(Da "Lutte de Classe" n° 135 - Aprile 2011)
Tre mesi dopo l'inizio dell'ondata di contestazione che partendo dalla Tunisia ha coinvolto il mondo arabo, le potenze imperialiste occidentali con copertura della Nato si sono impegnate in un intervento militare, dicendo di voler aiutare il popolo libico a liberarsi dalla dittatura del colonnello Gheddafi ma mirando innanzitutto a salvaguardare i loro interessi presenti e futuri in tutta la regione.
Quando nel gennaio scorso le manifestazioni contro il regime di Ben Alì in Tunisia si intensificarono, l'intervento dei dirigenti imperialisti e in particolare degli Stati Uniti aveva potuto limitarsi a consigliare più o meno discretamente al dittatore di lasciare il posto. Ai dirigenti dell'esercito tunisino si era anche consigliato di non compromettersi troppo apertamente nella repressione, attuata innanzitutto dalle forze di polizia. Così dopo la partenza di Ben Alì i responsabili dell'esercito poterono affermare che erano rimasti al servizio del popolo, e grazie a questo credito imporsi come i veri arbitri della cosiddetta "transizione democratica" che doveva seguire la caduta del regime.
Nello stesso modo, prendendo in tempo le distanze da un dittatore troppo screditato, i dirigenti degli Stati Uniti poterono presentarsi anche loro come fautori di una maggiore democrazia in Tunisia. Anche se lì c'è una evidente e scandalosa ipocrisia da parte di uomini che hanno sostenuto Ben Alì praticamente fino all'ultimo momento, si trattava per loro di salvaguardare l'essenziale, cioè la possibilità per le compagnie occidentali di continuare a fare i loro affari in questo paese e di vedere i loro interessi protetti da un regime amico. E per inciso, i dirigenti degli Stati Uniti poterono agire in anticipo rispetto a dirigenti europei come i dirigenti francesi, troppo ottusi e troppo abituati a collaborare strettamente con il loro "amico Ben Alì" per capire in tempo che era venuto il momento di abbandonarlo a sé stesso.
In sostanza, la stessa manovra si svolse in Egitto quando le manifestazioni contro il regime di Mubarak cominciarono. Più apertamente ancora che nel caso tunisino, i dirigenti degli Stati Uniti fecero sapere a Mubarak che nell'interesse di tutti era meglio che si facesse da parte. Anche in questo caso l'esercito fu attento a non compromettersi troppo nella repressione esercitata dal regime egiziano, il che gli ha consentito poi di uscire dalla crisi con la fama di essere rimasto "l'esercito del popolo" che si era rifiutato a difendere la dittatura. Così i capi dell'esercito e dei servizi segreti, che pure sono stati tra i principali esponenti di questa dittatura per decenni, poterono presentarsi dopo la partenza di Mubarak come i fautori di una transizione democratica e disporre per questo di un certo credito, almeno presso una parte della popolazione. Quanto ai loro protettori, gli Stati Uniti ma anche le altre potenze imperialiste come la Francia, che questa volta aveva capito il senso della manovra, poterono presentarsi anche loro come fautori della libertà dei popoli arabi. Così evitavano, almeno per ora, il rischio di vedere i loro interessi in questi paesi rimessi in discussione contemporaneamente alla dittatura di chi li aveva protetti per più di trent'anni.
Le cose però sono state più complesse quando le manifestazioni hanno toccato la Libia, anche questo un paese dittaturiale. Anche se il colonnello Gheddafi all'inizio del suo regno aveva potuto presentarsi come un difensore del nazionalismo arabo contro il dominio delle potenze imperialiste, da molto tempo ha saputo diventare uno dei loro migliori interlocutori, nell'ambito di una collaborazione particolarmente cinica. Gheddafi non ha avuto scrupoli a farsi un esecutore dei compiti più sporchi dell'imperialismo, arrestando per esempio gli emigranti verso l'Europa che partivano dalle coste libiche e mandandoli a morire nei campi di concentramento o in qualche parte nel deserto. Reciprocamente Sarkozy e Berlusconi hanno ostentato senza ritegno la loro amicizia con Gheddafi.
