Lutte de classe n°175 - maggio 2016
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La ministra Myriam El Khomri, nel far rivelare alla stampa, il 17 febbraio, le linee generali della legge che intende riformare il codice del lavoro, sperava di lanciare la sua campagna di comunicazione prima della presentazione ufficiale al consiglio dei ministri. Manuel Valls, da parte sua, calandosi nella parte di uomo di stato pronto a "riformare" ad ogni costo il paese, ha minacciato, fin dalle prime critiche della sua maggioranza parlamentare, di ricorrere all'articolo 49-3 con cui, ponendo la questione di fiducia in Parlamento, avrebbe potuto far passare la legge senza voto.
Valls avrebbe poi dovuto moderare la sua arroganza poiché questo ennesimo progetto di legge anti operaia ha innescato la prima mobilitazione di una certa importanza da quando Hollande si è insediato all'Eliseo. Al momento in cui scriviamo, questo movimento, seppur limitato, continua sotto diverse forme, tant'è che una giornata di scioperi e di manifestazioni è in preparazione per il 28 aprile.
Il progetto di legge El Khomri non è altro che la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Esso non è il primo attacco contro i lavoratori. È in realtà il punto culminante di una serie di leggi che, a partire dal 2012, cancellando i diritti dei lavoratori permettono al padronato di aumentarne lo sfruttamento. Questa "legge lavoro" generalizza l'accordo nazionale intercategoriale (ANI) che rendeva possibile l'allungamento dell'orario di lavoro o il blocco dei salari col pretesto della firma di un "contratto di competitività". Essa prolunga ed approfondisce la legge Macron, poi quella Rebsamen, che rendevano più elastiche molteplici regole relative al lavoro festivo, alle prerogative dei tribunali del Lavoro (i prudhommes), alla medicina del lavoro, ecc.
La legge lavoro è il risultato di una lunga campagna condotta metodicamente dal padronato contro ciò che esso chiama le "rigidità" del codice del lavoro, in altre parole per far cadere i paletti legali che limitano un po' lo sfruttamento e regolamentano i licenziamenti. Questa campagna fu scandita dal rapporto Badinter, garanzia morale del Partito socialista, che proponeva di ridurre questo codice ad alcuni grandi principi tanto sfumati quanto generali, poi dalla pubblicazione del rapporto Combrexelle. Questo alto funzionario del ministero del lavoro, ex direttore del lavoro all'epoca di Sarkozy, proponeva di sostituire la legge con accordi aziendali per definire le condizioni di lavoro, i salari e l'occupazione. Egli introduceva una delle idee più funeste della legge El Khomri, "l'inversione delle norme", che permette ai padroni, a livello di un'impresa, di applicare regole meno protettive rispetto alla legge.
Il governo avanzava dunque a viso scoperto. Fin dal rientro di settembre, Hollande dichiarava la sua intenzione di "adattare il lavoro alla realtà delle imprese". Le raccomandazioni di Combrexelle erano state appena formulate che Hollande volle attuarle a tappe forzate modificando, ad esempio, l'ordine del giorno della "quarta conferenza sociale" il 19 ottobre scorso. Quel giorno egli dichiarò che voleva "ridurre i vincoli che pesano sulle imprese in materia di codice del lavoro, per rilanciare la competitività". Lo stesso Hollande aggiunse che "l'idea del governo è di muoversi più rapidamente su alcuni argomenti di quanto non lo preveda il rapporto Combrexelle".
L'inerzia complice delle confederazioni sindacali
Ciò significa che le confederazioni sindacali non furono colte di sorpresa e che ebbero lunghi mesi per preparare l'opinione pubblica operaia ed organizzare la risposta ai forti attacchi che si annunciavano. Non solo non ne fecero nulla, ma contribuirono ad oscurare la coscienza dei lavoratori. Al momento della pubblicazione del rapporto Combrexelle, Laurent Berger si rallegrò del fatto che esso "riprendeva l'analisi della CFDT", il sindacato di cui è segretario, "la quale prevedeva di istituire norme il più vicino possibile al luogo dove i diritti si sarebbero esercitati". La CGT, da parte sua, se è vero che denunciò le deroghe alla regola generale sottolineando che "i lavoratori e i datori di lavoro non sono alla pari nell'impresa", si preoccupò però solo di convincere il governo che era sulla strada sbagliata, coltivando l'illusione che quest'ultimo si fosse ingannato e, pertanto, avrebbe potuto adottare un'altra politica.
