenza non potevano più limitarsi alla propaganda religiosa, anche se ciò significava perdere la relativa immunità di cui avevano goduto fino ad allora. Nel dicembre 1987, crearono Hamas (sigla del Movimento di Resistenza Islamica). Trasformarono così la loro associazione in un partito chiaramente impegnato a combattere l'occupazione israeliana e a rivendicare apertamente la creazione di uno stato palestinese basato sulla legge islamica.
Nel 1993, Hamas si dissociò dall'OLP esprimendo la sua opposizione agli accordi di Oslo. Ma la sua influenza rimase limitata nel periodo in cui la maggioranza dei palestinesi accolse con favore la creazione dell'Autorità Palestinese. La situazione cambiò con lo scoppio della seconda intifada nel settembre 2000.
La seconda intifada
La seconda intifada non ebbe il carattere di esplosione di rabbia incontrollata che aveva avuto quella della fine degli anni Ottanta. Molti dei giovani più indignati aderirono ad Hamas e ad altre organizzazioni islamiste che si erano opposte agli accordi di Oslo, come la Jihad islamica, che proveniva anche essa dalla corrente dei Fratelli Musulmani. Le azioni che erano proposte loro consistevano nel compiere attacchi suicidi con l'obiettivo di uccidere il maggior numero possibile di persone, facendosi saltare in aria in luoghi pubblici, sugli autobus. Questa forma disperata di lotta era particolarmente sterile. Ma le organizzazioni islamiste cercavano solo di darsi un'immagine di combattenti e di aumentare così la loro influenza tra i palestinesi.
Il numero crescente di attacchi suicidi creò un sentimento di terrore tra gli israeliani e alimentò l'odio verso i palestinesi. Il dirigente di destra Ariel Sharon divenne Primo Ministro nel febbraio 2001, facendo leva su questi sentimenti e presentandosi come l'uomo che avrebbe portato la sicurezza intensificando la repressione contro i palestinesi.
Tornando alla politica dei governi israeliani precedenti agli accordi di Oslo, Sharon rifiutò ogni contatto con l'OLP e lanciò una feroce repressione. L'esercito israeliano dispiegò i carri armati in Cisgiordania, bombardò le città palestinesi e addirittura rase al suolo interi quartieri con i bulldozer. La sede dell'Autorità Palestinese a Ramallah, dove risiedeva Arafat, fu assediata per due anni, privandola a volte di acqua e di elettricità.
Sharon non aveva intenzione di annettere l'intera Cisgiordania. Intraprese la costruzione di un muro, chiamato "barriera di separazione" dalle autorità israeliane, che presentò come destinato a porre fine agli attacchi terroristi separando israeliani e palestinesi una volta per tutte. Il suo tracciato includeva 65 colonie da parte israeliana, ma anche 11.000 palestinesi e la maggior parte dei 250.000 palestinesi di Gerusalemme Est.
Continuare l'occupazione di Gaza stava diventando troppo difficile e costoso. Sharon annunciò un piano di disimpegno unilaterale da Gaza, senza discuterne l'attuazione con l'Autorità Palestinese.
L'esercito israeliano lasciò Gaza e le sue colonie ebraiche furono smantellate. Sharon non esitò a mandare l'esercito a sloggiare i coloni che si rifiutavano di andarsene. Nell'agosto 2005, per giustificare la sua decisione, dichiarò alla televisione israeliana: "Non possiamo tenere Gaza per sempre. Più di un milione di palestinesi vivono lì in campi profughi sovraffollati, nella povertà, senza speranza". Ben consapevole della situazione degli abitanti di Gaza, Sharon sapeva perfettamente che stava correndo il rischio di spianare la strada verso il potere agli islamisti di Hamas. Probabilmente ciò faceva anche parte del suo calcolo, in quanto era un modo per indebolire l'OLP. In ogni caso, lo stato israeliano mantenne il controllo dei punti di passaggio e dello spazio aereo e marittimo di Gaza, trasformando un territorio largo poco più di 12 km e lungo 42 km in un'immensa prigione di cui conservava le chiavi.
