(Questo testo è stato approvato dal Congresso di Lutte Ouvrière, il 6 dicembre 2009)
"Anno da record per i banchieri di Wall Street" annunciava trionfalmente il 15 ottobre il giornale economico Les Echos. Le azioni in Borsa, crollate durante la crisi borsistica, hanno di nuovo ripreso a crescere. Le grandi operazioni di fusioni e acquisizioni sono ricominciate contemporaneamente alla ripresa delle speculazioni sotto tutte le forme, anche sui titoli più a rischio. Ma al tempo stesso la produzione continua a sprofondare nel marasma, la disoccupazione a crescere e il commercio internazionale a diminuire.
Mentre le televisioni del mondo diffondono le immagini di banchieri di Wall Street che brindano con champagne, dimentichi del loro gran panico di un anno fa, danno anche la conferma che il numero di affamati sul pianeta ha superato il miliardo. C'è nella simultaneità di queste due informazioni non solo un istantaneo della crisi ma anche il riassunto del funzionamento permanente del sistema capitalista.
Le crisi economiche sono momenti in cui il capitalismo ostenta nel modo più chiaro e più brutale il suo viso orrendo, uno spreco colossale di lavoro umano, un impoverimento brutale di una parte della popolazione, con una concentrazione accelerata dei capitali, cioè del potere economico in un numero sempre più ristretto di mani. Quanto alla crisi presente, è l'illustrazione del predominio della finanza sull'insieme della vita economica soffocata dal suo parassitismo.
I profitti ritrovati dalle grandi banche dimostrano che la finanza ha ripreso le sue attività come se niente fosse, pur lasciando nella produzione e nell'economia reale un campo di macerie. E non è finita...
Né la ripresa delle attività finanziarie, né il mantenimento o addirittura l'aumento dei profitti dei più potenti gruppi industriali e bancari, né l'ascesa speculativa dei prezzi delle azioni in borsa che tutto questo alimenta, significano la fine della crisi.
L'unico risultato da mettere all'attivo degli interventi rapidi e massicci degli Stati è il fatto che il panico bancario scatenato il 15 settembre 2008 dal fallimento della banca Lehman Brothers, una delle più grandi banche d'affari degli Stati Uniti, e la crisi di fiducia tra le banche che ne era risultata, sembrano finiti. Può essere solo momentaneo, e la nuova ondata speculativa forse sta gonfiando nuove bolle destinate a scoppiare. Il mercato interbancario, sul quale ogni giorno si negoziano i prestiti tra le banche, ha però ritrovato il suo funzionamento di prima della crisi finanziaria senza che le banche ripercuotano nell'economia le facilità di credito di cui esse stesse godono.
Questa crisi di fiducia tra le banche era dovuta fondamentalmente alla quantità colossale di titoli tossici nelle riserve di tutte le grandi banche e al fatto che nessuna sapeva quale era la parte di questi titoli che aveva perso valore nelle riserve della banca interlocutrice. All'indomani della crisi del settore immobiliare negli Stati Uniti nell'estate 2007, i titoli che erano considerati "tossici" erano quelli che contenevano una parte del credito ipotecario americano, crollato poco prima perché una gran parte dei beneficiari di questi crediti non erano in grado di rimborsare. Ma in poche settimane la diffidenza nei confronti di questa categoria, tutto sommato limitata, di titoli è diventata una diffidenza nei confronti di tutti i "titoli a rischio" che inondavano i circuiti finanziari. Per qualche mese il sistema bancario è stato paralizzato per la ragione allucinante che, nonostante la presenza di una quantità senza precedenti di liquidità nell'economia, questa mancava di liquidità perché le banche rifiutavano di farsi prestiti l'una con l'altra, diffidando dei titoli lasciati in garanzia dei prestiti stessi. Il tasso di interesse dei prestiti a breve termine tra le banche cresceva e la maggior parte delle banche rifiutava di prestare denaro, anche a questo tasso proibitivo. Sarebbe come crepare di sete nel bel mezzo di una cisterna d'acqua dolce!
Dopo avere, direttamente o tramite i fondi speculativi, giocato un ruolo maggiore nello scatenare la crisi finanziaria con l'emettere titoli sempre più fantasiosi e sempre più a rischio ma che fruttavano molto, l'irresponsabilità delle ha toccato il massimo con il blocco repentino delle operazioni di credito. Gli interessi privati delle grandi banche d'affari stavano per portare l'insieme del sistema bancario sull'orlo del crollo. Ci volle l'intervento degli Stati, quali rappresentanti degli interessi generali della classe capitalista, per salvare i banchieri dalle conseguenze delle loro proprie pratiche.
"Bisogna salvare il sistema bancario" questo grido di guerra ha radunato i dirigenti di tutti gli Stati imperialisti, compresi quelli che si proclamavano più ostili agli interventi statali, per mettere tutti i mezzi degli Stati al servizio dei banchieri. Al terzo giorno del panico scatenato dal fallimento della Lehman Brothers, il governo americano annunciava lo stanziamento della somma di 700 miliardi di dollari per riacquistare presso le banche i titoli tossici che esse detenevano. Gli Stati neerlandese, belga, lussemburghese e poi quelli tedesco, britannico e francese, hanno seguito il movimento. Si stima a più di tre mila miliardi le somme messe sul tavolo per dimostrare ai banchieri che gli Stati non avrebbero più lasciato fallire nessuno di loro, qualunque ne fosse il costo per i loro bilanci. Ma è solo una cifra tra altre che alla fine perdono ogni significato, non solo a causa del loro ammontare vertiginoso ma innanzitutto perché gran parte degli interventi degli Stati si svolgono nella più completa opacità. Non solo la società non ha nessun controllo su ciò che viene speso nelle operazioni di salvataggio di un sistema capitalista in fallimento, ma non ha alcun modo di esserne informata. Eppure dietro il polverone delle somme inghiottite nella crisi finanziaria, c'è il lavoro umano, lo sfruttamento che ha permesso l'accumulo dei capitali che sono stati giocati nel casinò della speculazione. E i miliardi iniettati nell'economia sotto forma di banconote, di buoni del Tesoro, di obbligazioni statali, di crediti per salvare i banchieri, in fin dei conti saranno prelevati a spese della società. Tutto questo rappresenta un gigantesco spreco di lavoro umano.
Gli interventi degli Stati pomposamente -e molto abusivamente- battezzati "piani di rilancio dell'economia" miravano a ridurre la diffidenza delle banche tra di loro per spingerle a rilanciare le operazioni di credito. Al di là delle sfumature nelle loro rispettive tecniche, questi interventi consistevano nel promettere alle banche di scambiare i titoli tossici che detenevano e di cui nessuno voleva contro buoni del Tesoro reputati senza rischio perché garantiti dallo Stato.
