Da "Lutte de classe" n° 55 (Lutte Ouvriere - Testi della conferenza nazionale 2000)
Testo della maggioranza
L'anno 2000 viene considerato dagli economisti della borghesia come un anno di crescita economica più alta ancora di quella dell'anno precedente. Per l'insieme dei paesi industriali, il tasso di crescita sarebbe del 4% quest'anno dopo il 3% del 1999. In testa alle potenze imperialistiche c'è l'economia americana, uscita dalla recessione nel 1991. Con quattro anni di ritardo l'Europa occidentale l'ha seguita, pur con un ritmo complessivo molto inferiore a quello degli Stati-Uniti e molto diverso da un paese all'altro. Anche il Giappone sembra uscire dalla recessione in cui era sprofondato dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997.
D'altra parte, la crescita del commercio mondiale si è accelerata lungo tutto il decennio. Se negli anni ottanta il commercio mondiale è cresciuto di una media del 4,2%, questo tasso raggiunse il 6,3% negli anni novanta. Bisogna tuttavia ricordare che tra il 1945 e il 1975, lungo un periodo di trenta anni, la media annuale della crescita del commercio mondiale fu del 9,4%, partendo però da basi più ridotte in valore assoluto.
L'economia degli Stati-Uniti
A meravigliare i colonnisti c'è innanzitutto questa crescita americana ininterrotta da nove anni, tanto più che è l'economia americana che tira il resto dell'economia mondiale.
La crescita della domanda sul mercato interno americano che favorisce innanzitutto i gruppi capitalistici del paese, favorisce anche fino ad un certo punto i capitalisti europei e giapponesi che hanno la capacità di accedere a questo mercato. Difatti furono le importazioni degli Stati-Uniti a tirare in su il commercio mondiale. La parte degli Stati-Uniti nelle importazioni mondiali di merci ha raggiunto il 18% l'anno scorso, cioè un livello da record. L'organizzazione mondiale del Commercio (WTO), pur complimentandosi con l'importante crescita del commercio internazionale quest'anno, riconosce che se non si tenesse conto della crescita della parte degli Stati-Uniti, il valore nominale del commercio mondiale di merci e servizi sarebbe rimasto al suo livello del 1997.
La crescita americana viene presentata come "il più lungo periodo di espansione economica" da oltre un secolo. Pur essendo più lungo del periodo di espansione dell'economia americana degli anni sessanta, la sua ampiezza tuttavia è paragonabile agli anni sessanta solo in materia di valori borsistici. Su uno stesso periodo di otto anni, la crescita della Borsa è stata del 291,6% negli anni novanta mentre, negli anni sessanta, è stata solo del 46,5%. Al tempo stesso, su un periodo dalla stessa durata di otto anni, il tasso di crescita del PIL fu del 52% negli anni sessanta e solo del 36% negli anni novanta.
Pur confuse e ambigue che fossero la nozione di prodotto Interno Lordo e la misura della sua evoluzione, il paragone con gli anni sessanta indica che la quantità di prodotti supplementari, di beni materiali e di servizi creati durante l'attuale periodo di crescita negli Stati- Uniti è inferiore a quella degli anni sessanta.
Il presente periodo di crescita americana è, innanzitutto, l'espressione di rapporti di forze. Durante questi dieci anni gli Stati-Uniti hanno approfondito il divario con le altre potenze imperialistiche, non solo con quelle d'Europa, ma anche con il Giappone di cui venti o trenta anni fa molti colonnisti in voglia di fare sensazione ritenevano che stesse per superare gli Stati- Uniti.
La deregolamentazione generalizzata, la rimozione degli ostacoli alla circolazione e all'investimento dei capitali, le privatizzazioni nei settori pubblici, l'abbandono da parte di un numero crescente di paesi del Terzo Mondo di ogni tipo di velleità di garantire un certo sviluppo economico con il protezionismo verso l'estero e lo statalismo all'interno, segnano l'evoluzione dell'economia mondiale da una quindicina d'anni.
Tale evoluzione è stata innanzitutto a vantaggio dei grandi gruppi industriali, il che significa che è stata innanzitutto a vantaggio degli Stati-Uniti i cui trust sono i più potenti e più numerosi nel mondo. La preponderanza dell'economia americana nell'economia mondiale le dà delle possibilità superiori di saccheggio rispetto ai suoi concorrenti imperialisti.
Tra le maggiori ragioni interne della crescita americana, gli economisti borghesi citano la ripresa degli investimenti e l'aumento dei consumi. E difatti, stando alle statistiche, ci fu una ripresa degli investimenti sin dalla metà degli anni novanta. Durante i tre anni scorsi, il tasso degli investimenti avrebbe anche superato il livello degli anni sessanta. Le statistiche tuttavia nascondono spesso la realtà più che non la mostrano. Per fare solo un esempio, la stessa denominazione d'"investimento diretto" viene applicata ugualmente al riacquisto di un fabbrica esistente e alla costruzione e alla sistemazione di una fabbrica nuova. Nel primo caso però, cambia solo il proprietario, mentre nel secondo aumenta la forza produttiva a disposizione della società.
