La situazione interna (da “Lutte de Classe” n° 124 – dicembre 2009)

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La situazione interna
31 ottobre 2009

(Questo testo è stato approvato dal Congresso di Lutte Ouvrière, il 6 dicembre 2009)

Il fatto più importante della situazione interna è la guerra del padronato e del governo contro i lavoratori per mantenere, nonostante la crisi, i profitti del capitale

Questa guerra non è una novità. Sin dalla fine di ciò che gli economisti borghesi chiamano i trenta anni gloriosi (esagerando alquanto in la durata e in gloria!), cioè dalla metà degli anni '70, la disoccupazione a livelli più o meno alti ha fatto parte del paesaggio sociale mentre nello stesso tempo abbiamo assistito alla diminuzione della quota dei salari nel reddito nazionale. Tutto questo è stato accompagnato da regali fatti alle imprese e ai più ricchi e da un degrado dei servizi pubblici, messi a disposizione del capitale privato. Ma dopo la crisi finanziaria cominciata all'estate 2007, dopo lo scoppio negli Stati Uniti della bolla immobiliare legata ai "subprimes", allargatasi a macchia d'olio nel settembre 2008 col fallimento spettacolare della banca Lehman Brothers, questi attacchi si sono ulteriormente amplificati.

Le perdita di posti di lavoro si è moltiplicata. Tra il settembre 2008 e il settembre 2009 secondo le Assedic - casse d'indennizzo della disoccupazione- il numero dei disoccupati che ricevono un sussidio è passato da 3,5 milioni a 4,1 milioni, cioè un aumento del 17% in un anno. Prime vittime dei licenziamenti che hanno portato a questi numeri sono i lavoratori con contratto a tempo determinato e interinali. Ma le chiusure di fabbriche, i piani di soppressione di posti di lavoro ipocritamente chiamati "piani sociali" hanno anche coinvolto numerosi lavoratori con contratto a tempo indeterminato.

In un periodo di restringimento dei mercati solvibili, le soppressioni di posti di lavoro o i licenziamenti sono stati una variabile di aggiustamento per i capitalisti. Ma la crisi è anche stata un pretesto per incrementare la politica di soppressione di posti di lavoro portata avanti da anni da gruppi che continuano ad ostentare profitti confortevoli e a distribuire agli azionisti dividendi che lo sono altrettanto. È una politica che consiste nel fare funzionare le fabbriche o i servizi con un numero sempre più ristretto di lavoratori e a supersfruttare chi non è stato buttato in mezzo alla strada.

Ciò che caratterizza il capitalismo della nostra epoca è la debolezza degli investimenti produttivi che per i possessori di capitali non fruttano abbastanza profitti e non abbastanza presto. Quando gli economisti della borghesia parlano di "investitori", il più spesso fanno in realtà riferimento agli speculatori che comprano o vendono titoli sui mercati borsistici in cerca di un profitto a breve termine.

Una parte delle acquisizioni e fusioni di imprese che si sono moltiplicate nell'ultimo periodo corrispondono alla volontà di mettere la mano sulle parti di mercato detenute dalle imprese e che è possibile comprare. Ma molte acquisizioni sono fatte con fondi d'investimento che mirano ad un profitto a ancora più breve termine, rivendendo a buon prezzo e "al dettaglio" i settori più redditizi dei gruppi comprati, dopo di avere chiuso - licenziando - o fatto riacquistare, da mercenari che si faranno carico dello sporco lavoro dei licenziamenti, i settori che lo sono meno.

Inoltre lo Stato mette a disposizione dei possessori di capitali delle imprese, già pronte, che gli garantiscano profitti immediati.

Passata l'ondata di nazionalizzazioni largamente indennizzate dei primi anni della presidenza di Mitterrand, che ha consentito ai capitalisti di recuperare i capitali immobilizzati in imprese che secondo loro non erano abbastanza redditizie, e le ristrutturazioni accompagnate da chiusure di imprese e licenziamenti effettuati dallo Stato, ad esempio nella siderurgia, esso ha rimesso queste imprese a disposizione del gran capitale.

Ma l'intervento dello Stato non si è fermato qui. In tutti i campi ha facilitato la presa del controllo, da parte dei capitali privati, dei settori redditizi di tutto ciò che fino a quel momento faceva parte di servizi pubblici. La trasformazione delle poste in società per azioni decisa dal governo è solo l'ultima, per ora, delle operazioni di questo genere. Presidente della Repubblica e ministri possono mentire all'unanimità, proclamando che questa operazione non mira alla privatizzazione delle poste, ma i precedenti della Air France, della Edf-Gdf -un'impresa di cui Sarkozy aveva affermato che non sarebbe mai privatizzata- non lasciano alcun dubbio sulle intenzioni reali del governo.