Quando, quattro mesi più tardi, i dettagli del progetto di legge El Khomri furono resi pubblici, le confederazioni alzarono un po' i toni. Ma ciò che rimproveravano di più al governo era di non di averle consultate. Come lamentava Philippe Martinez, segretario confederale della CGT, "abbiamo visto il ministro solo per due ore ed abbiamo preso conoscenza del testo dalla stampa". Vero dispetto o copione concordato in anticipo, sta di fatto che anche la CFDT si sentì in obbligo di smarcarsi da quel progetto. Così, nove sindacati, sei di lavoratori e tre di studenti universitari o delle scuole superiori, partorirono una dichiarazione comune il 23 febbraio. Tale dichiarazione, però, segnalava soltanto che "le organizzazioni sindacali non sono soddisfatte di questo progetto" e non prevedeva il minimo appello allo sciopero. Ci volle una nuova riunione, una settimana dopo, perché sei sindacati indicessero un giorno di sciopero fissato... entro il 31 marzo. Ciò significava che le confederazioni, compresa la CGT, non si preoccupavano di organizzare una risposta immediata e determinata del mondo del lavoro. La stessa Martine Aubry, presa dalle sue rivalità all'interno del Partito socialista, denunciò il progetto di legge lavoro con più virulenza di Philippe Martinez!
La legge El Khomri cristallizza la collera
Nonostante la fiacchezza delle direzioni sindacali, la notizia del progetto di legge suscitò una certa effervescenza all'interno del mondo del lavoro, in settori e in ambienti vari, come pure in una parte della gioventù preoccupata dal futuro di precarietà che le si prospettava. In molte imprese, piccole o grandi, nella produzione come negli uffici, ed anche fra i dirigenti, ci furono molte discussioni a proposito di questa legge, e non solo per iniziativa dei militanti sindacali. Per numerosi lavoratori, Hollande, nel cercare di imporre ciò che lo stesso Sarkozy non aveva osato attuare, aveva fatto un passo di troppo. La legge appariva per ciò che era: una dichiarazione di guerra contro la classe lavoratrice. Questi lavoratori, e fra loro i militanti sindacali, fin dal 2012 avevano in gran parte perso le illusioni, così come il morale. Questo nuovo attacco fece risorgere la combattività di molti gruppi militanti e li invogliò a mobilitare i propri compagni di lavoro.
L'agitazione contro la legge lavoro prese varie strade. La petizione on line lanciata dalla militante femminista Caroline de Haas, a lungo aderente al partito socialista, ebbe un successo folgorante, in gran parte amplificato dai media. De Haas contribuì ad alimentare un clima di rifiuto della legge. Il rifiuto partì dunque da tale ambiente, quello degli oppositori interni al PS, quello che simpatizza con il Fronte di sinistra, così come i sindacati studenteschi e liceali che lanciarono per primi un appello a manifestare il 9 marzo, giorno inizialmente previsto per presentare la legge in consiglio dei ministri. Spinta dalle sue organizzazioni di base, la confederazione CGT, con FO e SUD, alla fine si unì a questo appello.
Da tempo, la maggior parte dei sindacati della Sncf faceva appello ad uno sciopero, per lo stesso giorno, contro la creazione di una nuova regolamentazione del lavoro nel ramo ferroviario che intendeva applicare gli stessi arretramenti previsti dal codice del lavoro in generale. Tutte queste iniziative, decise separatamente da apparati o gruppi, ciascuno con i propri piccoli calcoli e secondi fini, contribuirono, malgrado tutto, a creare una dinamica che fece del 9 marzo un primo banco di prova contro la legge.