Solo una parte quindi dei cosiddetti "investimenti diretti" rappresenta investimenti in attrezzature, investimenti produttivi nel senso reale del termine. E' quindi praticamente impossibile individuare, anche a cose fatte, l'inizio della ripresa degli investimenti produttivi negli Stati-Uniti, e ancora meno sapere se questi investimenti raggiungono il livello degli anni sessanta.
L'unica certezza è che il saggio di profitto cominciò alla metà degli anni ottanta, nei paesi imperialistici, a ristabilirsi al livello di prima della crisi, grazie alle politiche di austerità e all'aumentato sfruttamento delle classe operaia. Ma, durante gli anni successivi, da nessuna parte il ripristino del profitto delle imprese portò ad una ripresa dell'accumulazione capitalistica sotto forma di investimenti produttivi. Per parecchi anni, i profitti emanati dalle imprese alimentarono quasi esclusivamente i circuiti finanziari e le speculazioni di ogni genere. L'accumulazione del capitale prese una forma esclusivamente finanziaria, che approfittò innanzitutto ai più potenti gruppi industriali e finanziari.
All'inizio, furono i ragionamenti finanziari -o speculativi- a portare i proprietari di capitali verso l'acquisto di azioni -di cui deriva l'ascesa dei valori borsistici. Poi l'importanza dei capitali finanziari accumulati dai grandi gruppi si combinò con la redditività delle imprese per rendere il riacquisto di imprese allo stesso tempo possibile e interessante. Di cui l'ascesa di questa forma speciosa di "investimenti diretto" che consiste nel contendersi le imprese esistenti, tra i grandi gruppi, a colpi di miliardi. Tuttavia questo movimento di "fusioni-acquisti" che alimenta le statistiche sugli "investimenti diretti" è solo l'espressione della concentrazione dei capitali. Non si traduce necessariamente in un'utilizzazione più razionale delle forze produttive esistenti, né a maggior ragione nel loro incremento. Spesso, al contrario, molte fusioni e acquisti vengono attuate per acquisire una posizione di monopolio o di semimonopolio in grado di ridurre le capacità di produzione, pur mantenendo o aumentando i prezzi e quindi i profitti. Questo movimento fu inoltre favorito dalle privatizzazioni di pezzi interi del settore pubblico in molti paesi sviluppati e dall'apertura ai capitali privati delle imprese statali nei paesi del Terzo Mondo.
Alla fine degli ani novanta, le fusioni e acquisti rappresentavano più di tre quarti dei flussi d'investimenti diretti all'estero -il che non lascia molto spazio ai veri investimenti produttivi. Quando il titolo di tale quotidiano economico proclamava recentemente "gli investimenti diretti all'estero esplodono", questo significa solo che le somme coinvolte da queste fusioni e acquisti sono aumentate del 30% durante l'anno 1999. Poiché non esistono statistiche su quest'aspetto, che in gran parte si nasconde dietro il segreto degli affari, le agenzie bancarie di valutazione evocano la cifra astronomica di 3 435 miliardi di dollari. Anche se molte fusioni vengono pagate in azioni, questa cifra significa lo stesso che una somma tredici volte superiore al bilancio di uno Stato come la Francia è stata sprecata dai trust per riacquistarsi reciprocamente.
Il livello degli investimenti più alto negli Stati-Uniti rappresenta quindi in gran parte il semplice acquisto di imprese già esistenti. E' sintomatico per esempio che le statistiche che indicano alti investimenti dopo l'inizio del decennio novanta cominciano a segnalare una crescita della produttività solo sin dalla metà del decennio, senza che la si potesse collegare all'utilizzazione di materiali moderni più che al supersfruttamento dei lavoratori. I guadagni di produttività, sintomatici di veri progressi in un numero limitato di settori, di cui la fabbricazione di materiali per l'informatica, sono complessivamente inferiori a quelli degli anni sessanta.
Qualunque sia la loro natura, gli investimenti negli Stati-Uniti sono in gran parte finanziati da capitali in provenienza d'Europa o dal Giappone. Non è da oggi che, in ragione del ruolo del dollaro nel sistema monetario internazionale, gli Stati-Uniti attirano capitali di tutto il mondo, tra l'altro delle altre potenze imperialistiche. Durante i periodi di recessione, i capitali venuti dall'estero sono in generale investiti in Buoni del Tesoro americano. Con la ripresa, si dirigono anche verso l'acquisto di fabbriche e fino ad un certo punto verso investimenti in attrezzature. Nel primo caso lo Stato americano fa pagare il disavanzo del suo bilancio con denaro venuto dall'Europa, dal Giappone, perfino dalle classi ricche dei paesi poveri. Nel secondo caso, fa pagare a loro l'incremento del capitale fisso degli Stati-Uniti.
Tutto questo si esprime nel colossale indebitamento estero dell'economia americana. Ma gli Stati-Uniti sono l'unica potenza economica del mondo che può finanziare i suoi debiti esteri con una moneta della sua fabbricazione.
L'indebitamento gioca anche un ruolo maggiore nella crescita dei consumi interni. L'indebitamento privato raggiunge dei vertici mai visti. La molto numerosa piccola borghesia del paese chiede prestiti non solo per finanziare i suoi consumi, ma anche per speculare in Borsa. Questo, in caso di crollo borsistico, potrebbe tradursi in un crollo della catena delle ipoteche e il riflusso dei consumi, con tutte le conseguenze che si possono immaginare per la produzione.