Bisogna ricordare che la sinistra parlamentare, che oggi protesta contro questa estensione delle privatizzazioni, ha avuto la sua parte in questa commedia quando era al governo. Il governo del socialista Jospin, detto della "sinistra plurale", formatosi in seguito allo scioglimento anticipato del parlamento nell'aprile 1997, non ha fatto niente per tornare indietro sulla scorporazione della Sncf e la creazione di Rete Ferroviaria di Francia (Rff) che erano stati decisi tre mesi prima dalla destra, mentre questa operazione era ovviamente il primo passo verso l'apertura di questa rete alle imprese private. Anche a questa epoca è cominciato il processo di privatizzazione della France Telecom. E di più fu il ministro comunista dei trasporti Gayssot ad aprire il capitale della Air France al privato, avviando il processo di privatizzazione.

Anche nel campo della sanità, il governo apre un largo spazio al settore privato. Mentre gli ospedali pubblici, che pure hanno un ruolo insostituibile, sono messi alle strette dalla cosiddetta "tarificazione all'atto" e, in nome dell'equilibrio finanziario, non assumono il personale necessario e chiudono letti e servizi in nome della "complementarità" dell'ospedale privato e dell'"interesse dei malati" come osa affermare la ministra della Salute Roselyne Bachelot, lo Stato facilita la presa di controllo da parte del settore privato di tutto ciò che può rivelarsi redditizio in materia di cure e di mezzi di diagnosi.

Ovviamente tutto questo si fa in nome del rispetto delle direttive europee sulla libera concorrenza. Certamente ogni tanto si sente qualche critica di rappresentanti del governo contro queste direttive, ma si tratta di pura ipocrisia poiché i commissari francesi a Bruxelles partecipano alla loro elaborazione. L'Europa fa solo da capro espiatorio per fare dimenticare che tutta questa politica è stata voluta dalla borghesia francese e dai suoi governi, e attuata con il pieno accordo di questi ultimi.

Ma l'aiuto dello Stato alla borghesia non si limita a consentirle di prendere in mano settori interi dei servizi pubblici, né alle sovvenzioni dirette o indirette (quale il premio alla rottamazione) abbondantemente versati alle imprese dallo scoppio della crisi.

Già da molto tempo, in nome della lotta alla disoccupazione, della creazione o della salvaguardia dei posti di lavoro, i governi successivi hanno moltiplicato i regali alle imprese, riducendo l'imposta sui benefici delle società. Quest'ultimo era del 50% all'epoca di Giscard d'Estaing che pure non aveva niente di un "anticapitalista". Il socialista Rocard lo aveva riportato al 42% per i benefici distribuiti agli azionisti e al 34% per quelli reinvestiti. Balladur aveva poi deciso un tasso unico del 33% ma Sarkozy considera che sia ancora esagerato, con l'argomento che il tasso medio per l'Unione Europea sia nell'ordine del 25%.

Ma il governo aiuta ancora il padronato con altri mezzi, compreso quando pretende fare del "sociale". Analogamente all'"aiuto personalizzato per la casa" creato dal governo Barre-Giscard nel 1977 o all'"allocazione casa", che permettono al padronato di pagare salari che non permettono ai lavoratori neppure di pagare una casa decente, il "premio per l'occupazione" o l'"RSA" (Reddito Sociale d'attività) mirano in realtà a dare ai padroni la possibilità di assumere lavoratori ad un salario irrisorio.

Nello stesso modo le misure prese rispetto all'indennizzo della "disoccupazione parziale" (equivalente della cassa integrazione - Ndt) non sono fatte tanto per aiutare i lavoratori quanto per consentire ai padroni di conservare a disposizione con meno spese un organico che gli permetta di far fronte ad una ripresa temporanea della produzione.

A questi regali fatti alle imprese, bisogna aggiungere quelli che si rivolgono direttamente ai borghesi come persone, di cui lo "scudo fiscale" che dall'agosto del 2007 limita al 50% dei redditi l'ammontare totale delle imposte dirette pagate da un contribuente. Questa misura che ovviamente interessa in primo luogo i più ricchi li mette al riparo da ogni aumento della fiscalità mentre l'aumento del deficit pubblico porterà comunque, a tempo debito e nonostante le smentite del governo, ad un aumento delle imposte.

