(Testo della maggioranza)
In Russia, nonostante i numerosi sviluppi della crisi di successione di Eltsin ammalato e gli oscuri intrighi dell'appara to, ciò che ha segnato di più l'anno passato non è il cambiamento, bensì il prolungarsi del caos politico, militare ed economico.
Ciò che una volta fu l'URSS non è ancora uscito dal processo di decomposizione della realtà politica e sociale nata dalla rivoluzione proletaria del 1917, profondamente alterata dalla degenerazione burocratica, e da Trotski caratterizzata con l'espressione di Stato operaio degenerato. Tale processo di decomposizione fu innescato sotto il regno di Breznev, ben prima della sua morte nel 1982. Ma questa morte e la crisi di successione che ha seguito, apparirono come il punto di partenza visibile di questa decomposizione, sebbene le precedenti crisi fossero state altre tappe dello stesso processo. Questa crisi di successione, prolungata in quanto tale durante gli episodi Andropov e Cernenko, non fu risolta con l'arrivo di Gorbaciov al potere nel 1985. Quest'ultimo cercò di affermare il suo potere, tramite la ricerca del sostegno di alcuni ceti burocratici all'insegna della "perestrojka" e della "glasnost", ma fu finalmente scavalcato da chi era ancora più demagogo di lui.
Le lotte politiche al vertice, e la demagogia che poggiava sulle aspirazioni e desideri di molti ceti burocratici, hanno liberato delle forze politiche, emananti dalla burocrazia stessa, che fino a questa parte erano rimaste relativamente contenute. Gli scontri pubblici o le combinazioni occulte di queste forze, basate il più delle volte su feudi locali ed alleate solo quando si trattava di respingere il potere centrale, sono gli elementi che hanno provocato lo smembramento dell'URSS e segnato la sua storia politica da una decina d'anni.
La dittatura burocratica -nella sua variante più dura con Stalin, come nelle sue diverse veste ulteriori- traeva la sua fondamentale ragione d'essere dalla necessità di garantire i privilegi della burocrazia contro la classe operaia e, in caso di necessità, contro la borghesia. Questa dittatura tuttavia pesava anche sulla burocrazia stessa. Questa burocrazia, la parte che partecipava al potere dello Stato così come la parte in carica della gestione dell'economia, da tempo non era più costituita da quei "rozzi arrivisti", certo "ormai saggi, appesantiti, sistemati", però ancora "propensi a pensare "la rivoluzione, la siamo noi"", di cui parlava Victor Serge negli anni trenta. Per il suo modo di vita, per la sua mentalità e soprattutto per le sue aspirazioni, la burocrazia ai tempi di Breznev e perfino dei suoi predecessori, era più vicina della piccola borghesia o della borghesia occidentali. A volte, i transfughi che passavano all'Ovest svelavano tale mentalità. La demagogia di Gorbaciov che brandiva le parole "libertà" e "democrazia" contro i suoi rivali del palazzo brezneviano, poi quella di Eltsin che raccomandava l'autonomia dei poteri locali e la restaurazione della proprietà privata e del capitalismo, contro Gorbaciov, sono stati naturalmente accolti con favore dall'insieme della burocrazia. Ma, altrettanto naturalmente, ogni frazione della burocrazia ha tradotto queste idee per il suo proprio conto. Fin dall'inizio del processo, una parte della burocrazia era spinta dalla volontà di restaurare il capitalismo -questa è una sua vecchissima aspirazione, sebbene abbia avuto poche possibilità di concretizzarsi quando c'era il peso della dittatura staliniana - ma innanzitutto la casta burocratica aveva in comune la volontà di accaparrarsi, con la massima libertà, una parte massima della sovrapproduzione sociale. Ci sono però molti modi diversi di farlo, e l'idea che ognuno aveva di questo accaparramento dipendeva dalla sua posizione, dalle sue relazioni e dalle sue possibilità.
Da questi dieci anni però, il gioco delle forze politiche sorte dalla burocrazia, di cui all'inizio la quasi totalità si rivendicava della democrazia, non ha portato ad una forma nuova, democratica, del potere della burocrazia, bensì all'esplosione del sistema di potere e alla paralisi dello Stato. Il frazionamento del potere di Stato in vari feudi burocratici ha avuto conseguenze catastrofiche sull'economia, tanto più che l'economia era statalizzata ed ipercentralizzata.