L'aggravamento dello sfruttamento
L'aumento complessivo dei consumi nasconde però il fatto che quelli dei ceti più poveri della classe operaia aumentano solo un po', e addirittura diminuiscono in alcune delle sue frazioni.
La crescita americana è innanzitutto quella delle disuguaglianze. Lo scarto tra i redditi del capitale e i salari non cessa di aggravarsi a sfavore di questi ultimi. Dal 1997, la parte nel reddito dell'1% più ricco della popolazione raddoppiò. 2,7 milioni di persone circa dispongono di redditi uguali a quelli dei 100 milioni meno agiati.
L'anno scorso, il salario di un lavoratore americano su tre, lavorando a tempo pieno, era insufficiente per mantenere una famiglia con due bambini sopra la soglia di povertà ufficiale. Una larga parte dei salariati riesce ad ottenere un salario conveniente solo grazie `gli straordinari o coll'aggiungere una seconda attività salariale all'attività principale.
La durata media del tempo di lavoro negli Stati-Uniti è notevolmente più alta di quella della Germania, della Francia, della Gran Bretagna e anche del Giappone.
Le ridistribuzioni non diminuiscono, anzi, aggravano le disuguaglianze. Nel paese più ricco del mondo, 44 milioni di persone (ossia il 16% della popolazione) non sono coperte da nessun tipo di previdenza sociale. Secondo l'organizzazione mondiale della Salute, se il 10% più ricco della popolazione gode di condizioni di protezione senza uguali nel mondo, quelle del 5 a 10% più povero si potrebbero paragonare con quelle dell'Africa subsahariana.
Più genericamente, la crescita dell'economia, anche nei paesi imperialistici ricchi, non risulta tanto da una crescita della domanda quanto da un aggravamento del tasso di sfruttamento della classe operaia. L'economia non è indipendente dal rapporto di forze tra il proletariato e la classe capitalistica. Il venir meno di questo rapporto di forze, dal punto di vista del proletariato, non si esprime solo nella diminuzione del numero degli scioperi, fenomeno quasi generale in tutti i grandi paesi imperialistici, si esprime anche nella diminuzione della capacità di resistenza molecolare e quotidiana dei lavoratori di fronte all'incremento dello sfruttamento.
Gli economisti considerano come un risultato importante della crescita degli anni novanta il fatto che, anche laddove -in primo luogo negli Stati-Uniti- la disoccupazione è scesa ad un livello relativamente basso, questo non abbia portato ad aumenti di salario dovuti alla semplice concorrenza tra i capitalisti. Questo dimostra soltanto che la generalizzazione della precarietà, la flessibilità degli orari di lavoro, danno ai padroni una scioltezza maggiore nella gestione dei loro lavoratori. L'importante volante di precari pesa sui salari in modo paragonabile al peso della disoccupazione stessa.
L'Osservatorio economico della Banca di Francia dà notizia di un forte aumento, da tre anni, della durata d'utilizzazione delle attrezzature industriali. Questo significa che, per fare fronte alla crescita, le imprese utilizzano più a lungo il loro materiale. Tra le modalità per aumentare la durata d'utilizzazione delle attrezzature, la Banca di Francia insiste sull'ampio ricorso al lavoro a turni, l'utilizzazione delle macchine durante i festivi e la riduzione o addirittura la soppressione dei "ponti". Tutto questo si aggiunge all'intensificazione del ritmo del lavoro per aumentare il tasso di sfruttamento.
Gli Stati potrebbero, fino ad un certo punto, compensare questo aggravamento delle disuguaglianze prodotto quasi naturalmente dall'economia capitalistica in un periodo in cui il rapporto delle forze è sfavorevole alla classe operaia. Ma gli Stati non giocano questo ruolo, anzi, mettono olio nei meccanismi di disuguaglianza dell'economia capitalistica, tanto col rendere la legislazione sociale più favorevole al padronato quanto con l'utilizzazione della fiscalità e degli stanziamenti sociali.
In un paese come la Francia, il bilancio dello Stato e quello della previdenza sociale rappresentano il 45% del prodotto interno lordo. Questo dà allo Stato dei mezzi considerevoli di ridistribuzione sociale.
Ma, per aumentare la parte del bilancio statale dedicata ad aiutare il padronato in tanti modi, lo Stato risparmia sui servizi pubblici e sulla protezione sociale. E' uno dei principali artefici della diminuzione della parte della classe operaia nel reddito nazionale rispetto alla classe capitalista.
La classe operaia non è soltanto mantenuta in disparte dalla crescita. La crescita, al contrario, è fondata su un maggiore sfruttamento dei lavoratori.
Questo significa anche che la crescita attuale ha stretti limiti. L'incremento della domanda di prodotti di consumo proviene dalla borghesia, grande e piccola, mentre le possibilità di consumo della maggior parte della classe lavoratrice sono limitate dalla stagnazione della massa salariale complessiva e dall'aumento dei prelievi.
