La decrescita, un punto di vista perfettamente reazionario (Da “Lutte de classe” n° 121 – Luglio 2009)

Imprimer
La decrescita, un punto di vista perfettamente reazionario
24 giugno 2009

Se gli anni novanta hanno visto emergere e svilupparsi le idee dell'altermondialismo, oggi presso un certo numero di giovani e meno giovani più o meno contestatari questa corrente subisce la concorrenza di un'altra che si è data il nome di decrescita. Rifiuto della crescita economica, "antiproduttivismo", lotta contro il consumo, volontà di tornare ad un'economia locale, rigetto del progresso tecnico, approccio di "sobrietà" o di "semplicità volontaria" sono i pilastri di questo nuovo vangelo.

È difficile sapere se il relativo successo di questa corrente sarà un fenomeno durevole. Ma è incontestabilmente di moda in questo momento. Questo non è stato certamente visibile nelle recenti elezioni europee in Francia, in cui le liste "Europe décroissance" hanno raccolto solo risultati insignificanti, dallo 0,02% allo 0,04% secondo le circoscrizioni. Ma la sfondata elettorale delle liste "Europe Ecologie" riflette almeno in parte tale tendenza perché molti fautori della decrescita hanno dato i loro voti, in nome di una specie di "voto ecologico utile", alle liste capeggiate da Daniel Cohn-Bendit.

È incontestabile l'interesse per la decrescita di una parte della piccola borghesia intellettuale, di una frangia della gioventù studentesca. Ne è testimone, fra le altre cose, il relativo successo del giornale La Décroissance la cui tiratura, importante per un giornale politico, è di 50 000 copie,.

È chiaro che l'evoluzione verso la decrescita di una parte dei fautori dell'altermondialismo sarebbe un regresso dal punto di vista delle idee.

Infatti l'altermondialismo, nonostante i suoi limiti e il suo carattere profondamente riformista, almeno si situa sul terreno della denuncia delle disuguaglianze e afferma di voler distribuire meglio le ricchezze tra le differenti regioni del mondo.

La decrescita, o meglio la nebulosi di organizzazioni, di giornali e di singoli che si richiamano ad essa, si situa invece su tutt'altro terreno: quello di idee francamente reazionarie. I suoi fautori peraltro non lo negano davvero: Serge Latouche, principale portavoce della decrescita in Francia, denuncia per esempio, nell'introduzione del suo Piccolo trattato della decrescita serena, "il totalitarismo sviluppista e progressista". Il "totalitarismo progressista"! Si fa fatica a crederci. È poco probabile che le donne africane che fanno decine di chilometri a piedi per trovare un po' d'acqua potabile, o le centinaia di migliaia di cittadini del terzo mondo che muoiono di Aids in mancanza di terapie si rallegrino di non essere vittime del "totalitarismo progressista". Si ritrova lo stesso tipo di propaganda anti-progresso in un numero della rivista Silences, aderente alle idee della decrescita, che ha pubblicato in prima pagina un disegno rappresentante tre personaggi mostruosi, metà umani e metà rettili con la didascalia: "vogliono distruggere il mondo". Questi tre personaggi erano presentati così: "La trilogia malefica: crescita, consumo, progresso."

Lo scenario è questo. La corrente della decrescita ostenta chiaramente non solo il suo rifiuto del progresso ma anche la sua volontà di tornare indietro: un certo numero di fautori della decrescita hanno preso per esempio il nome di " rétrogradateurs" (letteralmente : quelli che vorrebbero "scalare" le marce dell'auto)

Non c'è niente di sorprendente nell'apparizione di una corrente di questo tipo, o piuttosto nella sua riapparizione in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo. Le idee di "lotta contro la crescita" e il loro corrispondente in campo demografico, il malthusianismo, ogni tanto tornano a galla per provare a rispondere alle angosce nate dalle crisi. Pertanto non c'è niente di che rallegrarsi. Noi pensiamo che i comunisti rivoluzionari, anche se non sono affatto fautori della crescita a qualunque prezzo, né "produttivisti" accaniti, debbano risolutamente militare contro tali correnti. Semplicemente perché noi ci collochiamo sul terreno del progresso umano e scientifico piuttosto che su quello del regresso generale della società.

Il riciclaggio di vecchie idee

Le idee di decrescita sono apparse una trentina di anni fa. Autori degli anni sessanta e settanta, economisti, sociologi o... teologi ne hanno posto le basi : Nicolas Georgescu-Roegen (1906-1994), il "reverendo padre" Ivan Illich (1926-2002) o il malthusiano Paul Ehrlich (nato nel 1932).