Ma caratteristica della situazione è anche la profonda demoralizzazione della maggioranza dei lavoratori, che sono perfettamente coscienti che il governo difende solo gli interessi dei ricchi ma non vedono come sia possibile rovesciare i rapporti di forza.

L'esistenza di alcune lotte radicali fatte da lavoratori minacciati di licenziamento che con le spalle al muro hanno provato ad ottenere di perdere il posto di lavoro nelle condizioni meno brutte possibili, non deve illuderci. Tanto più che molto spesso si tratta di una pseudo radicalità che si esprime con minacce che non vanno fino alla loro attuazione, come per esempio di fare saltare una bomba fatta con ricariche di gas per accendisigari... (si è saputo dopo che era una minaccia fasulla), o di versare prodotti tossici in un fiume.

Il moltiplicarsi dei suicidi di lavoratori che non sopportano più le pressioni della loro direzione, tra l'altro alla France Telecom o alla Renault di Guyancourt, dimostra certamente l'infamia dei metodi padronali. Ma dimostra anche l'assenza di reazioni collettive di fronte a questi metodi e una demoralizzazione che porta alcuni lavoratori a non vedere altri mezzi che il suicidio per protestare e sfuggire alla loro condizione.

La politica delle confederazioni sindacali non è certamente l'unica responsabile di questa situazione. La crisi stessa è un fattore di demoralizzazione. Se ci riferiamo all'esempio del 1929 bisogna ricordarsi che le prime reazioni operaie importanti si svilupparono solo dopo il 1934. Ma le confederazioni sindacali, con il loro rifiuto di fatto di preparare una risposta d'insieme della classe operaia, portano una pesante responsabilità nella presente situazione.

Eppure le grandi confederazioni sindacali rivendicano il monopolio della direzione delle lotte. Il segretario generale della Cfdt Chérèque ha elegantemente qualificato i militanti dell'estrema sinistra di "rapaci" che "fanno il giro delle imprese in difficoltà", un'espressione ripresa tra l'altro al proprio conto dal portavoce dell'Ump Frédéric Lefebvre. Questa denuncia degli interventi dei militanti politici sta bene in linea con una confederazione che ha sempre sostenuto l'idea che tutto ciò che riguarda le relazioni tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti deve dipendere solo dai sindacati e che l'unico ruolo dei politici deve essere di partecipare ai lavori del Parlamento.

Ma la direzione della Cgt che fu a lungo strettamente nelle mani dell'apparato del Pcf non ha un atteggiamento diverso. Nell'ottobre 2009 una dichiarazione della commissione esecutiva confederale affermava: "la Cgt stabilisce rapporti con i partiti politici basati sul rispetto reciproco delle prerogative e dell'identità di ciascuno"... cioè a condizione che non si permettano di giudicare gli interventi della Cgt e soprattutto che non intervengano nei conflitti del lavoro. E in occasione della manifestazione del 1° maggio 2009 affermava ancora più chiaramente: "quando dei partiti vogliono pensare al posto della confederazione sindacale e dirci cosa dovremmo fare, sbagliano missione. Riflettano all'evoluzione della società, alle condizioni in cui pensano un giorno di arrivare al potere, piuttosto che di trasformarsi in pseudo-sindacati".

Non solo questa concezione che vorrebbe escludere le organizzazioni politiche dalle lotte sociali è sbagliata, ma è davvero penosa in una situazione in cui le confederazioni sindacali non offrono ai salariati nessuna prospettiva di lotta d'insieme contro l'offensiva fatta da padronato e governo al suo servizio contro il mondo del lavoro nel suo complesso, e in cui dirigenti della Cgt dichiarano addirittura come il segretario confederale Mourad Rhabi : "non tocca alle direzioni delle confederazioni intervenire in prima persona nei conflitti locali. Tocca ai responsabili delle federazioni categoriali e delle camere del lavoro farlo. Cgt, Cfdt e Fo hanno più o meno lo stesso approccio. Nell'impresa tocca ai delegati difendere i salariati".

L'anno 2009 ha conosciuto due fasi ben distinte della tattica sindacale. La prima sotto il segno dell'unità sindacale è stata segnata dalle giornate d'azione del 29 gennaio e del 19 marzo che le confederazioni sindacali sono state attente a non presentare come dei passi verso una mobilitazione di maggiore ampiezza ma che, per il livello della partecipazione, sono state indubbiamente dei successi.