Gaza: la popolazione sottoposta al blocco israeliano e alla dittatura di Hamas
Alla fine della seconda intifada, una violenta lotta per il potere, accompagnata da scontri armati, contrappose Fatah, completamente screditato, ad Hamas. Facendo affidamento sulle sue forze di polizia e con il sostegno di Israele, Fatah è riuscito a mantenere il potere in Cisgiordania. Il suo dirigente, Mahmud Abbas, è succeduto ad Arafat, morto nel 2004, come presidente dell'Autorità Palestinese. Ma è un presidente che in realtà controlla ben poco al di fuori di Ramallah, la sua "capitale".
A Gaza, nel 2007, disponendo di forze superiori, Hamas è riuscito a prendere il potere e a eliminare completamente Fatah. Controlla un piccolo apparato statale, con 40.000 dipendenti pubblici ufficialmente registrati. Gran parte di questi, come in Cisgiordania, appartengono alle milizie armate che impongono la loro dittatura agli abitanti di Gaza e cercano di far rispettare l'ordine morale degli islamisti.
Il rafforzamento delle organizzazioni islamiste e delle loro idee reazionarie nella popolazione palestinese rappresenta un notevole passo indietro sotto tutti i punti di vista. L'OLP riuniva organizzazioni laiche e persino di stampo socialista, come abbiamo visto; al loro interno non vi erano distinzioni religiose tra i militanti; i cristiani rappresentano il 15% della popolazione palestinese che vive in Israele. L'influenza acquisita dall'islamismo rappresenta un'involuzione per le donne, molte delle quali, grazie alla loro istruzione e alla loro partecipazione alla lotta politica, avevano acquisito un posto alla pari con gli uomini all'interno delle organizzazioni palestinesi.
Ma soprattutto, i cittadini di Gaza hanno dovuto subire la politica terrorista dei dirigenti israeliani. Dal 2007 in poi, essi hanno sottoposto la Striscia di Gaza a un blocco talvolta quasi totale. A causa della mancanza di carburante per alimentare i generatori, si sono verificate regolari interruzioni di corrente, che hanno anche privato gli abitanti dell'acqua potabile, poiché gli impianti di desalinizzazione non potevano più funzionare. Per oltre dieci anni la maggior parte degli abitanti di Gaza è sopravvissuta esclusivamente grazie agli aiuti alimentari distribuiti dalle organizzazioni umanitarie.
Negli ultimi 15 anni, inoltre, gli abitanti di Gaza sono stati sottoposti a operazioni militari e bombardamenti successivi. Ogni volta i dirigenti israeliani hanno affermato di rispondere ai razzi lanciati da Gaza e di voler indebolire Hamas. Ma, grazie a questo stato di guerra permanente, hanno al contrario permesso ad Hamas di consolidare il suo potere e di mettere a tacere qualsiasi dissenso. È con il loro accordo che il Qatar e l'Iran hanno potuto inviare fondi ad Hamas per pagare i suoi dipendenti pubblici.
Permettere ad Hamas di rimanere al potere a Gaza è stato un modo per indebolire l'Autorità Palestinese. Da parte dei dirigenti israeliani, si trattava semplicemente di una continuazione della politica che li aveva portati a incoraggiare lo sviluppo di correnti islamiste per contrastare l'OLP negli anni Settanta.
È stato un calcolo cinico che la popolazione palestinese ha pagato a caro prezzo. Ma anche la popolazione ebraica israeliana ha pagato caro, perché il rafforzamento di Hamas e delle correnti islamiste ha alimentato la stessa evoluzione politica in Israele, con la crescente influenza dell'estrema destra nazionalista e religiosa.
Netanyahu sempre più ostaggio dell'estrema destra
L'attuale capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, è riuscito, con qualche intermezzo, a mantenere la carica di primo ministro dal 2009, battendo il record di longevità precedentemente detenuto da Ben Gurion. Ma per farlo ha dovuto trovare il sostegno dell'estrema destra, che ha contribuito a rafforzare, e da cui è diventato sempre più dipendente.
Al termine delle elezioni del novembre 2022, per ottenere la maggioranza alla Knesset, il parlamento israeliano, Netanyahu ha dovuto formare una coalizione di governo con i partiti ultranazionalisti e religiosi di estrema destra, che anche in Israele vengono spesso definiti la versione ebraica di Hamas.