Il bilancio del decennio passato, dall'inizio della perestrojka in poi, è un disastro per ciò che una volta era l'URSS. L'Unione sovietica, quale unica entità statale, è stata ufficialmente sciolta nel dicembre del 1991. Nella maggior parte della quindicina di Stati che ne sono sorti, prosegue il processo di decomposizione. L'URSS sotto la dittatura burocratica era stata un immenso carcere per i popoli. Però la sua decomposizione non ha affatto portato la libertà, ma solo il regno delle mafie, dei capi locali e, in alcune regioni, delle guerre civili tanto sanguinose quanto sterili - senza parlare della guerra repressiva fatta in Cecenia. Le elezioni - di cui i dirigenti di alcuni Stati fanno a meno, o che essi organizzano nello stesso modo che sotto lo stalinismo - servono solo a consacrare, sotto varie etichette politiche, gli stessi notabili politici che nella cosiddetta epoca sovietica.
Il bilancio è particolarmente disastroso nel campo economico.
Per quanto poco affidabili siano le statistiche pubblicate sulla situazione della Russia, esse indicano dal 1989, una continua regressione. Il prodotto interno lordo del 1995 era solo all'indice 60 rispetto a quello del 1989. Ma in realtà, la regressione è molto più grave. La produzione di tanti manufatti o prodotti agricoli (carne, per esempio) è stata divisa per due, o anche di più. Questa caduta, nelle statistiche espresse in valore, viene compensata con l'incremento del settore terziario, che include i volumi d'affari delle società finanziarie o delle società di protezione, e le spese legate all'arricchimento di un piccolo ceto di affaristi e all'"attività" della sua domesticità.
Significativi sono pure le cifre evocate da certe pubblicazioni economiche che paragonano il prodotto interno lordo per abitante degli Stati Uniti con quello dell'ex URSS.
Nel 1975, il PIL per abitante di quest'ultima avrebbe raggiunto un culmine pari al 42 % di quello degli Stati Uniti. Sarebbe oggi a meno del 20 %, cioè ad un livello vicino di quello del 1928. Queste cifre non hanno grande validità. Danno però un'idea della vastità dei danni causati dai saccheggiatori burocratici che, in pochi anni, hanno annichilito i progressi compiuti nel mezzo secolo di esistenza di questa economia pianificata, resa possibile dall'apporto della rivolu zione del 1917, sebbene tale pianificazione fosse stata paralizzata, sviata, sterilizzata da una gestione che doveva mascherare le sottrazioni effettuate dalla burocrazia a suo profitto.
Nel primo periodo del decennio scorso, i dirigenti del potere centrale della burocrazia affermavano di volere "riformare l'economia socialista", nell'eventualità di dare uno spazio maggiore alle imprese private. Dopo la vittoria di Eltsin, essi cambiarono discorso ancora di più, per affermarsi completamente a favore della restaurazione della proprietà privata e del capitalismo. Queste dichiarazioni provocarono l'entusiasmo dell'Occidente (il quale, oltre l'uso demagogico interno, era infatti la loro vera destinazione). Eltsin, quell'apparatchik di alto livello della dittatura burocratica, da quel momento ha sempre goduto del sostegno dell'Occidente. Egli fu considerato come il principale garante dell'evoluzione verso il capitalismo, e fu presentato, per questa ragione anche, come il pilastro della "transizione democratica", anche quando il Parlamento -non più e non meno legittimamente eletto di Eltsin- fu domato da lui a cannonate, o quando i suoi bombardieri trasformarono la capitale della Cecenia in una massa di macerie.
I commentatori annunciarono allora una marcia rapida, sennò allegra, verso l'economia capitalista. Ma, tra le intenzioni proclamate e gli atti, c'era un potere centrale sempre più disfatto, non solo incapace di fare applicare le sue decisioni, ma anche solo di prendere decisioni coerenti.
