L'ascesa islamista, gli amari frutti della politica imperialista (da "Lutte de Classe n 95 - marzo 2006)
La vittoria degli islamisti di Hamas alle elezioni legislative palestinesi del 26 gennaio ha suscitato sorpresa e subbuglio sulla stampa e tra i dirigenti occidentali, come anche in Israele. Ma non è sorprendente, prodotto diretto com'è della politica condotta, da anni, dai dirigenti israeliani nei confronti dei palestinesi.
Il successo islamico non si limita alla Palestina, poiché viene ad aggiungersi a quello dei candidati dei Fratelli musulmani alle elezioni legislative egiziane dell'autunno scorso, e ad altri fatti che mostrano una progressione delle tendenze integraliste in diversi paesi del Vicino e del Medio Oriente. L'estensione delle manifestazioni di protesta contro la pubblicazione delle caricature di Maometto da parte di un giornale danese ne è anche, in una certa misura, l'espressione.
Le ragioni per spiegare questa evoluzione non mancano, con la persistenza del conflitto arabo-israeliano, l'intervento americano in Iraq ed il caos che ne risulta, le difficoltà dei diversi regimi della regione. L'arroganza della politica delle potenze imperialiste, marcata dal saccheggio delle risorse economiche del Medio Oriente ed il disprezzo nei confronti dei suoi popoli, tende ad esacerbare le tensioni politiche e sociali ed a rafforzare le opposizioni. Ciononostante resta da spiegare perché sono soprattutto i movimenti reazionari, e essenzialmente islamici, che riescono a cristallizzarle.
In tutto il periodo che aveva seguito la Seconda Guerra mondiale e fino alla metà degli anni settanta, al contrario erano i movimenti nazionalisti che si ispiravano di ideologie progressiste, oppure movimenti che si riferivano esplicitamente al marxismo, che avevano espresso l'opposizione crescente dei popoli del Vicino e del Medio Oriente all'influenza imperialista ed ai suoi rappresentanti locali. Da questo punto di vista, è evidente che da allora si è aperto un nuovo periodo politico. Su scala mondiale, da trent'anni, in molti paesi e contesti politici e sociali diversi, si è assistito ad un rafforzamento delle idee e dei movimenti più reazionari.
Nel Vicino e nel Medio Oriente, ciò ha coinciso con il fallimento sempre più visibile dei movimenti e dei regimi nazionalisti nati nel periodo precedente e che si ispiravano al nasserismo ed al baathismo, e con la rivoluzione iraniana del 1979 che sboccò in un regime islamico reazionario. Ma bisogna aggiungere che la maggior parte dei movimenti islamici che si vedono trionfare oggigiorno sono stati favoriti, all'origine, dall'imperialismo stesso. Spesso sono gli agenti della Gran Bretagna, degli Stati Uniti, o anche di Israele, che gli hanno fornito aiuti, vedendo in questi movimenti un mezzo per combattere i movimenti comunisti o nazionalisti che minacciavano gli interessi imperialisti. Da questo punto di vista il caso di Hamas in Palestina è esemplare.
Con la crescita dei movimenti islamici, ed i problemi che ne possono risultare per la stabilità del suo dominio nella regione, l'imperialismo e con lui Israele non fanno che raccogliere i frutti amari di quanto hanno seminato. Sfortunatamente, questi frutti rischiano di essere ancora più amari per i popoli stessi.
Palestina : il Fatah in un vicolo cieco.
In Palestina, se Hamas ha avuto la maggioranza assoluta, con 76 seggi sui 132 che compongono il Consiglio legislativo palestinese, ciò non ha rappresentato un terremoto elettorale. Il partito islamico in effetti ha ricevuto solo il 45% dell'insieme dei voti, ed è lo sparpagliamento degli altri 55% tra i diversi partiti laici che ha amplificato la sua vittoria in numero di seggi.
Questa vittoria non appare come il risultato di un'ondata religiosa che avrebbe spazzato la società palestinese, tradizionalmente più laica e moderna di quella di molti altri paesi arabi. Diverse inchieste mostrano che gli elettori conquistati da Hamas non sono per questo diventati fautori di uno Stato islamico che applica la sciaria, ed i dirigenti del partito stesso d'altronde per il momento evitano ogni annuncio in questo senso.
