Coronavirus e globalizzazione

Imprimir
31 marzo 2020

Da Lutte de classe n° 207 - Aprile-Maggio 2020

Se la pandemia del Coronavirus 2019 (o Covid-19) non è la prima che l'umanità si trovi ad affrontare, la velocità con cui questo virus, che ha avuto origine in Cina, si è diffuso in tutto il mondo ha battuto tutti i record. Attaccandosi a uno dei 130 passeggeri che ogni secondo volavano da qualche parte nel mondo prima della crisi, il virus ha raggiunto ogni regione del globo in meno di tre mesi. La mappa dei focolai dell'epidemia e quella dei viaggi aerei intercontinentali si sovrappongono perfettamente.

Lo shock economico causato dal contenimento, dalla chiusura delle fabbriche, dalla chiusura delle frontiere, prima in Cina e poi in tutto il mondo, ha reso concreto il grado di globalizzazione economica e di interdipendenza tra i Paesi. Ovunque le fabbriche si sono fermate per mancanza di pezzi provenienti dalla Cina e poi da altrove. Questa crisi ha evidenziato il fatto che l'80% dei principi attivi dei farmaci prodotti in Europa sono fabbricati in India o in Cina, rispetto al 20% degli anni '90. Oppure che il 60% del paracetamolo e il 90% della penicillina del mondo sono prodotti in Cina. A causa del "just-in-time" generalizzato e della forte riduzione delle riserve nel corso degli anni, la chiusura delle frontiere ha portato a interruzioni di rifornimenti in numerosi campi.

In Francia, i tagli al bilancio accumulati nel settore della sanità pubblica e la scelta politica del 2013 di rinunciare al mantenimento di uno stock strategico spiegano la carenza iniziale di maschere, test di screening (tamponi) e respiratori. Questa carenza è stata aggravata dal fatto che nessun piano di produzione è stato attivato con urgenza all'inizio della pandemia, e ancor più dalla frammentazione della catena di produzione di tutti questi materiali tra diversi paesi, dopo le acquisizioni, le chiusure e le delocalizzazioni delle fabbriche.

Le bombole di ossigeno utilizzate per far funzionare alcune apparecchiature di rianimazione erano prodotte in Auvergne da Luxfer fino a quando, nel 2018, questa fabbrica è stata acquistata da una società britannica che ha chiuso l'impianto. Ora sono importate dalla Gran Bretagna o dalla Turchia. La produzione dei tamponi, la cui applicazione sistematica potrebbe arrestare la diffusione della malattia e accelerare la fine del contenimento, è ritardata dalla frammentazione della catena di produzione. Il governo sostiene di lanciare uno screening massiccio della popolazione, ma ha lasciato che una serie di aziende private concorrenti, da varie piccole aziende al gigante BioMérieux, sviluppino e commercializzino i loro propri test. Invece di centralizzare le competenze e le risorse, anche solo su scala europea, le imprese private si fanno una concorrenza feroce. I principi attivi di questi test, i loro componenti o materiali di consumo provengono da tutto il mondo. Il contenimento globale ne rallenta la produzione, e alcuni Stati, come gli Stati Uniti, bloccano le loro esportazioni per protezionismo, per preservare le loro proprie aziende.

La diffusione di Covid-19, come la sua insorgenza, è stata accelerata dalla globalizzazione dell'economia, ma la lotta contro il virus si sta svolgendo su scala nazionale. Anche all'interno dell'Unione Europea (UE), costruita come un'area di libero scambio economico, che dovrebbe essere uno spazio di libertà e cooperazione, la crisi ha rivelato l'egoismo nazionale più angusto. All'inizio di marzo, quando la pandemia ha raggiunto l'Europa, il primo riflesso dei governi francese e tedesco è stato quello di vietare per decreto l'esportazione all'interno dell'UE dei dispositivi di protezione di cui disponevano. L'Italia ha ricevuto più aiuti dalla Cina o addirittura da Cuba che dalla Francia o dalla Germania.