Nel 1992, con il varo di ciò che fu allora presentato dai suoi promotori (Gajdar, Ciubais, ecc) come la prima fase della privatizzazione totale dell'industria, sembrava che finalmente fossero prese le decisioni augurate dai rappresentanti della borghesia internazionale. Questa prima fase in sostanza mirava a trasformare le imprese statali in società per azioni di diritto privato. A questo doveva fare seguito una seconda fase, mirante a garantire il funzionamento dell'economia su basi capitalistiche. Ma la controrivoluzione sociale e il suo obiettivo, la trasformazione a rovescio dell'economia, si rivelano molto più difficili e più lenti in quel paese immenso, la cui industria si è sviluppata sulla base della pianificazione statale, di quanto non speravano i loro più accaniti promotori di Russia o dell'Occidente. Se la prima fase ha in effetti trasformato lo statuto giuridico della maggioranza delle grandi imprese del paese - ma non di tutte, e di gran lunga - la seconda fase praticamente non va avanti. La pianificazione è stata distrutta, senza però che il mercato lo abbia sostituito per tanto. Sono nate delle forme ibride di organizzazione economica che, invece di costituire le tappe di una transizione, sembrano sul punto di cristallizzarsi. Nei due anni appena scorsi, l'economia si è impannata più che trasformata.
I più recenti studi in questo campo indicavano la seguente ripartizione delle azioni delle imprese privatizzate : il 43% era in possesso dei salariati, il 17% apparteneva alla direzione delle imprese, l'11% allo Stato ed il 29% a proprietari esterni all'impresa (compresi i fondi d'investimento, la cui maggior parte appartiene a delle banche pubbliche o a degli organismi parapubblici). Pur essendo "azionari maggioritari", ovviamente i lavoratori non hanno, sulla "loro" impresa ormai privatizzata, più controllo di quanto non ne avevano ieri sullo Stato che, secondo la fraseologia stalinista, era pienamente nel loro possesso. Le loro quote di proprietà servono solo a consolidare il potere dei burocrati che dirigono le imprese. E in tante regioni, la partecipazione dello Stato si è trasformata in partecipazione delle autorità locali (regionali o comunali), le quali sono legate ai dirigenti delle imprese.
La prima fase della privatizzazione ha dunque dato innanzitutto, alle cricche burocratiche locali, i mezzi giuridici per liberarsi legalmente da ogni controllo del potere centrale. Ma essa serve anche sempre di più alle cricche burocratiche, per difendere le "loro" imprese contro la penetrazione dei capitali che -tranne quelli minoritari che vengono limitati alla parte di fornitori di denaro fresco- potrebbero mettere in forse la loro dominazione. La maggior parte delle imprese, la parte decisiva dell'economia, rimane dipendente dai feudi burocratici.
I capitali russi sono troppo deboli per potere essere investiti in modo preponderante, e i nuovi ricchi preferiscono portare all'estero il denaro che risulta dalle loro esazioni. Per quanto riguarda i capitali stranieri, sono pochi ad investirsi. Magari un paradiso per gli affaristi in cerca di belli colpi rapidamente redditivi, la Russia invece non è ancora un campo d'investimento per il capitale industriale, e nemmeno per il capitale commerciale. Il volume degli investimenti rimane di gran lunga inferiore a quello realizzato in alcune ex Democrazie Popolari, di dimensioni e ricchezze molto inferiori.
Il fatto che i capitali occidentali non si investono in modo massiccio, è dovuto innanzitutto alla situazione finanziaria internazionale. Comunque, oggigiorno il capitale mondiale si investe poco nella produzione. L'epoca è piuttosto quella degli acquisti e della concentrazione nelle roccaforti imperialiste. Ma per quanto riguarda gli investimenti in Russia, la particolare prudenza del capitale è dovuta alle condizioni generali, all'insicurezza, alla forte influenza della mafia in pezzi interi dell'economia, all'incertezza dell'idea stessa di proprietà, tutte cose che risultano dalla debolezza dello Stato centrale. In quanto ai deboli capitali della classe ricca - caratterizzazione più esatta di quella di borghesia autoctona, poiché è molto poco legata ai mezzi di produzione -, essi si portano più volentieri verso i settori marginali ma redditivi del commercio o dei servizi - quando non prendono direttamente la strada delle banche occidentali.
La crisi dovuta all'incapacità dello Stato di riscuotere le tasse (annunciava di averne percepito il 60 % quest'anno, ma sembra che ne raccoglierà finalmente solo il 45 %) svela la debolezza del potere centrale di fronte ai feudi burocratici, e contribuisce a mantenere questa debolezza, privando il Cremlino dei mezzi di imporre la sua potenza ai feudi locali.