In cambio, il discredito che colpisce il partito fino ad ora al potere, il Fatah, sembra incontestabile. Sotto la direzione di Yasser Arafat fino alla sua morte nel novembre 2004, poi sotto quella di Mahmud Abbas, il Fatah non è riuscito ad ottenere risultati che giustifichino la sua ricerca di accordi con Israele per arrivare ad uno Stato palestinese. In cambio, i suoi quadri, che occupano i principali posti a tutti i livelli di questo embrione di Stato che costituisce l'Autorità palestinese, sono stati colpiti sempre più da accuse di corruzione, e appaiono come più preoccupati di assicurarsi privilegi che di servire la popolazione. E la situazione di miseria che conosce una grande parte della popolazione rende questo fatto ancora più scioccante.
Di fronte al Fatah, Hamas beneficiava al contrario della reputazione di onestà e di devozione dei suoi membri. Molti di loro sono morti in azioni suicide in Israele, conducendo una lotta risentita dalla maggior parte dei palestinesi come una giusta risposta alle esazioni dell'esercito israeliano nei territori occupati. In contatto diretto con la popolazione nei quartieri, presente spesso attraverso organismi di aiuto, di cura, tramite militanti che condividono la stessa sorte della popolazione, Hamas beneficiava anche di questa aureola di partito dei martiri.
Lo spostamento dei voti in favore di Hamas sembra quindi in primo luogo una sconfessione del Fatah, della corruzione dei suoi quadri, del suo disinteresse rispetto ai problemi immediati della popolazione, e della sua politica che sembra condurre in un vicolo cieco. I dirigenti del Fatah, ed in primo luogo Yasser Arafat, hanno accettato le concessioni richieste da Israele, hanno firmato gli accordi di Oslo nel 1993 e si sono prestati alla loro applicazione. Ciononostante Israele ha proseguito la colonizzazione dei Territori occupati e asfissiato sempre più, sul piano economico, la società palestinese.
Il governo Sharon - ed anche i governi laburisti prima di lui - hanno chiesto ai responsabili palestinesi di impegnarsi sempre più nella repressione delle organizzazioni, tra cui Hamas, che proseguivano la lotta armata contro Israele, senza consentire in cambio la minima concessione significativa all' Autorità palestinese. Ciò ha finito per spingere quest'ultima in un vicolo cieco e screditarla nei confronti della popolazione, prima che i dirigenti israeliani proclamino per finire che Arafat non poteva essere un interlocutore. Ciononostante, dopo la sua morte, nel novembre 2004, e la sua sostituzione con Mahmud Abbas, uno dei dirigenti palestinesi più disposti ad un accordo ed a concessioni verso Israele, la politica del governo Sharon nei confronti dell'Autorità palestinesi sul fondo non è cambiata.
Così l'evacuazione della striscia di Gaza da parte dell'esercito israeliano, nell'estate 2005, fu un gesto unilaterale, senza nessun negoziato con i responsabili palestinesi che avrebbe potuto costituire un impegno in seguito. Abbandonando Gaza, i dirigenti israeliani volevano liberare l'esercito da una posizione impossibile da tenere, per poter proseguire con più tranquillità i loro progetti in Cisgiordania e nella parte orientale di Gerusalemme. La colonizzazione proseguì in queste due regioni, se si escludono evacuazioni simboliche di colonie isolate. Nello stesso tempo prosegue la costruzione del muro di separazione alto otto metri dietro il quale Israele vorrebbe relegare i Palestinesi e che, nell'immediato, prende ancora un po' più delle loro terre e crea situazioni sempre più invivibili.
I dirigenti ed i responsabili israeliani che oggi sono desolati - o fanno finta di esserlo - per il successo di Hamas, ne portano quindi nei fatti una grande parte di responsabilità. Sono stati i primi a ritirare coscientemente ogni credito ai dirigenti dell'Autorità palestinese ed alla loro politica. E bisogna aggiungere che sono i responsabili israeliani che hanno favorito, fino ad un periodo recente, l'affermazione di Hamas in Palestina.
Quando Israele favoriva gli islamisti.
L'Hamas palestinese è nato da una diramazione palestinese dell'organizzazione dei Fratelli musulmani, fondata nel 1928 in Egitto da Hassan Al Banna e che il suo genero, Said Ramadan - padre di Tariq Ramadan - si incaricò di insediare in Giordania ed a Gerusalemme. In Egitto, i Fratelli musulmani disposero fin dall'inizio del sostegno dei servizi segreti inglesi. Costoro giudicarono opportuno favorire tale forza religiosa conservatrice, vedendoci un contrappeso possibile ai partiti nazionalisti allora in pieno sviluppo in questo paese che restava una semi-colonia britannica. I Fratelli musulmani beneficiavano anche del sostegno delle forze più reazionarie, come la monarchia egiziana - prima del suo rovesciamento da parte degli "Ufficiali liberi" nel 1952 - o in Giordania la monarchia ascemita. La corrente nazionalista che, con Yasser Arafat, sboccò nella fondazione del Fatah all'inizio degli anni sessanta, proviene essa stessa da una rottura con i Fratelli musulmani. Da allora costoro non smisero di combatterlo.