Dato il ruolo decisivo degli Stati-Uniti nel sistema finanziario mondiale e l'attrattiva dei buoni del Tesoro americano quali titoli particolarmente sicuri in un mondo finanziario in sfacelo, la decisione della Fed -la banca centrale degli Stati Uniti- di scambiare un numero crescente di titoli privati contro buoni del Tesoro è stata decisiva. Ma di colpo il suo bilancio è esploso, gonfiato come era da titoli più o meno a rischio e più o meno tossici. Tra il 10 settembre 2008 e il 31 dicembre dello stesso anno l'attivo della Fed è passato da 950 miliardi a 2300 miliardi di dollari. In altri tempi si sarebbe detto che la "stampa dei biglietti" s'imballava. Le tecniche sono cambiate, così come si sono diversificati gli strumenti monetari, che non si limitano alle banconote. Il principio dell'operazione e le sue conseguenze però rimangono uguali: lo Stato crea moneta inflazionata partendo da niente. Ma queste emissioni monetarie massicce, chiaramente basate sui titoli tossici ripresi alle banche private hanno dimostrato ai mercati finanziari che lo stesso dollaro era basato solo sul vento.
Ma nel regno dei ciechi i guerci sono re, e questo non ha destabilizzato il dollaro immediatamente perché, rispetto a tutte le altre monete e a tutte le emissioni di titoli di Stato, era il valore rifugio ricercato da tutti nelle ore più calde della crisi finanziaria.
Ma, superata momentaneamente questa reazione di panico, il dollaro ha ripreso a scendere, la speculazione sui tassi di cambio è ricominciata e la minaccia di una nuova crisi monetaria sta tornando a galla.
L'altro aspetto dell'intervento degli Stati è stato quello di partecipare alla ricapitalizzazione delle banche il cui capitale era stato proprio svalutato dalla crisi finanziaria. Questa ricapitalizzazione, nel caso di alcune banche particolarmente in difficoltà, ha preso la forma di una nazionalizzazione temporanea, il tempo di liquidare le perdite e di rendere la banca di nuovo redditizia. In altri casi lo Stato si è accontentato di partecipare ad una parte del capitale della banca con l'acquisto di azioni, senza neanche chiedere in cambio il diritto di voto corrispondente e impegnandosi a rivenderle non appena la banca l'avrebbe giudicato auspicabile. Il recente caso del riacquisto anticipato delle azioni detenute dallo Stato francese ha rivelato come anche queste operazioni ordinarie hanno dato luogo a regali supplementari ai banchieri. Lo Stato infatti si era impegnato in anticipo a retrocedere le azioni al prezzo di emissione, particolarmente svalutato. Grazie al ristabilimento della situazione il prezzo delle azioni invece era raddoppiato. Tutti gli azionisti ne hanno approfittato, salvo lo Stato stesso che si è privato di un plusvalore di 5 miliardi di euro.
Più importante di questi prestiti è stata la decisione di porre riparo al prosciugamento dei crediti tra le banche con la promessa che le banche centrali avrebbero fornito liquidità in modo illimitato a tutte le banche che ne avessero bisogno.
Le banche centrali l'una dopo l'altra hanno aperto i rubinetti del credito. Di più si tratta di un credito sempre meno caro. Il tasso direttore delle banche centrali è stato abbassato dappertutto.
Negli Stati Uniti sin dalla fine 2008 il tasso direttore è stato riportato tra lo 0% e lo 0,25%. In altri termini la banca centrale forniva denaro quasi gratuito alle banche che lo chiedevano. In Gran Bretagna il tasso d'interesse è stato abbassato in poche settimane dal 5% all'1,5%. La Banca centrale europea è stata più lenta a reagire, perché non si appoggia ad uno Stato unico ma ad un conglomerato di Stati dagli interessi diversi che costituiscono la zona euro. Ha finito comunque col ridurre il suo tasso base all'1,25%
Il senso del movimento era lo stesso dappertutto, anche se i tassi abbassati dappertutto non si ritrovavano esattamente tutti allo stesso livello. Questo tra l'altro ha aperto immediatamente un nuovo campo di speculazioni. Esse consistono nel prendere a prestito denaro in una moneta dai tassi più bassi per investire poi questi capitali in un'altra moneta che frutta di più. Anche se il guadagno percentuale è basso, riportato a somme enorme rappresenta profitti consistenti. Così col tasso direttore allo 0% della Banca centrale americana, è innanzitutto il dollaro a finanziare la speculazione mondiale.
Sicure di limitare le loro perdite dovute alla svalutazione dei titoli tossici, disponendo di crediti quasi gratuiti in quantità illimitata, le banche hanno ricominciato le loro operazioni, facendo naturalmente ripartire il sistema finanziario perché occorreva che i capitali accumulati circolassero e producessero profitti.
Il piano di salvataggio del sistema bancario è stato il piano di salvataggio dei banchieri. Mai in passato si era verificato a tale livello il famoso detto: "lasciare i profitti privatizzati ma socializzare le perdite".
Il messaggio così inviato al sistema finanziario non è solo un'assoluzione per il passato, è anche un impegno per il futuro: "fate ciò che volete, speculate come potete, lo Stato sarà con voi per riparare i danni". In queste condizioni era inevitabile che la ripresa delle attività bancarie fosse una ripresa delle operazioni speculative. La fine della crisi di fiducia tra le banche ha liberato somme colossali che per qualche tempo erano state congelate. Ma queste somme avevano ancora meno ragioni di andare verso gli investimenti produttivi che non prima dell'inizio della crisi finanziaria. Innanzitutto per la ragione fondamentale che con il ristagno del mercato, ancora aumentato per causa della crescita della disoccupazione, la domanda dell'industria non è all'altezza delle possibilità della finanza. Quanto all'offerta, le banche non hanno effettuato ai loro clienti, o comunque non completamente, il ribasso dei tassi di cui esse stesse beneficiano. Preferiscono intascare la differenza.
Prendere un prestito presso le banche centrali ad un prezzo amico, prestare caro e chiedendo molte garanzie, ecco uno dei segreti del rapido ristabilimento dei profitti delle grandi banche.
Ce n'è un altro: l'intensità delle operazioni speculative. La politica degli Stati verso la finanza è una garanzia, un'assicurazione contro i rischi della speculazione. Chiaramente questa garanzia ha limiti che sono quelli dell'economia produttiva. Tutti gli speculatori lo sanno, così come tutti gli speculatori in borsa sanno che "gli alberi non possono crescere fino al cielo". Ma poco importa se l'ultima speculazione dà il via al crollo finché ognuno può sperare di essere il penultimo.