Però, istruiti dall'esperienza della Tunisia e dell'Egitto, i dirigenti imperialisti hanno preso le distanze dalla dittatura di Gheddafi non appena le manifestazioni hanno cominciato a prenderlo di mira, in particolare quando hanno portato alla perdita di controllo del regime sulla parte orientale della Libia, la Cirenaica intorno alla città di Bengasi. E anche lì le potenze imperialiste hanno consigliato a Gheddafi di andarsene per rendere possibile una democratizzazione della Libia. L'hanno fatto con tanta più convinzione che, nel primo periodo, il regime sembrava destinato a crollare rapidamente dall'interno e perdeva il controllo di una città dopo l'altra.
Ma il dittatore libico, a differenza dei suoi colleghi tunisino e egiziano, non si è lasciato convincere così facilmente a lasciare il posto. Data la storia del regime libico, non è molto sorprendente che i dirigenti imperialisti non avessero avuto gli stessi mezzi di pressione su Gheddafi che non su Ben Alì o Mubarak, né le stesse relazioni dirette con l'apparato militare libico che avevano con quelli di Tunisia e Egitto. Quindi si è visto il regime di Gheddafi reprimere violentemente le manifestazioni dove poteva, e impegnarsi in una riconquista militare delle regioni di cui aveva perso il controllo.
Di fronte a questa situazione l'atteggiamento delle potenze imperialiste è stato prima, pur esprimendo la loro disapprovazione ufficiale nei confronti di Gheddafi, di osservare prudentemente l'evolversi della situazione sul terreno. Ciò ha dato a Sarkozy, in nome dell'imperialismo francese, la possibilità di distinguersi essendo il primo a riconoscere il Consiglio nazionale di transizione che rappresenta gli insorti libici, esprimendo il suo sostegno a questi ultimi e chiamando le altre potenze ad intervenire per aiutare questi insorti a rovesciare Gheddafi.
Certamente c'è in questo atteggiamento del governo francese una gran parte di calcolo politico, generato dal bisogno di mettersi in mostra sul piano estero per provare a colmare il suo discredito in politica interna. Ma c'era anche il calcolo di compensare l'effetto disastroso causato nel mondo arabo dal sostegno dato fino all'ultimo dalla diplomazia francese a Ben Alì, cercando d'apparire come il fautore più deciso di una democratizzazione. E poi c'era la scommessa, essendo il primo a sostenere gli insorti di Cirenaica, la regione libica più ricca in petrolio, che ci sarebbe stato in futuro una possibilità di migliorare le posizioni dell'imperialismo francese in questa regione, pure a detrimento dei suoi alleati e concorrenti quale l'Italia.
La scommessa però si è rivelata a rischio quando, dopo una prima avanzata, gli insorti hanno perso terreno di fronte alle truppe di Gheddafi. E solo all'ultimo momento, mentre le truppe del dittatore stavano sul punto di riprendere il controllo di Bengasi, questa volta l'insieme delle potenze imperialiste si sono trovate d'accordo per votare al consiglio di sicurezza dell'Onu l'instaurazione di una zona di esclusione aerea sopra la Libia, e per intervenire militarmente contro le sue truppe.
La ragione ufficiale, invocata in particolare da Barack Obama per gli Stati Uniti, era che non si poteva lasciare il dittatore libico continuare a sparare sul proprio popolo, il che gli faceva perdere "ogni tipo di legittimità". Bisogna osservare che allo stesso momento le truppe dell'Arabia Saudita intervenivano nel Bahrein per aiutare il dittatore locale a schiacciare la contestazione in corso, senza che alcuno dei dirigenti imperialisti esprimi anche solo una protesta. Elencare tutte le situazioni in cui hanno lasciato o aiutato direttamente un regime amico a schiacciare il proprio popolo o un popolo vicino, questo sarebbe ovviamente troppo lungo.
Però nel caso libico le potenze imperialiste si sono trovate invischiate nel loro proprio gioco. Dopo essersi proclamate a favore di una transizione democratica in tutto il mondo arabo, dopo aver affermato di capire e condividere le aspirazioni dei popoli arabi alla libertà e alla democrazia, il fatto di lasciare l'esercito di Gheddafi schiacciare gli insorti di Bengasi sarebbe stato come confessare che stavano facendo solo bei discorsi. Al contrario, venire in aiuto ai ribelli permetteva di dare un po' di credito alle parole democratiche dei dirigenti imperialisti, e anche di fare un po' dimenticare che al tempo stesso essi coprivano la repressione nel Bahrein e nello Yemen, per non parlare di Israele e della sua ostinazione a negare i diritti dei palestinesi. Ad una giornalista che gli chiedeva il perché di queste differenze d'atteggiamento a seconda dei paesi, l'ex ministro degli esteri francese Bernard Kouchner poté rispondere tranquillamente, e cinicamente: mica possiamo intervenire dappertutto!