A partire dal 1967, con l'occupazione di Gaza, della Cisgiordania e del Golan e all'epoca, del Sinai, i dirigenti israeliani cominciarono a favorire sistematicamente la corrente fondamentalista islamica nei territori passati sotto il loro controllo. L'ostilità degli islamisti ai partiti nazionalisti più laici raggruppati in seno all'OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), ed in primo luogo al Fatah di Yasser Arafat, crearono un terreno comune tra loro e l'occupante israeliano, anche lui evidentemente preoccupato dalla lotta contro l'influenza crescente dell'OLP. Nello stesso tempo, il massacro del "settembre nero" del 1970 in Giordania, operato dal re Hussein di Giordania, contro i combattenti palestinesi dell'OLP, beneficiò del sostegno dei Fratelli musulmani.
Le autorità d'occupazione videro così di buon occhio l'aiuto finanziario apportato dai regimi arabi più reazionari, come l'Arabia saudita, ai fondamentalisti islamici palestinesi. Ed è grazie a questi finanziamenti che a Gaza, tra il 1967 ed il 1987, il numero di moschee poté triplicarsi, passando da 200 a 600. Nel 1978, il Primo ministro israeliano Begin accettò la formazione di un'Associazione islamica - al moujama' al-islamiyya - che si presentava come un'organizzazione umanitaria, creata dallo sceicco Ahmad Yassine. Negli anni successivi la moujama' al-islamiyya poté sviluppare una rete di associazioni caritative, che beneficiavano dei fondi provenienti da differenti paesi arabi, ma anche da Israele. Grazie ad una buona gestione, evitando la corruzione, la corrente islamista poté creare non solo moschee, ma anche cliniche, asili nidi, istituzioni educative. Riempiva in modo evidente una funzione indispensabile per la popolazione. Ma nello stesso tempo permetteva un radicamento sociale degli islamisti.
Ed è ancora grazie ai favori degli israeliani, sempre pronti ad appoggiarli contro i nazionalisti dell'OLP, che l'Università islamica di Gaza - sola istituzione universitaria della città - poté diventare un vivaio di giovani militanti islamisti. Finalmente, dopo questa lunga gestazione sotto la protezione dell'occupante, i Fratelli musulmani palestinesi si trasformarono nel 1987 in un partito politico, Hamas, nome corrispondente alle iniziali arabe di "Movimento della resistenza islamica", con a capo lo stesso sceicco Yassin.
La prima Intifada scoppiò lo stesso anno, alla fine del 1987, a partire dalla rivolta spontanea dei giovani palestinesi di Gaza. Gli occupanti israeliani continuarono ancora per qualche tempo a vedere negli islamisti lo strumento di un possibile controllo delle masse palestinesi ed un contrappeso ai nazionalisti. Ciononostante, nel corso di questa prima Intifada, la concorrenza con i nazionalisti dell'OLP si esacerbò e si videro gli islamisti di Hamas prendere posizioni sempre più radicali. Nel 1993, mentre i dirigenti dell'OLP accettarono di firmare gli accordi di Oslo, Hamas li rifiutò. Qualche mese più tardi, dopo che nel febbraio 1994 un estremista israeliano uccise 29 palestinesi riuniti nella Grotta dei patriarchi a Hebron, Hamas organizzò l'attentato con un'autobomba ad Afula, il 6 aprile 1994.
L'attentato fece nove morti israeliani. Secondo Hamas si trattava di "vendicare i martiri di Hebron ". Era solo il primo di una serie di attentati suicidi contro gli israeliani, ai quali fece ricorso anche parallelamente un'altra organizzazione, la Gihad islamica, sembra largamente sostenuta dall'Iran ma senza disporre in Palestina dello stesso radicamento di Hamas.
Ricorrendo a questo attentato, attuato da giovani palestinesi che ci lasciarono la loro vita e colpendo ciecamente la popolazione israeliana, Hamas voleva ormai affermare il suo carattere combattente ed opposto ai compromessi con Israele firmati da Arafat e dagli uomini dell'OLP. Questo rivale dell'OLP, che i dirigenti israeliani avevano contribuito a rafforzare, si ritorceva ormai contro di loro.
