La diminuzione del tempo di lavoro a 35 ore settimanali faceva parte delle promesse del Partito Socialista prima delle elezioni anticipate all'assemblea nazionale del 1997, e il governo Jospin si inorgoglisce di averla mantenuta in breve tempo. Non si trattava di soddisfare una richiesta dell'insieme dei lavoratori, le cui maggiori preoccupazioni erano la disoccupazione e il timore dei licenziamenti, ma di un obiettivo messo in discussione da alcuni sindacalisti che lo presentavano come un mezzo di lotta contro la disoccupazione.
Il varo di questa misura ha dato luogo ad un vero psicodramma sociale. Il CNPF (la Confederazione Nazionale del Padronato Francese) ha fatto finta di vedervi un'attacco diretto contro i dirigenti d'impresa, fino al punto di portare alla direzione il barone Seillière, che fingeva di essere un oppositore più deciso del suo predecessore Gandois a questo progetto, e fino al punto di cambiare nome per diventare il MEDEF (Movimento delle Imprese di Francia). Ma se il MEDEF ha gridato così forte, è stato - secondo il suo metodo prediletto - per ottenere ancora di più. Così facendo, in fin dei conti faceva un favore a Jospin, che sembrava un avversario risoluto dei padroni mentre il suo progetto era, fin dall'inizio a favore di questi ultimi. E ci vuole l'ottusità politica di un giornalista di Le Monde per scrivere che la legge sulla riduzione del tempo di lavoro, "concepita per favorire l'occupazione, ha invece agevolato la propagazione della flessibilità".
Comunque sia, la legge Aubry (si tratta infatti di due testi : la legge "Aubry 1" approvata nel giugno del 1998 e la legge "Aubry 2" promulgata nel gennaio del 2000) ha reso obbligatorio nel settore privato il passaggio alle 35 ore sin dal primo febbraio del 2000 nelle imprese con più di 20 salariati e sin dal primo gennaio del 2002 per le altre.
Per chi vorrebbe vedere nelle proteste dei padroni la prova che questi testi siano veramente favorevoli ai lavoratori, il gran numero di conflitti di lavoro suscitati dalla loro applicazione dimostra che non sono stati percepiti così dalla maggioranza dei lavoratori. E ciò a buon diritto, poiché con il pretesto di condurre una politica "sociale", le leggi Aubry danno ai padroni nuovi mezzi per cercare di imporre orari alla loro discrezione, a minor costo.
Eppure le confederazioni operaie non si sono insorte contro queste leggi. La CFDT (Confederazione Francese Democratica del Lavoro), sindacato che da tempo ha presentato la riduzione del tempo di lavoro come il rimedio miracolo contro la disoccupazione, ha dato la sua adesione immediatamente. FO (Forza Operaia) e la CGT (Confederazione Generale del Lavoro) sono state più caute. Secondo quest'ultima, come secondo il PCF, tocca alla classe operaia, con la sua azione, fare in modo che le leggi Aubry siano attuate tramite accordi favorevoli ai salariati (allora a che cosa servono il governo "delle sinistre" ed i ministri comunisti, se le leggi da loro approvate possono portare a delle misure contrarie agli interessi dei lavoratori, e li costringono a lottare per non sopportarne le conseguenze, come con un qualsiasi governo di destra ?). Comunque, qualunque sia stato l'atteggiamento delle varie confederazioni rispetto al contenuto di queste leggi, tutte hanno firmato, qua e là, accordi che comportano clausole di annualizzazione del tempo lavorativo che possono portare solo ad un rafforzamento dello sfruttamento ed alla diminuzione del potere d'acquisto dei lavoratori.
Infatti, la firma di questi accordi era appunto l'esca presentata alle confederazioni sindacali (sempre desiderose di poter negoziare intorno ad un tavolo, il che è la ragione di essere dei sindacati riformisti). Tutto, nella legge Aubry "relativa alla riduzione negoziata del tempo di lavoro", è appunto fatto per incitare i padroni ad avviare il dialogo con le confederazioni operaie, poiché gli aiuti dello Stato alle imprese, ufficialmente destinati a permettere loro di fare fronte al maggior costo provocato dalla riduzione del tempo di lavoro, sono subordinati alla firma di un accordo con i sindacati dei lavoratori. Ciò significa che l'impresa che decida unilateralmente di diminuire la durata del tempo di lavoro dovrebbe fare a meno dei vantaggi (notevoli) della nuova legislazione.
Nelle imprese in cui non esiste nessuna organizzazione sindacale, un accordo che dia ai padroni diritto ai vantaggi della legge Aubry può esistere solo dopo che un salariato sia stato designato da un'organizzazione sindacale "rappresentativa" (agli occhi della legge) a livello nazionale (o dipartimentale nei dipartimenti d'oltremare), per negoziare tale accordo.
