LE RELAZIONI INTERNAZIONALI NEL 2006 : dalla divisione in due blocchi all'egemonia americana (da "Lutte de Classe n 101 - dicembre 2006)

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LE RELAZIONI INTERNAZIONALI NEL 2006 : dalla divisione in due blocchi all'egemonia americana
dicembre 2006

Le relazioni politiche internazionali sono l'espressione più o meno esatta dei rapporti di forza economici, e non dei riflessi passivi giacché gli avvenimenti politici e il loro concentrato, gli avvenimenti militari, reagiscono a loro volta su questi rapporti di forza economici.

I molteplici avvenimenti del 2006 si inscrivono nel quadro delle relazioni fondamentali di cui alcune sono secolari, altre risalenti all'ordine mondiale qual è uscito dalla 2a Guerra mondiale, altre infine da quell'ultimo grande sconvolgimento dell'ordine mondiale che la decomposizione dell'Unione sovietica e la dislocazione della sua zona d'influenza hanno rappresentato.

Da più di un secolo, centoventi anni almeno, i cambiamenti, se non addirittura gli sconvolgimenti, dell'ordine mondiale si attuano sulla base dell'imperialismo, vale a dire del rapporto di dominio e di sfruttamento imposto all'insieme dell'umanità da questa parte ristretta del pianeta dove il capitalismo di «libera concorrenza» si è sviluppato al punto da fare emergere il suo contrario, il dominio dei monopoli.

Da un secolo la dozzina di paesi di questa parte del globo, limitata grosso modo all'America del Nord, all'Europa occidentale e al Giappone, chiudono il resto del pianeta in una rete sempre più stretta, con grandi gruppi finanziari che drenano le ricchezze di ogni paese, compresi i più poveri, a vantaggio della borghesia dei paesi imperialisti.

E' sulla base di queste relazioni economiche fondamentali che le potenze imperialiste di dimensione e mezzi molto differenti si fanno una guerra economica a volte pacifica per loro stessi - ciò che non significa pacifica per le loro vittime dei paesi poveri - e a tratti violenta. I cambiamenti inevitabili nei rapporti di forza economici si regolano con le guerre.

Nel secolo scorso, è durante le due guerre mondiali, facenti 20 milioni di morti la prima e 100 milioni la seconda, che si sono manifestati i rapporti di forza emergenti nel periodo precedente. L'uscita dalla guerra, ogni volta, è stata l'atto di fondazione di un nuovo ordine mondiale. All'ordine mondiale di prima del 1914 è subentrato il nuovo ordine mondiale di Versailles, uscito dalla vittoria della coalizione imperialista formata, principalmente, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati uniti contro la coalizione guidata dalla Germania.

L'imperialismo tedesco vinto e sottomesso alla dura legge del vincitore non tardò a rimettere in causa l'ordine di Versailles nel corso di una nuova guerra mondiale. Se ognuna di queste guerre imperialiste si è conclusa con la disfatta dell'imperialismo tedesco, esse hanno pure contribuito ad indebolire, nel campo dei vincitori, gli imperialismi britannico e francese.

Esse hanno, in compenso, consacrato la potenza americana che, da potenza imperialista in concorrenza con le altre, è diventata la potenza imperialista egemonica rispetto alle altre.

Un altro avvenimento importante ha avuto luogo nel primo quarto del XX° secolo: la rivoluzione proletaria che trionfò nel paese più esteso del pianeta e anche uno dei più popolati, la Russia. Lo sconvolgimento che ne derivò era di un altro ordine di quelli legati agli scontri tra potenze imperialiste per la spartizione delle ricchezze provenienti dal saccheggio della parte più povera del pianeta e dallo sfruttamento della classe operaia ovunque.

La prospettiva della rivoluzione russa non era di trovare un posto per la Russia nel nuovo ordine imperialista uscito dalla Prima Guerra mondiale. La sua prospettiva era l'estensione della rivoluzione proletaria verso la parte sviluppata dell'Europa, a partire dalla Germania, e la distruzione dell'ordine capitalista su scala mondiale.

Si sa cosa è avvenuto di tale prospettiva dopo la sconfitta della rivoluzione in Germania, in Finlandia, in Ungheria, e il riflusso dell'onda rivoluzionaria ovunque in Europa, che ha lasciato la Russia sovietica isolata, invischiata nella povertà. Ciò provocò la degenerazione dello Stato operaio nato dalla rivoluzione, l'emergere di una burocrazia sempre più potente, monopolizzante il potere politico al posto della classe operaia.

Dalla metà degli anni venti, meno di dieci anni dopo la vittoria della rivoluzione d'Ottobre, i dirigenti della burocrazia abbandonarono la prospettiva della rivoluzione mondiale, del rovesciamento dell'imperialismo. Malgrado questa degenerazione, le potenze imperialiste, che non tardarono ad essere scosse dalla grande crisi economica del 1929, non poterono riconquistare né economicamente né politicamente la Russia sovietica. Hitler lo tentò un po' più tardi, ma senza riuscirci

Da allora in poi, l'Unione sovietica di Stalin divenne una grande potenza, grazie al progresso industriale considerevole che le permise di sbarazzarsi della grande proprietà fondiaria e della borghesia, e di pianificare l'economia, tutto ciò nel paese più esteso del mondo, uno dei più ricchi anche in risorse naturali. Una grande potenza che, dopo l'abbandono di ogni prospettiva rivoluzionaria, divenne uno dei pilastri dell'ordine mondiale, ma che, nello stesso tempo, permise alla sua economia di sfuggire, su un sesto del pianeta, alla concorrenza capitalistica, alla corsa al profitto e alla penetrazione diretta dei grandi trust.