Agli attentati di Hamas risposero allora la repressione e gli attacchi mirati dell'esercito israeliano contro i suoi dirigenti, e per finire l'assassinio dello sceicco Yassin, il 22 marzo 2004, nel corso di un raid israeliano. Ciononostante, tutto ciò non poteva che confortare l'immagine di partito di combattenti e di martiri che aveva conquistato Hamas presso la popolazione palestinese, mentre le provocazioni di Israele, l'assenza di ogni concessione rilevante ai dirigenti palestinesi al potere, accelerarono il discredito della politica di Arafat, poi del suo successore Mahmud Abbas.
Le elezioni del 26 gennaio scorso non hanno fatto che confermare tale evoluzione. Ciononostante, nell'immediato, le ripercussioni della vittoria elettorale di Hamas sull'evoluzione del conflitto arabo-israeliano stesso potrebbero essere limitate, e ciò in primo luogo perché tale evoluzione dipende solo in minima misura dalla politica dei dirigenti palestinesi. La vittoria di Hamas permette solo ai dirigenti israeliani di brandire il pretesto che si tratta di un'organizzazione "terrorista" per rifiutare ogni discussione col nuovo governo palestinese. Ma con o senza pretesto, era già quanto facevano prima, con Yasser Arafat o con Mahmud Abbas.
Da questo punto di vista, in realtà tutto dipende dai dirigenti israeliani. E' probabile che, da parte loro, e malgrado qualche scalata verbale, i dirigenti di Hamas siano pronti ad avere nei confronti dell'occupante israeliano un'atteggiamento pragmatico che potrebbe condurre ad accordi con lui. I dirigenti israeliani d'altra parte sono i primi a saperlo, grazie ad un lungo passato di relazioni con la corrente islamista palestinese, nel corso del quale per molto tempo questi si sono mostrati pronti a collaborare, prima di radicalizzarsi. L'opportunismo dei dirigenti islamisti potrebbe fargli percorrere il cammino inverso. Ma per far ciò occorrerebbe che ci sia un cammino, vale a dire che i dirigenti israeliani auspichino ricercare un accordo con i dirigenti palestinesi.
Per ora, al contrario, sembra che con l'accordo degli Stati-Uniti, i dirigenti israeliani si orientino verso il gelo degli aiuti versati all'autorità palestinese, o anche del riversamento delle tasse incassate da Israele su merci destinate al mercato palestinese. L'obiettivo sarebbe di mettere rapidamente il nuovo governo palestinese alle strette tagliandogli risorse finanziarie.
Visibilmente, l'esperienza non ha insegnato niente, né ai dirigenti americani, né ai dirigenti israeliani. Non è difficile prevedere che tutti i loro attacchi, la negazione dei diritti dei palestinesi che va ormai fino a voler affamare questo popolo perché "non ha votato bene", non possono che renderlo ancora un po' più solidale dei suoi dirigenti, in particolare del suo nuovo governo. Ma nell'immediato, i dirigenti israeliani americani si servono della vittoria di Hamas per giustificare ancora una volta la loro propria politica.
I successi dei Fratelli musulmani egizi.
Il successo islamista tuttavia non è limitato alle elezioni palestinesi. Due mesi prima, alle elezioni legislative egizie i candidati dei Fratelli musulmani hanno effettuato un'avanzata che non è passata inosservata, nonostante tutti gli ostacoli che il partito al potere gli aveva posto. E questo successo ha molti punti comuni con quello di Hamas, anche se il contesto palestinese è particolare.
Anche in Egitto, di fronte ad un potere discreditato, che si sostiene su politici corrotti, il partito dei Fratelli musulmani ha saputo sviluppare una rete di militanti vicini alla popolazione, presenti nei quartieri e capace di rendere a questa popolazione numerosi servizi. I Fratelli musulmani mantengono cliniche e centri di cure, associazioni di mutua assistenza e d'istruzione, distribuiscono aiuti alle famiglie in difficoltà. La loro rete ha potuto costruirsi intorno moschee e centri religiosi. Ciò è stato reso possibile dall'arrivo di fondi che provengono, come in Palestina, dalle ricche monarchie del Golfo, ma anche da una vera frazione "islamista" della borghesia egizia. Ma agli occhi della popolazione, questa rete appare come portata innanzitutto da militanti islamisti motivati dalla loro devozione e dalla loro fede e non dall'interesse personale, e che in ogni caso si preoccupa delle necessità della popolazione, a differenza dei politici al potere.
A diversi gradi, le varie correnti islamiste utilizzano le stesse ricette in molti altri paesi. Anche al di fuori dei paesi arabi, il successo del partito detto "islamista moderato" di Erdogan in Turchia si è sostenuto su una politica di radicamento sociale simile, grazie alla quale gli islamisti potevano dare l'immagine di un partito vicino alla popolazione ed attento ai suoi interessi. Ed anche in Iran, l'elezione recente di Ahmadinejad alla presidenza della repubblica, che ha sorpreso numerosi commentatori, si spiega soprattutto con tale radicamento sociale.