L'unità sindacale ha avuto ovviamente una parte positiva in tale successo perché per la grande maggioranza dei lavoratori questa unità è di per sé una buona cosa. Ma si trattava di un'unità decisa al vertice tramite negoziazioni tra i vari apparati senza che la Cgt per esempio, poiché è la più influente e ha la fama di essere più combattiva, avesse mai fatto una proposta pubblica sul seguito che conveniva dare a queste giornate, cosa che avrebbe fatto un'organizzazione operaia che avesse voluto trascinare dietro di sé, con o senza le altre direzioni sindacali, l'insieme dei lavoratori.

La rottura di fatto di questo fronte sindacale comune dopo il 1° maggio non ha neanche dato luogo a spiegazioni pubbliche. Mentre i suoi interlocutori precedenti, con un pretesto o un altro, si sono limitati a volere negoziare con padronato e governo intorno ad un tavolo, la Cgt, pur altrettanto desiderosa di essere riconosciuta come un interlocutore valido, ha portato avanti il concetto di "calendario" che consiste nell'orchestrare giornate d'azione limitate ad una categoria o ad un'impresa in momenti vicini ma distinti. Con questa politica non si portano avanti i problemi comuni dell'insieme del mondo del lavoro, la lotta contro i licenziamenti e le soppressioni di posti di lavoro, il degrado delle condizioni di lavoro, il ribasso del tenore di vita, ma invece la loro traduzione in termini categoriali.

Una vera lotta contro le chiusure di imprese richiederebbe un alto livello di coscienza e di combattività, perché come si potrebbe impedire a padroni che vogliono davvero chiudere le loro imprese di farlo... se non si lotta per l'espropriazione di queste imprese e la loro gestione sotto controllo operaio? Ma chi potrebbe pretendere che nelle circostanze attuali questo sia effettivamente all'ordine del giorno?

La lotta contro i licenziamenti può avere possibilità di successo solo nell'ambito di una mobilitazione dell'insieme della classe operaia. Ovviamente non è nelle possibilità della direzione Cgt dare il via a questa lotta premendo su un pulsante. Ma sarebbe doveroso per un'organizzazione il cui obiettivo sia veramente la difesa degli interessi materiali e morali della classe operaia fare del tutto per prepararla.

Al contrario, davanti alle lotte fatte in alcune imprese minacciate di chiusura da lavoratori che si sforzavano di ottenere almeno premi di licenziamento superiori ai premi legali, alcuni responsabili confederali si sono autorizzati a condannare in termini sprezzanti ciò che hanno chiamato la politica degli "assegni valigia", opponendola alla lotta per "un'altra politica industriale". Questo tema è diventato l'asse della propaganda della Cgt come ha mostrato la giornata del 22 ottobre. Ma volere convincere un padronato, la cui principale preoccupazione è di fare più profitti possibile, che ne potrebbe fare altrettanti o anche di più se seguisse i consigli dei dirigenti Cgt sarebbe una politica da deficienti profondi... se non fosse un modo deliberato di orientare i militanti sindacali in un vicolo cieco e di camuffare il fatto che la direzione confederale non fa niente per rispondere davvero ai problemi dell'ora.

Nel contesto della preparazione di questa giornata del 22 ottobre la direzione confederale aveva diffuso il 16 un testo a proposito dell'annuncio da parte del governo di futuri "Stati generali dell'industria". Dopo di essersi congratulato che il ministro avesse utilizzato "le parole chiave di un discorso che potrebbe rassicurare i salariati" e lamentato (ma non c'è di che meravigliarsi) che "la prima misura concreta s'iscriva nella vecchia logica dei regali al padronato", la conclusione era che in "in questo contesto la Cgt prenderà tutto il suo posto nelle varie iniziative". All'indomani della manifestazione del 22 ottobre una dichiarazione della Cgt insisteva: "forte del successo di questa mobilitazione la Cgt intende partecipare agli Stati generali dell'industria che il presidente della Repubblica ha appena avviati".

Vuol dire che essere ammessi a discutere con i rappresentanti del governo e del padronato, essere considerati da loro come interlocutori validi e beneficiare per questo fatto di ricadute che permettano all'apparato di sopravvivere, è l'unica ambizione di dirigenti che da molto tempo non contestano più il capitalismo se non a parole, pur essendo sostegni dichiarati dell'economia di mercato e quindi del sistema capitalista!