Questa corrente si è sviluppata contemporaneamente all'approfondirsi della crisi del capitalismo, all'inizio degli anni settanta. In quel periodo gruppi di riflessione, di cui il più famoso si chiamava il club di Roma, hanno rimesso all'ordine del giorno le teorie di Malthus (1766-1834) che affermava che la crescita della popolazione avrebbe necessariamente condotto l'umanità alla sua scomparsa. Niente di nuovo sotto il sole: più di un secolo fa, il socialista Bebel scriveva già che le idee malthusiane si sviluppavano sempre "nei periodi di decadenza dell'ordine sociale (in cui) il malcontento generale viene sempre attribuito all'abbondanza di uomini e alla mancanza di viveri e non al modo in cui li si ottengono e si distribuiscono."

È negli anni 70 che si è visto emergere, nell'ambiente del movimento hippie, idee più o meno strane di ritorno alla natura, di una più grande comunione con questa, di un rigetto della tecnica e del "produttivismo", di costituzione di piccole comunità indipendenti, cioè tutte quelle idee che oggi si ritrovano nella decrescita.

Una corrente dalle idee confuse

Fra i pensatori della decrescita si trova di tutto. La decrescita non è una teoria scientifica bensì un agglomerato di idee qualche volta completamente contraddittorie.

Tale eterogeneità consente a questa corrente di dire tutto e qualunque cosa, e spiega come alcuni dei suoi fautori si possano riferire all'estrema sinistra e altri, come Alain de Benoist, chiaramente all'estrema destra. Possiamo citare come esempio e senza cercare di generalizzare questo tipo di discorso a tutta la corrente della decrescita, il teologo Jacques Ellul, considerato come uno dei padri della decrescita, che scriveva nel 1986: "constatiamo che nella Bibbia, l'intervento divino avviene quando la disumanità, quando il male morale e fisico oltrepassano i limiti. Dio provoca allora un avvenimento appropriato a questo eccesso di disumanità, che metterà l'uomo davanti alla scelta di pentirsi o di morire. Sono convinto che la comparsa del virus dell'Aids corrisponda a questo ordine di azione di Dio."

La decrescita si riassume in una confusa miscela di ecologia, anarchismo e malthusianismo. Partendo dall'affermazione che le risorse naturali sono limitate e che la produzione cresce senza tener conto di questi limiti, la decrescita raccomanda la lotta contro la crescita economica, il consumo di massa e lo sviluppo della tecnica. Preconizza il ritorno all'artigianato contro l'industria, la produzione locale e la vita in campagna -ispirandosi in questo all'anarchismo proudhoniano. Alcuni integralisti della decrescita si spingono fino a raccomandare il rifiuto dello sviluppo per i paesi più poveri e alcuni di loro addirittura... della medicina. Esagerazione? Niente affatto: uno dei maggiori teorici della decrescita, Ivan Illich, denunciava la medicina moderna col pretesto che allontana dall'autodiagnosi e dall'automedicazione. Si può notare per inciso che lo stesso Illich militava contro la scuola -una "droga" il cui senso sarebbe quello di preparare i futuri adulti a consumare e a farne degli schiavi. Illich ha per esempio pubblicato nel 1971 un articolo sul "potenziale rivoluzionario della descolarizzazione". Anche se tutti i decrescenti non condividono necessariamente questo punto di vista, è comunque scioccante riferirsi oggi ad un tale autore, in un'epoca in cui decine di migliaia di giovani dei quartieri poveri in Francia sono "descolarizzati" senza che il "potenziale rivoluzionario" di questa catastrofe sociale sia evidente...

Naturalmente questo tipo di elucubrazioni porta alcuni "decrescenti" a lottare contro l'idea che bisognerebbe costruire ospedali e scuole nel terzo mondo. Secondo loro i paesi poveri sono isole preservate dal vizio del consumo -per forza!-. D'altronde, se si segue questa logica i paesi poveri sono necessariamente, dal punto di vista dei "decrescenti", posti meravigliosi proprio perché sono poveri e preservati dalle derive consumiste. La decrescita, dietro il pudico discorso del ritorno alla "semplicità volontaria" raccomanda il ritorno alla povertà. Serge Latouche cita per esempio in una delle sue opere un libro da lui ritenuto "il precursore delle idee della decrescita". Questo libro si chiama: "La povertà, ricchezza dei popoli".