E in effetti l'imperialismo sceglie dove interviene. Nel caso della Libia ci sono i motivi politici indicati sopra, motivi che corrispondono anche ad interessi ben concreti e tra l'altro all'opportunità di accedere al petrolio tramite un governo che potrebbe essere più malleabile che non lo era quello di Gheddafi. Quanto al carattere dell'intervento occidentale, i primi giorni di bombardamenti delle posizioni di Gheddafi hanno consentito agli insorti di riconquistare terreno al momento in cui la loro causa sembrava persa. Ma in seguito l'esercito di Gheddafi poté riconquistare posizioni mentre gli interventi della coalizione occidentale diventavano più rari o comunque meno efficaci.
Ovviamente non si può prevedere l'evolversi di queste operazioni militari. Ma adesso tutto si svolge come se i responsabili Nato, che dopo le iniziali polemiche tra gli alleati controllano ormai le operazioni, si augurassero né una vittoria totale degli insorti, né la loro sconfitta completa a vantaggio di Gheddafi. Pur dichiarando che Gheddafi deve andarsene, i dirigenti occidentali hanno precisato che non vogliono fornire un aiuto militare diretto agli insorti. Si è anche saputo che agenti della Cia erano stati inviati in Libia per studiare direttamente la situazione, e sembra anche per assicurarsi direttamente di chi sono questi insorti e degli elementi sui quali possono davvero appoggiarsi.
E infatti questa situazione di guerra tra le due fazioni che ormai si contendono la Libia consente ai dirigenti imperialisti di dare un aiuto agli insorti solo dopo avere verificato la loro affidabilità, e al tempo stesso di fare pressione sul campo di Gheddafi perché lasci il posto. È evidente che i contatti non sono rotti totalmente con quest'ultimo e si tratta dietro le quinte. Per i dirigenti imperialisti, in primo luogo quelli degli Stati Uniti che si sono assicurati la direzione politica delle operazioni, la soluzione migliore sarebbe senz'altro di arrivare ad un compromesso tra i due campi, con un governo che potesse riciclare vari ex ministri di Gheddafi, tra quelli che hanno creato il Consiglio nazionale di transizione di Bengasi ed altri che si sono dissociati dal dittatore libico in altri momenti del conflitto. Il più difficile è, chiaramente, di convincere quest'ultimo di partire, anche al prezzo di trovargli un asilo dorato dove potesse finire i suoi giorni.
È chiaro che questa situazione può prolungarsi e portare ad una divisione duratura del paese, tra una Cirenaica tenuta da insorti sui quali i dirigenti imperialisti avrebbero affermato il loro controllo, ed una Tripolitana rimasta nelle mani di Gheddafi e suoi fautori. Ma in ambo i casi le potenze imperialiste sarebbero riuscite a rafforzare il loro controllo sulla regione, pur potendo presentare il loro intervento come a favore della democrazia e della libertà di popoli.
E infatti il problema non è solo la Libia. Essa offre un esempio più generale nei confronti di tutto il mondo arabo.
È inutile sottolineare l'importanza strategica ben conosciuta di tutta questa regione per l'imperialismo, una regione dove i suoi interessi politici, economici e militari, si intrecciano strettamente. Lo sfruttamento sistematico della regione sul piano economico a vantaggio delle compagnie occidentali porta alla miseria dei suoi popoli accanto ad incredibili accumulazioni di ricchezze, e può essere fonte di grandi esplosioni sociali. La sua spartizione in stati rivali, armati sino ai denti, diretti da regimi repressivi sostenuti dall'imperialismo, crea dappertutto situazioni esplosive e focolai di conflitti. I dirigenti imperialisti sono i primi coscienti che lì c'è un barile di polvere di cui bisogna cercare di evitarne l'esplosione, ma che bisogna anche essere pronti ad intervenire per fare fronte ad ogni eventualità.