Questa pandemia rivela le carenze dell'organizzazione economica e sociale in vigore. Le commoventi testimonianze degli operatori sanitari di fronte alla carenza di materiali rendono concreta per milioni di persone l'assurdità di un'organizzazione economica che fa produrre in Cina delle mascherine che delle fabbriche producevano in Europa non molto tempo fa. Queste interrogazioni e messe in dubbio della globalizzazione capitalista sono tradotte politicamente da varie correnti. Da attivisti sindacali, ecologisti e anti-globalizzazione, oppositori di lunga data della globalizzazione, a leader politici responsabili della difesa a breve termine degli interessi dei loro gruppi capitalisti, passando da economisti preoccupati della dipendenza dall'economia cinese, tutti chiedono un cambiamento di modello. Ma di quale modello stanno parlando?

Concorrenza, anarchia e legge del profitto

I dirigenti di Apple utilizzano circa 200 fornitori situati in 43 paesi sparsi su cinque continenti, fanno montare l'iPhone in Cina prima di venderlo in tutto il mondo; ed ciò per sfruttare i salari bassi dei lavoratori cinesi, la diminuzione dei costi di trasporto, lo sviluppo delle comunicazioni che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni di globalizzazione. La loro principale forza motrice è la ricerca del massimo profitto. In ogni fase hanno cercato di ottenere i costi di produzione più bassi, sfruttando appieno le disparità di sviluppo tra i paesi, gli accordi commerciali firmati tra gli Stati e le legislazioni sociali, fiscali o ambientali più permissive.

L'industria farmaceutica obbedisce alla stessa folle logica. La maggior parte dei grandi laboratori, i cosiddetti Big Pharmas (Merck, Novartis, Johnson & Johnson...), si sono gradualmente liberati della produzione primaria, quella dei principi attivi dei farmaci, per farli produrre al minor costo in India o in Cina. La produzione secondaria, che consiste nell'aggiunta di eccipienti e nella produzione di capsule o compresse, viene esternalizzata a subappaltatori, come Famar, Delpharm o altri. Queste aziende trasformatrici, che lavorano per diverse aziende farmaceutiche, vengono regolarmente acquistate e poi rivendute da fondi di investimento o da uomini d'affari che passano da una catena di supermercati all'industria farmaceutica. Come in tutto questo settore, gli impianti sono obsoleti a causa della mancanza di investimenti produttivi. I proprietari non esitano a chiudere delle fabbriche utili.

La fabbrica Famar di Saint-Genis-Laval, nella periferia di Lione, con 250 lavoratori che producono Nivaquine per la Sanofi, un trattamento per la malaria a base di clorochina e azitromicina (un antibiotico prescritto per i disturbi respiratori), doveva chiudere prima dell'estate del 2020. La Sanofi fa produrre il Nivaquine in India e stava prendendo in considerazione di interrompere la produzione con il pretesto che questo farmaco è in declino. Le ricerche di Didier Raoult e gli annunci dei media sull'uso di questo farmaco per combattere il coronavirus potrebbero cambiare la situazione. Bruno Le Maire [ministro dell'Economia, NdT] ha invocato la sovranità nazionale ed ha chiesto ai dirigenti della Sanofi di mantenere la produzione di clorochina in questa fabbrica. Se lo faranno, ovviamente non sarà in nome della sovranità nazionale, ma perché ci sono molti soldi da fare e da ottenere tramite nuovi sussidi e altri fondi per la ricerca.

Tutto questo messo insieme, l'esternalizzazione, la concentrazione in poche fabbriche della produzione globale di alcuni principi attivi, il just-in-time e la mancanza di riserve, introducono regolarmente, anche al di fuori di un periodo pandemico, interruzioni nella fornitura di medicinali. In dieci anni, il numero di interruzioni è aumentato di 20 volte. Nel 2018, 870 medicinali o vaccini sono stati temporaneamente esauriti, compresi dei trattamenti di utilità terapeutica vitale, indispensabili per i pazienti e che non possono essere sostituiti. Alle incertezze causate dalla produzione globalizzata bisogna aggiungere la scelta delle grandi case farmaceutiche di interrompere volontariamente la produzione di farmaci o vaccini utili, ma che non considerano sufficientemente redditizi. La proprietà privata delle aziende, la ricerca permanente del profitto, l'accanita concorrenza tra gruppi rivali e la mancanza di pianificazione, spiegano queste carenze, accidentali o consapevolmente adottate, di medicinali, vaccini, materiali e test medici.