Il ruolo crescente dell'Unione sovietica nel concerto delle grandi potenze s'impose durante la guerra e in ragione del ruolo decisivo che l'armata sovietica giocò nella vittoria sulla Germania hitleriana. Gli accordi successivi di Teheran, Yalta e Potsdam consacrarono la sua integrazione tra i custodi dell'ordine mondiale dominato dall'imperialismo.

Questo ruolo di unica superpotenza di fronte agli Stati uniti, l'Unione sovietica della burocrazia lo conservò fino al suo crollo, quarantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale.

Custode dell'ordine mondiale, l'Unione sovietica della burocrazia lo è stata in un modo particolare e fondamentalmente antagonista rispetto alle potenze imperialiste. Antagonista innanzitutto per la ragione che lo Stato operaio burocratizzato non solo è stato un ostacolo alla penetrazione economica dei grandi monopoli imperialisti in Unione sovietica, ma ha imposto alle Democrazie popolari la stessa rottura nei confronti del mercato mondiale. Di più, di fronte alla moltitudine di rivolte, di insurrezioni, di colpi di stato, di guerre locali che non hanno smesso, in questi quarantasei anni, di rimettere in causa l'ordine mondiale uscito da Yalta, l'Unione sovietica ha giocato un ruolo particolare con la sua stessa esistenza, se non sempre con il suo gioco diplomatico o militare.

Pur essendo violentemente ostile ad ogni rivoluzione proletaria (ostilità che era uno dei fondamenti della sua alleanza con l'imperialismo per la stabilità dell'ordine del dopo guerra in Germania e nei paesi dell'Est e che la burocrazia mostrò segnatamente, in modo brutale, schiacciando un'insurrezione operaia in Ungheria), la burocrazia sovietica cercò almeno di preservare i rapporti di forza con il mondo imperialista, e in particolare con gli Stati uniti. Di qui la sua politica di fronte alle rivoluzioni coloniali che scossero il terzo mondo all'indomani della guerra. Di qui il suo appoggio diplomatico, se non addirittura militare, a numerosi movimenti d'emancipazione nazionale, diretti e inquadrati dalle forze nazionaliste piccolo-borghesi.

Ci sono stati certo, nel passato, molti esempi in cui una potenza imperialista incoraggiò, se non addirittura sostenne apertamente, un movimento nazionale capace di ostacolare un imperialismo rivale. Prima della guerra del 1914, ad esempio, è accaduto all'imperialismo britannico e a quello tedesco di giocare a quel gioco nel Medio Oriente.

Gli Stati uniti stessi hanno tradizioni in materia. Alcune risalgono a tempi lontani, quando gli Stati uniti incoraggiarono i movimenti d'indipendenza di Cuba e delle Filippine contro la dominazione della Spagna, evidentemente per prenderne il posto. Altre sono più vicine nel tempo, all'epoca dell'onda dei movimenti anti-colonialisti di inizio anni sessanta, che mise in discussione il dominio, in particolare, della Francia sulle sue colonie d'Algeria e dell'Africa nera: gli Stati uniti non esitarono allora a sostenere più o meno discretamente i movimenti indipendentisti e ad opporsi all'avventura franco-inglese contro l'Egitto di Nasser all'epoca della nazionalizzazione del canale di Suez.

La burocrazia sovietica, tuttavia, non interveniva mai sotto l'effetto dell'imperiosa necessità di collocare il suo capitale eccedente nei paesi arretrati. E' in questo senso che come marxisti, pur denunciando le avventure militari della burocrazia sovietica nella sua zona d'influenza diretta delle Democrazie popolari o ai suoi margini, come in Afghanistan, noi ci siamo sempre rifiutati di parlare d'interventi imperialisti.

La spartizione del mondo in due sfere d'influenza, tra due «superpotenze» antagoniste, ha acuito molti conflitti regionali, soprattutto quando essi si svolgevano al confine di queste sfere d'influenza (guerra di Corea, guerra del Vietnam, ad esempio). Ma, nel contempo, ciò permetteva di mantenere questi conflitti entro certi limiti e finiva per offrire loro una via d'uscita diplomatica.

Il principale cambiamento intervenuto durante questo periodo fu la fine degli imperi coloniali. Ma la forma coloniale della dominazione imperialista era soprattutto costituita da imperialismi divenuti di second'ordine rispetto all'imperialismo americano, gli imperialismi britannico e francese innanzitutto, ma anche olandese, belga, persino spagnolo e portoghese. Questi imperialismi erano sempre meno in grado di difendere le loro rispettive zone d'influenza. Per motivi differenti, né gli Stati uniti né l'Unione sovietica avevano motivi di solidarizzare con potenze coloniali nel mirino dei movimenti di emancipazione che minavano il loro impero con più o meno violenza.

Quanto alla vittoria della rivoluzione cinese di Mao Tze-Tung, importante evento che stava per fare della Cina una potenza con un proprio ruolo all'interno dell'ordine mondiale, gli avvenimenti che là hanno portato erano iniziati prima e, soprattutto, dopo la Seconda Guerra mondiale. E dopo questa, essi sono largamente sfuggiti alla volontà politica tanto dell'imperialismo quanto della burocrazia.

Più in generale, quest'ordine mondiale bipolare - con due poli molto diseguali, lo si ricorda - è stato incessantemente messo in discussione da movimenti nazionali, da guerre locali, da rivolte. Non c'è stato un momento, dopo la Seconda Guerra mondiale, in cui non si abbia avuto in tale o tal altra regione del globo conflitti armati.

Le due superpotenze hanno soprattutto cavalcato le onde di rivolte, di sollevazioni popolari, di conflitti armati di ogni genere, se non addirittura di contestazioni provenienti da stati della propria zona.