Ovviamente tutti i "decrescenti" non esprimono simili assurdità. Se una parte della corrente considera che il sottosviluppo sia un bene, altri dicono di voler combatterlo, ma preconizzano che gli abitanti dei cosiddetti paesi ricchi... si stringano la cintura. L'idea è che, non essendo la torta abbastanza grande per tutti, bisogna che i paesi occidentali mangino meno per fare sì che i paesi poveri possano mangiare di più. Lì si tratta di colpevolizzare i cosiddetti "ricchi" che sarebbero gli abitanti dei paesi sviluppati. Questo modo di ragionare, non tanto lontano da una concezione cristiana della carità, ovviamente non è nostro. Come lo scriveva Bertolt Brecht nella sua Canzone di Salomone: "San Martino ha dato la metà del suo cappotto ad un povero. E così sono morti di freddo ambedue". Ma dobbiamo essere considerati come ignobili "produttivistici" solo perché preferiamo lottare per un sistema che consenta di produrre cappotti in numero sufficiente per tutti coloro che hanno freddo?

Qualunque sia la tendenza a cui appartengono, questo tema del ritorno alla povertà è sempre presente nella propaganda dei decrescenti. Fino alla nausea: la prima pagina del giornale La Décroissance, nel settembre 2004, osava proclamare su cinque colonne: "evviva la povertà!". Non è sicuro che i sei milioni di persone che in Francia vivono degli aiuti sociali e i 3000 disoccupati nuovi che ogni giorno devono iscriversi nelle agenzie di collocamento apprezzino. E nello stesso modo non è evidente che ai milioni di lavoratori che non riescono a finire il mese piaccia davvero la prima pagina di un numero recente dello stesso giornale: "Merda al potere d'acquisto!".

Fatto sta che secondo i "decrescenti" tutti questi poveri non vogliono capire che tutte le cose confortevoli e comode che possono avere, quali una lavatrice, una macchina, un computer, un collegamento Internet, ecc. sono semplicemente gadget stupidi che allontanano dalla semplicità, dalla spiritualità e dal ritorno a se stessi. Peraltro c'è da credere che i più poveri dei lavoratori siano i migliori pratici della decrescita, poiché sperimentano regolarmente -nonostante sia, è vero, loro malgrado- delle "azioni" raccomandate dai "decrescenti" quali le "giornate senza acquisto" o i "Natale senza regali".

È davvero indecente raccomandare così la miseria in una società in cui tanta gente rimane senza niente. Ma chiaramente questo non mette a disagio i "decrescenti" molti dei quali ostentano un disprezzo davvero agghiacciante per i più poveri, i meno colti, quelli che come loro non avrebbero abbastanza intelligenza e cultura per capire che il conforto non serve a niente, o che per risparmiare l'acqua dello sciacquone e andare al bagno su una sabbiera dei gatti sarebbe il colmo della felicità.

Una dottrina individualista...

La decrescita appare come una dottrina individuale e individualista, nelle sue constatazioni così come nei suoi modi d'azione. Per buona parte dei suoi promotori bisogna "cambiare se stessi per cambiare il mondo" il che significa negare ogni possibilità di un cambio di società con i mezzi della lotta collettiva.

I modi d'azione raccomandati oscillano in maggior parte tra il ridicolo e lo scandaloso. Così il "Manuale del buon rétrogradateur" pubblicato in La Décroissance preconizza di "liberarsi della televisione, dell'aereo e del telefono cellulare". E anche dell'automobile ovviamente, che converrà sostituire con "carrette a cavalli". Per inciso, per chi si chiederebbe che cosa succederà ai lavoratori che producono queste automobili, un redattore del giornale La Décroissance ha scritto nel 2004 un'articolo intitolato: "chiudiamo le fabbriche della Citroën!". Bisogna anche smettere di utilizzare gli ascensori, i frigoriferi, le lavatrici e non più mangiare tanta carne, ecc. Il sogno dei decrescenti è una vita in campagna, vicino alla terra, in autarchia, senza tecnologia, in armonia con la natura e con se stessi poiché povertà o "semplicità" consentirebbero di sentire meglio tale armonia.