Le manifestazioni del 9 marzo furono un successo. Tra 250 000 e 400 000 dimostranti sfilarono in quasi 150 città. Questi cortei, composti dalla gioventù degli istituti liceali e delle facoltà, da forti delegazioni di militanti e di lavoratori della Sncf, del pubblico impiego e del settore privato, rafforzarono il morale di quelli che vi parteciparono. Non c'erano state tali manifestazioni da tempo e per molti questo primo giorno richiedeva un seguito. In varie imprese, nonostante l'ambiguità dell'appello confederale, i sindacati locali avevano indetto scioperi che a volte furono seguiti più del solito.
Il governo, nel frattempo, sia che avesse compreso la portata della contestazione, sia che avesse messo in scena un copione scritto in anticipo con le direzioni sindacali più compiacenti, annunciò incontri con queste ultime per ascoltare le loro proteste e rinviò la presentazione della legge al 14 marzo. Valls arretrò su alcuni punti, fra i quali la tabella tassativa che avrebbe fissato un limite massimo agli indennizzi che sarebbero stati decisi dai tribunali del lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa, e la possibilità per i padroni delle piccole e medie imprese di istituire unilateralmente il pagamento giornaliero a forfait per tutti i lavoratori. Questo piccolo gioco concordato consentì alla CFDT ed alla UNSA per i lavoratori, alla Fage per gli studenti, di considerare la legge lavoro "accettabile" ed anche di vedervi "sensibili miglioramenti per i lavoratori".
Questo voltafaccia più che prevedibile di queste due centrali sindacali, accompagnato da alcune proteste di Gattaz, dirigente del Medef (Confindustria) preoccupato per i passi indietro di Valls, permise di alimentare la campagna mediatica volta a far credere che la nuova versione della legge era ormai equilibrata ed accettabile. Si trattava ora di sapere se ciò avrebbe fermato la contestazione. Se, per la prima volta dall'arrivo di Hollande al potere, una parte dell'ambiente militante ritrovava la voglia di agire, i lavoratori, da parte loro, avrebbero rialzato la testa, avrebbero risposto agli appelli a scioperare e a restituire i colpi? Tutti, dai ministri ai dirigenti politici e alle direzioni confederali, si ponevano questa domanda.
L'inizio di un movimento
Dopo il successo del 9 marzo, le confederazioni si fecero artefici dell'organizzazione della risposta. Esse, nel fissare la data lontana del 31 marzo, diedero, quasi loro malgrado, un obiettivo ai militanti. I lavoratori, che avessero o no manifestato il 9 marzo, disponevano ora di una nuova scadenza per mostrare la propria opposizione alla legge. Un po' ovunque i gruppi militanti desiderarono mobilitare i loro compagni di lavoro. Questa ritrovata combattività fu molto diversa da un'impresa all'altra, da una struttura sindacale locale o dipartimentale all'altra, ma ci furono un po' ovunque diffusioni di volantini, passaggi di militanti, ecc. Questi ultimi erano tanto più motivati a ricominciare questo lavoro elementare in quanto non riscontravano più, finalmente, tra i loro compagni di lavoro, il fatalismo, quel sentimento per cui "non è possibile farli arretrare", frutto degli anni d'assenza di lotte collettive vittoriose di fronte agli incessanti attacchi contro i lavoratori. Per la prima volta dall'arrivo di Hollande al potere, una parte dell'ambiente militante aveva ritrovato il morale ed il desiderio di reagire. Ciò rompeva con il clima generale reazionario segnato da mesi dall'avanzata elettorale del Fronte nazionale e dagli attentati. E questo era già un risultato positivo di tale movimento.
Le confederazioni, senza farsene davvero carico, si associarono agli appelli delle organizzazioni giovanili a manifestare il 17, e poi il 24 marzo. Queste manifestazioni in più di un centinaio di città, certamente modeste, contribuirono alla preparazione del 31 marzo. Le cosiddette confederazioni contestatarie -per quanto non avessero contestato nulla sin dall'arrivo di Hollande al potere- potevano affiancare il movimento non essendo questo né massiccio né esplosivo e avendo la possibilità di conservarne il pieno controllo. Il movimento nascente, di cui tutti gli apparati, che fossero politici o sindacali, osservavano attentamente lo sviluppo, era un'occasione per le confederazioni di ripulire la propria immagine e di mostrare al governo che non poteva né ignorarle né disprezzarle come faceva da mesi, anzi da anni. Alla vigilia del congresso confederale della CGT, Philippe Martinez, segretario generale eletto in modo controverso in occasione dell'eliminazione di Thierry Lepaon, poteva mostrare a tutti i militanti che la centrale non esitava ad opporsi al governo Hollande, senza peraltro far sentire tutto il suo peso nell'incentivare un vero movimento di sciopero rinnovabile ad oltranza. Poiché nessuna frazione significativa di lavoratori, su scala di un settore o di una categoria, sembrava pronta a lanciarsi in un vero sciopero ad oltranza, questo ambiguo atteggiamento non creò problemi particolari in seno alla centrale.