Di più, l'antagonismo tra le due superpotenze rendeva possibile l'appoggiarsi su di una per ottenere più margini e più indipendenza rispetto all'altra. Di qui la comparsa di quel «terzo mondo» dai contorni vaghi, inglobante a momenti un insieme di paesi dalla popolazione più numerosa di quella di ciascuno dei due campi, l'identità del quale scaturiva per così dire dalla volontà, più o meno accentuata, di giocare un gioco d'equilibrio tra i due campi. La sua prima apparizione politica era stata la conferenza di Bandung, nel 1955, diventata per quei tempi il simbolo di un «non allineamento».

Questo vago raggruppamento riuniva regimi che avevano rotto politicamente con le grandi potenze imperialiste - la Cina -, quelli i cui dirigenti tentavano al momento di farlo - l'Indonesia di Sukarno - con altri che non ne avevano mai avuto l'intenzione (l'Arabia saudita, ad esempio, partecipò alla conferenza di Bandung).

Né la politica del «non allineamento» di una gran parte del terzo mondo né la politica di rottura con le grandi potenze imperialiste non hanno tuttavia mai minacciato l'imperialismo stesso. Malgrado i discorsi in voga all'epoca, anche negli ambienti di estrema sinistra, il terzo mondo non ha mai giocato rispetto all'imperialismo il ruolo di terzo stato della Rivoluzione francese rispetto all'Ancien Régime. Il «terzo-mondismo», agli antipodi di una politica comunista, non è stata che una delle espressioni politiche della piccola borghesia dei paesi sottosviluppati, aspirante ad un po' più di posto e di riconoscimento in un mondo dominato dall'imperialismo. Non è possibile mettere fine all'imperialismo senza distruggere il capitalismo stesso, senza rivoluzione proletaria.

Malgrado il «non allineamento» e la sua influenza a periodi più o meno grande, l'ordine mondiale uscito da Yalta perdurò fino all'implosione dell'Unione sovietica.

Il nuovo ordine mondiale, in una certa misura ancora in gestazione, apparso con l'implosione dell'Unione sovietica, a partire dal 1991, lasciò il ruolo di superpotenza ai soli Stati uniti.

L'ORDINE IMPERIALISTA SOTTO L'EGEMONIA DEGLI STATI UNITI

Non più dell'egemonia congiunta e nondimeno antagonista degli Stati uniti e dell'Unione sovietica, l'egemonia dei soli Stati uniti può impedire continue rimesse in causa dell'ordine mondiale. Gendarme in capo dell'imperialismo, certamente, gli Stati uniti si sentono tanto meno tenuti ad intervenire dappertutto in quanto, dove hanno scelto di intervenire, non si può dire che ciò sia stato un successo, né in Iraq né in Afghanistan.

Come prima, gli Stati uniti cavalcano l'onda degli avvenimenti. E, dopo tutto, anche durante le guerre, gli affari continuano! Solo i popoli ne soffrono, ma non è mai lì la preoccupazione dei dirigenti del mondo imperialista, che si tratti di guerre di cui sono direttamente o indirettamente responsabili o che si tratti di guerre scoppiate indipendentemente dalla loro volontà.

L'emergere del nuovo ordine mondiale, che è subentrato a quello di cui uno di pilastri era l'Unione sovietica, era stato segnato, oltre che dalla decomposizione dell'ex Unione sovietica stessa in quindici stati dei quali alcuni sono in guerra mascherata gli uni contro gli altri, dalla decomposizione della Iugoslavia.

Per quello che riguarda l'ex Iugoslavia, il 2006 è stato l'anno della separazione ufficiale delle due ultime entità, la Serbia e il Montenegro, che mantenevano ancora una finzione di «piccola Iugoslavia». Il Montenegro, stato pseudo-indipendente, nuovo mini-stato sul suolo dell'Europa che ne conta già tanto, è diventato una terra di conquista della mafia russa. E, sebbene le sei vecchie repubbliche federali della defunta iugoslavia siano divenute indipendenti, non è detto che la decomposizione sia finita dato che la Bosnia non conserva che un'unità fittizia tra le sue differenti «entità» etniche a dominanza serba, croata o «musulmana» e visto che la sovranità della Serbia sul Kosovo è appena simbolica. Queste due regioni rimangono dei protettorati sotto occupazione delle truppe della Nato.

Undici anni dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-1995), sei anni dopo l'intervento della Nato contro la Serbia a proposito del Kosovo, se non c'è la guerra nei Balcani, allora è una pace armata. Più della metà dei quasi tre milioni di persone spostate di forza con le "pulizie etniche" o costrette a fare la guerra non hanno potuto fare ritorno nelle loro case di un tempo, con tutto ciò che questo implica in termini di miseria e di sofferenza.

La nuova configurazione ha aperto l'ex blocco sovietico non solo alla penetrazione dei gruppi capitalistici - in quale misura questi gruppi hanno la possibilità di approfittarne è ancora un altro problema - ma anche all'influenza diplomatica degli Stati uniti, se non addirittura alla loro presenza militare. Ci sono oggi basi militari della Nato non solo in alcune ex Democrazie popolari - Romania, Bulgaria - ma ugualmente in alcuni paesi sorti dall'esplosione dell'Unione sovietica come la Georgia o il Kirghizstan.

Se le radici dell'imperialismo sono economiche, l'imperialismo non s'impone unicamente con i suoi capitali e le sue merci. Quando non sono i mercanti che seguono dappresso le armi, sono le armi che seguono i mercanti.