Questa politica della confederazione porta ad un profondo malcontento molti militanti sindacali che contestano questa passività. Essi pertanto non sono arrivati alle stesse concezioni dell'attività sindacale dei militanti rivoluzionari. Rimangono in grande maggioranza profondamente riformisti, segnati da comportamenti burocratici. Ma il fatto che contestano l'atteggiamento della direzione confederale e che non se ne fidano più, ci può permettere di esserne ascoltati.

Al contrario delle altre correnti del movimento trotskista, abbiamo sempre rifiutato di rivolgerci solo ai militanti politici o sindacali della classe operaia. Ma rivolgerci nei nostri interventi a tutti i lavoratori è necessario per avere qualche possibilità di influenzare la minoranza di quelli che sono organizzati al Pcf o alla Cgt.

Dal momento che non abbiamo con questi interlocutori la stessa concezione degli obiettivi da raggiungere e dei mezzi da adoperare -e con i militanti del Pcf e della Cgt, anche quelli più combattivi, non abbiamo questa concezione comune- nessun ragionamento li può convincere. L'unico modo che abbiamo di farli evolvere è di fare la dimostrazione che le idee difese dai comunisti rivoluzionari, queste "vecchie" idee che i loro dirigenti da molto tempo hanno abbandonate, possono trovare un ascolto presso i lavoratori.

Nella situazione attuale in cui in seno alla Cgt e all'ambiente legato al Pcf una frazione non indifferente di militanti è critica rispetto all'atteggiamento della confederazione e delle federazioni sindacali, o rispetto al ritorno ad una nuova versione dell'unione delle sinistre, dobbiamo sforzarci di rivolgerci a questi militanti, sia al livello di organizzazioni che al livello di ogni militante.

Questo significa ovviamente non boicottare sistematicamente le iniziative prese dalle direzioni sindacali, pur irrisorie o sbagliate che siano le parole d'ordine portate avanti, ma esservi presenti difendendo le nostre proprie prospettive. Il gran numero delle pseudo azioni che entrano nel calendario della Cgt non è però senza porre problemi. Per esempio i lavoratori della posta erano chiamati ad organizzare il 3 ottobre un "voto cittadino" sulla privatizzazione. La Cgt aveva deciso di fare del 7 ottobre un "tempo forte di mobilitazione" dei postini. Come lavoratori della funzione pubblica, essi erano chiamati a partecipare alla manifestazione del 22 ottobre... a prescindere dalla "manifestazione contro la privatizzazione" prevista per il sabato 24 ottobre. E non dimentichiamo i movimenti decisi per questa o quella categoria di postini. In tale contesto i nostri compagni che hanno responsabilità sindacali avranno forse scelte da fare, per decidere quale appello sarà più in grado di mobilitare un numero significativo di lavoratori.

L'onnipresenza di Sarkozy che al contrario della tradizione della Quinta Repubblica fa piuttosto da fusibile del suo primo ministro che non il contrario, il suo modo di ostentare il suo modo di vita e la sua amicizia con tutti i miliardari del paese, tutto questo porta i suoi avversari della sinistra parlamentare e anche della "sinistra della sinistra" a farne l'equivalente in Francia di ciò che Bush è stato per l'intellighenzia americana prima dell'elezione di Obama, e di fare del "tutto tranne Sarkozy" l'alfa e l'omega della loro politica.

Ma solo per lo stile Sarkozy è diverso dai suoi predecessori di destra o di sinistra. In fondo, de Gaulle, Pompidou, Giscard, Mitterrand e Chirac erano alla pari di Sarkozy fedeli servitori della borghesia e difensori dei suoi interessi. E i deputati Unr eletti nel 1962 che meritarono per il loro sostegno incondizionato al generale-presidente il soprannome di "godillots" ("scarponi") non avevano voce in capitolo più dei loro successori odierni dell'Ump. Solo che a loro non si chiedeva di prendere le difese delle vacanze da miliardario, del nepotismo e del pavoneggiarsi del loro presidente.

Il fatto che Sarkozy suscita l'odio in una larga frazione delle classi popolari non solo è comprensibile, ma è perfettamente giustificato. Però il ruolo dei militanti rivoluzionari non è di accodarsi semplicemente alle reazioni delle classi popolari ma di mostrare loro la realtà dei rapporti di classe che si nascondono dietro le peripezie della vita politica.