Perché tale accordo sia valido, ci vogliono le firme di organizzazioni sindacali che rappresentino più della metà dell'organico, o che sia in seguito direttamente approvato dalla metà dell'organico. Ma anche in questo caso, la legge incita a ricercare una soluzione negoziata poiché, senza accordo, il passaggio alle 35 ore, nel caso migliore, non presenta quasi nessun interesse per i lavoratori. Per il 2000, che è l'anno di transizione, la legge prevede per esempio che, in un'impresa che lavorerebbe ancora 39 ore settimanali, le quattro ore di straordinario sarebbero maggiorate dal 10 %, da ricuperare in tempi di riposo. Ciò significa che ai lavoratori, a mo' di settimana di 35 ore, verrebbe attribuito un credito del 10 % di quattro ore, cioè 24 minuti di riposo da ricuperare ogni settimana, neanche una mezz'ora !
Se la nuova legislazione porta dunque nuove cose da negoziare alle confederazioni sindacali, per quanto riguarda gli stessi lavoratori i suoi vantaggi sono molto più discutibili.
Certo, la legge diminuisce la durata legale del lavoro, ma lascia ai padroni la possibilità di ricorrere agli straordinari. E per di più, introduce la nozione di "tempo di lavoro effettivo", che riduce in gran parte la portata di questa riduzione del tempo di lavoro, giacché può permettere ai datori di lavoro di non includere i tempi di pausa se durante questa pausa il lavoratore non è costretto di conformarsi alle direttive dell'inquadramento.
In alcune professioni, erano già molto diffuse le lunghe interruzioni del lavoro, non pagate ma di cui il lavoratore non può realmente usufruire, dati i suoi orari o la lontananza della sua casa. Con questa sua nozione di "lavoro effettivo", la legge Aubry da a questa pratica frequente una copertura legale.
E' vero, questa legge garantisce ai lavoratori pagati con lo SMIC (Salario Minimo Interprofessionale di Crescita, ossia il salario minimo stabilito dalla legge) e che non facevano più di 39 ore settimanali, il mantenimento del loro stipendio anteriore. Però negli altri casi, la legge non garantisce il mantenimento degli stipendi anteriori e, anche se la maggioranza dei padroni sicuramente indietreggerà di fronte al pericolo di una risposta dei lavoratori in caso di diminuzione dei salari, le clausole di "moderazione salariale" o di "blocco dei salari" si sono moltiplicate del tutto legalmente negli accordi già firmati.
Del resto, nelle imprese che rincorrevano solo ogni tanto agli straordinari, il livello reale del salario dei lavoratori rischia proprio di diminuire, per causa della soppressione delle maggiorazioni di salario per le ore di straordinario. Infatti, la legge Aubry permette ai padroni di generalizzare l'uso dell'annualizzazione del tempo lavorativo, le 35 ore settimanali diventando così 1600 ore nel corso dell'anno, con un massimo possibile di 48 ore (o di 44 ore su dodici settimane consecutive) settimanali e di dieci ore al giorno, senza che le ore effettuate al di là delle 35 ore settimanali siano considerate come straordinari dando luogo a maggiorazioni di stipendio.
La legge Aubry ha anche introdotto nel Codice del lavoro la possibilità di accordi aziendali in cui il lavoro verrebbe organizzato nell'ambito di un ciclo di parecchie settimane, nel corso del quale solo le ore sorpassando la durata media di 35 ore calcolate come media sull'insieme del ciclo verrebbero considerate ore di straordinario. In pratica, questo si è spesso tradotto con tentativi per imporre ai lavoratori un certo numero di sabati lavorativi.
Annualizzazione e lavoro secondo tali cicli plurisettimanali sono mezzi dati ai padroni per raggiungere questa flessibilità del lavoro che si sognano e la possibilità di far lavorare i lavoratori senza spese supplementari quando il mercato tira al massimo, e a tempo parziale nei periodi di bassa produzione, o di instaurare i sistemi di lavoro a turno che gli fanno comodo, senza preoccuparsi delle conseguenze che questi orari pazzeschi possono avere sulla salute o la vita personale e familiare dei lavoratori.
Del resto, questi aspetti della legge Aubry dimostrano il carattere assolutamente ipocrita dei discorsi che la presentano come una misura mirante a lottare contro la disoccupazione, siccome porterebbe le imprese a creare posti di lavoro. Invece, se i padroni vogliono in modo così impellente questa flessibilità che la legge Aubry agevola, è appunto per poter fare fronte ad un aumento della produzione senza dover assumere nessuno. E nella stragrande maggioranza dei casi, riusciranno a far effettuare la stessa produzione di prima, con lo stesso organico, in 35 ore invece di 39.
Ma perfino nei rari casi in cui un datore di lavoro sarà portato a creare qualche posto di lavoro per causa del passaggio alle 35 ore, non perderà pertanto soldi, poiché la legge ha previsto un sistema di aiuti alle imprese (uno di più). Tale aiuto (secondo la tabella delle previsioni che è stata pubblicata, ma che dovrà essere confermata da un decreto), sarebbe costituito da una frazione fissa (4000 Franchi all'anno per tutti i salariati) e da una percentuale del salario lordo variabile dal 26 % per i salariati che guadagnano lo SMIC allo 0 % per i salariati che guadagnano più di 1,8 SMIC. Per un lavoratore che si guadagna lo SMIC (circa 5500 franchi al mese), l'aiuto dato dallo Stato al padrone sarà dunque di 21 500 franchi all'anno (ossia sei milioni di lire e mezzo), e bisogna notare che questo sistema è interessante in modo particolare per le imprese che utilizzano manodopera a basso salario e costituisce così per i padroni una vera e propria istigazione a pagare i salari più bassi possibile.