Il crescere dell'egemonia americana significa anche l'aumento delle sue spese militari. Esse sono colossali. Il bilancio militare americano rappresentava nel 1995 il terzo dei bilanci militari dell'insieme del mondo, il che era già considerevole. Nel 2005, esso rappresentava la metà!

Alcuni vedono, come antidoto all'egemonia americana sul mondo, il sorgere di un imperialismo europeo. Ma è perfettamente stupido paragonare la popolazione o il prodotto interno lordo delle due entità. Non c'è un imperialismo europeo, ma una giustapposizione di imperialismi in Europa, legati in alcuni domini, ma nello stesso tempo concorrenti, se non rivali.

Questa rivalità non appare solo nel fatto che, su molti mercati all'esterno dell'Europa e anche in Europa, gli imperialismi britannico, francese e tedesco si trovino in concorrenza. Come è stato rivelato recentemente dalla crisi della ditta aeronautica EADS e dalla competizione tra lo stato francese e quello tedesco per la sua direzione, la rivalità rimane anche all'interno delle imprese comuni, anche se create in associazione tra potenze imperialiste d'Europa per fare fronte alla concorrenza americana.

Per contrattuale che sia, sotto il nome di «costruzione europea», l'alleanza tra le principali potenze imperialiste d'Europa permette loro di esercitare una sorta di condominio sulla parte orientale dell'Europa, integrata dal 2004 nell'Unione europea (la Romania e la Bulgaria si aggiungeranno, a partire dal 1° gennaio 2007, alle altre ex Democrazie popolari già ammesse).

Ma, anche in questo dominio, gli interessi delle tre principali potenze imperialiste d'Europa non si sovrappongono. E' senza dubbio la Germania ad essere stata la più interessata dall'integrazione dei paesi dell'Est nell'Unione europea. Questi paesi facevano parte, nel passato, della sua sfera d'influenza economica. Ed è del tutto naturale che l'imperialismo tedesco vi ha ritrovato il suo ruolo a partire dal 1989.

L'imperialismo francese, se ha già cercato, prima della Seconda Guerra mondiale, di fare concorrenza alla Germania nei paesi dell'Est, e se ancora ci prova, è tuttavia più preoccupato di accollare ad altri alcuni carichi o alcune spese della sua dominazione sul suo ex impero coloniale d'Africa.

In quanto alla Gran Bretagna, i suoi legami con gli Stati uniti sono importanti almeno quanto i suoi interessi europei. E' significativo che essa non è tuttora entrata nella zona euro e non sembra disposta a farlo.

Quanto ai paesi dell'Europa dell'Est, le loro relazioni con la parte occidentale del continente restano fondamentalmente gli stessi di prima della loro integrazione: quelle di paesi la cui economia è dominata dai trust dei paesi imperialisti dell'Europa occidentale.

Il fatto notevole dell'ultimo periodo per i paesi dell'Europa centrale e orientale è sicuramente il crollo di molte illusioni nate prima con la fine della dominazione dell'ex Unione sovietica, poi con l'integrazione nell'Unione europea. La scomparsa di queste illusioni ha per fondamento la crescita delle ineguaglianze, la soppressione, progressiva o brutale, delle protezioni sociali del vecchio regime, l'esplosione della disoccupazione nei paesi dove prima praticamente non esisteva.

Una classe borghese locale, integrante generalmente la classe privilegiata del tempo delle Democrazie popolari, si arricchisce con ostentazione, servendo spesso da intermediario per i grandi capitali tedeschi, austriaci, francesi, britannici, ecc. che dominano le economie di questi paesi. Durante questo tempo, secondo la formulazione della Banca mondiale, risalente è vero al 2002, «la povertà è diventata ben più diffusa ed è aumentata ad un ritmo più rapido che in nessun'altra parte nel mondo».

Ma queste disillusioni non hanno messo fine, e non lo potevano, al disorientamento della classe operaia risultante da più di quaranta anni di regimi che si richiamavano al comunismo e al socialismo. Un disorientamento tanto più grande in quanto la transizione dal regime anteriore al 1989 a quello successivo, che è avvenuta ovunque in modo soffice (ad eccezione, se vogliamo, della Romania), si è realizzata sotto l'egida dei partiti cosiddetti comunisti che prima erano al potere, o per lo meno con la loro complicità. Ne risulta che, in questi paesi, molti dei quali hanno nondimeno ricche tradizioni rivoluzionarie e avevano prima della Seconda Guerra mondiale un movimento operaio combattivo malgrado dei regimi dittatoriali, le classi lavoratrici sono oggi senza riferimenti.

E' la destra, se non addirittura l'estrema destra, che provano a canalizzare le collere e le frustrazioni, con più o meno successo. Quale sia la loro espressione a livello del governo - governo di destra reazionaria in Polonia, alleanza tra un partito che si definisce socialista e l'estrema destra in Slovacchia -, c'è nell'insieme dei paesi dell'Est una spinta elettorale a destra ma sulla base di una partecipazione elettorale decrescente. Là dove, come in Ungheria, è la sinistra a vincere nelle elezioni legislative, questa vittoria è stata seguita, meno di sei mesi dopo, da un maremoto a favore della destra alle elezioni locali. Questa spinta si manifesta, nella vita sociale, anche per l'influenza della chiesa - in Polonia, c'è la questione di integrare nella costituzione la proibizione di ogni interruzione volontaria della gravidanza - e a causa di un rafforzamento del nazionalismo, delle rivendicazioni territoriali rispetto ai vicini, ecc.

IL MEDIO ORIENTE

I principali focolai di tensione attuali sono nel Medio Oriente.