Se un certo numero di decrescenti pretendono di non avere rinunciato all'azione collettiva, nondimeno citano come modelli dei comportamenti che la rigettano. Paul Ariès per esempio dice in un'intervista di essere "un militante politico che vuole cambiare il mondo". Prendiamo atto. Ma questo non gli impedisce, nel giornale che dirige, di dedicare un'intera pagina ad "Anna, psicologa", sostenitrice della semplicità volontaria che dichiara: "Si è più felici col possedere meno. Non credo più all'impatto della nostra azione sul piano mondiale. Ho smesso di credere che avrei salvato il mondo. Si vive semplicemente, perché questo ci fa del bene".

Ma anche quei lli decrescenti che non adottano questo pietoso individualismo raccomandano l'azione individuale, la "riflessione individuale sui comportamenti di consumo"... il che significa in fondo trasferire la responsabilità dei problemi della società sui consumatori, cioè sui più poveri, e innanzitutto non sui capitalisti.

...O totalmente inefficiente

Alcuni decrescenti raccomandano come modello di azione collettiva il boicottaggio dei marchi, il rifiuto di fare le spese negli ipermercati per preferire il "collegamento diretto col piccolo produttore", di coltivare da sé le verdure o di fabbricare i propri vestiti, insomma chiamano a "cambiare i modi di consumo". L'idea è di soffocare il gran capitale togliendogli l'ossigeno che gli procura la vendita delle merci.

Un tale modo d'azione sarebbe inaccessibile ai più poveri? "Alibi egoista!" , rispondono i decrescenti. Così in un articolo de La Décroissance del giugno 2009, l'autore evoca alcune epidemie recenti, mucca pazza, influenza aviaria o suina. Secondo lui l'influenza suina avrebbe per origine l'allevamento industriale dei maiali (il che è discutibile, ma è un altro discorso). Il suo ragionamento è questo: l'allevamento industriale mira a produrre carne a buon mercato destinata ai consumatori che non possono, o piuttosto secondo lui non vogliono, spendere troppo. Se questi consumatori accettassero di pagare la carne più cara non ci sarebbe più tale mercato, e quindi non più allevamento in catena, e quindi non più malattie di questo tipo. Non si inventa niente. L'autore dell'articolo scrive: "come cittadini dei paesi sviluppati converrebbe porci la domanda della nostra responsabilità personale. Perché se nell'acquisto di un prodotto il prezzo è uno dei criteri più importanti, io sono personalmente responsabile di questo genere di crisi. Col comprare il pollo a 6 euro al chilo o una maglietta a 5 euro, chi può onestamente credere che i metodi di produzione possano essere ecologicamente o socialmente accettabili?".

Quindi bisognerebbe boicottare i prodotti a buon mercato. Comunque generalizzare un tale sistema sarebbe impossibile in una società in cui i capitalisti organizzano tutta la vita economica e sociale e in cui sono loro che controllano sia la produzione che i prezzi e i salari. Ma anche eretto a dottrina per una società futura questo sistema è reazionario: il vecchio Proudhon (anche vestito di fibre biologiche) con le sue comuni indipendenti e il suo ritorno alla produzione artigianale non è più seducente oggi di quanto non lo fosse ai tempi di Marx. Raccomandare la fine della grande produzione industriale e dell'agricoltura meccanizzata, la "rilocalizzazione dell'economia" significa volere far tornare il mondo tre secoli indietro. Secondo noi il futuro è alla mondializzazione comunista e non, così come lo pretende il decrescente Paul Ariès, ad "un'Europa di cui ogni paese abbia i propri mezzi di vivere".

Una nuova versione del malthusianismo

La corrente decrescente è una nuova versione dipinta in verde del vecchio malthusianismo, il che la rende reazionaria e pericolosa per definizione. Malthus era un ecclesiastico inglese del Settecento, spaventato dall'esplosione demografica dell'inizio della rivoluzione industriale, che scrisse un trattato diventato famoso in cui spiegava che l'umanità non sarebbe sopravvissuta alla crescita della popolazione poiché il numero di esseri umani aumentava molto più rapidamente della quantità delle ricchezze prodotte. La conclusione secondo Malthus era che bisognava limitare le nascite e, per essere più precisi, lasciare morire i poveri. "Un uomo nato in un mondo già posseduto, scriveva Malthus, se non può ottenere dai suoi genitori la sussistenza che gli può legittimamente chiedere e se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha nessun diritto di richiedere una minima porzione di cibo e infatti è di troppo al banchetto della natura; non c'è per lui un coperto vacante."