Tutte le crisi costituiscono nell'economia capitalista una fase di concorrenza particolarmente esacerbata, la cui funzione è doppia: eliminare i più deboli e spingere più avanti la concentrazione dei capitali. Se infatti molti piccoli istituti finanziari sono stati portati via dalla crisi, in particolare i più specializzati nei prestiti ipotecari negli Stati Uniti, l'intervento massiccio degli Stati ha contribuito a salvare le grandi banche più deboli e le istituzioni finanziarie più azzardate (fondi speculativi, agenzie specializzate nei titoli più a rischio, ecc.). Quindi ha frenato l'unico ruolo utile delle crisi in un'economia irrazionale: quella di sgomberare l'economia dei suoi elementi zoppicanti. Ma non ha pertanto diminuito la concorrenza, ne è anzi divenuto uno dei fattori maggiori.
Raramente nella storia del capitalismo la fusione tra i vertici dello Stato e quelli della finanza è stata così visibile. E nell'aiutare il sistema bancario in generale i potenti della politica sono intervenuti massicciamente a favore dei loro protetti. Hanno potuto farlo tanto più facilmente in quanto gli interventi dello Stato, cioè la distribuzione del denaro pubblico, si svolgono nella più completa opacità.
La più potente banca d'affari americana, la Goldman Sachs, ne è un esempio lampante. E stata uno dei principali attori e beneficiari di tutte le bolle speculative formatesi nel corso degli ultimi anni. È stata tra quelle che hanno detenuto più titoli tossici. Eppure non solo ha attraversato la crisi finanziaria senza danno e potuto annunciare per il primo trimestre del 2009 un beneficio record di 3,4 miliardi di dollari, ma ha rafforzato la sua posizione all'interno del sistema bancario.
È vero che Henry Paulson, segretario di Stato al Tesoro dal 2006 al 2008, ha diretto la Goldman Sachs dal 1999 al 2006. Non poteva pertanto dimenticare la sua società di prima dal momento che lo Stato, come i vari organismi di controllo preposti a sorvegliare le banche, contano ai posti di comando numerosi ex quadri dirigenti della Goldman Sachs.
Il 12 settembre del 2008 la crisi finanziaria andava verso il parossismo. Due delle maggiori banche d'affari americane, la Merill Lynch e la Lehman Brothers, erano sull'orlo del fallimento. La Merill Lynch trovò un gruppo pronto ad assorbirla, il terzo mastodonte bancario Bank of America. Paulson rifiutò di dare l'aiuto dello Stato alla Lehman Brothers, il che significava spingerla al fallimento. Ora, guarda caso, questa era il principale concorrente della Goldman Sachs. La Lehman Brothers si dichiarò in fallimento il 15 settembre scatenando reazioni a catena e provocando il panico del sistema bancario mondiale.
Appena tre giorni dopo, ci fu una svolta a 180° quando il governo americano stanziò 85 miliardi di dollari di denaro pubblico per venire in aiuto al gigante delle assicurazioni AIG indebitato con la Goldman Sachs che, con il fallimento di questa società di assicurazioni, sarebbe stato fortemente indebolito.
Nello stesso movimento Paulson annunciò che lo Stato federale avrebbe messo 700 miliardi a disposizione del sistema bancario per riacquistare i titoli tossici (il cosiddetto piano Tarp). Per combinazione, la Goldman Sachs è stata anche uno dei principali beneficiari di questo piano Tarp. Come banca specializzata negli investimenti, non ne aveva diritto. Ma non importa: si è trasformata dall'oggi al domani in una holding bancaria, il che le apriva le possibilità sia di prestiti dello Stato che dell'accesso al credito della Banca centrale. Saldamente appoggiata dallo Stato americano, approfittando della scomparsa di alcune delle banche d'affari americane, la Goldman Sachs è uscita dalla crisi più potente di come c'era entrata. Per riprendere l'espressione del giornalista americano Matt Taibbi: "La Banca d'investimento più potente del mondo è una formidabile piovra avvolta attorno all'umanità, la cui bocca cerca implacabilmente di succhiare dappertutto dove c'è denaro."
E per assicurarsi che il cambio di presidente e di governo non avrebbe danneggiato i suoi interessi, né intaccato la sua influenza al vertice dello Stato, la Goldman Sachs è stata uno dei principali donatori nel finanziamento della campagna di Obama.
A parte questo i capi di Stato del G8 o del G20 sono sulla via di moralizzare la finanza!
L'enorme quantità di moneta e di titoli, per un momento fermata dalla diffidenza reciproca delle banche tra di loro, riprende a circolare. Ma siccome nessuno ha fatto pulizia e nessuno voleva né poteva ripulire la finanza mondiale, il sistema finanziario ha ricominciato a girare esattamente sulle stesse basi di prima del crollo finanziario.
Mentre i dirigenti del G20 fanno diversione con irrisori mercanteggiamenti intorno ai paradisi fiscali o ai bonus dei trader, la finanza riprende ad interessarsi alle attività finanziarie a rischio. Non poteva che essere incoraggiata perché, di là dei discorsi fumosi dei capi di Stato destinati ai popoli sulla "moralizzazione della finanza" il mercato finanziario ha tenuto conto dell'unico messaggio che lo interessava: il prolungamento dei prestiti a tasso basso annunciato dalle banche centrali all'ultima riunione del G20.
L'inizio di ripresa di cui si vantano dirigenti politici e commentatori è una ripresa soltanto finanziaria e di natura speculativa.
I possessori di capitali speculano al rialzo sulle azioni scommettendo sul fatto che nonostante una produzione in regresso le grandi imprese continueranno a produrre profitto grazie all'aumentato sfruttamento dei loro lavoratori. I profitti confortanti annunciati dalla maggior parte delle imprese quotate in borsa, sia negli Stati Uniti che in Europa, costituiscono saldi punti d'appoggio per la crescita speculativa delle azioni. Dal mese di marzo, affermano Les Echos, "il Dow Jones, il Cac 40, il Dax, sono cresciuti di più del 50%. L'S&P 500 quasi del 60%. E il record del mercato americano è del Nasdaq con il 69% circa". Si tratta dei principali indici borsistici. Il Dow Jones, l'indice di riferimento di Wall Street, non è ancora tornata al suo livello massimo di 11400 punti. Ma il fatto che abbia varcato di nuovo la soglia dei 10000 punti significa che molte azioni hanno ritrovato il loro livello di prima della crisi e gli azionisti la loro fortuna.