In Iraq, appare sempre più evidente che gli Stati uniti sono incapaci di ristabilire l'ordine, se non altro con le forze che essi vi impiegano e che sono ugualmente importanti. Si scopre retroattivamente che Saddam Hussein è stato il miglior custode dell'ordine nel suo paese. Bisogna credere che Bush padre aveva maggior senso politico di suo figlio dal punto di vista degli interessi statunitensi quando all'uscita dalla prima guerra contro l'Iraq egli aveva lasciato Saddam Hussein massacrare la propria popolazione, bombardare gli sciiti, schiacciare i kurdi. Rovesciando Saddam Hussein, gli Stati uniti hanno liberato forze che non sono in grado oggi di controllare.

Sebbene Bush continui a giocare allo smargiasso e ad affermare che non ritirerà le sue truppe dall'Iraq se non a pace raggiunta, questa non è probabilmente la sola opzione studiata dagli stati maggiori militari o diplomatici degli Stati uniti. Se, in effetti, questi difficilmente possono abbandonare l'Iraq lasciandolo lacerarsi - l'Iraq non è uno di quei paesi africani insediati nelle lacerazioni etniche, esso si trova in una zona tanto strategica quanto petrolifera - essi possono orientarsi verso la ricerca di un regolamento regionale che coinvolga specialmente l'Iran.

L'Iran è messo al bando dagli Stati uniti dal rovesciamento dello scià nel 1979. Ma il regime islamico di Teheran fa prova di una sicura stabilità e si suppone abbia un'influenza sulla componente sciita della popolazione irachena, se non addirittura del Libano. Gli attuali diverbi tra l'Iran e quelli che vengono definiti «la comunità internazionale», vale a dire i principali briganti imperialisti, costituiscono forse un braccio di ferro che prepara le condizioni per i negoziati globali, coinvolgendo l'Iran in un regolamento regionale.

Non si può dire neppure che la guerra contro l'Afghanistan e la sua occupazione da cinque anni siano un successo delle potenze imperialiste. Ricordiamo che la Francia è coinvolta in tale avventura. Non solo il paese resta di fatto spartito tra i signori della guerra con cui gli occupanti devono venire a patti, non solo, a parte forse Kabul, sopravvivono nella società tutte le forme di oppressione, specialmente contro le donne, che si erano invocate all'epoca per giustificare la guerra contro i talebani, proprio il fatto che nulla è cambiato, che la vita non è migliorata e che a ciò si aggiunge un'occupazione straniera, sembra ridare credito ai talebani.

Quest'anno, i talebani si sono mostrati capaci di affrontare apertamente le truppe di occupazione e il paese ricade nello stato di guerra.

Di più, questo nuovo vigore del movimento dei talebani si ripercuote sul vicino Pakistan, alimentando l'attivismo dei gruppi islamici, al punto di minare un regime che è storicamente uno dei principali alleati degli Stati uniti nella regione.

La situazione si è ancora aggravata nell'altra zona di tensione in Medio Oriente costituita dall'insieme stato d'Israele-Palestina. Non solo, l'Autorità palestinese, ritenuta essere l'embrione di un futuro stato, non è evoluta in questo senso, anzi, l'esercito israeliano interviene sempre più spesso, anche nella regione di Gaza da dove le sue truppe erano state evacuate l'anno scorso.

La pretesa autonomia dei territori palestinesi è una finzione dalla sua instaurazione. Con i suoi territori frammentati, divisi gli uni dagli altri da strade di contorno e attualmente da un muro, con la loro economia inesistente, con una popolazione la cui sopravvivenza fisica dipende dalla volontà dello stato d'Israele e dall'aiuto internazionale, è una prigione a cielo aperto.

Quest'anno, la situazione si è ulteriormente aggravata per l'arrivo al potere governativo dell'organizzazione islamica Hamas. Sebbene la sua ascesa al potere sia avvenuta mediante le elezioni, le grandi potenze, che hanno il cinismo di parlare di democrazia, hanno preso a pretesto il voto popolare che ha dato la maggioranza ad Hamas per bloccare il versamento all'Autorità palestinese delle poche entrate finanziarie che le permettevano un minimo di esistenza.

Lo stato d'Israele e le grandi potenze che lo proteggono hanno deciso di affamare tutta la popolazione per punirla del voto di maggioranza relativa che, grazie alla legge elettorale, ha dato il potere governativo ad Hamas. Essi rimproverano al popolo palestinese d'aver bloccato con il suo voto il processo di pace portando al potere un'organizzazione integralista. Ma è da sessant'anni che le grandi potenze imperialiste non offrono al popolo palestinese che la pace delle prigioni e dell'oppressione!

Ma l'arrivo al potere di questa organizzazione reazionaria che è Hamas rappresenta un dramma immenso soprattutto per il popolo palestinese. E' il risultato di una politica nella quale i dirigenti palestinesi hanno chiuso un popolo che mostra tanto coraggio, tanta combattività, e da molti anni, contro l'oppressione che subisce. Le classi popolari di Palestina che conducono questa lotta avevano, all'inizio della loro rivolta, immense possibilità di farsi sentire da quelle del Libano, dell'Egitto, della Siria, della Giordania, e di là, di tutto quel Medio Oriente dove non c'è soltanto lo stato d'Israele che rappresenta l'ordine imperialista, ma anche l'arcaica monarchia dell'Arabia saudita, le dittature di Siria o d'Egitto o gli emirati d'operetta del Golfo. Il popolo palestinese aveva la possibilità, la capacità di essere il motore di una rivolta generale delle classi sfruttate ed oppresse del Medio Oriente, avendo la forza d'imporre dei reali cambiamenti sul terreno dei diritti democratici, dei diritti delle donne, ma anche sul terreno sociale.