Il proseguimento della speculazione borsistica
Da anni, l'alto livello dei profitti e il loro aumento portano ad anticipazioni che fanno salire il corso delle azioni in Borsa. Dal 1995, il prezzo delle azioni in Borsa è stato mediamente moltiplicato per tre. Il tasso di crescita borsistica non ha paragone con il tasso di crescita economica, tutto sommato modesto, anche negli Stati Uniti e a maggior ragione altrove.
Questo divario rappresenta una minaccia maggiore per l'insieme dell'economia. I dirigenti politici, i cervelloni del sistema capitalistico ne sono perfettamente coscienti ma non controllano il movimento erratico dei capitali in cerca di ciò che sarà più redditizio.
Quest'anno ad aprile scoppiò una minicrisi borsistica, proprio nel campo delle azioni del settore informatico che avevano conosciuto un boom spettacolare negli anni precedenti. I capitali speculativi si sono accontentati di spostarsi verso le azioni delle grandi imprese dalla situazione ben accertata. La stravagante ascesa dei corsi borsistici è stata rallentata quest'anno ma, evitato il crollo, il meccanismo si è di nuovo innescato. Fin tanto che questo funziona, perché si dovrebbe fare a meno di una fonte di profitti facile ? E questa convinzione che questo può funzionare ancora viene alimentata dal fatto che, nonostante l'allarme di quest'anno, nei dieci anni scorsi fu la Borsa ad offrire il campo di investimenti più redditizio.
Il piccolo krach d'aprile e il fatto che abbia coinvolto il settore dell'informatica ricordano però che questo può durare tanto meno che, poiché la speculazione si dirige verso le azioni delle imprese "più promettenti", le imprese d'informatica, compreso le più vacillanti, hanno ricevuto un flusso di capitali che sono assolutamente incapaci di assorbire. Una regolazione tra capitali concorrenti è inevitabile. La domanda che si pongono i responsabili è sapere se questo si farà progressivamente o bruscamente, ma nessuno di loro può rispondere.
L'Europa
Nonostante l'interdipendenza economica dei vari paesi d'Europa, non esiste un'economia europea nel senso in cui esiste un'economia degli Stati-Uniti o del Giappone. L'Unione europea rimane una coalizione eterogenea di Stati che si sono accordati per creare uno spazio economico unico, ognuno però con la preoccupazione prioritaria di favorire la posizione dei propri gruppi capitalisti in questo spazio unico.
Sul piano politico, l'Unione europea e le sue istituzioni non hanno superato le rivalità nazionali, cioè le rivalità tra le rispettive borghesie. Le istituzioni europee mirano innanzitutto a fornire loro un quadro nel quale possono cercare di sormontare le divergenze in modo pacifico. Bisogna ricordare che gli organi esecutivi delle istituzioni europee sono l'emanazione degli Stati nazionali. Le decisioni essenziali sono sempre prese dal Consiglio europeo, riunione dei capi di Stato o dei governi dei paesi membri, oppure dai Consigli dei ministri che riuniscono i ministri coinvolti nei vari paesi. Quanto alla Commissione europea, la cosiddetta "Commissione di Bruxelles", se assicura la permanenza di una specie di esecutivo, è composta di rappresentanti degli Stati aderenti, e la sua politica è quindi l'espressione del compromesso che risulta dal confronto delle loro rispettive volontà.
L'unica funzione del Parlamento europeo, unica istituzione che non sia l'emanazione diretta degli Stati, è di fornire una legittimazione pseudo-democratica a decisioni che sono prese da altri. Le prerogative che gli sono state conferite sin dal Trattato di Amsterdam, tra le altre cose quella della "codecisione" con la Commissione, possono facilmente essere aggirate.
Questo significa che non esiste uno Stato europeo, neanche sotto forma embrionale. C'è solo una delegazione di potere per cercare a sgomberare, di comune accordo, ciò che nelle legislazioni nazionali e nelle regolazioni diverse frammenta il mercato europeo in un addizione di mercati nazionali.
Malgrado l'interdipendenza da lunga data delle economie dei vari paesi d'Europa, ognuno di questi paesi ha la sua propria storia economica, segnata innanzitutto dai legami che si intrecciarono durante questa storia tra ogni borghesia e il proprio Stato nazionale. Questi legami non sono spariti e non si sono neanche indeboliti con la costruzione europea. Al contrario, potremmo dire, le borghesie nazionali hanno bisogno dei loro Stati rispettivi per rappresentare i loro interessi specifici nell'arena del mercato diventato più o meno comune. Invece lo sviluppo storico nel quadro nazionale lasciò una moltitudine di scorie nelle pratiche economiche, nelle norme, nelle regolazioni, che potevano avere un senso ed un interesse per tale borghesia o tal'altra, in qualche momento della sua storia, ma che oggi frammentano inutilmente il mercato. Per fare solo un esempio, l'adozione dalla Francia della definizione SECAM per gli schermi televisivi era a suo tempo una misura protezionista dei fabbricanti francesi di televisori nei confronti, tra gli altri, dei loro concorrenti tedeschi adepti della definizione PAL o degli Americani adepti dell'NTSC. Tale singolarità oggi è piuttosto uno svantaggio sul mercato mondiale. Ma anche nei campi in cui l'omogeneizzazione delle norme sarebbe l'interesse dei trust di tutte le nazionalità, rimane aperta la questione : chi riuscirà ad imporre le sue proprie norme come norme comuni ?