Dopo l'elezione presidenziale del 2007 la quasi totalità della destra ha seguito Sarkozy perché è l'unico a distribuire gli incarichi ministeriali e i vantaggi che vi sono collegati. Ma l'avvicinarsi delle elezioni regionali ha resuscitato una certa diversità in seno a questa stessa destra perché molti aspetti della politica di Sarkozy -come le misure fiscali che potrebbero compromettere fortemente i bilanci comunali- o i suoi atteggiamenti -come il sostegno dato a Frédéric Mitterrand- rischiano di scontentare una parte dell'elettorato di destra.

Questo tra l'altro può fare il gioco dell'estrema destra. Il Fronte nazionale è regresso elettoralmente in questi anni. Ma la corrente reazionaria alla quale si appoggiava non è scomparsa pertanto. Sarkozy era certo riuscito nel corso della campagna elettorale del 2007 ad attrarre la maggior parte di questo elettorato del Fronte nazionale, ma solo perché si è presentato in difensore degli stessi valori - se si può usare questa parola per la sua xenofobia e il suo razzismo appena nascosto - e in difensore più efficiente poiché aveva una possibilità reale di essere eletto. Da quel momento Hortefeux e il trasfuga del Ps Besson si sono adoperati a continuare a sedurre la frazione più reazionaria dell'elettorato. Ma le aperture ripetute di Sarkozy verso la sinistra e il suo sostegno senza riserva ad un Frédéric Mitterrand che non nasconde la sua omosessualità, il suo aspetto di "arricchito", tutto questo potrebbe creare fastidio presso molti suoi ex-sostenitori della destra "cattolica e francese prima". Il dibattito lanciato su l'"identità nazionale" è chiaramente destinato a riconquistare alcuni punti presso questo elettorato.

Le questione di sapere se l'Ump uscirà intatta da questa ondata di malcontento interno, e se il Modem centrista avrà qualche possibilità di sedurre di nuovo una parte dell'elettorato di destra, ovviamente non ha nessun interesse dal punto di vista dei lavoratori. Invece ne ha per il Partito socialista che guarda in questa direzione.

La rivalità tra Ségolène Royal e Martine Aubry, la molteplicità dei candidati alla candidatura in vista dell'elezione presidenziale del 2012 portano la maggior parte dei commentatori a vedere nella crisi del Partito socialista solo la conseguenza di questa battaglia dei capi. Questo è prendere l'effetto per la causa.

Mitterrand era riuscito a fare l'unità intorno a sé al congresso di Epinay nel 1971 perché era l'unico che appariva in grado di ottenere il sostegno del Pcf e di farsi eleggere grazie ad esso, e quindi di aprire ai suoi luogotenenti l'accesso ai palazzi dorati della Repubblica, il che è stato fatto nel 1981. Nel 1997 Jospin ha beneficiato di una vittoria sorpresa nelle elezioni politiche anticipate che, portandolo alla testa del governo, l'hanno fatto apparire anche lui, fino alla sua sconfitta alla presidenziale del 2002, come il dispensatore delle sinecure governative. Ma oggi nessun pretendente alla direzione del Ps è in grado di offrire prospettive di questo genere.

Il Partito socialista dirige attualmente 20 regioni su 21 in Francia continentale. A meno di un'esplosione totale della destra nei prossimi mesi, poco probabile, ha poche possibilità di mantenere le sue posizioni. Da lì l'asprezza della competizione per sapere chi sarà capolista nelle regioni che appaiono meno minacciate, e da lì anche la diversità delle posizioni sulle alleanze possibili col centro di Bayrou, il Modem. Tutto questo tende a rendere più complicata la preparazione dell'elezione presidenziale del 2012.

Nella presente situazione la possibilità per il Ps di vincere questa elezione e di ritrovare responsabilità di governo è estremamente ridotta.

Da un lato il Ps è in qualche modo vittima dei successi passati. Mitterrand si era adoperato a ridurre l'influenza elettorale del Ps a vantaggio del Pcf non solo perché era il partito su cui aveva messo la mano per farne lo strumento della sua accessione al potere ma anche per poter offrire alla borghesia francese una scelta di sinistra in cui il partito maggioritario non fosse un partito legato all'Urss (era ancora il caso nel 1981) e preoccupato di non perdere la sua influenza nella classe operaia. C'è riuscito in gran parte. Ma il fatto che il Partito comunista abbia perso i tre quarti del suo elettorato si traduce anche, soprattutto in un periodo in cui i venti dominanti soffiano verso destra, con la scomparsa di una buona parte del l'appoggio elettorale sul quale il Ps poteva contare.