Ma i dirigenti nazionalisti di allora, anche quelli che si richiamavano al progressismo o al socialismo, non hanno voluto ciò. Essi hanno limitato la loro lotta al solo quadro palestinese impedendo così che la rivolta degli oppressi palestinesi fosse contagiosa, che potesse sfociare in sconvolgimenti in tutta la regione, come aveva iniziato a fare in Libano.

L'imperialismo e Israele sono i responsabili dell'oppressione del popolo palestinese. Ma è tutta la politica nazionalista anteriore che ha testé prodotto la sua ultima incarnazione con l'arrivo di Hamas al potere. E dal faccia a faccia tra uno stato d'Israele chiuso nella politica sionista, nella sua variante più estremista, rappresentata dall'organizzazione d'estrema destra Israele Beitenu che ha appena fatto il suo ingresso nel governo Olmert, e una Palestina sottomessa agli integralisti di Hamas, non possono risultare che sofferenze soprattutto per il popolo palestinese, ma anche per il popolo israeliano.

Il rapimento di due soldati israeliani non è stato che un pretesto per lo stato maggiore israeliano al fine di scatenare contro il Libano una guerra che esso preparava da lunga data. L'obiettivo di Israele era di distruggere Hezbollah i cui razzi minacciavano periodicamente i villaggi del nord d'Israele, ma più ancora, senza dubbio, di modificare, con la forza e nel senso dei suoi interessi, il sottile equilibrio del potere in Libano tra partiti musulmani sciiti, musulmani sunniti, cristiani e altri, così come tra partiti facenti direttamente il gioco delle potenze imperialiste e quelli legati all'Iran e alla Siria.

Il Libano pone, in effetti, un problema particolare ad Israele. E' il solo paese della regione che, per i suoi vecchissimi legami con l'occidente, come pure per l'importanza della componente cristiana della sua popolazione, potrebbe giocare un ruolo, simile a quello di Israele, di alleato privilegiato delle potenze imperialiste nella regione. Ma, per lo stesso motivo, il Libano è anche un concorrente per Israele. Un concorrente la cui borghesia ha, inoltre, dei legami con le classi possidenti degli stati arabi e i loro ambienti dirigenti, ciò che la borghesia d'Israele non può avere. Così, per i dirigenti israeliani, è una vecchia preoccupazione cercare di impedire che s'installi in Libano un potere ostile ad Israele.

La principale ragione dell'intervento dell'esercito israeliano in Libano nel 1982 era di impedire ciò, tentando di approfittare della guerra civile che il Libano conosceva dal 1975 per spezzare definitivamente la resistenza palestinese armata.

Complementare a questa preoccupazione, c'è quella, quando si presenti l'occasione, d'imporre a Beirut un potere che sia un alleato, ma un alleato in posizione subalterna. La sola volta in cui Israele ha avuto la possibilità di andare fino in fondo a tale preoccupazione, fu quando aiutò il capo dei miliziani d'estrema destra, Bashir Gemayel, ad installarsi al potere. Ciò veramente non gli è riuscito. Il fatto è che, se la borghesia libanese non ha alcun imbarazzo a mostrarsi pro-occidentale, al contrario, ad essa ripugna ciò che potrebbe farla apparire come alleato d'Israele. Questo si comprende: la borghesia libanese non ha nessun motivo di subordinarsi alla borghesia israeliana, con cui è in concorrenza commerciale, finanziaria e politica. Ed essa non ha ragioni maggiori di compromettere le sue buone relazioni con gli stati arabi che le sono indispensabili per garantire alle sue banche il ruolo di piattaforma finanziaria centrale della regione.

Tuttavia, malgrado 33 giorni di guerra, 1200 morti, senza parlare dei feriti, e la distruzione delle infrastrutture di una buona parte del Libano, l'operazione militare non è stata un successo per Israele. L'esercito israeliano si è dovuto ritirare senza aver distrutto Hezbollah.

Quest'ultimo, per il semplice fatto d'aver resistito, ha aumentato la sua credibilità politica, e quindi le sue pretese non solo di essere riconosciuto come il rappresentante della comunità sciita, ma anche come avente diritto ad una rappresentanza più importante nel governo centrale.

Così, se l'intervento israeliano ha modificato l'equilibrio politico del potere in Libano, è stato piuttosto a suo sfavore. Non è detto, tuttavia, che Israele e, soprattutto, dietro di lui l'imperialismo americano che l'ha sostenuto dal principio alla fine, non provino a prolungare la guerra con altri tipi d'interventi all'interno stesso del potere libanese

Se c'è di che rallegrarsi dell'insuccesso d'Israele e dei suoi protettori, gli Stati uniti, non c'è di che gioire del successo di Hezbollah. Grazie alla sua resistenza durante la guerra, grazie ai suoi interventi finanziari dopo la guerra stessa al fine di nascondere, in una piccola misura, la debolezza dello stato libanese aiutando gli abitanti dei quartieri popolari, questa organizzazione ha accresciuto la sua presa sulle masse povere, in maggioranza sciite, della popolazione libanese.

In aggiunta, il mito dell'organizzazione che, per la prima volta, avrebbe inflitto con mezzi militari un arretramento di Israele, è servito da pretesto all'allineamento politico del partito comunista libanese stesso.

E ciò si riscontra anche negli ambienti d'estrema sinistra qui, in Francia, dove tuttavia non si può nemmeno parlare di pressioni in questo senso, organizzazioni o individui che si richiamano all'estrema sinistra per attribuire ad Hezbollah un carattere antimperialista. E' uno dei segni della profonda perdita di riferimenti di alcune componenti dell'estrema sinistra che, per imitazione servile, dopo aver incensato nel passato molti movimenti stalinisti, maoisti o nazionalisti, sono ora giunti a sostenere o a presentare come antimperialista un'organizzazione reazionaria e fondamentalista.