È anche l'apertura dei rubinetti del credito ad alimentare la ripresa delle grandi operazioni di fusioni-acquisizioni, così come queste offerte pubbliche d'acquisto tramite le quali un gruppo industriale finanziario prova a mettere mano su un altro. I capitali poco inclini a finanziare gli investimenti produttivi, e in particolare gli investimenti a lungo termine, servono invece a contendersi le imprese che a torto o ragione sono considerate profittevoli. E queste operazioni di fusioni-acquisizioni, o anche solo l'annuncio della loro eventualità, a loro volta contribuiscono a fare crescere i prezzi delle azioni e quindi dei corsi della Borsa.
Sono anche gli acquisti speculativi che fanno crescere i prezzi di alcune materie prime. Il barile di petrolio il cui prezzo era di 33 dollari nel dicembre 2008, si è ritrovato a 75 dollari il 15 ottobre 2009. Ovviamente non è stata la domanda a raddoppiare in nove mesi. Sono i possessori di capitali che scommettono sul fatto che le speranze di ripresa e quindi la speranza di una crescita della domanda di petrolio orientino il prezzo di questa materia prima al rialzo. Poco importa per lo speculatore odierno che la speranza non si realizzi e che la domanda effettiva di domani sia in regresso. Dal momento che, vendendo a tempo debito, prima del rivolgimento della tendenza, lo speculatore può ottenere un beneficio. È in questo modo che si formano le bolle speculative che finiscono per esplodere.
"Washington vuole provare a fermare la speculazione sul petrolio" era il titolo di Le Monde del 1° agosto 2009 che aggiungeva questa informazione significativa: "stando alla JP Morgan Chase, uno dei grandi partecipanti del mercato a termine, più di 25 miliardi di dollari (17,75 miliardi di euro) sarebbero stati investiti sui contratti futuri nel corso dei sei mesi scorsi. Niente illustra l'ampiezza di queste transazioni speculative meglio del premio di 100 milioni di dollari che dovrebbe percepire un trader della City Group specializzato negli idrocarburi". (C'è da sottolineare che il suddetto trader, pur percependo un premio fantastico, ha intascato solo lo 0,4% di ciò che la sua Banca ha investito in acquisti speculativi sul petrolio).
"Titolizzazioni, il ritorno" annunciava Le Monde dei 4 e 5 ottobre 2009. Bisogna ricordarsi che l'operazione di titolizzazione che consiste nel mischiare crediti di ogni sorta, compreso crediti particolarmente a rischio, e nell'emettere obbligazioni basate su questi crediti, è stato direttamente il fattore scatenante della crisi finanziaria.
I finanzieri sono anche preoccupati di inventare nuovi strumenti, titoli tanto a rischio, o anche di più, quanto lo erano quelli che hanno portato allo sfacelo. I fondi speculativi che li commercializzano ritrovano una nuova gioventù: "ascesa degli Hedge Funds mai vista da undici anni" era il titolo di Les Echos del 24 agosto, e si può leggere nello stesso quotidiano: "è l'ora della creazione di nuovi fondi". Gli "hedge funds" sono istituti specializzati nelle speculazioni più a rischio. Ma la maggior parte sono emanazioni di grandi banche e i fondi con cui speculano vengono sia da queste banche che da imprese o ricchi singoli. Il fatto che spuntano di nuovo dopo la crisi finanziaria come funghi dopo la pioggia è il segno che tutta la classe capitalista ha ripreso a speculare.
Questa ripresa delle operazioni finanziarie costituisce il contrario di una ripresa economica. I guadagni di cui si inorgogliscono i finanzieri e il prezzo che sono costati costituiscono un prelievo gigantesco sui ceti popolari. Questi prelievi soffocheranno al tempo stesso tutta la vita economica. La finanza, sempre più distaccata dall'attività produttiva, la inaridisce e così la soffoca.
Mentre le attività finanziarie crescono, l'attività produttiva ristagna, o addirittura indietreggia. Nonostante alcuni mesi di allargamento del mercato dell'automobile stimolato dai vari aiuti alla rottamazione, i costruttori valutano al 10% il regresso del mercato europeo per il 2009 e prevedono un calo dall'8% al 10% nel 2010.
I vari premi che secondo il direttore commerciale internazionale della Peugeot hanno concorso "al 90% del volume venduto sul vecchio continente" non hanno in realtà allargato davvero il mercato. Non hanno fatto altro che spingere ad anticipare gli acquisti ma al tempo stesso hanno compromesso gli acquisti futuri.
La federazione (padronale) delle macchine utensili in Germania ha constatato in un comunicato in data 1° luglio 2009 che "non prevede miglioramenti della congiuntura" mentre ha registrato "un calo del 51% in un anno dei suoi ordini in provenienza dall'estero" e le sue attività in Germania "hanno avuto un regresso del 42%".
Poiché le macchine utensili sono un settore essenziale per la produzione industriale e hanno una parte importante nelle esportazioni tedesche si può misurare fino a che punto "il fondo della crisi non è ancora raggiunto" secondo lo stesso comunicato.
Questo parere è condiviso dal padrone del numero uno mondiale della chimica, il tedesco Basf che afferma con un certo eufemismo: "credo che questa crisi durerà un po' di più" e che l'economia "fondamentalmente non sta meglio".
L'Istituto statistico dell'unione europea, Eurostat, lo conferma: "nel luglio 2009, rispetto al luglio 2008, la produzione industriale è in regresso del 15,9% nella zona euro e del 14,7% nell'insieme dei 27 paesi dell'unione europea".
Per la prima volta dal 1982, il volume degli scambi mondiali è in regresso. L'organizzazione mondiale del commercio (WTO) valuta questo ribasso al 9% circa per il 2009. In alcuni settori le importazioni e le esportazioni sono calate dal 30% al 50%. Il regresso del commercio internazionale è uno degli aspetti dell'indebolimento del mercato. Ma è stato peggiorato dal prosciugarsi dei crediti che deriva dalla crisi bancaria, poiché il commercio internazionale è in gran parte assicurato dal credito.
Il regresso del commercio internazionale ha sempre generato politiche protezionistiche da parte degli Stati, che a loro volta rallentavano ancora il commercio internazionale.
Se la crisi presente non si è tradotta con misure protezionistiche brutali e soprattutto visibili quale il rialzo delle tariffe doganali per esempio, è perché i ripiegamenti protezionistici avrebbero oggi ancora più conseguenze sull'economia mondiale che non durante la crisi del 1929.
La divisione internazionale del lavoro è ancora più spinta che non all'epoca della "grande crisi". Non si limita ai due poli quali i paesi sottosviluppati produttori di materie prime da un lato e i paesi industriali sviluppati dall'altro.