Le idee di Malthus, già violentemente criticate da Marx e Engels alla loro epoca come una "infame, abbietta dottrina, un blasfemo schifoso contro la natura e l'umanità" hanno conosciuto molti continuatori da due secoli a questa parte. E come abbiamo detto ogni periodo di crisi produce quasi automaticamente una certa quantità di malthusiani che spiegano sapientemente che bisogna limitare il numero delle nascite anziché chiedersi perché il sistema economico non è capace di dare ad ognuno "un posto al banchetto della natura". Oggi alcune correnti anarchiche e numerosi ecologisti sono più o meno apertamente malthusiani. Il verde Yves Cochet, per esempio, ha recentemente proposto, con l'obiettivo di limitare le nascite, di sopprimere gli assegni familiari alle famiglie con più di tre figli, col pretesto che un bimbo europeo avrebbe "un costo ecologico paragonabile a 620 percorsi Parigi-New York". Senza commento.

Il ragionamento di Malthus ritiene che ci sia troppa gente e non abbastanza risorse. Quello dei decrescenti è che non ci sono abbastanza risorse da consentire a tutti di vivere confortevolmente. I termini del ragionamento sono rovesciati, ma è lo stesso ragionamento. Peraltro alcuni teorici decrescenti si riferiscono apertamente a Malthus, facendo un parallelismo tra la decrescita economica e la decrescita demografica che ritengono ambedue necessarie. Ivan Illich scrive così che "la sovrappopolazione rende più gente dipendente da risorse limitate. L'onestà costringe ciascuno di noi a riconoscere la necessità di una limitazione della procreazione e del consumo". Quanto al Papa attuale della decrescita Serge Latouche, ha osato firmare recentemente un articolo dal senso inequivocabile: "bisogna gettare il bambino piuttosto che l'acqua del bagno".

Abbiamo quindi una panoramica quasi completa della decrescita: una teoria individualista che raccomanda la povertà volontaria, il ribasso della produttività e della crescita economica, la limitazione delle nascite e il ritorno alla terra.

Quando intellettuali e politici si scoprono decrescenti

Questa corrente, di cui si vede come non vada tanto oltre il livello zero della riflessione politica, si sta veramente sviluppando? In ogni caso, attrae un certo numero di giovani negli ambienti intellettuali. E il piccolo successo degli ecologisti nelle elezioni europee ha chiaramente invogliato molti commentatori a saltare sul treno -o la carretta a cavalli- della decrescita.

Così un editorialista politico della radio France-Inter, l'8 giugno, spiegava: "i Verdi ritengono che l'ecologia offra un'occasione di cambiare la vita, i rapporti fra la gente, il rapporto al denaro. (...) e innanzitutto cominciano a porre in discussione il concetto stesso di crescita. Si parla di "nuova frugalità", di "crescita selettiva" o di "decrescita selettiva".

Pochi giorni dopo, il 13 giugno, questa volta in un paginone del quotidiano Le Monde tre eminenti intellettuali si esprimevano sull'argomento della "ecologia politica". Due dei tre articoli adottavano il punto di vista dei decrescenti con più o meno sfumature. Jean Gadrey, "membro del consiglio scientifico di Attac" denuncia "l'attuale paradigma di sviluppo, fondato sull'imperativo della crescita". Secondo questo dotto economista, bisognerà imparare a creare dei posti di lavoro "senza guadagno di crescita né di produttività". È a questo grande ritorno indietro che chiama i suoi lettori per esempio mediante "la sostituzione progressiva dell'agricoltura industriale con l'agricoltura biologica di prossimità". Naturalmente tutto questo discorso è costellato di buone parole sulle "creazioni d'impieghi" che tali misure consentirebbero. Certamente. Nello stesso modo la sostituzione delle automobili con le portantine o delle navi mercantili con le galere potrebbe generare un buon numero di posti di lavoro. Ma sarebbe davvero un progresso?

Nello stesso paginone di Le Monde, il sociologo Edgar Morin sostiene ancora più apertamente le tesi decrescenti -in ciò che hanno di più ridicolo. L'obiettivo ultimo dell'ecologia politica secondo lui è di "poetizzare la vita". Questo sì che è un programma! E perora la lotta contro le "intossicazioni consumiste" e la necessità di "cambiare le nostre vite nel senso della sobrietà". Morin si riferisce esplicitamente nel suo articolo al teorico della decrescita, il "reverendo padre" Ivan Illich, e conclude con queste parole abbastanza sciocche: "tutte le soluzioni considerate sono quantitative: crescita economica, crescita del Pil. Ma quando la politica prenderà in considerazione l'immenso bisogno d'amore della specie umana persa nell'universo?". Sostituire la crescita con l'amore non riempirà lo stomaco dei milioni di bambini che muoiono di fame nel mondo ogni anno, ma questo permetterà, almeno secondo Morin, di "poetizzare" la loro vita. O all'occorrenza la loro morte.