L'AFRICA

Per quanto riguarda la situazione in Africa, dire che non c'è stato niente di nuovo durante l'anno scorso fa pensare al titolo del libro di Erich-Maria Remarque "niente di nuovo sul fronte occidentale" che descriveva la vita quotidiana di uno dei momenti peggiori della guerra mondiale.

L'Africa continua a subire la guerra. Prima la guerra economica: questo continente, il più povero, continua di venire saccheggiato dall'imperialismo, tanto tramite il commercio delle armi quanto dal pagamento del servizio dei prestiti usurari consentiti ai suoi dirigenti, o tramite il furto delle sue materie prime. Poi ci sono le guerre nel senso proprio: quelle che oppongono l'uno all'altro degli stati -l'Eritrea contro l'Etiopia-, delle bande armate all'interno degli stati -in Somalia, nel Congo ex-Zaire-, senza dimenticare le guerre civili momentaneamente spente o ancora in corso, nella Sierra Leone, nel Liberia, il Nigeria o la Costa d'Avorio.

È impossibile misurare il danno che queste guerre e innanzitutto le loro conseguenze -carestie, malattie che ne derivano, massacri, esodi di profughi- rappresentano per l'Africa. Anche solo nel Congo ex Zaire, si stima a 4 milioni il numero delle vittime durant i 10 anni scorsi. Sono probabilmente ancora di più nel Sudan dove non appena si è installata una tregua tra il potere centrale e il sud in ribellione da decenni, la violenza coinvolge il Darfur, con contraccolpi nello Ciad.

La posta in gioco in queste guerre locali è spesso il controllo di una ricchezza mineraria o di una risorsa naturale che si può valorizzare solo sul mercato internazionale. Dietro le guerre locali, ci sono molto spesso oscuri confronti tra trusts occidentali o intermediari capitalisti.

La situazione non è neppure molto cambiata nella Costa d'Avorio. Nonostante le ingiunzioni congiunte dell'Unione Africana (UA) e dell'Onu, Gbagbo non ha organizzato le elezioni previste per quest'anno, e d'altra parte la frazione ribelle dell'esercito che occupa il Nord non ha disarmato.

Il mandato presidenziale di Gbagbo è finito ufficialmente il 31 ottobre 2005. La diplomazia internazionale gli ha già accordato un'anno di prolungamento che doveva finire il 31 ottobre 2006. Non solo il potere esecutivo costituito da Gbagbo alla presidenza e dal primo ministro Konan Banny impostogli dall'Onu non ha organizzato elezioni, anzi, non ha neanche veramente cominciato a distribuire i certificati elettorali. La delimitazione del corpo elettorale è una delle principali poste in gioco nella lotta per il potere tra i clan opposti, di cui il clan Gbagbo che cerca di eliminare dalle liste elettorali quelli che sono originari dal Nord, di cui pensa che voterebbero per il suo rivale Uattara.

Col prolungare di un anno supplementare la presidenza di Gbagbo, a patto di organizzare delle elezioni, la risoluzione dell'Onu non ha fatto che ufficializzare una situazione di fatto. L'Onu mantiene anche al posto di primo ministro Konan Banny che era stato designato per fare da contrappeso a Gbagbo e per dirigere un cosiddetto governo d'unione nazionale al quale partecipano anche ministri rappresentanti del Nord secessionista.

Ma quanto vale questo contrappeso politico senza forze militari che lo appoggino? La riunificazione del paese potrà attuarsi solo se l'esercito ribelle del Nord rientra nei ranghi e si sottomette a Gbagbo, ciò che non sembra volere fare, o se uno dei due campi prevale militarmente sull'altro.

Col raccomandare una soluzione avoriana per risolvere il problema, e con l'accusare le truppe francesi presenti sul terreno di intromettersi tra le forze leali e le forze ribelle, Gbagbo fa capire che la sua scelta è la riconquista del Nord.

Non è sicuro che ne abbia la forza, e neanche veramente la volontà. Ma la sua denuncia del ruolo della Francia in generale e di Chirac in particolare gli dà una certa popolarità nel sud. Il passato coloniale, il proseguirsi dello sfruttamento del paese dopo l'indipendenza, la presenza per molto tempo di un gran numero di profittatori grandi e piccoli venuti dalla Francia, la fucilata dell'Hotel Ivoire nel novembre 2004, in cui le truppe francesi avevano fatto decine di morti nella popolazione avoriana, hanno accumulato un'ostilità tale che il discorso di Gbagbo contro la Francia, anche se è puramente demagogico perché non seguito di atti, rafforza il suo credito nella popolazione del sud. Ci si è aggiunto quest'anno lo scandaloso deversamento di rifiuti tossici nel bel mezzo di Abigian, inviati da una ditta la cui identità è oscura, ma non quella dei suoi dirigenti che sono francesi.

Il semplice prolungamento della situazione attuale di guerra larvata è drammatico per la maggioranza della popolazione. Pesa sulle condizioni d'esistenza materiale delle classi popolari, già difficili. E l'agressiva propaganda etnista con cui i due campi accompagnano la loro politica aggrava un clima deleterio che può portare a qualunque momento a confronti etnici.

Dopo la fine del suo dominio coloniale diretto l'imperialismo francese è rimasto il principale beneficiario e il protettore del regime che aveva installato nel paese. Sotto la dittatura di Houphouët-Boigny, la Costa d'Avorio è stato tra i paesi dell'ex impero coloniale d'Africa quello più redditizio per i capitali francesi grandi e piccoli, in ragione sia della sua ricchezza agricola di gran produttore di cacao, di caffè, ecc, sia delle sue attività portuali e bancarie in direzione degli altri paesi vicini.