L'affare delle "caricature di Maometto"
E' quindi in questo contesto che si inserisce l'affare detto "delle caricature di Maometto" e l'ondata di manifestazioni che ha provocato nei paesi del Vicino e del Medio Oriente, e più generalmente nel mondo musulmano. Pubblicato alla fine del settembre 2005 in un quotidiano danese di destra a forte tiratura, il Jyllands-Posten, i disegni erano presunti rispondere ad un'iniziativa del giornale che mirava, secondo la redazione, "a provare il grado di autocensura fra i disegnatori danesi"; un certo numero di questi era stato invitato dal quotidiano "a dare ciascuno la sua versione pittorica" di Maometto, poiché la redazione anteriormente, a molte riprese, aveva pubblicato nelle sue colonne "servizi" che riguardavano i fallimenti di un autore danese contemporaneo nei suoi tentativi per fare illustrare una biografia di Maometto.
Naturalmente, e qualunque siano i riferimenti alla sacrosanta libertà della stampa ed al suo diritto di criticare la religione che sono stati fatti in seguito, l'iniziativa del Jyllands-Posten aveva ben poco rapporto con tale lotta. Come per altri giornali reazionari, si iscriveva in un tentativo di banalizzazione di un clima xenofobo che illustra e mantiene la presenza al Parlamento di Copenaghen di 24 deputati del Partito del popolo danese. Questo partito di estrema destra che ha raccolto il 13% dei voti alle elezioni legislative del febbraio 2005, sostiene l'attuale governo, liberale-conservatore, di Anders Rasmussen.
In seguito alla pubblicazione dei disegni, la redazione del quotidiano avrebbe immediatamente ricevuto proteste, che emanano in grande parte da musulmani della Danimarca, come anche minacce. In seguito ad una denuncia, gli autori delle minacce sarebbero stati arrestati. Tre settimane più tardi, undici ambasciatori di paesi musulmani sollecitavano un incontro col Primo ministro danese per chiedergli di intervenire contro il Jyllands-Posten. L'incontro fu rifiutato da Rasmussen, che rispose che era un problema dei tribunali.
E' nel novembre e dicembre 2005 che l'affare iniziò ad essere conosciuto nei paesi del Medio Oriente, prima che, fine gennaio, sia lanciato da reti islamista il boicottaggio dei prodotti danesi. Alcuni giorni più tardi sarebbe stato seguito dall'organizzazione di manifestazioni più o meno importanti. Questo termine di alcuni mesi era senza dubbio necessario, non soltanto affinché l'affare sia conosciuto, ma per permettere alle organizzazioni islamiste dei vari paesi di misurare il vantaggio che potevano trarne.
L'utilizzo di argomenti religiosi per provocare, o tentare di provocare la cristallizzazione di una rabbia popolare, è certo frequente da parte delle organizzazioni islamiste. Si tratta di giocare sulla confusione tra la sensazione di essere oggetto di un'oppressione e di un disprezzo da parte dei paesi occidentali e dei loro dirigenti, sensazione che provano a titolo giusto i popoli dei paesi del terzo mondo a maggioranza musulmana, e la falsa idea che si tratti soprattutto di un disprezzo nei confronti della loro religione e delle loro abitudini. Protestare contro "l'insulto alla religione" permette nello stesso tempo di sfruttare questa sensazione di essere oppresso e disprezzato, che si basa su una realtà sociale, e di sviarla su un altro terreno. Tale protesta per il rispetto della religione ha ben poche possibilità di evolvere verso rivendicazioni sociali concrete. Invece di rischiare di scavalcarli, rafforza il potere degli organizzatori che, in quanto dirigenti religiosi riconosciuti, sono designati per averne la direzione ed il controllo, e decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è.
In tale moltiplicazione di manifestazioni da un paese all'altro e delle scalate che le accompagnano, è difficile districare ciò che è all'iniziativa di autorità religiose, di organizzazioni islamiste che gli hanno dato il cambio, o ciò che è prodotto di servizi governativi che valutano opportuno soffiare sul fuoco. Durante la campagna elettorale dell'autunno scorso in Egitto, un film su DVD, che emanava da cristiani coopti ed era atto a dimostrare la loro tendenza "ad insultare" la religione musulmana, fu copiata e sparsa nelle zone povere di Alessandria, senza che si possa sapere se l'iniziativa fosse dovuta ai Fratelli musulmani o a poliziotti alla ricerca di una provocazione. Comunque sia i Fratelli musulmani ripresero la protesta al loro conto e la diffusione di questo DVD causò scontri sanguinosi tra musulmani e cristiani coopti.