L'essenziale delle attività delle istituzioni europee è comunque di provare ad omogeneizzare le pratiche in una moltitudine di campi che vanno dal colore dei fari degli autoveicoli alle dimensioni e all'età dei pesci per la pesca industriale, alla quantità di monossido di carbone autorizzata nei gas di scarico e alla quantità di grassi vegetali autorizzata nel cioccolato. Anche questa omogeneizzazione delle norme -alla quale il Parlamento viene tanto più volentieri invitato in quanto può dare alle decisioni la legittimazione dell'"opinione pubblica"- è però un processo lentissimo. Non solo perché i prodotti sono numerosi e le norme molto diverse tra i quindici paesi dell'Unione, ma anche perché ogni decisione, che può favorire un gruppo industriale contro un altro, è oggetto di aspri mercanteggiamenti intorno alla Commissione europea e di un intenso "lobbying" intorno al Parlamento europeo.
Tutti questi mercanteggiamenti contribuiscono però ad unificare il mercato ma non i capitali. Nonostante tutti i Trattati dopo la firma dell'atto fondatore del Mercato comune nel 1957, nonostante la creazione di un numero crescente di istituzioni con una vera burocrazia europea, non c'è l'emergenza di un capitale europeo. E' sintomatico per esempio che, se l'Europa ha conosciuto in questi anni come l'insieme del mondo imperialistico un gran numero di fusioni e acquisti di imprese, la percentuale delle fusioni che coinvolgevano due imprese europee di paesi diversi (23%) è stata inferiore non solo alla percentuale delle fusioni tra i trust di uno stesso paese, ma anche a quella delle fusioni tra i gruppi capitalistici di un paese europeo e i gruppi esterni all'Europa (Americani, giapponesi, ecc..) (32,5%).
Inoltre, durante i cinque anni scorsi, se ci fu una tendenza alla diminuzione delle fusioni tra i trust nazionali, questo fu a favore delle fusioni con un socio non europeo mentre le fusioni proprio europee non aumentavano. Lo illustra il caso dell'automobilistica, con l'alleanza della Mercedes-Benz con l'americana Chrysler, con il caso della Renault che ha preso il controllo della giapponese Nissan, o con l'alleanza della Fiat con la General Motors.
Il gran titolo di gloria dell'economia europea è l'instaurazione di una moneta unica, l'euro. Ricordiamo però che l'euro è la moneta unica di solo undici paesi sui quindici che compongono l'Unione europea. C'è stato bisogno di inventare dei neologismi del tipo di "eurolandia" per descrivere questa situazione in cui l'Unione europea non è tanto unita su una questione essenziale. E, tra i quattro paesi che conservano la loro propria moneta, c'è una delle principali potenze economiche d'Europa, la Gran-Bretagna. L'esistenza dell'euro certamente mette gli scambi europei al riparo delle fluttuazioni monetarie. E' un vantaggio non trascurabile perché la maggior parte del commercio esterno dei paesi europei si svolge all'interno dell'Unione europea.
L'instaurazione dell'euro invece non ha raggiunto uno dei suoi principali obiettivi, cioè di fare concorrenza al dollaro sui mercati internazionali. Non ha neanche frenato la speculazione con il dollaro o con lo yen, o perfino con la sterlina britannica. Sotto certi aspetti, i tassi di scambio sono addirittura divenuti più volatili per causa dell'eterogeneità degli undici paesi aderenti all'euro. Dalla sua nascita il 1° gennaio del 1999, l'euro comunque ha perso più del 25% del suo valore nei confronti del dollaro ed anche della sterlina, e più ancora nei confronti dello yen. E nonostante le dichiarazioni roboanti dei dirigenti europei sulla sottovalutazione dell'euro, non sembra che gli speculatori vogliano smettere di giocare contro la moneta europea. Questo ribasso del valore dell'euro favorisce momentaneamente i capitalisti esportatori ma al tempo stesso rincara le importazioni. E sopratutto compromette -questo per modo di dire- l'ambizione dell'euro di diventare una moneta di scambio sul mercato mondiale e una moneta di riserva in concorrenza con il dollaro.
E in fine, benché sia fissata precisamente alla fine del prossimo anno la data in cui l'euro dovrà sostituire la moneta nazionale negli undici paesi in causa, nessuno, neanche i suoi promotori, è sicuro della sua perennità.
Si vedrà nel futuro se gli Stati saranno capaci di andare avanti sulla strada di un'Europa federale o se l'attuale stasi indica il massimo di quello che le diverse borghesie d'Europa accettano di fare insieme. Non è, o comunque non è solo, una questione di Costituzione, è una questione di rapporto di forze, anzitutto tra i tre imperialismi che dominano l'Europa, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna.
La Gran Bretagna fino a questa parte non ha neanche accettato la moneta unica.
Quanto alla borghesia tedesca, il ribasso dell'euro, se continua di questo passo, la porrà di fronte ad una scelta difficile tra il marco, una moneta solida ma che è solo la moneta di un'economia stretta, e l'euro che nonostante le sue pretese ad essere la moneta di un'entità più vasta, è una moneta debole.