D'altra parte il Ps è anche vittima dei cambiamenti istituzionali che ha impulso: l'istituzione del quinquennio e il calendario elettorale in cui le elezioni politiche seguono immediatamente l'elezione presidenziale. Non importa che queste misure siano state ispirate dalla preoccupazione di evitare nuove coabitazioni tra destra e sinistra dovute ad elezioni legislative intermediarie, o dall'idea che l'elezione di Jospin alla presidenziale del 2002 avrebbe assicurato a lungo la presenza del Ps al governo. Al contrario è la destra che potrebbe beneficiare a lungo della sconfitta di Jospin alla presidenziale del 2002. Ed è poco probabile che la politica della mano tesa all'uomo di destra Bayrou, che tenta molti dirigenti socialisti, possa modificare questa situazione di fatto.

Il fatto che i dirigenti del Ps ne sono coscienti è attestato dal gran numero di quelli che come Strauss-Kahn, Lang o Rocard lo hanno abbandonato o hanno capitolato davanti al fascino dell'apertura sarkoziana, sia accettando ministeri, sia accettando posti o missioni.

Queste numerose diserzioni sono, tra le altre cose, indicative della scarsa differenza esistente tra i dirigenti del partito socialista e gli uomini della destra, che non hanno necessariamente la stessa clientela elettorale ma il cui obiettivo comune è di essere ammessi a gestire gli affari della borghesia.

Le elezioni europee del 2009 sono state segnate dal successo delle liste di Europe Ecologie. Questo fa parte dell'evoluzione verso destra della vita politica francese perché se nel 1995 nel 2002 una frazione non indifferente dell'elettorato, senza pertanto essere conquistata dalle idee rivoluzionarie, aveva espresso una protesta col voto per l'estrema sinistra, nel 2009 ad approfittare di più della perdita di credito dei partiti tradizionali è stata una corrente politica che non rimette affatto in discussione le fondamenta del sistema capitalista.

Questo risultato annuncia un cambio durevole del paesaggio politico francese? Niente è meno sicuro, perché le elezioni europee appaiono a tal punto prive di conseguenze agli occhi dell'elettorato che queste elezioni sono favorevoli agli sbalzi d'umore senza domani. Cosa è rimasto dei 12% di voti ottenuti dalla lista Energie Radicale condotta nel 1994? E dei 13% della lista Pasqua-De Villiers che aveva superato nel 1999 la lista Rpr condotta da Sarkozy?

Ma anche se in futuro i Verdi confermassero la loro ascesa elettorale, non sarebbe automaticamente un rinforzo per il Partito socialista (tanto più poiché in gran parte sono cresciuti togliendo voti al Ps). Per il Partito socialista il Partito comunista era un alleato sicuro al momento delle elezioni perché, anche se si sforza tra le due scadenze elettorali di mostrare la sua differenza, il Pcf non ha altra scelta al momento decisivo che quella di seguire il Ps. La situazione dei Verdi è diversa. Lo hanno già detto apertamente, non sono sposati con il Ps e non hanno alcuna ragione di non cedere al canto delle sirene sarkoziane. Tanto più che in questo momento i discorsi sulla tassa carbone, o l'aiuto agli industriali dell'automobile col pretesto di produrre veicoli meno inquinanti, possono sedurli.

La preparazione delle elezioni regionali del 2010 è stata da mesi, per le formazioni di sinistra, l'occasione di una contrattazione serrata ed intricata nella quale tutti hanno proclamato la necessità dell'unità ma nessuno metteva lo stesso contenuto in questa parola.

L'Npa che sta cercando un accordo col Partito di sinistra e il Pc si è pronunciato per l'unità tranne con il Partito socialista con cui sarebbe pronto al secondo turno solo ad accordi tecnici, ed escludendo ogni sostegno al futuro esecutivo in caso di vittoria della sinistra, come se il Partito socialista possa seriamente concedere posti eletti ad una formazione che non lo sostenga.

Il Partito della sinistra con qualche cautela, e il Partito comunista più apertamente, erano pronti ad accordi con il Partito socialista perché senza tali accordi il Pcf è praticamente sicuro di perdere tutti i posti di consiglieri regionali che ha attualmente e a cui ci tiene.

Nel Partito socialista, che è comunque sicuro del sostegno del Pcf, molti suoi dirigenti invece corteggiano più o meno discretamente il Modem.