Il principale di questi partiti, il Sionismo religioso, che ha aumentato la sua quota di voti dal 4% al 10% alle elezioni legislative, è diventato la terza forza politica. Il suo leader, Bezalel Smotrich, sostenitore dello sviluppo delle colonie ebraiche in Cisgiordania e lui stesso residente in una colonia, è diventato ministro delle Finanze. Inoltre, è stato creato un ministero appositamente per lui, all'interno del Ministero della Difesa, per consentirgli di sostenere la creazione di colonie ebraiche in Cisgiordania.
Si dice favorevole all'annessione della Giudea e della Samaria, i nomi biblici della Cisgiordania, in un Grande Israele. Non fa mistero del suo razzismo, dichiarando di non accettare che sua moglie partorisca accanto a una donna araba. Infine, per completare il ritratto del suo personaggio, si descrive lui stesso come un "fascista omofobo".
Il dirigente del partito di estrema destra Potere ebreo, Itamar Ben Gvir, ha assunto la guida di un superministero della sicurezza nazionale. In passato, questo attivista della colonizzazione ebraica, che vive anche lui in una colonia in Cisgiordania, è stato condannato per istigazione al razzismo, sostegno a organizzazioni terroriste ebraiche; sostiene di essere favorevole al trasferimento di parte della popolazione araba di Israele nei paesi vicini.
Nell'accordo di coalizione concluso con questi partiti, Netanyahu si è esplicitamente impegnato a promuovere una "politica che prevede l'applicazione della sovranità alla Giudea e alla Samaria". Quindi, senza usare questo termine, il governo di Netanyahu intende attuare una politica di annessione.
Attualmente ci sono 151 colonie in Cisgiordania, dove vivono 475.000 israeliani. Lo scorso maggio, Smotrich ha annunciato l'intenzione di raddoppiare il loro numero fino a un milione di coloni. A questi vanno aggiunti i 230.000 abitanti delle colonie costruite intorno a Gerusalemme Est. Sui 7 milioni di ebrei israeliani, i coloni rappresentano oggi circa il 10%, un peso numerico considerevole che dà loro una forte voce nella vita politica.
Quasi sempre costruite su colline, in modo da dominare le aree circostanti dove vivono i palestinesi, queste colonie hanno finito per diventare vere e proprie città, alcune con decine di migliaia di abitanti. Per far sentire la loro voce, le colonie si sono raggruppate e hanno creato strutture amministrative che alla fine hanno ricevuto un riconoscimento ufficiale per formulare le loro richieste alle autorità pubbliche, organizzare l'attuazione dei progetti e gestire i budget loro assegnati.
Per decenni, i coloni hanno creato nuovi insediamenti senza attendere l'autorizzazione ufficiale del governo, cacciando i palestinesi dalle loro terre, attaccandoli ripetutamente e compiendo veri e propri pogrom per terrorizzarli. Poi richiedono che questi insediamenti siano collegati alla rete elettrica e autostradale. Tutti i governi israeliani, di qualsiasi colore politico, hanno quasi sempre fatto marcia indietro di fronte alle pressioni dei coloni.
Di fronte a questa politica, la situazione è diventata esplosiva in Cisgiordania, dove le manifestazioni di rabbia dei palestinesi si sono moltiplicate nel corso del 2022. Le autorità israeliane hanno risposto con una repressione sempre più violenta.
Si è registrato anche un gran numero di arresti. Secondo i servizi carcerari israeliani, il 1° novembre c'erano quasi 7.000 palestinesi in detenzione e più di 10.000 secondo le organizzazioni palestinesi. Più di 2.000 di loro sono in detenzione amministrativa, che può essere estesa arbitrariamente e senza limiti.
Nello stesso Israele, la situazione è diventata sempre più esplosiva. Per molto tempo, Israele si è vantato di aver concesso diritti politici e opportunità di avanzamento sociale ai quasi due milioni di arabi israeliani, che costituiscono il 20% della popolazione. Nelle strutture sanitarie, essi costituiscono quasi la metà del personale, medici, infermieri e impiegati. Ma in realtà sono rimasti cittadini di seconda classe in uno stato che negli ultimi anni ha reso loro sempre più chiaro questo concetto.