Nel corso di uno stesso processo di produzione gli elementi che entrano nella fabbricazione di uno stesso prodotto finale -un'automobile per esempio- attraversano parecchie volte i confini nazionali. Anche un mercato così vasto come quello degli Stati Uniti non funziona in autarchia e nel valore di un'automobile di marchio Ford o General Motors la parte di elementi fabbricati in altri paesi è importante o addirittura dominante. Il commercio internazionale è costituito per un terzo almeno da spostamenti tra varie imprese di una stessa multinazionale. Proteggere un'economia con diritti doganali alti potrebbe danneggiare in primo luogo i capitalisti del paese che ne prenderebbe l'iniziativa.
Più che mai le potenze imperialiste appaiono, per riprendere l'espressione di Trotsky, come banditi legati alle stesse catene.
Così il protezionismo prende forme più sottili come le manipolazioni monetarie o le sovvenzioni statali.
È di moda, dall'inizio della crisi, spiegarla non con il funzionamento stesso dell'economia capitalista bensì con le cosiddette politiche "liberali", la deregolazione, la deregolamentazione, cioè la libertà senza intralci per i capitali di circolare, di spostarsi e di investirsi da un paese all'altro, da un settore all'altro, la soppressione delle frontiere tra banche d'affari e banche di deposito, tra banche e società di assicurazione, tra il settore produttivo e il settore finanziario. Ma la deregolamentazione degli anni '80 e '90, prima di essere una causa, o più precisamente un fattore di aggravamento, è stata un effetto. È stata un adattamento alla finanziarizzazione crescente dell'economia, allo sviluppo considerevole del credito e, di conseguenza, dell'indebitamento.
Sin dall'inizio degli anni '70, non essendo più il mercato abbastanza in estensione per garantire profitti alti, il gran capitale fa la guerra ai lavoratori per ridurre la parte dei salari. C'è riuscito. Ma al tempo stesso ha ridotto i consumi solvibili e aggravato la causa fondamentale della crisi.
Nei paesi imperialisti la pozione magica per ridare vigore al mercato è stata il credito. Credito allo Stato, cioè il debito pubblico, ma anche credito ai singoli. I periodi di "crescita", che dal 1971 si alternavano ai periodi di recessione, erano dovuti al credito.
Questa "crescita a credito" ha arricchito le banche, ha spinto ad un gonfiarsi scandaloso della sfera finanziaria. La sua controparte è stata la crescita continua dell'indebitamento.
Quello delle famiglie non ha smesso di crescere in tutti i paesi imperialisti. Rappresentava di per sé nel 2006 il 45% del Pil in Francia, il 68% in Germania, l'84% in Spagna e il 107% in Gran Bretagna. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l'indebitamento delle famiglie americane rappresenta oggi il 93% del Pil (di cui il 77% del Pil solo per l'indebitamento ipotecario).
I crediti ipotecari americani, il cui crollo nella cosiddetta crisi dei "subprimes" nel 2007 è stata la prima fase della crisi finanziaria, sono stati solo l'ultimo momento di questa corsa folle al credito e quindi all'indebitamento.
Stessa evoluzione per le imprese e per ragioni simili. L'indebitamento delle imprese non finanziarie ha seguito l'andamento dell'indebitamento delle famiglie. Nel 2006, cioè poco prima dello scoppio della crisi nell'immobiliare americano, l'indebitamento fatto salvo il debito pubblico superava di molto, in tutti i grandi paesi imperialisti, la totalità del prodotto interno lordo.
Tutta l'economia quindi funzionava con l'artificio del credito. Il che significa che anche all'epoca in cui la borghesia si congratulava con una certa crescita, si trattava di una crescita artificiale. Questo significa anche che la finanza prelevava una parte importante e sempre crescente sull'economia ben prima che la crisi bancaria del 2008 e le iniezioni di fondi massicci degli Stati facessero varcare un grande passo alla finanziarizzazione dell'economia.
Più importante ancora è la crescita continua dell'indebitamento degli Stati stessi. Il debito pubblico ha sempre avuto una parte maggiore nel funzionamento dell'economia capitalista, in particolare nei periodi di crisi e di guerre.
Ben prima della fase attuale della crisi economica, i disavanzi crescenti dei bilanci degli Stati cumulati da un anno all'altro rappresentavano un ammontare sempre più alto.
Per la Francia il disavanzo dello Stato è passato da 36,2 miliardi di euro nel 2006 a 38,4 miliardi nel 2007, poi a 56,6 miliardi nel 2008 per arrivare a 140 miliardi nel 2009! Il che significa che nel 2009 la metà delle spese dello Stato -essendo il totale del bilancio dell'ordine di 280 miliardi- sarà finanziata dal credito.
Nel primo semestre del 2009 il debito pubblico ha raggiunto 1413 miliardi di euro.
L'esplosione del debito pubblico significa allo stesso tempo l'esplosione dell'ammontare degli interessi pagati ai prestatori. Il cerchio è chiuso. Per aiutare i finanzieri, lo Stato ha aggravato il suo indebitamento in proporzioni colossali. Per pagare le sue cambiali, fa appello ai finanzieri che prelevano somme crescenti come servizio del debito. Perché si dovrebbe investire nella produzione mentre prestando agli Stati si fanno profitti più alti con meno sforzi? L'economia dei rentiers, l'economia usuraria all'origine della crisi, esce rafforzata dalla crisi.
La concorrenza, elemento motore dell'economia capitalista all'origine, caricatura se stessa quando non si dirige verso beni risultanti dal lavoro umano, consentendo di giudicare la sua efficacia, ma verso titoli senza valore di per sé. Questo trafiletto del giornale economico Les Echos riflette meglio di molte spiegazioni la follia di un sistema economico: "per sedurre gli investitori (eufemismo per indicare i finanzieri che prosciugano il bilancio) la Francia sta per diversificare la sua offerta di debito (!!!). La concorrenza sarà feroce. L'anno prossimo gli Stati della zona euro faranno appello ai mercati per prendere a prestito circa mille miliardi, più che nel 2009. Il Tesoro francese non ha diritto all'errore se vuole investire i 175 miliardi di euro di titoli di medio e lungo termine annunciati nel progetto di legge finanziaria".
I dirigenti politici del mondo imperialista parlano oggi della necessità di una deregolamentazione più stretta del sistema bancario, di ristabilire alcune delimitazioni, di un controllo statale più stretto dei flussi finanziari. Stando a quello che fanno davvero, sono solo parole vuote. Anche in campi così marginali come i bonus dei trader o la soppressione dei paradisi fiscali, le misure decise o immaginate sono irrisorie.
Non significa però che questo sia impossibile. L'economia capitalista potrebbe tornare ad una regolamentazione molto più stretta delle attività finanziarie senza pertanto cessare di essere un'economia capitalista.