Il capitalismo è l'anarchia della produzione. La costruzione di un respiratore, per esempio, richiede materie prime, metalli, cavi elettrici, tubi di plastica prodotti a partire da petrolio, vari pezzi di ricambio, per non parlare delle macchine utensili per lavorarli e dell'elettricità per alimentarle. Per costruire un respiratore, ognuno di questi componenti deve essere disponibile al momento giusto, nel posto giusto e nella giusta proporzione. Alcuni componenti sono disponibili localmente, altri devono essere importati. Ma tutti sono prodotti da diverse aziende private, che cercano, ognuna nei rispettivi settori, di venderne il maggior numero possibile su tutti i mercati, sperando di arrivare prima delle altre. Da qui le drammatiche interruzioni e ritardi di produzione. La mano invisibile del mercato, per usare l'espressione dei difensori dell'economia capitalista, è l'egoismo e l'azione individuale di ogni capitalista e di ogni banchiere alla ricerca del miglior affare.

Censimento e pianificazione

La pandemia, il contenimento e la chiusura di molte fabbriche in tutto il mondo rivela l'assurdità della globalizzazione capitalista. Ma dei due termini, quello più pericoloso, quello che minaccia l'umanità, è il capitalismo piuttosto che la globalizzazione. Questa crisi evidenzia, ancora una volta, la necessità di pianificare e razionalizzare la produzione di tutti i beni indispensabili all'umanità.

Pianificazione non è sinonimo di centralizzazione. Richiede innanzitutto l'identificazione dei bisogni di ciascuno, delle risorse e delle capacità produttive. Richiede l'organizzazione della produzione, su scala locale per quanto sia possibile, o su scala più ampia, continentale o mondiale a seconda dei campi e dello stato delle risorse, riducendo al minimo il lavoro umano, gli spostamenti e i prelievi sulla natura.

L'umanità dispone di tutti i mezzi di identificazione, previsione e organizzazione per realizzare questa produzione al fine di nutrire, alloggiare, educare e curare tutti i suoi membri. Ma questi strumenti sono oggi nelle mani dei grandi gruppi industriali e delle banche che dominano l'economia, e degli Stati che difendono i loro interessi. Usano questi strumenti per opprimere, spiare e aggravare lo sfruttamento dei lavoratori, mentre conducono feroci guerre tra di loro, e non solo guerre commerciali. Usano questi strumenti per depredare il pianeta, per distruggere gli ecosistemi, per disboscare le foreste primarie a vantaggio dell'agricoltura intensiva e dell'allevamento industriale, che accelera il passaggio dei virus tra le specie e ne aumenta la pericolosità.

Cambiare modello, rompere con le devastazioni della globalizzazione capitalista, richiede una rivoluzione sociale per espropriare i capitalisti e rovesciare gli Stati al loro servizio. Per fare una tale rivoluzione deve agire una forza sociale potente, presente in tutto il mondo, che abbia tutto da guadagnare a rovesciare la dittatura del capitale sulla società. Una tale classe sociale esiste, è il proletariato internazionale, quelli il cui lavoro si scopre oggi vitale per il funzionamento quotidiano della società, proletariato unito e reso più numeroso dalla divisione internazionale del lavoro. A questa classe sociale manca la consapevolezza della sua forza collettiva, dei suoi interessi comuni, del fatto che essa è portatrice del futuro della società. I lavoratori non dovrebbero certo aspettarsi che gli Stati traggano dalla pandemia lezioni favorevoli agli interessi collettivi. E tutti coloro che suggeriscono il contrario si rendono complici degli attacchi che si stanno preparando.

Stati al servizio dei capitalisti

Un forum intitolato "Mai più, prepariamoci per il giorno dopo"1, cofirmato da Philippe Martinez della CGT, Cécile Duflot di Oxfam e Aurélie Trouvé di Attac, tra gli altri, denuncia "il neoliberismo, che ha ridotto a zero la capacità dei nostri Stati di rispondere a crisi come quella di Covid". Chiede "la rilocalizzazione delle attività, nell'industria, nell'agricoltura e nei servizi [per] consentire una maggiore autonomia rispetto ai mercati internazionali, per riprendere il controllo dei modi di produzione e per mettere in moto una transizione ecologica e sociale delle attività".