Il ruolo dei vari regimi
In qualsiasi caso, le manifestazioni provocate dall'affare delle "caricature di Mahometto" hanno preso un'ampiezza tale che è ovvio che sono state o semplicemente tollerate, oppure chiaramente sostenute o guidate dai vari regimi.
A Damasco, migliaia di manifestanti hanno sfilato brandendo ritratti del presidente Bachar Al Assad, hanno incendiato edifici vuoti lasciati senza protezione poliziesca: le rappresentanze danesi, norvegesi, cilene e svedesi. L'assenza di reazioni della polizia, in un paese come la Siria, equivale ad un'autorizzazione data dalle autorità alle manifestazioni. Nello stesso tempo, appare come un tentativo di Assad per disinnescare l'opposizione dei Fratelli musulmani, scavalcandola sul suo terreno. Infine, per il regime siriano è una maniera di rispondere alle pressioni di cui è oggetto da parte delle diverse potenze occidentali che l'accusano di essere implicato nell'assassinio dell'ex primo ministro libanese Rafik Hariri. Dimostra che a queste pressioni, il regime siriano può rispondere con delle contro-pressioni, per esempio servendosi dell'' "affare delle caricature" per incoraggiare le manifestazioni anti-occidentali.
L'influenza del regime di Damasco probabilmente non è neanche assente nelle dimostrazioni che un "Movimento per la difesa del Profeta" ha organizzato a Beirut, dove duecento persone hanno potuto saccheggiare e bruciare il consolato della Danimarca, nel centro stesso della zona cristiana di Achrafiyeh. Nel momento in cui l'influenza della Siria in Libano è denunciata dai dirigenti occidentali, era ovviamente un'opportunità per dimostrare ai dirigenti libanesi, in particolare ai cristiani, che potrebbero aver bisogno di nuovo della protezione del regime siriano, come al momento della guerra civile del 1975-1990 quando il regime di Damasco intervenne per mantenere l'equilibrio tra le comunità in favore della comunità cristiana.
Su questo piano, la politica del regime siriano coincide con quella del regime iraniano. Confrontato alle pressioni occidentali per fargli abbandonare il progetto industriale d'arricchimento dell'uranio, il presidente iraniano Ahmadinejad ha colto l'occasione offerta "dall'affare delle caricature" per mostrarsi alla testa delle proteste contro "l'insulto alla religione". Le manifestazioni hanno mirato non soltanto l'ambasciata danese ma anche quella dell'Austria, paese che ha precisamente ospitato le riunioni della AIEA (agenzia internazionale dell'energia atomica) consacrate a condannare la politica di Teheran. Non avaro di demagogia nauseabonda, Ahmadinejad ha proposto, in risposta alle caricature di Maometto pubblicate nei paesi occidentali, di aprire un concorso di caricature sullo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, di cui Ahmadinejad ha dichiarato che si trattava "di un mito".
Come si può vedere, se nei paesi europei l'affare delle caricature ha potuto essere l'occasione di una losca propaganda dai sentori xenofobi, anche nei paesi musulmani assume i tratti di una losca demagogia che ha presieduto all'organizzazione di manifestazioni "anti-caricature", in risposta ad appelli di organizzazioni islamiste oppure a manipolazioni governative. Nella maggior parte dei casi d'altronde, queste manifestazioni sono rimaste numericamente molto limitate, anche se erano senz'altro approvate ben al di là delle qualche migliaia di dimostranti. Restavano comunque lontane dal dare l'immagine di una popolazione musulmana che nel suo insieme si sarebbe sentita insultata al punto di scendere per strada a protestare.
Invece, in Libia, tra il 17 ed il 19 febbraio, le dimostrazioni hanno preso un carattere esplosivo, che va al di là della protesta iniziale. Dopo che le manifestazioni, cominciate contro il consolato italiano di Bengasi in segno di protesta contro le stupide provocazioni fatte alla televisione italiana dal ministro della lega del Nord Calderoli, si erano urtate alle pallottole della polizia libica ed avevano lasciato undici morti sul posto, si sono trasformate in una messa a sacco del consolato italiano ed in una protesta contro il regime libico stesso. La provocazione del ministro italiano che ha esibito alla televisione una maglietta decorata con le caricature di Maometto, la presenza di un'importante opposizione islamista a Bengasi, l'esistenza di un'insoddisfazione sociale profonda, diretta in parte contro il regime e per finire gli spari della polizia libica sulla folla disarmata, hanno ovviamente creato il miscuglio esplosivo che ha condotto, in questo caso, alla deflagrazione.