Anche negli Stati-Uniti, la cui legislazione nel campo economico è stata però sempre una delle più liberali, l'attività bancaria è stata, tra gli anni '30 e gli anni '80, fortemente regolamentata e compartimentata. I vari mestieri della banca erano divisi, separati, e un atto governativo del 1935 ha anche perfino vietato alle banche di varcare i confini dei vari Stati della federazione, imponendo in nome della protezione delle piccole banche regionali uno spezzettamento del sistema bancario.
Ma le leggi dell'economia sono più forti dei regolamenti. Alla fine degli anni '60, quando nel sistema monetario internazionale imperava ancora il sistema di cambi fissi di Bretton Woods e il sistema bancario era regolamentato, la moneta americana, il dollaro, aveva trovato il modo di aggirare i regolamenti con l'invenzione dei famosi "eurodollari". La creazione di moneta da parte delle banche americane era strettamente regolamentata in terra statunitense? Non importa: le banche americane accordavano crediti in dollari fuori dagli Stati-Uniti. Questa invenzione è stata la sua prima trovata, il primo strumento della finanziarizzazione dell'economia.
Per potere creare l'euro e per assicurare una certa solidità alla zona euro, le varie borghesie associate in questo sistema hanno fissato dei paletti con i criteri di Maastricht. Questi paletti sono stati tutti portati via in poche settimane: mentre il disavanzo del bilancio non doveva superare il 3% del Pil in alcun paese della zona euro, né l'indebitamento il 60% del Pil, in Francia il disavanzo del bilancio è salito all'8,2% del Pil.
Dietro le formulazioni giuridiche i criteri di Maastricht riflettevano la preoccupazione degli Stati più ricchi della zona euro di non assumere i disavanzi eccessivi degli Stati più poveri, in altri termini di non pagare per la borghesia di questi ultimi.
Di fronte alla crisi finanziaria il consenso era generale per l'intervento massiccio degli Stati allo scopo di proteggere il sistema bancario e al prezzo di calpestare gli accordi di Maastricht. Rimane nondimeno il fatto che l'assenza di una politica coordinata su scala europea, le differenze nell'ammontare di questi aiuti e la loro forma variegata aggiungono fattori di tensione che minano la zona euro e di conseguenza la moneta europea stessa. Anche nella sua rivalità economica con le altre grandi potenze economiche, a cominciare dagli Stati Uniti, l'Unione Europea paga la sua assenza di unificazione politica.
Con l'iniezione di una quantità colossale di moneta nell'economia gli Stati hanno non solo gonfiato la massa monetaria ma anche reso fragile il sistema monetario stesso. La speculazione sui tassi di cambio è attualmente uno dei campi speculativi più redditizi, ma anche uno dei più insostituibili. Tutte le grandi imprese ci si dedicano in permanenza.
Vittime consenzienti della speculazione sulle monete, gli Stati delle potenze imperialiste la usano anche come arma gli uni contro gli altri.
Le manipolazioni monetarie fanno da strumenti protezionistici.
Nel mese d'ottobre 2008 il dollaro si scambiava contro 0,79 euro. Un anno dopo si scambiava contro 0,67 €, un ribasso quindi del 15%, favorendo tanto più le esportazioni americane verso la zona euro. I dirigenti americani, pur ripetendo che vogliono un dollaro stabile ad un livello alto, non hanno nessuna fretta di intervenire sui mercati monetari per difendere il dollaro.
In mancanza di uno Stato europeo, la zona euro ha minori possibilità degli Stati-Uniti di giocare sul tasso di cambio dell'euro. Peggio, non essendo l'euro moneta unica dell'Unione Europea, il tasso di cambio è utilizzato anche al suo interno come arma protezionista. La sterlina per esempio ha perso tra il mese di luglio e il mese d'ottobre, cioè in tre mesi, quasi il 10% del suo prezzo nei confronti dell'euro. Non solo ciò favorisce così le esportazioni britanniche verso la zona euro, ma introduce un fattore d'instabilità in più nell'economia dell'Unione Europea.
Ex dirigente del Fmi divenuto uno degli ispiratori degli altermondialisti, il premio Nobel dell'economia Joseph Stiglitz paragona la situazione monetaria creatasi con "l'utilizzo della stampa dei biglietti" della banca centrale americana a quella di un uomo che scia "sull'orlo di un burrone in piena nebbia" (intervista del 27 agosto). Non da oggi il dollaro come tutte le altre monete è eroso dall'inflazione. I sobbalzi della moneta americana, su una tendenza di fondo al ribasso del suo prezzo in equivalente oro, accompagnano la lunga crisi dell'economia capitalista mondiale. La crisi del dollaro, portando al crollo del sistema monetario di Bretton Woods nel 1971, era anche stata la prima manifestazione spettacolare della lunga crisi che cominciava. Niente illustra lo sgretolarsi continuo del dollaro meglio del paragone tra queste due cifre: il 15 agosto 1971, giorno in cui Nixon annunciava la decisione di svalutare il dollaro e di rompere il vincolo che legava la moneta americana all'oro, il prezzo dell'oro era di 35 dollari l'oncia. Oggi ha appena superato 1000 dollari l'oncia!
La fabbricazione quasi illimitata di biglietti verdi dei vari piani d'aiuto al sistema bancario americano, il gonfiarsi del bilancio della banca centrale con titoli tossici che hanno minato la fiducia nel dollaro, possono portare al crollo della moneta americana?
La sterlina, pure una delle principali monete del mondo, ha fatto l'esperienza nel 1992 di un movimento speculativo al ribasso tanto massiccio che il governo britannico era stato costretto di svalutare la sua moneta (lasciando in questa stessa occasione un miliardo di dollari di beneficio allo speculatore Soros).
In ragione della sua posizione di strumento monetario mondiale il dollaro non è nella stessa posizione di una qualsiasi altra moneta, sterlina compresa. La sua forza sta proprio nella sua qualità di strumento di pagamento e di riserva mondiale. Il fatto che la Cina, il Giappone o i paesi dell'Opec ne detengono molto nelle loro riserve li incatena alla moneta americana e li costringe a fare ciò che il governo americano non fa: intervenire sul mercato monetario per riacquistare i dollari in eccedenza in un dato momento. Così le banche centrali di parecchi paesi d'Asia, di Corea, d'Indonesia, di Thailandia e di Hong-Kong sono recentemente venute in aiuto alla moneta americana, riacquistando più di un miliardo di dollari sul mercato dei cambi.
Ogni svalutazione del dollaro significa che una parte delle riserve accumulate da questi Stati alle spalle delle loro classi lavoratrici parte in fumo. L'indebolimento del dollaro stesso è anche un mezzo per la più grande potenza imperialista di saccheggiare i paesi meno sviluppati.