Oltre gli ecologisti, la maggior parte dei partiti di sinistra, PS, PCF e anche NPA ostentano la loro compiacenza per le idee di "decrescita", "rottura con la crescita", "antiproduttivismo".

Il PCF per esempio, già nel 2005, dichiarava durante un dibattito alla festa de l'Humanité tramite il suo rappresentante Alain Hayot: "ci vorrebbero quattro o cinque pianeti se tutta la popolazione mondiale producesse e consumasse sullo stesso modello dell'attuale mondo cosiddetto sviluppato. L'attuale crescita genera danni tanto sociali quanto ambientali." La crescita, davvero, non la logica del profitto? E Alain Hayot prosegue: "Dobbiamo ripensare il tipo stesso di sviluppo e di crescita nelle sue finalità come nei suoi modi attuativi, e impegnarci nel superamento dei modi di produzione e di consumo attuali."

Nei "principi fondatori" del NPA -testo nel quale non c'è una minima traccia della parola "comunismo"- si trova il seguente paragrafo: "in opposizione ai modi di produzione e di consumo attuali, proponiamo la rilocalizzazione dell'economia, la ridistribuzione delle ricchezze, la decrescita del consumo delle risorse non rinnovabili". "Rilocalizzare l'economia"... ma cosa vuol dire? Che le varie regioni del pianeta dovrebbero vivere in autarchia? Questo complicherà un po' "la ridistribuzione delle ricchezze" poiché alcune regioni del mondo sono completamente incapaci, per ragioni geografiche, climatiche e geologiche, di produrre un certo numero di ricchezze.

Ma alcuni membri del NPA si spingono più avanti. Philippe Corcuff, insegnante di scienze politiche a Lione, sociologo e "specialista di filosofia politica", membro della direzione del NPA dopo di esserlo stato di quella della LCR, ha così partecipato il 2 maggio scorso ad un incontro organizzato dal giornale La Décroissance sul tema: "no al capitalismo verde". Nel suo intervento sottolinea "le nuove convergenze" fra "anticapitalismo e anti-produttivismo". Nel pretenzioso vaniloquio che è spesso la lingua dei sociologi, si rallegra che ognuno (anticapitalisti e antiproduttivisti) abbia "innescato una autoanalisi critica dei suoi propri non-pensieri". E prosegue: "dalla fine dell'Ottocento le varie sfumature di socialismo sono state spesso penetrate dal produttivismo, dalla credenza (...) che bastava sbarazzarsi delle catene dello sfruttamento capitalista per risolvere tutti i problemi." Da chi provengono queste "credenze"? Da Marx ovviamente. Corcuff denuncia le "ambivalenze" di un Marx che da un lato "sembrava segnato da un fascino produttivista per lo sviluppo industriale che aveva sotto gli occhi" e dall'altro denunciava la produzione capitalista che "esaurisce allo stesso tempo le due fonti da cui sorge ogni ricchezza: la terra e il lavoro" (Il capitale). Questo ragionamento di Corcuff sulle "ambivalenze" di Marx dimostra una sola cosa: si può essere dottore in sociologia senza essere capace di capire l'abc del marxismo. Sì, Marx era "affascinato" dalle straordinarie forze che il capitalismo era capace di far sorgere; e sì, contestava lo sfruttamento del proletariato e l'irresponsabilità con cui i capitalisti trattavano la natura. E quindi ne concludeva che bisognava mettere le forze produttive al servizio della popolazione strappandole dalle mani dei capitalisti attraverso una rivoluzione sociale. Non ci sono lì più ambivalenze che di marxismo nella testa di Corcuff.

Marxismo e decrescita

Infatti solo coloro che non conoscono Marx né il marxismo pensano che egli fosse un "produttivista" accanito, incapace di porre la questione dell'esaurimento delle risorse naturali o della lenta distruzione del pianeta da parte del sistema capitalista. Anzi, Marx e Engels probabilmente sono stati tra i primi a porre questi problemi.