Nelle città che sono rimaste miste, come si dice, dove vivono ebrei e arabi, le autorità hanno fatto venire i coloni dalla Cisgiordania, dando loro alloggi e sussidi per mantenere una maggioranza ebraica tra gli abitanti. La rabbia è cresciuta tra i palestinesi, anche nelle città israeliane. Nel maggio 2021, per la prima volta dalla creazione di Israele, sono scoppiate violente rivolte nelle città israeliane in seguito a una nuova campagna di bombardamenti a Gaza. Sono state seguite da linciaggi di palestinesi e dalla distruzione di negozi e luoghi di culto, organizzati da gruppi di estrema destra, talvolta sostenuti dalla polizia.
Lo stato di guerra permanente e le sue conseguenze
La politica di Netanyahu nei confronti dei palestinesi è sostanzialmente una continuazione di quella dei suoi predecessori negli ultimi 75 anni. Essa si riduce a far credere alla loro popolazione che per garantire la sicurezza di Israele sia sufficiente saper parlare il linguaggio della forza, avere l'esercito più moderno e più forte.
Lo stato di Israele è stato in grado di sviluppare l'esercito più potente del Medio Oriente, grazie alla sua capacità di mobilitare la popolazione. Abbiamo visto come, dopo il 7 ottobre, lo stato sia stato in grado di mobilitare più di 350.000 soldati in tempi record. Ma questo significa che gli israeliani devono vivere armati, sempre pronti ad andare a combattere. L'esercito, considerato "l'esercito del popolo", svolge un ruolo centrale nella vita israeliana. I coscritti sono obbligati a prestare il servizio militare per 24 mesi per le donne e 32 mesi per gli uomini, e molti prestano periodi di servizio di riserva per un mese all'anno. Un intero settore della società è quindi impregnato dei valori dell'esercito. L'influenza acquisita dall'estrema destra è anche una conseguenza di questo arruolamento degli individui.
Il mantenimento di un simile apparato militare ha un costo che Israele non potrebbe sostenere senza gli aiuti americani, che ammontano a 4 miliardi di dollari l'anno, la cifra più alta concessa a un alleato degli Stati Uniti.
Ma nonostante l'entità di questi aiuti, lo stato israeliano è costretto a destinare gran parte del suo bilancio all'acquisto di missili e munizioni, per non parlare dei tre sottomarini ordinati alla Germania lo scorso anno. Di fronte a tali spese, lo stato israeliano deve risparmiare, senza ridurre i finanziamenti per la colonizzazione della Cisgiordania. Questo lo ha portato a ridurre drasticamente il sistema di assistenza sociale negli ultimi anni, con il risultato che Israele ha ora uno dei più alti tassi di povertà del mondo sviluppato. Secondo un rapporto ufficiale, il 20% della popolazione israeliana vive al di sotto della soglia di povertà. La popolazione israeliana sta pagando a caro prezzo le politiche coloniali e militariste dei suoi governi. E alcuni di loro ne sono consapevoli.
Nei primi nove mesi di quest'anno 2023, ogni sabato si sono svolte manifestazioni nelle principali città israeliane. Esse hanno dimostrato che una parte significativa della popolazione non è più d'accordo con le politiche del suo governo. I manifestanti si sono opposti a una proposta di riforma del sistema giudiziario elaborata da Netanyahu per mantenere le promesse fatte ai suoi alleati di estrema destra, e probabilmente anche per sfuggire ad un processo per corruzione. Il testo prevedeva una riduzione dei poteri della Corte Suprema. Questa istituzione è spesso apparsa come un relativo contropotere, in particolare per essersi talvolta opposta alla creazione di alcune colonie o ad alcuni movimenti religiosi.
Dei cittadini erano preoccupati dalla volontà del governo di aumentare il suo potere attraverso questa riforma, tanto più che, con il peso acquisito al suo interno dall'estrema destra, c'era da aspettarsi attacchi ai diritti delle donne, degli omosessuali e alle libertà pubbliche in generale.
Tra gli organizzatori delle manifestazioni c'erano molte personalità di spicco, ex ministri, ex capi dei servizi di sicurezza, generali in pensione, ecc. Questo spiega i limiti politici che gli organizzatori di questa mobilitazione non hanno voluto superare. Per loro, la mobilitazione doveva limitarsi a portare in primo piano lo slogan "difesa della democrazia". Alcuni l'hanno vista solo come un'opportunità per indebolire Netanyahu nella speranza di conquistare il potere. Non si trattava di andare oltre, e in particolare di mettere in discussione la politica nei confronti dei palestinesi. Ma attraverso queste manifestazioni, una parte della popolazione esprimeva la sua ostilità nei confronti dei coloni, delle loro organizzazioni e dei cambiamenti che stavano imponendo alla società israeliana.