La complicità tacita di tutti gli Stati che detengono dollari nelle loro riserve non basterà necessariamente a salvare la moneta americana. C'è una quantità tale di liquidità nell'economia mondiale che la speculazione è capace di mobilitare somme paragonabili, o anche superiori, alle riserve delle banche centrali.
La bancarotta degli Stati-Uniti oggi è apertamente ipotizzata, non solo da economisti ma anche da certi governi, stando alle informazioni che sono filtrate sulle riservate riunioni organizzate per istituire un pacco di monete in grado di fare da strumento di transazione, in particolare per il petrolio. Una moneta internazionale accettata da tutti non si può però improvvisare. Una crisi grave del dollaro porterà inevitabilmente ad una crisi dei cambi e a variazioni brutali dei tassi di cambio, aggravando ancora le difficoltà del commercio internazionale.
Tra i paesi industriali semisviluppati, sono i paesi dell'est europeo, ex democrazie popolari o ex membri dell'Unione sovietica, a conoscere le conseguenze più gravi della crisi. Non rimane niente dei "miracoli" estone o slovacco.
Le delocalizzazioni delle grandi fabbriche di automobili tedesche o francesi in Slovacchia, per esempio, che hanno permesso a questo paese di registrare durante alcuni anni tassi di crescita impressionanti del suo Pil, oggi si rivolgono contro di esso.
Il regresso della produzione industriale prende un'ampiezza drammatica per questi paesi: per esempio il 20,4% in Slovenia secondo le statistiche di Eurostat. Raggiunge il 27,9% in Estonia.
Quei paesi dell'est che non fanno parte della zona euro, e sono la maggior parte, pagano la crisi economica anche con l'indebolimento o addirittura il crollo della loro moneta. La crisi finanziaria ha spinto le banche occidentali a ritirare i loro capitali dai paesi dell'Europa orientale.
Dato che le banche di questi paesi sono per l'essenziale controllate dalle banche occidentali, il Fmi ha provato il bisogno di stanziare crediti per la Romania, l'Ungheria, ecc, meno per aiutare lo Stato rumeno, per esempio, a pagare i suoi dipendenti che non per aiutare le banche occidentali a non subire le conseguenze di un crollo bancario generalizzato nei paesi dell'est europeo.
La crisi dell'economia mondiale e la regressione degli scambi potrebbero teoricamente coinvolgere meno i paesi più poveri, tenuti comunque in disparte dagli scambi mondiali. Ma questo sarebbe trascurare l'impatto della finanziarizzazione dell'economia mondiale sui paesi poveri.
Non si tratta solo del peso che rappresentano per questi paesi il debito e i diktat del Fmi che mirano a costringere i loro governi a fare politiche d'austerità. Più grave per questi paesi, in particolare per quelli che non sono in situazione di autosufficienza alimentare, è il fatto che la finanziarizzazione dell'economia mondiale e le speculazioni che ne derivano rendono i prezzi dei grandi prodotti alimentari quali il grano, il riso o il granoturco particolarmente instabili. Per popolazioni sotto-alimentate, al limite della carestia, una variazione dei prezzi di questi prodotti di base di pochi punti percentuali si traduce con milioni di morti.
L'economia capitalista amplifica le conseguenze di catastrofi naturali come un anno di siccità o le inondazioni. Quei contadini d'Etiopia o del Sahel che non moriranno di fame per conseguenza diretta di una raccolta catastrofica saranno minacciati di morire perché le cattive raccolte a livello mondiale spingono a speculare al rialzo sui prezzi dei prodotti alimentari.
Infine per misurare le conseguenze della crisi dell'economia mondiale sulle masse povere di un gran numero di paesi tra i più poveri, non si può trascurare il ruolo del denaro inviato alle loro famiglie dai lavoratori migranti. Un aumento della disoccupazione nei paesi imperialisti di accoglienza si traduce meccanicamente con un aggravamento della povertà nei paesi di partenza.
La fase aggravata della crisi è entrata nel suo terzo anno se si data il suo scoppio all'aperto del primo trimestre 2007 quando il rivolgimento del mercato americano ha portato ai primi fallimenti di agenzie specializzate nel credito immobiliare.
Il suo bilancio è già catastrofico sia sul piano economico -regresso della produzione, fabbriche chiuse- che sul piano sociale e umano -la disoccupazione e le sue conseguenze materiali e morali.
Gli interventi rapidi degli Stati hanno salvato il sistema bancario e evitato momentaneamente ciò che i loro economisti chiamano la "crisi sistemica" ma l'hanno fatto compromettendo il futuro.
La borghesia e i suoi politici non hanno ancora presentato il conto per tutto ciò che hanno consentito al sistema bancario nel corso dei due anni trascorsi. E anche se fosse vero che "si vede la fine del tunnel" questo conto sarà salato non solo per la classe operaia ma anche per tutte le classi popolari. Inoltre solo i dirigenti politici e i banchieri vedono la fine del tunnel!
Le somme distribuite con larghezza dagli Stati, come i benefici ritrovati delle banche, provengono tutti direttamente o indirettamente dallo sfruttamento. E pagarne il prezzo significa necessariamente aggravare lo sfruttamento della classe operaia ma anche prendersela con altre categorie popolari. L'agitazione attuale nell'ambiente contadino per protestare contro il degrado delle sue condizioni di esistenza non è un fenomeno episodico o superficiale.
La classe capitalista non può attraversare la crisi della propria economia che schiacciando le condizioni d'esistenza di tutte le classi popolari. I sobbalzi economici porteranno necessariamente a sobbalzi sociali.
La borghesia e i suoi politici faranno inevitabilmente una politica che spingerà la classe operaia verso questo stato di "miseria biologica" di cui Trotsky parlava a proposito degli Stati-Uniti durante la crisi del 1929, pure la più prospera delle grandi potenze capitaliste.
Anche se, come all'epoca, dappertutto, in tutti i grandi paesi imperialisti, la classe operaia è sorpresa, disorientata, sarà inevitabilmente spinta a reagire. Malgrado i grandi partiti riformisti completamente al servizio della borghesia, nonostante direzioni sindacali integrate al sistema capitalista, ci saranno esplosioni sociali. Nessuno ne può prevedere le scadenze e ancora meno le condizioni del loro inizio. Ma la crisi rende più urgente la necessità per la classe operaia di opporre la sua propria politica alla politica della borghesia.
È la situazione oggettiva stessa, l'ascesa della disoccupazione di massa e la minaccia per ciascuno di perdere il posto di lavoro, che pesa innanzitutto sullo stato d'animo presente delle masse operaie. Ma ciò che pesa ancora di più per il futuro e per la futura risalita della combattività operaia è la perdita di riferimenti di classe.
Una delle conseguenze peggiori del passaggio del Partito socialista prima, del Partito comunista poi, dalla parte dell'ordine borghese è stata quella di svilire la coscienza dei lavoratori allontanandoli dai loro interessi di classe.