Oggi, parlare del rischio di esaurimento delle risorse naturali, e in particolare delle fonti di energia fossili quali il petrolio, è una banalità. Poiché la specificità delle energie fossili consiste nell'essere non rinnovabili, è chiaro che un giorno si arriverà al loro esaurimento. Si può solo notare che il tempo che ci separa da quel momento è probabilmente più lungo di ciò che ci predicano gli ecologisti e i decrescenti: negli anni settanta le stesse correnti prevedevano la fine definitiva delle risorse petrolifere nel 2000.

Ma questo problema dell'esaurimento delle risorse è ovviamente rilevante. Così come sono rilevanti molte domande che pongono i decrescenti: sì, il capitalismo spinge coloro che ne hanno la possibilità a consumare, tramite la pubblicità e la creazione di mode artificiali. Sì, il capitalismo fabbrica volontariamente prodotti che rapidamente diventano obsoleti per spingere gli acquirenti a rinnovarli. Sì, il capitalismo trasforma in merci tutto ciò che tocca e spinge in mille modi gli esseri umani solvibili (e anche alcuni meno solvibili, grazie al credito) a comprare oggetti qualche volta inutili. È una scoperta? Certamente no. La "mercificazione" tanto criticata dagli ecologisti, gli altermondialisti e i decrescenti, in fin dei conti corrisponde al fatto che il capitale non considera mai un oggetto per il suo valore d'uso ma in funzione di ciò che può fruttare quando sarà venduto. Il capitalismo non produce per soddisfare i bisogni ma per vendere, con l'obiettivo di fare profitto. Non c'era bisogno dei decrescenti per saperlo, poiché già Karl Marx l'aveva spiegato a lungo nel "Capitale" più di un secolo fa.

Si sa anche, grazie allo stesso Karl Marx, che il capitalismo può funzionare solo riutilizzando una parte del plusvalore acquisito durante la produzione per reinvestire con l'obiettivo di accrescere questa produzione. Ciò che viene chiamato la "crescita", cioè il fatto che fuori dai periodi di crisi la produzione di ricchezze aumenta da un anno all'altro, è in realtà ciò che Marx ha definito col termine di "riproduzione allargata del capitale".

Nell'economia capitalista i periodi di decrescita sono periodi di crisi perché la stagnazione, e a maggior ragione il regresso della produzione, non risultano da un'evoluzione coscientemente controllata ma si traducono con catastrofi sociali.

Parlare, come fa il Gadrey citato sopra, di rinunciare ai guadagni di produttività significa in realtà volgere le spalle a tutto ciò che ha permesso all'umanità di progredire per decine di migliaia di anni. Cosa hanno fatto i primi uomini che hanno tagliato i silex, se non inventare mezzi per accrescere la produttività del lavoro? Tutta la storia dell'economia umana è quella di una lunga battaglia per aumentare la produttività tramite il miglioramento delle tecniche di produzione, cosa che ha reso possibile, scusate se è poco, di dare all'umanità i mezzi di liberarsi poco a poco dei vincoli imposti dalla natura. È quello, quindi, che i decrescenti vogliono buttare via?

Perché la "crescita", cioè il fatto che le ricchezze prodotte dalla società umana crescono, sarebbe un problema? È una constatazione che dovrebbe invece essere piuttosto confortante: più la quantità di ricchezze prodotte aumenta, più si avvicina la possibilità per l'umanità di dare "a ciascuno secondo i suoi bisogni". E piuttosto che voler ridurre la quantità di ricchezze prodotte col ritorno all'artigianato paesano, forse sarebbe più opportuno chiedersi come si potrebbe permettere all'insieme dell'umanità di approfittare di questa abbondanza di ricchezze.

I decrescenti rispondono che questo è comunque impossibile e utopico, poiché la terra non può produrre ricchezze sufficienti per soddisfare tutti. La recente teoria dell'"impronta ecologica" spesso sbandierata dai decrescenti, va in questa direzione: se tutti gli uomini vivessero col tenore di vita delle classi medie americane, "ci vorrebbero quattro pianeti per potercela fare".