Questo forum è un invito allo Stato ad attuare questa politica. I firmatari, che notano ingenuamente che "troppe poche lezioni sono state tratte dalla crisi economica del 2008", invitano lo Stato a "disarmare i mercati finanziari introducendo controlli sui capitali e il divieto delle operazioni più speculative, una tassa sulle transazioni finanziarie [...]". Chiedono con tutto il cuore "una regolamentazione internazionale rifondata sulla cooperazione e la risposta alla crisi ecologica, nell'ambito di organismi multilaterali e democratici".

Un'altra tribuna, pubblicata su Le Monde del 22 marzo, firmata da vari membri di Attac, insiste sullo stesso punto: "Rilocalizzare non è più un'opzione ma una condizione per la sopravvivenza dei nostri sistemi economici e sociali, ma anche delle popolazioni". Chiede "una diminuzione del flusso di capitali e di beni e una riduzione del ruolo dei settori tossici per la biosfera (combustibili fossili, prodotti chimici e agroindustriali, elettronica, ecc.)". E come i precedenti, i firmatari chiedono ad una regolamentazione pubblica, e quindi allo Stato, di attuare questo programma.

Ma denunciare la globalizzazione liberale senza mettere in discussione il capitalismo che l'ha esacerbata fino all'assurdo, è un vicolo cieco. Esigere una rilocalizzazione della produzione rivolgendosi agli Stati nazionali o a ipotetici organismi di regolamentazione internazionali significa consegnare i lavoratori e le classi lavoratrici di ogni Paese a una classe capitalista avida di profitti, legata in mille modi a un apparato statale concepito per difendere i suoi interessi.

Per la crisi di Covid-19 accadrà quanto è accaduto per la crisi finanziaria del 2008 e tutte le precedenti: i governi e gli Stati attueranno con urgenza piani d'azione massicci per salvare gli interessi immediati dei capitalisti e dei finanzieri. Lo attestano le linee di credito quasi illimitate che le banche centrali e i governi di tutti i paesi ricchi hanno aperto senza indugi o ritardi. Nel 2020, come nel 2008, le banche e le grandi imprese non utilizzeranno queste agevolazioni di credito per effettuare investimenti produttivi o per concedere prestiti a bassi tassi alle piccole e medie imprese o agli artigiani. Al contrario! Grandi aziende, come Vinci, le Printemps o MMA, sono state appena criticate da Le Maire, che pure si prende cura di loro così bene, perché ritardano deliberatamente i pagamenti ai loro fornitori per accumulare liquidità, anche se possono prendere denaro in prestito senza limiti. A metà marzo Le Canard enchaîné [publicazione settimanae, NdT] ha rivelato come Bernard Arnault, il secondo uomo più ricco del mondo, abbia approfittato della notevole diminuzione del valore delle azioni del suo gruppo LVMH per riacquistarle a basso prezzo, aumentando ulteriormente il suo patrimonio. L'amministratore delegato del gruppo alberghiero Accor, le cui attività si sono interrotte, e diversi dei suoi fondatori e direttori, hanno fatto lo stesso. Dietro tutti questi grandi gruppi internazionali, ci sono dei borghesi in carne e ossa. Per questi approfittatori di guerra, questa crisi sanitaria, come tutte le crisi o le guerre, è un'enorme opportunità per arricchirsi ancora. Questa crisi permetterà ai grandi di mangiare i piccoli e ai capitali di concentrarsi ulteriormente.

Per quanto riguarda i governi, essi adegueranno le loro politiche economiche per affrontare il nuovo equilibrio di potere tra i paesi, tra gruppi capitalisti in diversi settori, e per affrontare lo stato dell'economia mondiale che emergerà da questa crisi. Se questa crisi, come è probabile, accelererà le tendenze protezionistiche in atto da diversi anni e simboleggiate dalle tariffe doganiere e dalle restrizioni all'importazione introdotte da Trump dal 2018, tutti i governi ne seguiranno l'esempio. Uno dopo l'altro adotteranno misure protezionistiche e spingeranno alla rilocalizzazione della produzione. Ma la rilocalizzazione che incoraggeranno non sarà meno dannosa per le classi lavoratrici, i lavoratori e l'ambiente di quanto non lo sia l'attuale globalizzazione. I capitalisti continueranno a produrre ciò che considerano strategico per i loro interessi e non produrranno più di quanto non facciano oggi beni vitali per le classi lavoratrici, abitazioni, mezzi di trasporto o altro.