Inoltre, quest'aiuto in realtà sarà percepito da tutti i padroni, compresi quelli che non hanno creato nessun nuovo posto di lavoro, giacché la legge si applicherà a tutte le imprese che avranno creato posti di lavoro (senza precisarne il numero) o ne avranno "salvati" (e ovviamente, tutti i padroni possono pretendere di essere costretti a licenziare a meno di ricevere aiuti).
Dal punto di vista dei lavoratori, la legge Aubry porterà dunque, nel caso migliore, qualche scarso vantaggio, sotto forma di una piccola riduzione del tempo di lavoro, o di qualche giorno di ferie in più (nelle imprese che non sono interessate dall'annualizzazione degli orari), ma molto più spesso porterà solo attacchi miranti a far accettare nuovi obblighi nell'organizzazione del lavoro, con la complicità delle organizzazioni sindacali che vogliono essere i buoni gestori del sistema capitalistico. Del resto, combattendo in numerose imprese gli accordi che la direzione voleva fare accettare, i lavoratori hanno dimostrato che non si lasciavano ingannare.
Questa legge permette anche di misurare l'efficacia dei ministri e dei deputati del Partito Comunista Francese. Dichiaratamente pro legge "Aubry 1", il PCF, che era costretto a tenere conto delle reazioni suscitate da questo primo testo di legge aveva suscitate, almeno in una frazione della classe operaia, in un primo tempo ha fatto finta di non voler votare il secondo testo, per poi finalmente sostenerlo, con il pretesto dell'importanza dell' "emendamento Michelin" (obbligo per il padrone - senza che nessuna sanzione sia prevista nel caso contrario - di aprire trattative sulla riduzione del tempo di lavoro prima di avviare un piano di soppressione di posti di lavoro), emendamento che era stato accettato dal governo. Ma il Consiglio costituzionale ha invalidato questa clausola, dichiarando precisamente che una legge che non si dava i mezzi di farsi rispettare non era costituzionale !
Il carattere antioperaio della legge Aubry dimostra anche a che punto era ambigua la posizione delle correnti dell'estrema sinistra che mettevano al primo piano delle loro rivendicazioni la riforma di questa legge, o una "buona legge" per le 35 ore.
Quasi sessantacinque anni dopo lo sciopero generale del 1936, e mentre la produttività del lavoro è aumentata notevolmente, l'abbassamento della durata del lavoro sarebbe ovviamente del tutto normale. Però, con la crescita della disoccupazione, delle correnti riformiste si sono impadronite della riduzione del tempo di lavoro, dandoci un contenuto del tutto diverso. La CFDT, che ha abbandonato ogni riferimento al "cristianesimo sociale" ma ne ha conservato lo spirito, si è nascosta dietro al problema della disoccupazione per raccomandare una specie di spartizione del lavoro (accompagnata di moderazione salariale) che, col pretesto del realismo, assolve completamente i padroni dalle loro responsabilità nell'attuale situazione. Il Partito Socialista ha appena dato ai padroni (anche se questi non dimostrano tanta riconoscenza) un quadro che consenta loro di imporre ai lavoratori, se questi gli lasciano fare, uno sfruttamento peggiore.
Oggi più che mai, nell'attuale situazione economica e sociale, caratterizzata da una disoccupazione che malgrado le statistiche ufficiali più o meno attendibili rimane massiccia, l'unica politica degna dei rivoluzionari è di mettere al primo piano della loro agitazione la necessità di vietare i licenziamenti collettivi, in primo luogo nelle imprese che fanno profitti e sopprimono posti di lavoro lo stesso ; ed anche la necessità di porre fine a tutte le misure che, col pretesto di incitare i padroni a creare occupazione, finiscono col fare passare direttamente i soldi dello Stato nelle casse delle grandi imprese, senza che ciò abbia minimamente contribuito a far diminuire la disoccupazione ; ed infine, affinché siano direttamente creati posti di lavoro, la necessità di prendere il denaro laddove si trova, e cioè nelle casseforti dei capitalisti che si arricchiscono sempre di più mentre le classi lavoratrici si impoveriscono.
Il meno che si potrebbe fare sarebbe di ristabilire l'imposta sui profitti delle imprese almeno alla percentuale del 50 % ancora in vigore ai tempi della presidenza di Giscard d'Estaing e che fu abbassata in seguito. Ma ben oltre questo, bisogna imporre che la contabilità delle grandi imprese sia controllata dai loro lavoratori e dalla popolazione, così come il patrimonio ed i redditi dei loro proprietari e principali azionisti. I giganteschi profitti delle imprese devono essere dedicati in priorità allo sradicamento della disoccupazione invece di essere sprecati in operazioni finanziarie o trasformati in fortune private per l'uso di una piccola minoranza.
15 febbraio 2000