Porre il problema in questo modo significa in fondo dire agli abitanti dei paesi sottosviluppati che devono rimanere nella miseria. Perché è evidente che l'insieme della popolazione degli Stati Uniti, d'Europa e del Giappone non tornerebbe alle carrette a cavalli e alle candele, e meno male. Ma oltre questo, il ragionamento stesso è assurdo. Esattamente come i malthusiani prevedevano "l'estinzione della razza umana", oltre un miliardo di abitanti sulla terra, i fautori di queste teorie non tengono alcun conto delle possibilità che il progresso scientifico e tecnico potrà offrire all'umanità. Malthus pensava che l'umanità si sarebbe estinta perché non poteva immaginare ciò che sarebbe stata un giorno l'agricoltura intensiva e la produttività dell'industria attuale. Almeno, nel 1780, aveva qualche scusa. I decrescenti odierni, che sono testimoni di ciò che la tecnologia è capace di realizzare e delle speranze che offre, non ne hanno alcuna. Provare ad immaginare quali saranno le capacità della società fra cinquanta anni è impossibile. Il ragionamento dei malthusiani su questo argomento è tanto assurdo quanto il dialogo di una famosa barzelletta: due uomini preistorici chiacchierano tra loro tornando dalla caccia al mammut. Uno dice: "sai, credo che fra 40 000 anni ci saranno 6 miliardi di esseri umani." L'altro risponde: "ma sei pazzo, non si saranno mai abbastanza mammut, ci vorrebbero almeno 6000 pianeti!".

Allora no, non pensiamo che il futuro della società sia nella riduzione a qualunque prezzo della crescita. E non pensiamo neanche che risieda nell'aumento a qualunque prezzo della crescita. Questo aumento è infatti una delle leggi del capitalismo, un sistema nel quale l'unico regolatore della produzione è il mercato cieco. Nessuno, e neanche i capitalisti stessi, ha un controllo effettivo della produzione. Solo una società liberata dalla concorrenza, in cui la produzione sia democraticamente pianificata in funzione dei bisogni, potrebbe essere una società in cui la crescita sia controllata, il che implicherebbe una crescita della produzione di alcune merci se l'aumento dei bisogni esiste, e una decrescita eventuale della produzione in altri settori. Ma tutto questo sarebbe deciso e controllato dalla popolazione stessa. Una tale società si chiama società socialista; essa potrà esistere solo in seguito ad una profonda rivoluzione mondiale che porrà fine alla dittatura dei capitalisti sulla società.

Non è, lo si è capito, l'obiettivo dei decrescenti. Seguendo la moda di un periodo in cui le lotte collettive non hanno il vento favorevole, i decrescenti raccomandano l'azione individuale, il ciascuno per sé. La maggior parte di loro non preconizzano alcuna lotta collettiva, ma consigliano a ciascuno di ritirarsi dal mondo moderno per salvare la propria pelle... certamente senza ignorare che nonostante tutto ci saranno sempre operai per produrre i computer e la carta con cui scrivono stupidaggini sui loro giornali.

Con i decrescenti i capitalisti non hanno da preoccuparsi. Al contrario: se, anche se è poco probabile, le idee decrescenti oltrepassassero il circolo chiuso della piccola borghesia ecologista, sarebbe una benedizione per i capitalisti: avrebbero di fronte lavoratori che non solo accetterebbero la loro sorte, ma sarebbero molto contenti di assistere al degrado del loro potere d'acquisto in nome del ritorno alla semplicità. Gli abitanti delle baraccopoli non farebbero più sommosse della fame ma ringrazierebbero i loro sfruttatori di non avere né scuole, né ospedali, né medicine, né qualunque comodità. Siamo ben convinti che questo non si realizzerà, perché bisogna avere lo stomaco pieno per raccomandare tali idee. Ma se, come ha fatto Gandhi per esempio (un altro Dio dei decrescenti), si raccomanda la rassegnazione ai poveri dicendo loro che la miseria è una ricchezza, i popoli, qualora si riuscisse a convincerli, non ci avrebbero niente da guadagnare fuorché un accrescimento di questa miseria.

I decrescenti vogliono far credere che non ci sia altra alternativa per l'umanità che quella di annegare nel grasso della sovrapproduzione capitalista da un lato, oppure di rigettare ogni progresso accettando o addirittura rallegrandosi della miseria. Al meglio è un'assurdità, e al peggio una menzogna. Esiste un'altra alternativa, l'unica capace di risolvere i problemi della povertà nonché quelli della distruzione dell'ambiente da parte di un capitalismo irresponsabile e criminale: una rivoluzione sociale e l'instaurazione di una società diretta e controllata dalla popolazione stessa: il comunismo.