Partiti borghesi reazionari
Di fronte al discredito degli attuali governi, alla corruzione di partiti e di politici interessati solo alla loro carriera ed al loro arricchimento personale, alla crisi sociale che comporta un impoverimento delle masse di fronte alle fortune scandalose di una minoranza, le correnti islamiste possono apparire come composte da uomini onesti, attenti alle necessità della popolazione e che difendono i suoi interessi. Questi partiti ciononostante sono lontani dal difendere le minime rivendicazioni di classe, o un programma che corrisponda anche solo un po' alle aspirazioni degli strati più poveri.
Le ragioni sono evidenti, visto che dal punto di vista sociale sono partiti borghesi. Politicamente, sul piano dei costumi, dell'influenza della religione, della famiglia e dei diritti delle donne, difendono un programma reazionario. Sul piano economico, sono favorevoli ad un liberalismo che lasci libero corso agli appetiti d'arricchimento dei capitalisti. Lontano dall'immagine di terroristi barbuti che propaga la stampa occidentale, per lo meno quella che punta più apertamente sulla xenofobia, i loro dirigenti sono spesso politici pronti a farsi amministratori del potere e della società. Lungi da loro l'intenzione di rimettere in discussione l'influenza delle grandi società capitaliste e imperialiste.
Anche qui si è ben lontani da un entusiasmo religioso che porterebbe improvvisamente una frazione della popolazione verso i partiti che si appoggiano sui precetti islamici. E' il discredito dei politici al potere di fronte alla devozione dei militanti islamisti da una parte, gli aiuti materiali che percepiscono e possono ridistribuire i partiti religiosi dall'altra, che permettono il rafforzamento ed il successo degli islamisti di ogni genere.
Ma è innanzitutto e soprattutto la politica dell'imperialismo, di cui finalmente la politica adottata localmente da Israele è solo un aspetto, che contribuisce a spingere le masse dei paesi arabi e musulmani dal lato dei politici islamisti. Alle conseguenze sociali devastanti del dominio dell'imperialismo, a cominciare da quelle delle sue società petrolifere, si aggiungono la brutalità ed il disprezzo mostrati nelle operazioni militari, quelle degli Stati Uniti o dei loro alleati in Iraq o quelle di Israele in Palestina. Nello stesso tempo, le correnti nazionalistiche sorte negli anni cinquanta e sessanta sono arrivate l'una dopo l'altra in un vicolo cieco. Si sono mostrate incapaci non solo di scuotere realmente il dominio imperialista sul Vicino e Medio Oriente, ma anche di istituire regimi che siano altra cosa che dittature sulla loro popolazione e che migliorino un poco le sue condizioni di vita.
E' il logorio politico di questi regimi che fa dunque oggigiorno la fortuna di correnti islamiste che, per la maggior parte, sono state portate sulla fonte battesimale dall'imperialismo, come i Fratelli musulmani egizi, o anche da Israele, come Hamas. Ma ciò vale anche per la tendenza di Al Qaeda, di Ussama Ben Laden e degli ex gruppi di combattenti islamisti in Afghanistan, organizzati in grande parte dalla CIA quando si trattava di combattere l'URSS in questo paese. Dopo essere state semplici creature dell'imperialismo, possono ora acquisire un ascolto nelle masse dandosi a violenti discorsi contro gli Stati Uniti, Israele e le varie potenze occidentali.
Il discorso religioso, un sostituto delle vere rivendicazioni
Ma questa radicalizzazione del discorso o dei metodi, in particolare il ricorso agli attentati o gli attacchi di manifestanti contro ambasciate, non corrisponde affatto ad una radicalizzazione sul piano sociale. Al contrario, la lotta sul terreno religioso permette di evitare ogni rivendicazione concreta che esprime, anche da lontano, le necessità reali delle masse, alle quali i politici islamisti non promettono e non hanno da offrire nulla di concreto. In quanto partiti reazionari borghesi, non vogliono prendersela ai privilegi delle classi possidenti autoctone. Senz'altro, potrebbero cercare di rimettere in discussione, almeno parzialmente, i privilegi delle società occidentali, o ovviamente quelle di Israele. Ma occorrerebbe per ciò che ne abbiano i mezzi, ed in questo caso sarebbe soltanto a loro vantaggio ed a quello dei possidenti locali di cui rappresentano gli interessi.