Dopo gli attacchi lanciati da Hamas il 7 ottobre, la situazione è cambiata completamente. Il desiderio di sfidare il governo è stato sostituito dalla sensazione che fosse necessario serrare i ranghi dietro di esso. È stato formato un gabinetto di unità nazionale, di cui fa parte Benny Ganz, ex capo di stato maggiore e uno dei principali esponenti dell'opposizione a Netanyahu. Il governo rimane in carica ma, fino a quando dureranno le operazioni militari, questo gabinetto di guerra dirigerà il paese. Netanyahu può fare la guerra ai palestinesi beneficiando, grazie ad Hamas e ai suoi attacchi, del sostegno popolare che aveva perso.
Le popolazioni palestinesi ed ebraiche pagheranno a caro prezzo, per molti anni a venire, le conseguenze di questo nuovo bagno di sangue.
Per una lotta di tutti i lavoratori e gli sfruttati del Medio Oriente!
Per uscire da questa catena infinita di guerre è necessario rompere con le politiche che hanno portato i due popoli in un vicolo cieco.
In diverse occasioni, negli ultimi anni, una parte della popolazione israeliana ha espresso la sua preoccupazione e il suo desiderio di uscire da questo ciclo infernale di guerre, e lo ha fatto contro il suo governo, durante la guerra in Libano nei primi anni '80, dopo i massacri di Sabra e Shatila, e più recentemente contro Netanyahu e il suo governo di estrema destra. Attualmente, nonostante lo stato di guerra, Netanyahu non gode di un sostegno unanime.
In questa regione c'è spazio per far vivere e coesistere in pace i due popoli, perché questa è certamente la volontà della maggioranza di essi. Ma questo può avvenire solo a condizione che a ciascuno dei popoli venga riconosciuto il diritto alla sua esistenza nazionale, a partire dai palestinesi, oppressi da 75 anni. Il programma sionista di imporre uno stato ebraico alle popolazioni arabe ha portato a una terribile impasse. Questo stato, che i sionisti sostengono essere l'unico modo per proteggere gli ebrei dalle persecuzioni, ha portato alla costruzione di un sistema di oppressione e di apartheid in Israele e in Palestina, che non garantisce agli ebrei alcuna sicurezza, e in cui essi stessi temono per le loro libertà.
Quanto agli ebrei del resto del mondo, la creazione di Israele non li ha protetti dall'antisemitismo. Oggi vediamo come possano essere ritenuti ingiustamente responsabili della politica del governo israeliano, che molti non approvano affatto.
Va ribadito che non ci potrà essere pace né sicurezza per gli ebrei di Israele e del mondo finché i palestinesi saranno oppressi e finché continuerà la politica di colonizzazione! Un popolo che ne opprime un altro non può essere un popolo libero!
Da parte palestinese, la lotta che si limita a chiedere la creazione di uno stato palestinese ha portato a un vicolo cieco. Nell'ambito del sistema imperialista, tale stato non potrà che assomigliare a ciò che è oggi l'Autorità Palestinese. Abbiamo visto come essa possa permettere a una minoranza borghese di arricchirsi, ma non può rispondere ai bisogni e agli interessi delle masse palestinesi più povere, quelle che vivono nei campi profughi dei villaggi della Cisgiordania e di Gaza. E che dire di coloro che vivono nei campi in Libano e in Giordania, che chiedono legittimamente il diritto al ritorno e, in ogni caso, il diritto di poter vivere altrove rispetto ai campi profughi. A tutte queste persone, uno stato palestinese ridotto ai limiti della Cisgiordania e di Gaza non avrebbe nulla da offrire! Nemmeno la fine dell'oppressione nazionale, perché la creazione di un tale stato non porrebbe fine alla politica di dominio e di aggressione militare dei governi israeliani.
In quanto comunisti rivoluzionari, noi riconosciamo il diritto di ogni popolo, dei palestinesi come degli ebrei israeliani, ad avere un'esistenza nazionale propria, nella forma che ciascun popolo avrà scelto. Ma nell'ambito dell'imperialismo, della divisione e dei confini che ha imposto ai popoli di questa regione, e dell'oppressione in cui li tiene tutti, la realizzazione di una tale prospettiva è impossibile.