La crisi economica mondiale e le sue conseguenze per l'economia avoriana si sono mischiate con la crisi politica per la successione di Houphouët-Boigny per avviare il declino del peso economico e del "modello politico" che la Costa d'Avorio e il suo regime hanno per molto tempo rappresentato per Parigi. La ribellione di una parte dell'esercito nel settembre 2002 e la divisione del paese hanno accentuato il declino, anche se la Costa d'Avorio rimane il principale cliente commerciale della Francia nella zona CFA e se parecchi gruppi capitalisti -tra gli altri Bolloré e Bouygues- ci occupano una posizione dominante. In alcuni settori economici però, tra l'altro quello del cacao essenziale per la Costa d'Avorio, sono ditte americane ad avere la prima parte.

La divisione del paese e la guerra civile latente da quattro anni hanno portato l'imperialismo francese a rafforzare il suo ruolo di gendarme, anche mentre i suoi interessi economici sono di fronte alla concorrenza, americana dal lato del gran capitale, libanese dal lato dei capitali medi. Di più esso svolge tale ruolo nella scomoda posizione di interposizione, e si ritrova tra due fuochi, apertamente contestato dal governo di Gbagbo ed accentrando l'odio della popolazione nella parte più ricca del paese.

Pur proseguendo "l'operazione Licorna", l'esercito francese cerca di condividere il suo ruolo di gendarme con forze militari di paesi africani e di nascondere la propria parte con l'agire sotto mandato dell'Onu. Sul piano finanziario, l'operazione Licorna costa all'imperialismo francese un quarto di miliardi di euro all'anno, più di un miliardo da quando il nord ha fatto secessione. Non è sicuro che continuerà a considerare che il gioco vale la candela se non si trova a breve una soluzione politica e se, per consolidare il suo potere, Gbagbo accentua i suoi attacchi contro la presenza francese. Ciò d'altra parte gli vale un certo sostegno da parte di regimi africani più legati agli imperialismi anglosassoni, cominciando dall'Africa del sud.

Sia che la Francia imperialista continui ad affermare la sua presenza militare nella Costa d'Avorio, sia che alla fine si ripieghi su altre basi -ne mantiene parecchi in Africa-, il ritiro di tutte le forze militari francesi dal continente africano rimane un'esigenza.

LA SOLA PROSPETTIVA

«850 milioni di affamati in un mondo più ricco», titolava Le monde, il 31 ottobre, commentando il rapporto annuale appena pubblicato dalla Fao, l'organizzazione delle Nazioni unite per l'alimentazione e l'agricoltura. Il rapporto, allarmante, afferma che la situazione alimentare non è migliorata nel corso degli ultimi venti anni, anzi si è aggravata. Il numero di malnutriti e il suo aumento, quando ricchezze colossali si accumulano in poche mani, sono una condanna senza appello sia del capitalismo sia della dominazione imperialista sul mondo.

Il degrado della situazione di milioni di esseri umani nelle parti sottosviluppate del pianeta alimenta correnti migratorie mai conosciute prima dall'umanità.

Le regioni ricche del pianeta si circondano sempre più di fili spinati per impedire che si infranga su di esse «tutta la miseria del mondo» - come lo proclamava in Francia quell'anziano primo ministro che si affermava socialista. Fili spinati nel senso legale: rifiuto dei visti per coloro che provengono dai paesi poveri, quote, rimpatri forzati, retate brutali. Ma, anche, fili spinati nel senso materiale del termine, quelli che circondano le enclaves spagnole in Marocco, il muro che separa gli Stati uniti dal Messico, i sistemi di sorveglianza sofisticati finalizzati a proteggere l'Europa di Schengen ad Est, o l'Australia verso il Nord.

Ma nessuna barriera fermerà questi flussi di migranti, dei poveri spinti dalla miseria, dalla fame, quando non lo sono dalla minaccia armata. E, del resto, la «miseria del mondo» non viene solo dall'esterno, essa è secreta all'interno stesso dei paesi imperialisti e per le medesime ragioni: per il funzionamento stesso dell'economia capitalistica.

Tutto ciò alimenta l'odio contro le potenze imperialiste. Mai l'imperialismo americano, ad esempio, è stato così egemonico sul pianeta, ma mai esso ha suscitato tanto odio un po' dappertutto. Lo stesso accade per tutte le potenze imperialiste in proporzione ai loro misfatti. E ciò che capita alla Francia in Costa d'Avorio è molto significativo a questo riguardo.

Il dramma è che, per il momento, gli odi e le frustrazioni, quando si traducono politicamente, lo fanno dalla parte delle forze reazionarie: estrema destra nei paesi dell'Est europeo, fondamentalismo cristiano talvolta, islamico nei paesi musulmani, etnico in Africa. Tutte queste forze non solo portano verso vie senza uscita, ma costituiscono delle barbare regressioni.

Ma la causa fondamentale di tutte queste forme di regressione è la persistenza dell'imperialismo, vale a dire del capitalismo. Un sistema economico, un'organizzazione sociale che hanno cessato da lungo tempo di rappresentare l'avvenire dell'umanità finiscono inevitabilmente per diventare fattori di regressione. Da un secolo, a dir poco, il futuro dell'umanità, il futuro del pianeta stesso, dipendono dalla capacità del proletariato di ritrovare il ruolo rivoluzionario nella trasformazione della società che ha iniziato a giocare pienamente negli anni 1917-1919, ma questa volta andando fino in fondo, fino al rovesciamento del capitalismo e, con ciò stesso, della dominazione imperialista sul mondo.

3 novembre 2006