Quanto alla Francia, il suo entusiasmo per l'Europa è in gran parte condizionato dai vantaggi che trae dalla politica agricola comune, così come dai sostegni che ottiene dalle istituzioni europee per la preservazione dei suoi interessi nel suo ex impero coloniale e nelle sue dipendenze d'oltremare.
Inoltre, se il futuro dell'Europa dipende innanzitutto dell'accordo tra queste tre principali potenze imperialistiche, è tanto meno scontato che riusciranno ad imporre le loro volontà agli imperialismi più deboli (italiano, spagnolo, belga o olandese tra gli altri) in quanto tra questi ultimi esistono sottili alleanze d'interessi che prolungano le rivalità tra i tre imperialismi dominanti.
In modo più generale, se gli imperialismi europei hanno interesse ad unirsi, a pena di essere condannati all'insignificanza di fronte alla concorrenza americana o giapponese sul mercato mondiale, le relazioni che trattengono con gli Stati-Uniti e la loro economia sono molto differenti da un imperialismo europeo all'altro. In molti mercanteggiamenti tra gli Stati-Uniti e l'Unione europea, quest'ultima è incapace di presentare un fronte unito perché gli interessi di questa o quella delle sue componenti convergono di più con gli interessi del capitalismo americano che con quelli dei "compagni" europei.
Il problema dell'allargamento dell'Unione europea ai dodici paesi candidati fa risorgere le divergenze. Sul piano strettamente giuridico, questa integrazione pone la questione di una riforma delle istituzioni e del loro funzionamento. La discussione intorno a questa riforma potrà far da sopporto per esprimere molte altre divergenze di interessi. Se le principali potenze imperialistiche d'Europa sono piuttosto favorevoli ad un allargamento che faciliterà il controllo dei loro trust sull'economia dei paese candidati, non lo sono tutte allo stesso grado e il prezzo che sono pronte a pagare è più o meno alto.
Non è sicuro per esempio che i paesi beneficiari delle sovvenzioni all'agricoltura, di cui il primo è la Francia, accetteranno che tale vantaggio venga esteso alla Polonia o l'Ungheria. Non è neanche sicuro che i paesi che beneficiano di più degli aiuti e sovvenzioni dei cosiddetti fondi "strutturali" europei accetteranno che la loro parte sia ridotta a favore di nuovi aderenti.
L'allargamento dell'Unione europea, invece di rafforzarla nella competizione internazionale contro gli Stati-Uniti o il Giappone, può invece sottolineare l'eterogeneità di questa Unione e la sua fragilità. Non a caso nei circoli dirigenti dell'imperialismo francese o tedesco si parla in modo più o meno felpato di un'Europa a due marcie in cui la dominazione delle grandi potenze sugli altri paesi dell'Unione europea verrebbe un po' più istituzionalizzata. Ma comunque quest'Europa a due marcie esiste già, dentro come fuori dai confini dell'Unione europea dove la parte attribuita ai paesi non imperialisti è solo di allargare lo spazio economico nel quale si svolgerà la competizione tra i grandi gruppi capitalisti.
I paesi sottosviluppati
Uno dei recenti bilanci annuali del Fondo Monetario Internazionale sottolineava che "la partecipazione aumentata dei paesi in via di sviluppo rappresenta uno dei fatti rilevanti dell'espansione del commercio e dei flussi di capitali osservata nel mondo nel corso dei dieci anni scorsi". E difatti, stando alle statistiche d'insieme, il grado d'integrazione dei paesi sottosviluppati nell'economia mondiale è aumentato. Tra il 1985 e il 1997, ciò che viene chiamato il "grado di apertura" dell'insieme dei paesi sottosviluppati, che viene misurato con il rapporto tra il commercio estero e il prodotto interno lordo, è passato dal 22% al 38%. Altra indicazione : il flusso dei capitali in direzione di questi paesi è passato tra il 1990 e il 1996 da 60 miliardi a 200 miliardi di dollari. Ma l'FMI che fa queste cifre non fa la differenza tra i flussi speculativi di capitali e quelli che vengono investiti sul posto. I paesi poveri d'Asia che sono stati colpiti dalla "crisi asiatica" del 1997 pagarono caro per i capitali speculativi e, anche se l'economia di alcuni poi si rimese in moto, le conseguenze sociali non sono state riassorbite. Una parte di questi flussi di capitali è tuttavia andata a questi "investimenti diretti". Quello che è stato detto a tal proposito per i paesi imperialisti vale anche per i paesi poveri : questi "investimenti diretti" servirono più a riacquistare delle imprese esistenti o a prendere il controllo di infrastrutture collettive (elettricità, acqua, ecc.. ) che a sviluppare le forze produttive locali. Ne risulta però un'integrazione economica crescente nell'economia mondiale che si esprime tra le altre cose con una crescita della parte dei paesi sottosviluppati nelle esportazioni mondiali di prodotti manifatturieri, che sarebbe passata dal 7% all'inizio degli anni settanta al 25% attualmente.