In questo senso l'intervento armato occidentale in Libia non è solo una pressione ben calcolata sul regime di Gheddafi, è anche una dimostrazione nei confronti di tutto il mondo arabo. Si tratta di avvertire i governanti, i dirigenti politici e le popolazioni che comunque l'imperialismo ci tiene a rimanere un attore di primo piano delle evoluzioni politiche. E dietro la maschera della ricerca di un'evoluzione democratica di cui si vedrà rapidamente che è solo di facciata, si nasconde innanzitutto la preoccupazione della salvaguardia degli interessi delle grandi compagnie capitaliste americane, europee e di altri paesi nella regione.
Ciò significa che questo intervento militare comunque non è volto alla difesa dei diritti dei popoli e delle aspirazioni per cui i popoli dei paesi arabi si sono mossi. La difesa degli insorti libici contro la repressione di Gheddafi è solo un pretesto che, tra l'altro, si sta ormai rivelando come tale. E bisogna ricordare che tutti gli interventi imperialisti precedenti si sono nascosti dietro pretesti dello stesso genere, dal ristabilimento della democrazia in Iraq alla lotta contro l'integralismo dei talebani e la libertà delle donne in Afganistan. In tutti questi casi il risultato dell'intervento imperialista è stato un peggioramento drammatico della situazione della popolazione, e questo non a caso: si è appoggiato logicamente alle forze più reazionarie, ai vari clan militari o religiosi, ai piccoli tiranni signori della guerra. Sarà la stessa cosa in Libia, anche se oggi l'intervento imperialista sta ancora cercando la sua strada tramite gli agenti della Cia e i bombardamenti selettivi.
Ovviamente si può capire che per i giovani insorti libici la notizia di un intervento occidentale contro le forze di Gheddafi sia stato un sollievo. Ma lo svolgersi successivo delle operazioni militari l'ha reso di breve durata. E più passa il tempo, più la frazione della popolazione che si era fatta delle speranze rischia di rendersi conto che il sostegno imperialista non è gratuito. Andrà di pari passo con un controllo crescente delle potenze occidentali sul campo degli insorti, tramite il riciclaggio di ex esponenti del regime di Gheddafi, ribattezzati "democratici" e eventualmente delle frazioni dell'esercito che in Cirenaica si sono distaccate dal regime di Gheddafi. Queste ultime fino a questa parte si sono ben guardate dal prendere parte davvero ai combattimenti. Però potrebbero rivelarsi molto utili per restaurare un apparato di Stato e una autorità in questa regione.
Nell'ondata di rivolta che sta attraversando i paesi arabi, l'unica vera speranza è che possa permettere a frazioni della classe operaia di questi paesi di prendere coscienza dei suoi propri interessi, di lottare per i suoi obiettivi di classe e al tempo stesso per una trasformazione sociale a favore di tutti gli sfruttati. Questa lotta si scontra inevitabilmente con gli interessi delle classi privilegiate, con gli apparati di stato che le sostengono, e con gli interessi imperialisti a cui gli uni e gli altri sono legati.
Questo significa che i lavoratori coscienti, i militanti che lottano per una autentica rivoluzione sociale nei paesi arabi, non possono in alcun modo augurarsi o sostenere l'intervento politico o militare delle potenze imperialiste, considerandole alleate. E questo significa anche che i lavoratori coscienti, i militanti rivoluzionari di paesi imperialisti europei come Francia e Italia, non possono in alcun modo sostenere l'intervento militare del loro paese. Qualunque sia il pretesto umanitario o democratico con cui si nasconde, questo intervento può solo a breve o lungo termine rafforzare i ceti privilegiati, i vari clan militari e le forze reazionarie contro i quali i lavoratori e i ceti popolari dei paesi arabi hanno cominciato ad alzare la testa, e alla fine preparare un peggioramento del loro sfruttamento e della loro oppressione.
I militanti rivoluzionari proletari possono solo augurarsi la caduta di Gheddafi, ma anche quella di tutti i regimi reazionari della regione, da quello dell'Arabia saudita a quello d'Israele, e opporsi a tutti gli interventi imperialisti che li rafforzano. Possono solo opporsi a tutto ciò che porta al rafforzamento della presenza imperialista nella regione, e quindi all'intervento occidentale in Libia.
31 marzo 2011