In guerra contro i lavoratori

Il 16 marzo, nel suo discorso televisivo, Macron ha detto: "Domani dovremo trarre le lezioni del momento che stiamo attraversando, mettere in discussione il modello di sviluppo in cui il nostro mondo è impegnato da decenni e che rivela i suoi difetti in pieno giorno". Già il 28 febbraio, Bruno Le Maire, il suo ministro dell'Economia, che sta facendo il possibile per costringere i lavoratori ad andare a farsi sfruttare nonostante il contenimento, ha promesso che "il primo progetto post-crisi sarà quello di riorganizzare la scala della produzione settore per settore [...] per aumentare la sovranità economica". Ha aggiunto: "La rilocalizzazione di alcune produzioni strategiche deve essere e sarà intrapresa". Tra i settori prioritari ha citato la difesa, l'alimentazione, la salute, l'energia e i trasporti. Secondo le parole di Le Maire, la rilocalizzazione, se avrà davvero luogo, mirerà a garantire l'approvvigionamento di materie prime, pezzi di ricambio e componenti vari per Dassault, Danone, Sanofi, Total, Engie ed altri. Il governo incoraggerà forse la rilocalizzazione della produzione dei principi attivi dei farmaci. Ma per raggiungere questo obiettivo, abbasserà ancora le tasse e i contributi sociali delle aziende farmaceutiche in nome della competitività. Imporrà nuovi sacrifici ai lavoratori in nome della sovranità nazionale.

Con il pretesto di una guerra sanitaria contro il coronavirus, è contro i lavoratori che il governo e il padronato stanno facendo la guerra. Gli operatori sanitari, il personale ospedaliero, quello delle case per anziani, gli assistenti, i fattorini, gli autisti di camion, le cassiere, il personale di pulizia o di sicurezza, gli addetti alla raccolta dei rifiuti, vengono mandati al fronte senza protezione. Ma gli industriali, in tutti i settori non vitali, si stanno muovendo per rimettere in funzione i loro impianti il più rapidamente possibile, mostrando così il loro disprezzo per la salute e la vita dei lavoratori. Dassault, Airbus, PSA e altri stanno costringendo i loro dipendenti e tutti i subappaltatori a venire a montare aerei o automobili nonostante il contenimento, mentre tutto è ancora sospeso, per essere i primi in grado di inondare il mercato non appena la ripresa prenderà piede. Si stanno mettendo in un ordine di battaglia per affrontare il mercato mondiale con la pelle dei lavoratori.

Ciò che accade in un periodo di contenimento dà un'idea di ciò che accadrà quando ci sarà la ripresa economica. I violenti attacchi ai lavoratori, il divieto di sciopero durante il periodo di contenimento in Portogallo, la legalizzazione della settimana lavorativa di 60 ore e il congedo forzato in Francia, mostrano chiaramente a chi i governi hanno dichiarato guerra. Se si lascieranno sfruttare, i lavoratori, che ora sono costretti a rischiare la vita per produrre a tutti i costi, pagheranno due volte il conto della crisi. Pagheranno le centinaia di miliardi prestati o dati ai capitalisti con nuovi tagli netti ai servizi utili alla popolazione. Pagheranno per la guerra economica, per la difesa della sovranità nazionale con dei salari ridotti, dei giorni di ferie in meno, delle settimane lavorative prolungate. Per salvare le loro condizioni di vita, devono rifiutare qualsiasi unione nazionale e difendersi fin da ora.

La crisi di Covid-19 e il contenimento forzato dell'umanità spingeranno dei lavoratori, dei giovani, a mettere in discussione il funzionamento della società. E' necessario militare affinché questa nuova generazione non trovi l'unica risposta alle sue domande e alla sua rivolta nel ripiego e nella sovranità nazionale. Che sia apertamente al servizio dei capitalisti, come quella incarnata da Macron e Le Maire, che puzzi di xenofobia, come quella incarnata da Le Pen e Asselineau, o che si affermi ecologica, sociale e progressista, come quella incarnata da Martinez e Duflot, la sovranità nazionale è un vicolo cieco. A questa nuova generazione deve essere permesso di tornare alle prospettive difese dal movimento socialista e poi comunista, alla necessità di espropriare la borghesia e distruggere il suo Stato, ovunque su questo pianeta.

31 marzo 2020