Il consiglio nazionale del Pcf si è finalmente pronunciato il 25 ottobre per liste Fronte di sinistra autonome respingendo la proposta dell'Npa che "persiste a rifiutare la necessità di lavorare a creare delle maggioranze". Ma siccome tale orientamento deve ancora essere votato regione per regione, è impossibile oggi dire come la sinistra apparirà in queste future elezioni, perché ci saranno forse al primo turno delle liste in cui si troveranno Ps, Pcf e Partito di sinistra, accanto a liste del Fronte di sinistra preparando una fusione con il Ps al secondo turno, non essendo da escludere le soluzioni "alla carta" secondo le regioni. Ma comunque non ha molta importanza.

Per i militanti rivoluzionari quali noi siamo, l'unico interesse della partecipazione a queste elezioni (ma è importante e per questo dovremo esservi presenti) è di approfittare della piccola occasione che così ci viene data per difendere davanti a tutti i lavoratori il nostro programma, la necessità per la classe operaia di imporre il suo controllo sull'economia se non vuole più sopportare tutto il peso della crisi.

Siamo oggi in questo paese l'unica organizzazione che si riferisce al trotskismo, cioè al comunismo rivoluzionario. Infatti i fratelli nemici della corrente lambertista e della corrente sorta dal Segretariato unificato hanno l'una come l'altra deciso di fondersi in raggruppamenti, il Poi per la prima (successore dell'Mppt e del Pt) e l'Npa per gli altri, che cancellano le differenze tra comunisti, socialisti, anarchici o ecologisti e quindi sono incapaci di difendere la prospettiva politica della presa di controllo del destino della società a livello mondiale da parte del proletariato.

Da più di mezzo secolo l'estrema sinistra piccolo borghese ha provato ad agganciarsi ad altre forze sociali in cui vedeva l'avanguardia della rivoluzione socialista. Furono prima le rivoluzioni coloniali, le guerre di liberazione nazionale dei paesi del terzo mondo che, in mancanza di combattere l'imperialismo, almeno furono fonte di qualche difficoltà per le potenze imperialiste. Ma l'evoluzione di tutta la società verso destra si è tradotta con sostegni "di sinistra" a correnti ancora più reazionarie: dalla tolleranza, quando non è la complicità, con gli islamisti; all'adattamento alle idee della decrescita.

Per tutta la corrente che si muove intorno a queste idee, la classe operaia è scomparsa o in via di esserlo. Ma se è vero che la classe degli operai dell'industria si è ridotta in un paese come la Francia, non è affatto vero su scala mondiale. E soprattutto, la classe di quelli che non hanno altra possibilità per vivere che di vendere la loro forza lavoro, quella dei proletari (una parola ancora più tremendamente antiquata di quella di operai, agli occhi dei piccoli borghesi) non ha smesso di svilupparsi.

Anche se decenni di stalinismo hanno lasciato solo macerie ideologiche che rendono difficile la difesa del programma comunista, non per questo bisogna rinunciare a questa battaglia. Anzi, il movimento operaio deve ricollegarsi al programma di trasformazione sociale radicale che era quello dei partiti socialisti all'inizio del Novecento, quello dell'Internazionale comunista negli anni che seguirono la rivoluzione d'ottobre. Difendere questo programma contro tutte le mode intellettuali più o meno reazionarie fa parte dei nostri compiti.

Non sappiamo fra quanto tempo scoppieranno le lotte operaie che la crisi provocherà inevitabilmente ad un certo momento. Ma ciò che ci insegna tutta la storia è che quel giorno la classe operaia avrà bisogno di una direzione capace di indicarle la strada da seguire, capace di evitarle di cadere nelle trappole che inevitabilmente saranno tese, non solo dai suoi nemici aperti (che sono le più facili da evitare) ma innanzitutto dai suoi falsi amici.

Quindi al tempo stesso dobbiamo proseguire il nostro lavoro di rafforzamento del nostro radicamento nelle imprese e dobbiamo reclutare e educare militanti. E la parola educare è tanto importante quanto la parola reclutare. Bisogna educare militanti decisi a legare la loro sorte a quella della classe operaia qualunque siano le circostanze, convinti che la classe dei lavoratori resti l'unica che possa aprire un altro futuro all'umanità. Dei militanti colti, che abbiano assimilato tutte le lezioni che si possono trarre da più di due secoli di storia del movimento operaio.

Non costruiremo certamente il partito rivoluzionario col metodo dell'uno più uno più uno. Ma in circostanze favorevoli il partito può costruirsi molto rapidamente, "alla velocità del lampo" diceva Trotsky, se esiste un nucleo coerente di militanti competenti. È questo nucleo che dobbiamo costruire.

31 ottobre 2009