I difensori dell'economia capitalistica ne concludono che l'integrazione in un'economia mondiale globale è il miglior modo per questi paesi di uscire dal sottosviluppo. E citano, in negativo, tutti i tentativi abortiti di paesi poveri per uscire dal sottosviluppo grazie ad un alto grado di statalismo e ad una politica protezionista nei confronti del mercato mondiale. Difatti l'isolamento dal mercato mondiale, cioè infatti dalla divisione mondiale del lavoro, è uno svantaggio che nessun paese povero è riuscito a sormontare. Solo l'Unione sovietica, grazie alle misure radicali prese da una rivoluzione proletaria, aveva potuto conoscere a lungo un tasso di crescita tale da permettere al paese di prendere posto tra le grandi potenze industriali, senza però uscire veramente dal sottosviluppo e pagando l'isolamento economico con la burocratizzazione che sappiamo.
Ma il bilancio dell'integrazione crescente nell'economia mondiale dominata dall'imperialismo è disastroso per i paesi poveri. Non ha colmato, anzi, ha approfondito il divario. I tre miliardi di abitanti dei paesi poveri, che rappresentavano nel 1980 circa l'82% della popolazione mondiale, avevano allora prodotto il 29% delle ricchezze mondiali. Meno di venti anni dopo, nel 1998, la popolazione dei paesi poveri rappresentava, con 5 miliardi di persone, l'85% della popolazione mondiale con solo il 21,5% delle ricchezze prodotte.
Le tre zone imperialiste del pianeta, gli Stati-Uniti con il Canada, l'Europa occidentale e il Giappone, che rappresentano il 13% della popolazione mondiale, rappresentano il 70% del prodotto interno lordo mondiale, il 79% degli investimenti all'estero e il 90% della capitalizzazione borsistica. Il crollo delle monete dei paesi poveri, non solo nei confronti del dollaro ma anche dello yen e recentemente dell'euro, è al tempo stesso il rifletto di questo divario, e anche un fattore di aggravamento per i redditi individuali. I redditi individuali medi sono caduti nell'insieme dei paesi poveri, compresi quelli che, come la Corea del Sud o la Malesia, vengono citati come esempi per la loro crescita economica.
D'altra parte, in questo campo come in molti altri, le statistiche d'insieme sono completamente menzognere. I capitali dei paesi imperialisti che, quando furono superati gli effetti della crisi dei debiti sudamericani alla metà degli anni ottanta, di nuovo cercarono ad investirsi nei paesi sottosviluppati, in realtà si interessano solo ad una dozzina di questi paesi. I cinque principali di questi paesi -Cina, Brasile, Messico, Singapore e Indonesia- assorbono il 55% dei capitali occidentali. Da sola la piccola Malesia riceve più capitali stranieri di tutto il continente africano ! Una dozzina di questi paesi forniscono il 70% delle esportazioni in provenienza dai paesi sottosviluppati. Il fatto che una dozzina di paesi tra quelli meno sottosviluppati ostentino tassi di crescita che meravigliano gli economisti -benché, anche lì, la crisi asiatica ne abbia dimostrato la fragilità- non lascia meno in disparte il centinaio di altri paesi poveri del pianeta.
Anche i paesi che furono più fortemente integrati nel sistema economico mondiale nel corso dei due ultimi decenni non hanno colmato il ritardo rispetto ai paesi imperialisti. L'unico risultato dell'evoluzione recente sta nel fatto che, al divario che separa i paesi imperialisti dall'insieme dei paesi poveri, ha aggiunto altri divari, questa volta tra i paesi sottosviluppati stessi.
Nuova economia ?
Dopo la guerra, l'economia internazionale attraversò due grandi periodi. Durante quello cominciato alla fine della guerra fino al 1973, abusivamente chiamato "i trenta gloriosi", l'economia americana visse parecchi cicli, in cui i momenti d'espansione furono seguiti da recessioni. Le fasi di flusso e di riflusso di questi cicli dell'economia americana ebbero più o meno ripercussioni sull'economia degli altri paesi capitalistici, con degli sfasamenti dovuti tra l'altro agli interventi statali. La necessità di ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto, seguita da un periodo di espansione dei mercati negli anni sessanta, fecero sì che questi cicli successivi si collocarono su una linea ascendente. Si era ben lungi dall'essere in un periodo di ascesa decisiva delle forze produttive, tuttavia questo rappresentava un cambiamento rispetto agli anni dalla grande crisi del 1929 alla guerra. Complessivamente, questo garantiva la piena occupazione, e ciò rese possibile un certo miglioramento della condizione operaia.
L'economia degli Stati-Uniti attraversa il suo terzo ciclo dal 1973, più precisamente la fase d'espansione del terzo ciclo. Questa lunghezza della fase d'espansione negli Stati-Uniti e il fatto che, nonostante la crisi asiatica del 1997, l'economia della maggior parte degli altri paesi industriali avesse seguito questa espansione, hanno tuttavia alimentato presso gli economisti - compreso quelli che si riferiscono al marxismo- un dibattito intorno alla questione di sapere se l'economia capitalista stesse conoscendo un "nuovo respiro", o almeno se l'economia non stesse uscendo dalla fase di stasi cominciata nel 1973.