Una minoranza rialza la testa
Il 31 marzo lo sciopero fu un successo innegabile. Tra 500 000 e 1 milione di persone, in 260 città, a volte molto piccole, manifestarono quel giorno, due volte più del 9 marzo. Se la gioventù studentesca fu spesso in testa alle manifestazioni ad esprimere la sua rivolta di fronte alla prospettiva di una vita di precarietà con i cartelli, gli slogan ed il desiderio di scontro, l'essenziale delle manifestazioni era composto da lavoratori dei settori privato e pubblico, delle grandi imprese e di quelle più piccole. Occorre aggiungere tutti coloro che scioperarono per qualche ora o tutto il giorno, senza necessariamente venire a manifestare. La mobilitazione coinvolse quel giorno lavoratori che da tempo non avevano né manifestato né scioperato, o addirittura non l'avevano mai fatto. Le grandi manovre del governo, con la complicità di alcune direzioni sindacali, sulla "riscrittura della legge" ad opera di Valls, manovre in gran parte riportate dai media, avevano fatto cilecca.
Le organizzazioni sindacali non fecero del 31 marzo un'ultima battaglia. Ancor prima di quel giorno, avevano indicato due nuove date, il 5 aprile con le organizzazioni giovanili, e sabato 9 aprile. Chiamare i lavoratori a mobilitarsi di sabato era una scommessa più che un diversivo. Da un lato, il permettere di raggiungere il movimento a tutti coloro che non si sentivano di scioperare, in particolare i lavoratori isolati e quelli delle piccole imprese, era un mezzo per allargare la mobilitazione a nuovi settori del mondo del lavoro. Dall'altro, le manifestazioni del sabato rendevano più difficili le uscite collettive dalle imprese o dalle zone industriali e rendevano più individuale la partecipazione. Alcuni lavoratori tiravano in ballo la violenza poliziesca nel corso dei cortei per giustificare la rinuncia a manifestare, cosa che era di per sé indicativa dei limiti della loro determinazione. Inoltre, il 9 aprile iniziavano le vacanze scolastiche in alcune zone.
Decine di migliaia di lavoratori e di studenti delle università e delle scuole scesero di nuovo in piazza il 9 aprile, ma meno numerosi del 31 marzo ed anche un po' di meno del 9 marzo. Il movimento continuava ma non si approfondiva e non coinvolgeva nuovi contingenti né nella gioventù né fra i lavoratori.
Il movimento nella gioventù
Sin dall'inizio, mass media e governo insistettero sul movimento nella gioventù, il che era un modo di sminuire l'importanza della mobilitazione fra i lavoratori, socialmente e politicamente più preoccupante se si fosse allargata. Più volte, il governo cercò, senza tanto successo, di creare un divario tra i giovani ed i lavoratori, in particolare recependo alcune delle rivendicazioni avanzate dall'Unef, sindacato studentesco storicamente vicino al partito socialista, anche se attualmente esprime le posizioni degli oppositori del PS e di altri delusi dal tandem Valls - Hollande.
Una parte minoritaria ma determinata della gioventù scolastica si era subito mobilitata contro la legge El Khomri. Nelle università, militanti dei sindacati studenteschi dell'Unef o di Studenti Solidali (SE), militanti politici della Gioventù Comunista (JC) o dell'Unione degli studenti comunisti (UEC), gruppi anarchici o dell'estrema sinistra avevano preso l'iniziativa di organizzare assemblee generali (AG), passaggi nelle aule, blocchi più o meno filtranti per mobilitare gli studenti. Le AG, salvo rare eccezioni, non riunirono mai più di alcune centinaia di studenti, anche se furono molto più numerosi nel partecipare alle molteplici manifestazioni di marzo.