Col passare del tempo e degli avvenimenti, li hanno sostituiti con i pregiudizi riformisti, il nazionalismo, l'idea che la loro nazione costituisce una comunità di interessi, e molte altre idee, riflessi e atteggiamenti reazionari. E purtroppo molti di quelli che a sinistra del Partito socialista e del Partito comunista si distaccano da questi ultimi lo fanno solo sul terreno delle combinazioni elettorali o di alcune battaglie "di società".
La frase "l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi" si trova forse ancora sugli striscioni o dietro i palchi, ma anche per le formazioni che si affermano d'estrema sinistra è annegata nel mezzo di una moltitudine di altre cause ecologiche, femministe, ecc, che, per quanto rispettabili siano alcune di loro, non favoriscono la coscienza di classe. Al contrario la negano perché su questi terreni i lavoratori si trovano mischiati a varie categorie della piccola borghesia, cioè dietro di loro.
E non saranno certamente le direzioni sindacali a veicolare la coscienza di classe, loro che sono completamente integrate all'apparato di Stato imperialista, visceralmente diffidenti verso ogni mobilitazione della classe operaia che sia in grado di portare ad una contestazione dell'ordine capitalista.
La rivendicazione di una "buona politica industriale" portata avanti dalla direzione Cgt è la trovata del momento (le altre confederazioni non si danno neanche la pena di giustificare la loro abdicazione con considerazioni apparentemente rivendicative). Partendo dalla constatazione giusta che la borghesia demolisce l'industria e gli impieghi industriali, la Cgt ne trae la conclusione che bisogna chiederle -o chiedere al presidente della Repubblica- di fare una "buona politica" mirando allo sviluppo industriale e all'occupazione. Col cercare di evitare ogni rimessa in discussione dell'ordine capitalista, gli apparati riformisti cadono nel nullismo più misero. Non sarà dietro gli attuali maestri dell'economia che i lavoratori salveranno le loro condizioni d'esistenza, ma contro di loro.
In questo periodo in cui la crisi renderà la lotta di classe della borghesia contro la classe operaia particolarmente feroce, raccomandare un'intesa vuol dire scegliere il campo della borghesia.
Portare avanti obiettivi che mirano a sminuire l'antagonismo tra gli interessi della classe capitalista e quelli delle classi sfruttate, cercare di conciliarli, vuol dire mettersi al servizio degli sfruttatori.
L'unica politica giusta è invece quella di svelare le contraddizioni di classe, di mettervi il dito sopra, di portare avanti esigenze che dimostrino che la classe operaia non ne uscirà senza una lotta decisa contro la borghesia.
Mentre la crisi spinge all'esacerbarsi della lotta di classe, nasconderla per sostituirci le battaglie elettorali tra campi politici che al potere fanno tutti la politica della borghesia vuol dire sostituire la realtà sociale con un teatrino. Il governo attuale in Francia è servilmente al servizio della classe possidente. Ma concentrare l'antagonismo contro la sola squadra al potere e solo sul terreno elettorale, questo significa disarmare i lavoratori.
La crisi ridà tutta la sua attualità al Programma di Transizione, elaborato da Trotsky per dare una bussola politica alla classe operaia in un altro periodo di crisi grave del capitalismo.
Da parecchi anni, di fronte all'ascesa della disoccupazione e al moltiplicarsi dei licenziamenti collettivi, mettiamo l'accento sull'agitazione politica per il divieto dei licenziamenti. Non si tratta di rallegrarsi del fatto che questa rivendicazione sia stata ripresa, prima da altre organizzazioni più o meno d'estrema sinistra come il Poi o l'Npa e poi, a momenti, dal Pcf e dalla Cgt. Bisogna capire che è solo uno degli elementi di un insieme di rivendicazioni che mirano a contestare alla borghesia la sua dittatura sull'economia e che isolata dal resto, svuotata del suo vero significato, la parola d'ordine può essere ripresa da organizzazioni riformiste.
Il divieto dei licenziamenti implica certamente già una contestazione del santo diritto dei padroni di fare ciò che vogliono con le loro imprese. Ma non è una ricetta. Rimane un augurio astratto se viene riassunta in una rivendicazione impresa per impresa, in particolare nel caso di quelle che si preparano a chiudere. Il divieto dei licenziamenti va collegato alla ripartizione del lavoro tra tutti senza diminuzione di salario. Così come deve essere collegato alla rivendicazione della fine del segreto degli affari dietro il quale i capitalisti sviano i capitali verso la speculazione e sprecano le forze produttive della società. Fare condividere questi obiettivi e a maggior ragione imporli, esige un rapporto di forze che solo l'insieme dei lavoratori mobilitati è in grado di imporre.
Più in generale il Programma di Transizione non è la giustapposizione di rivendicazioni parziali isolate le une dalle altre. Si articolano tutte intorno alla contestazione della dittatura della classe capitalista sulle imprese e sull'economia. Tutte mirano all'obiettivo del controllo sulle imprese e sull'economia da parte della classe operaia e della popolazione.
Uno dei suoi aspetti essenziali riguarda le banche. Il parassitismo evidente della finanza ha spinto in avanti l'idea del controllo e della regolazione del sistema bancario. Ciò che è solo un discorso demagogico nella bocca dei dirigenti politici della borghesia dovrà essere un obiettivo per il proletariato mobilitato. Non c'è alcuna possibilità di cambiare il funzionamento dell'economia nel senso degli interessi della maggioranza della popolazione senza l'esproprio delle banche e la loro unificazione in una banca unica controllata dalla popolazione.
Le rivendicazioni transitorie si appoggiano alle esigenze che derivano dalla situazione concreta per andare verso il rovesciamento del potere della borghesia. Trovano un nuovo significato solo se le masse sfruttate, entrate in lotta, se ne impadroniscono. Non è nelle possibilità di alcuna organizzazione suscitare tali lotte. Ma quando si produrranno, sarà indispensabile difendere e fare conoscere largamente un programma di lotta, una politica che miri a portare la classe operaia verso il controllo e poi la conduzione dell'economia.
Solo un'organizzazione che abbia come obiettivo la riorganizzazione comunista della società può andare fino in fondo a tutte queste tappe. Il fondo del problema sta lì. La crisi attuale fa ancora una volta la dimostrazione dell'incapacità capitalista di assicurare uno sviluppo armonioso della società. L'espropriazione della classe capitalista, l'abolizione della proprietà privata costituiscono la tappa, insostituibile, della riorganizzazione dell'economia su una base razionale, cioè pianificata, "l'introduzione della ragione nelle relazioni umane" (Trotsky).
22 ottobre 2009