Gli economisti borghesi, nell'obbligo di guadagnarsi la pagnotta, sono soliti approfittare di una fase d'espansione per scrivere delle tesi sulla fine delle crisi e l'alba di una nuova economia. Questa volta, l'espressione "nuova economia" pretende appoggiarsi su quello che alcuni chiamano con magniloquenza la "rivoluzione informatica". Se l'informatica, la comunicazione e ciò che gira intorno hanno buttato sul mercato nuovi prodotti quali i computer, programmi, telefoni cellulari, ecc, se hanno dato la possibilità ad alcuni di fare fortuna e di rinnovare la galleria dei ritratti delle più ricche dinastie borghesie con alcune facce nuove, se hanno provocato delle ascese borsistiche eccezionali, se hanno allargato la gamma dei prodotti venduti, per tanto questo non significa un allargamento del mercato, e ancora meno un nuovo dinamismo per l'economia capitalista.
D'altra parte, nonostante affermazioni che hanno un carattere pubblicitario più che altro, questi nuovi prodotti non hanno affatto rivoluzionato la produttività nell'insieme dell'economia. Fino a questa parte hanno modificato in modo notevole i metodi di lavoro solo in una parte del settore terziario (banche, assicurazioni, ecc... e, in un altro modo, il commercio). Ma ricordiamo che, se questi settori sono indispensabili per il buon funzionamento complessivo dell'economia, non producono valore. Il miglioramento della loro "produttività" non rivoluziona i mezzi di produzione, permette tutt'al più ai banchieri e agli assicuratori di prelevare per un certo periodo una parte maggiore del plusvalore globale.
Nel settore produttivo, l'introduzione dell'informatica non ha modificato granché. Ha avuto un effetto sull'organizzazione della catena produttiva col facilitare il cosiddetto metodo del "just in time" tra le varie imprese che rappresentano le diverse fasi di un processo di produzione e con la tendenza allo "stock zero". Non è sicuro però che questo rappresenti veramente un progresso dal punto di vista delle forze produttive. Tutt'al più questo tipo di funzionamento inquadra di più il ritmo del lavoro e, quindi, aggrava lo sfruttamento dei lavoratori.
Malgrado un accelerazione dell'aumento della produttività sin dalla seconda metà degli anni novanta -dovuta senz'altro in gran parte all'intensità del lavoro e al supersfruttamento dei lavoratori- l'insieme del lungo periodo di crisi appare come un periodo di declino della crescita della produttività negli Stati-Uniti. Difatti, pur sapendo anche lì che le statistiche valgono quel che valgono, tra il 1959 e il 1973 la produttività del lavoro crebbe con un ritmo annuale del 2,94%, mentre tra il 1983 e il 2000, pur con un'accelerazione alla fine, questo ritmo cadde all'1,41%. Ora, questo secondo periodo è precisamente quello dello sviluppo dell'utilizzazione dei computer. Un premio Nobel d'economia, prendendo il contropiede di chi dimostrava un entusiasmo eccessivo per la rivoluzione informatica, riassunse il suo pensiero con questa formula lapidaria : "si vedono computer dappertutto, tranne nelle cifre della produttività". Malgrado le divagazioni ricorrenti su quest'argomento, l'informatica non ha rivoluzionato le forze produttive alla pari del "mulino ad acqua o del motore a scoppio" come lo affermava recentemente un economista che imperversa nelle colonne di un quotidiano.
In una discussione dell'inizio degli anni venti, Trotski in particolare protestava contro l'idea che si potesse stabilire un'analogia tra i cicli brevi del capitalismo, ossia le fasi d'espansione e di recessione che alternano quasi automaticamente come modo di funzionamento dell'economia, e i periodi più lunghi di sviluppo o di riflusso dell'economia capitalistica. "La ricorrenza periodica dei cicli brevi è condizionata dalla dinamica interna delle forze capitalistiche e si esprime dappertutto e sempre quando il mercato è nato". Invece, affermava, non c'è nessun automatismo per cui periodi più o meno lunghi di stasi o di declino delle forze produttive si alternerebbero a periodi di nuova crescita. Questi periodi, affermava, "il loro carattere e la loro durata sono determinati, non dal gioco interno delle forze capitaliste, bensì dalle condizioni esterne che aprono uno spazio al loro sviluppo". "Sono la conquista da parte del capitalismo di nuovi paesi e continenti, la scoperta di nuove risorse naturali e, sulla loro scia, gli avvenimenti di tipo sovrastrutturale dell'importanza delle guerre e delle rivoluzioni, a determinare il carattere e la successione delle fasi ascendenti, di stasi o di declino del sistema capitalistico".
Anche lo smembramento dell'economia pianificata nell'Unione sovietica non ha aperto al capitalismo un nuovo campo d'azione, se non in modo marginale. La cosiddetta "nuova economia" non ha aperto una nuova era d'espansione al capitalismo nel suo complesso. Non c'è alcun segno che si apra un nuovo periodo che sia paragonabile anche solo al periodo che precedé la crisi del 1973.
Solo la ripresa dell'iniziativa e dell'attività cosciente del proletariato internazionale potrebbe cambiare i dati, non per dare un "nuovo respiro" a questo capitalismo ansimante ma, al contrario, per rimetterlo fondamentalmente in questione.
10 novembre 2000