Perché diventi possibile, i lavoratori dovranno assumere la guida della lotta dei popoli del Medio Oriente con l'obiettivo di rovesciare le classi dirigenti di questa regione, non solo in Israele ma anche negli stati arabi.
Perché la classe operaia è l'unica classe rivoluzionaria del nostro tempo, l'unica che non ha nulla da guadagnare al mantenimento di questo sistema basato sullo sfruttamento, un sistema che non cessa di produrre e mantenere disuguaglianze e molteplici forme di oppressione. E siccome è una classe internazionale, è l'unica che non ha nulla da guadagnare al mantenimento degli stati nazionali che servono a difendere gli interessi dei possedenti.
Questa rivoluzione dovrà essere integrata nella lotta di tutti i lavoratori del mondo per rovesciare l'imperialismo. Sarà allora possibile costruire un'organizzazione politica e sociale che risponda agli interessi dei lavoratori e degli sfruttati, in cui la produzione di ricchezza sarà determinata dai bisogni del maggior numero di persone. E questo può essere fatto solo creando un'autentica federazione socialista dei popoli del Medio Oriente e del mondo.
Questa classe operaia, capace di condurre una simile lotta, esiste in Medio Oriente! Sono i lavoratori palestinesi, quelli sfruttati dai padroni palestinesi in Cisgiordania, i 150.000 palestinesi che, prima dell'attuale guerra, si recavano ogni giorno in Israele per lavorare nei cantieri e nei ristoranti. Sono i lavoratori israeliani, alcuni dei quali hanno scioperato qualche mese fa contro il progetto di riforma giudiziaria del governo Netanyahu, e che, come tutti i lavoratori del mondo, devono affrontare lo sfruttamento e in particolare, in questo momento, l'aumento dei prezzi. Non sono solo ebrei, perché oggi in Israele ci sono più di 200.000 lavoratori immigrati, provenienti da Romania, Thailandia, Filippine, Eritrea e Sudan. La classe operaia, in Israele come altrove nel mondo, è internazionale!
Questa classe operaia è divisa; non tutti hanno le stesse condizioni di vita. È divisa anche dal regime di apartheid de facto che lo stato israeliano ha instaurato. Ma, ovunque e in ogni momento, i militanti hanno sempre dovuto lottare con l'obiettivo di unire i lavoratori nella stessa lotta e nelle stesse organizzazioni. Questa è stata la prima lotta dei militanti del movimento operaio nascente, ed è stata la lotta del movimento comunista fondato da Marx. Nel 1848, nel Manifesto del Partito Comunista, definendo ciò che distingueva i comunisti da tutti gli altri partiti operai, Marx ed Engels scrissero: "Nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi [i comunisti] mettono in luce e promuovono gli interessi indipendenti dalla nazionalità e comuni a tutto il proletariato".
Quindi, come comunisti rivoluzionari, oggi dobbiamo affermare che, da Tel Aviv a Ramallah, da Beirut al Cairo, tutti i lavoratori hanno gli stessi interessi e devono unirsi in una lotta comune contro Netanyahu e contro Hamas, per rovesciare l'imperialismo e tutti i loro sfruttatori. E che questa lotta è la lotta dei lavoratori di tutto il mondo.
Affinché i lavoratori possano condurre questa lotta rivoluzionaria fino in fondo, fino alla conquista del potere, avranno bisogno di un partito che si ponga consapevolmente questo obiettivo, il cui programma sia quello del comunismo rivoluzionario. E se c'è una cosa che gli eventi in Medio Oriente dimostrano, è che i lavoratori hanno bisogno di un partito mondiale della rivoluzione.
Siamo convinti che queste idee alla fine daranno vita a tali partiti, perché rappresentano il futuro e l'unica speranza, per i popoli del Medio Oriente e per tutta l'umanità.
La nostra responsabilità, per noi, qui, che non possiamo influenzare gli eventi in Medio Oriente, è almeno quella di mettere in risalto questa prospettiva e di contribuire, qui, sulla nostra scala, mettendo in campo tutta la nostra rivolta e tutta la nostra energia militante, alla costruzione del partito rivoluzionario che manca alla classe operaia.