La mobilitazione prese avvio simultaneamente nei licei ed anche in alcune scuole professionali. Oltre alle manifestazioni, questa mobilitazione assumeva la forma dei blocchi, filtranti o no, che interessarono, a seconda dei giorni, circa 200 scuole, e di assemblee generali con o senza l'accordo dell'amministrazione scolastica per discutere della legge e dei mezzi per combatterla. Un aspetto notevole della mobilitazione delle scuole è che a volte trascinava giovanissimi che hanno compreso che il futuro a loro offerto da questa società è fatto di precarietà e di flessibilità, ciò che veniva ripreso dallo slogan "loi El Khomri, vie pourrie" ("legge El Khomri, vita marcia"). Senza aver ancora conosciuto lo sfruttamento, i più attivi nelle mobilitazioni avevano capito bene che questa legge era fatta per e dal padronato, come esprimeva lo striscione "separazione tra il Medef e lo Stato!".
Un altro aspetto che faceva discutere e riflettere gli studenti era l'atteggiamento da assumere di fronte alle violenze poliziesche. In numerose città, la polizia ha avuto la mano molto pesante, disperdendo senza riguardo le manifestazioni ancor prima che uscissero dai limiti strettamente autorizzati. Le immagini del poliziotto che colpiva al viso uno studente di quindici anni ormai sotto controllo suscitarono indignazione. Esse erano incompatibili con l'immagine, ancora recente, di dimostranti che offrivano fiori alla polizia dopo gli attentati dell'anno scorso a Parigi! Se alcuni studenti erano stati innegabilmente intiepiditi da questa brutalità, altri avevano tratto la conclusione che occorreva proteggere la loro manifestazione, impedire ai casseurs o ai provocatori di cercare riparo fra loro. Altri ancora, anche fra i giovanissimi, ebbero voglia di scontrarsi con la polizia e non smisero di guardare con simpatia al cosiddetto ambiente "autonomo", per il quale il massimo del radicalismo politico consiste nel rompere vetrine di agenzie bancarie o scontrarsi con la polizia. La comprensione, se non la compiacenza, nei confronti di questo tipo di azioni, è un'altra caratteristica del movimento nella gioventù.
Indipendentemente dell'evoluzione di questo movimento, parecchie decine di migliaia di studenti, una nuova generazione, si politicizzavano, scoprivano il ruolo della polizia, le manovre dei governi, le tergiversazioni ed i voltafaccia delle direzioni sindacali.
"Nuit debout" (Notte in piedi) ed i suoi limiti
Dall'inizio di aprile i riflettori dei media sono puntati su Nuit debout, questo assembramento - forum quotidiano, che si riunisce in Piazza della Repubblica di Parigi, imitato poi in molte altre città, facendone, con un bel po' di esagerazione, un aspetto essenziale della mobilitazione. Nuit debout, che riunisce, a seconda dei giorni, da alcune centinaia ad alcune migliaia di partecipanti in tutto il paese, è un prodotto del movimento e contribuisce, a suo modo, a mantenere in vita l'agitazione contro la legge El Khomri e la politica del governo. Suscitano simpatia quelli che vi partecipano, in particolare i più giovani, che scoprono la politica ed esprimono in quella piazza la loro rabbia di fronte alle molteplici barbarie ed ingiustizie della società, e sognano di costruire un mondo migliore. Il modo in cui i responsabili politici, dal Partito socialista al Fronte nazionale, hanno violentemente preso le distanze, esigendo per alcuni lo sgombero fisico della piazza, rafforza questa simpatia. Ma simpatia e solidarietà non devono nascondere i limiti di queste Nuits debout.