In realtà le organizzazioni islamiste non hanno altro da offrire alle masse che le seguono, oltre alle opere caritatevoli che l'Arabia saudita, l'Iran e qualche altro sostegno interessato permettono di finanziare, che dei discorsi religiosi. E con ciò, il solo punto sul quale possono forse mantenere le loro promesse è quello che chiamano il ritorno alle tradizioni ed il rispetto della religione. Ed in effetti, imporre il porto del velo alle donne, il rispetto di una morale islamica rigorosa definita da qualche imam, il rifiuto degli abiti all'occidentale, campagne contro le serie televisive che comportano scene troppo spinte, sono temi che non costano caro e non rischiano in alcun caso di intaccare gli interessi delle classi possidenti locali, e neanche dell'imperialismo.
E sono le masse popolari stesse che rischiano di pagarle con un arretramento profondo delle loro condizioni sociali e politiche. Il regime iraniano ne fornisce l'esempio. La caduta del regime dello scià, un regime di dittatura particolarmente assoggettato all'imperialismo e generalmente odiato, ha lasciato il posto a quello della repubblica islamica. Quest'ultimo risponde al desiderio di una parte della borghesia iraniana di poter condurre una politica più indipendente. Ma è esso stesso un regime dittatoriale, non meno selvaggio di quello dello scià, che esercita una repressione violenta contro i sindacati, le organizzazioni operaie ed in particolare le organizzazioni comuniste, e che si oppone ad ogni tentativo d'organizzazione indipendente delle masse popolari. Vi aggiunge un regime d'ordine morale, che impone a tutta la società il suo oscurantismo, accompagnato da norme di vita e di condotta di un'altra epoca, ed in particolare il tremendo arretramento della condizione delle donne di cui porto obbligatorio dello ciador è il simbolo.
Senz'altro, là dove le organizzazioni islamiste restano nell'opposizione, possono scegliere per tattica di apparire come movimenti democratici che non escludono le altre tendenze. E' il caso dei Fratelli musulmani in Egitto che, protestando contro le persecuzioni di cui sono oggetto da parte del potere, cercano di ottenere il riconoscimento delle altre organizzazioni d'opposizione. Ma era anche il caso dei mollah iraniani che, prima di prendere il potere, si presentavano come i federatori dell'opposizione democratica al regime dello scià. Si è visto in seguito, dopo la conquista del potere, come stavano le cose. Ed il fatto di essere ancora oppositori politici non impedisce ai Fratelli musulmani egizi di riuscire già ad imporre la loro dittatura sociale, per esempio imponendo di fatto il porto del velo alle donne in quasi tutta la società. E' anche ciò che fa lo Hezbollah libanese nelle zone che controlla nel Sud-Libano. Aggiungiamo che quest'ultimo tende già ad esercitare la sua dittatura politica, ed ha già eliminato militanti comunisti con l'assassinio. Ciò dà un'idea del tipo di regime che potrebbero instaurare tali partiti se ciò dipendesse solo da loro.
D'altro canto, le divisioni e le scalate tra organizzazioni islamiste possono avere conseguenze aggravanti. Le cause sono molte. Alcune risultano dalle varie forze che danno il loro sostegno alle varie organizzazioni : l'Arabia saudita, l'Iran, la Siria in particolare lo danno a questa o quella organizzazione mantenendo tramite tali intermediari le loro rivalità. Queste rivalità si innestano a loro volta su quelle che separano i gruppi religiosi sunniti, sciiti, drusi o alauiti, preparando la strada per sviare eventuali esplosioni di malcontento verso scontri comunitari. Anche su questo piano, le masse popolari rischiano di pagar caro l'arretramento rappresentato dall'influenza delle diverse organizzazioni fondamentaliste islamiche.
Mentre tutta la politica dell'imperialismo - e quella di Israele - crea in molti paesi del Vicino e del Medio Oriente le condizioni di un'esplosione sociale, non è detto che i discorsi religiosi reazionari e la demagogia comunitaria riescano per molto tempo a sostituire, presso le masse popolari, la soddisfazione delle loro aspirazioni. Ma, nelle loro lotte per queste aspirazioni, le masse popolari dovranno inevitabilmente combattere l'influenza di queste organizzazioni, che possono rivelarsi strumenti molto efficaci della dittatura della borghesia contro le masse. E non potranno farlo che dotandosi di partiti capaci di difendere fino in fondo le aspirazioni e le rivendicazioni delle masse operaie e popolari.
Mentre l'oppressione economica, politica o militare del sistema imperialista diventa sempre più insopportabile, ciò richiederà di fare rinascere, contro i demagoghi islamisti e comunitari di ogni genere, dei partiti che difendano un vero programma di rivendicazioni e di trasformazioni sociali ; dei partiti che difendano una prospettiva di classe, comunista, rivoluzionaria ed internazionalista.