I partecipanti a questi assembramenti provengono dalla piccola borghesia intellettuale, più o meno precaria. Non è una critica, ma una constatazione fatta da alcuni promotori stessi, come il cineasta François Ruffin, autore del film "Merci patron!" (grazie padrone!) , o Frédéric Lordon, economista no global. Costoro ripetono che "bisogna stare attenti a non stare solo tra di noi", ma con l'organizzare questi forum la sera, in pieno centro di Parigi, occorre una certa cecità sociale per meravigliarsi se Nuit debout sta allontanando tutti coloro che si alzano presto la mattina per raggiungere le fabbriche o gli uffici dopo ore di trasporto dalla periferia al luogo di lavoro, in altre parole la grande maggioranza dei lavoratori!
Questa composizione sociale si riflette inevitabilmente nei dibattiti e negli obiettivi del movimento. Oltre all'eterogeneità delle loro preoccupazioni, che vanno dalla dittatura della finanza sull'economia al modo ottimale di mangiare biologico, c'è il fatto che i partecipanti sono molto sensibili alla forma dei dibattiti in cui la parola è ritenuta libera, con tempi di parola strettamente limitati per tutti e prese di posizione cosiddette orizzontali. Sotto il pretesto di una democrazia "diretta e partecipativa", è di rigore, in Piazza della Repubblica, respingere ogni forma di organizzazione politica, secondo loro troppo verticale. I partecipanti affermano voler lanciare "un nuovo movimento democratico, fuori da qualsiasi partito e da qualsiasi organizzazione".
Inoltre, questa apoliticità è di un'ingenuità immensa e dà libertà di manovra ad intellettuali molto politicizzati, come Frédéric Lordon, fautore dell'uscita dall'euro e difensore della "sovranità nazionale", o a militanti politici di varie tendenze, come Aline Paillet, ex deputata del PCF, che non ha avuto paura di scrivere "io detesto gli apparati che fermano sempre i movimenti".
Più fondamentalmente, il rifiuto dei partiti politici che difendono, elezioni dopo elezioni, il "sistema" e la perpetuazione dell'ordine sociale può essere fecondo soltanto se porta a comprendere il funzionamento della società di classi in cui viviamo. "L'oligarchia finanziaria e politica" che i partecipanti a Nuit debout denunciano spesso e volentieri, in altre parole la borghesia capitalista, non blatera di democrazia diretta che si suppone possa indebolire lo stato! Essa dispone in ogni paese, per l'appunto, di un apparato di stato, cioè di una giustizia, di un esercito, di una polizia per tutelare la sua proprietà privata, per condannare e reprimere coloro che contestano lo sfruttamento, il suo ordine sociale, per garantirle l'accesso alle materie prime o il monopolio di questo o quel mercato.
Per costruire un mondo migliore non basterà sognarlo in una piazza, anche se affollata, non basterà inventarsi "una democrazia diretta e orizzontale", occorrerà rovesciare la dittatura del capitale. Ma questa dittatura si basa sullo sfruttamento dei lavoratori e degli oppressi. Per rovesciarla, occorre che gli oppressi prendano coscienza di rappresentare una forza sociale, una potenza collettiva con interessi politici opposti a quelli dei capitalisti.
Quando una parte significativa della classe operaia rialzerà la testa e troverà la via delle lotte, non importa se per opporsi alla legge El Khomri o ad un prossimo attacco che inevitabilmente sarà sferrato, sarebbe drammatico che si lasciasse fuorviare da un movimento che fa dell'apoliticità una virtù superiore. La classe operaia, grazie al suo numero, al suo ruolo determinante a tutti i livelli della produzione o della distribuzione delle ricchezze, è l'unica classe sociale in grado di rovesciare la dittatura del capitale. Essa deve porsi a capo di questa battaglia senza lasciarsi ingannare dalle chiacchiere sterili di una certa piccola borghesia, anche se ben intenzionata.
Ed è ciò che potrebbe avvenire se Nuit debout durasse ed assumesse un certo rilievo. Alcuni vedono già in essa una direzione potenziale del movimento. È ciò che si espone, ad esempio, in un libero dibattito pubblicato sul sito di NPA ed intitolato senza scherzare "Far splendere le pietre preziose". Vi si può leggere: "Nuit debout comincia a rappresentare potenzialmente una direzione alternativa a quella delle direzioni sindacali che arretrano dinanzi alla prospettiva di un movimento che inizia a sfuggire loro di mano e di uno scontro frontale con il governo". Questa tribuna forse rappresenta solo l'opinione del suo autore, ma è significativa dei ragionamenti di quelli che vanno in estasi con ardore davanti a Nuit debout.
È chiaro che dovrà porsi la questione di dotarsi di una direzione alternativa se, nel movimento attuale o in un prossimo, la combattività dei lavoratori aumentasse al punto da superare i limiti accettabili per le direzioni sindacali. Ma tale direzione dovrà essere espressione degli scioperanti e delle assemblee di scioperanti, eletta, riconosciuta e controllata da essi, su scala locale come su scala nazionale. I lavoratori possono organizzarsi democraticamente, prima ancora che a livello di una città, a quello di un'impresa, di un'area geografica, di una zona industriale. È su questa scala che essi si conoscono e possono verificare la pertinenza e l'efficacia delle idee o delle azioni avanzate da tutti loro.
I lavoratori devono costruire il loro partito politico
Occorre che la parte della gioventù che ha scoperto l'interesse per la politica e quella dei lavoratori che ha rialzato la testa possano trarne una lezione politica, una comprensione dei meccanismi e dei rapporti di classe che regolano la società. Ciò è auspicabile sia che il movimento in corso trovi un secondo afflato e arrivi ad ottenere il ritiro della legge El Khomri, sia che non vi riesca. Sarebbe un impegno per il futuro, ed il ruolo dei militanti comunisti rivoluzionari è di permettere loro di fare questo apprendistato.
La principale lezione da trarre è che la guerra di classe condotta dal padronato e dalla borghesia contro gli sfruttati è una guerra senza pietà e senza tregua che continuerà finché i lavoratori non avranno preso il potere ed assunto il controllo sui mezzi di produzione. La crisi economica rende ancora più spietata la lotta di classe. Peggiorare lo sfruttamento, abbassare i salari, indebolire le capacità di resistenza collettiva non sono scelte politiche, sono esigenze vitali per il padronato. In questa lotta, che non è né una festa né un immenso sogno, i capitalisti dispongono di molteplici partiti, di molteplici gruppi di politici di ricambio di cui servirsi appena uno di loro si è logorato. Gli esempi della Grecia e della Spagna dimostrano che, quando i partiti tradizionali sono rifiutati dagli elettori, altri partiti, che pretendono di "fare politica diversamente" e sanno sfruttare il rifiuto dei primi, ne prendono il posto per poi adottare, appena giunti al potere, la politica imposta dai banchieri e dai grandi padroni.
Per difendere i loro interessi, i lavoratori non possono contare che su se stessi, sulla propria forza collettiva e sulla propria capacità di organizzarsi. La mobilitazione in corso lo dimostra: anche i piccoli passi indietro del governo, per quanto possano essere irrisori, sono avvenuti quando esso ha temuto una reazione collettiva contagiosa. I lavoratori, tuttavia, affinché ogni battaglia parziale sia spinta fino in fondo e ogni sciopero sia "la loro scuola di guerra", secondo la vecchia frase di Engels, devono dotarsi di un partito che esprima i loro interessi politici ogni giorno, un partito che miri a far sì che ogni lotta, piccola o grande, locale o generale, permetta di modificare il rapporto di forza, di far progredire la coscienza di classe del maggior numero possibile di lavoratori.
Il movimento attuale ha riattivato vari partiti o personalità politiche che, ciascuno a suo modo, cercano di approfittare del piccolo sussulto nella gioventù o fra i lavoratori per rafforzarsi in vista delle prossime scadenze elettorali. È ciò che caratterizza tutti i movimenti di una certa importanza. Questo sussulto, però, deve anche permettere ai militanti comunisti rivoluzionari di esprimersi e di difendere una prospettiva politica che corrisponda agli interessi della classe operaia. Il loro compito è appunto quello di convincere il maggior numero possibile di giovani e di lavoratori che non si cambierà la società né ricostruendo una chimerica "vera sinistra", né rifiutando la politica in generale, ma impegnandosi a costruire un partito degli oppressi che si prefigga il rovesciamento del capitalismo mediante una rivoluzione sociale.
20 aprile 2016