Le autorità finanziarie del mondo imperialista lo sanno bene, che durante la campagna per la rielezione di Eltsin si sono astenute da qualsiasi atto che abbia potuto rendere il regime ancora più fragile, e oggi è palese la loro preoccupazione di fronte alla crescente instabilità del paese. Coll'invocare l'incapacità del regime a raccogliere i mezzi finanziari necessari alla politica proclamata, l'FMI ha appena rifiutato di sbloccare la rata mensile di ciò che fu chiamato, nel marzo scorso, il suo "prestito storico" di 50 miliardi di franchi. Gli istituti di quotazione dei rischi ad uso dei finanziari internazionali e degli Stati occidentali, hanno constatato questa situazione. Dopo tanti altri, il britannico MIG ha messo di recente la Russia in testa dei paesi a rischio, mentre all'URSS, fino al 1991, veniva data da questi organismi la quota di sicurezza massima.
La prima fase della privatizzazione, lungi dal provocare una rapida marcia verso un'economia di mercato capitalista, con libera circolazione delle merci e dei capitali, sembra per ora generare delle evoluzioni che si adeguano alle condizioni politiche e alla frantumazione regionale, e conseguentemente le consolidano. Queste evoluzioni mescolano i vecchi modi di funzionamento dell'economia burocraticamente pianificata, cosparsi con un po' di economia di mercato, completando tutto questo con una buona dose di tangenti.
Di fronte alla debolezza, e addirittura all'assenza di un vero mercato e alla fantasiosa politica di credito dello Stato, le grandi imprese che non hanno la possibilità di accedere al mercato internazionale, sono sempre più portate a scegliere il baratto come modo di scambio. Il baratto rappresenta più del terzo degli scambi tra imprese. Per di più, sembra che anche molte transazioni che vengono contabilizzate in denaro o in credito, in realtà sarebbero solo la traduzione di operazioni di baratto. Per tali operazioni, le imprese ritrovano naturalmente le reti delle relazioni stabilite ai tempi della pianificazione per compensare la sua pesantezza burocratica. E poiché la natura stessa di questo tipo di scambio necessita delle relazioni di fiducia e delle convergenze di interessi, esso favorisce l'apparizione di associazioni regionali. A seconda della ricchezza della regione per le industrie o le materie prime, a seconda pure della sua posizione geografica -vicinanza di un confine o di un porto, che possono agevolare le vendite contro valute estere - queste associazioni portano a sviluppi diversi, o perfino divergenti. La loro principale ragione d'essere sta nella volontà della burocrazia locale di controllare l'economia della regione e, in questo modo, di agevolare le sottrazioni a suo profitto. Ma queste associazioni regionali per forza portano all'autarchia rispetto alle altre regioni ed anche al rafforzamento di poteri locali capaci di opporsi al potere centrale. L'insufficienza del prelievo delle tasse, per esempio, non è solo una situazione di fatto. Le autorità di alcuni regioni rifiutano ufficialmente di versare queste tasse, con l'argomento ben fondato che lo Stato centrale non adempie le obbligazioni che gli toccano (per esempio il pagamento dei suoi funzionari, o addirittura il pagamento dei suoi debiti).
In ogni modo, questa evoluzione potenzia le forze centrifughe che non hanno affatto bisogno, per esistere, del supporto di un problema etnico o nazionale, reale o artificiale.
Seppure è oggi frazionata e ha cambiato metodi, è sempre la burocrazia, questa categoria sociale originale nata dalla degenerazione dello Stato operaio, che mantiene il suo controllo sui pezzi dell'apparato di Stato in decomposizione e su un'economia disfatta. Questi suoi successivi cambiamenti forse sono delle fasi della sua trasformazione in borghesia, ma tale trasformazione rimane ben lungi dall'essere compiuta.
Gli ambienti della malavita e degli affaristi, legati alla burocrazia, non possono essere il fulcro dal quale sorgerà la classe capitalista russa del domani. Non ha senso fare un paragone con lo sviluppo della borghesia occidentale dei secoli XVI a XVIII. Certo, in quel periodo, la borghesia si è arricchita in gran parte grazie al furto, al crimine, ai genocidi, alle spese del resto del mondo. Ma i trust americani non sono sorti dalla mafia, sebbene alcuni mafiosi si siano riconvertiti in capitalisti. La crescita di un capitalismo russo non può essere il frutto di tale banditismo.
Però l'evoluzione non è finita, e non è possibile prevedere quando e sotto quale forma sarà compiuta. Per ora, sembra che la situazione economica sia orientata verso una balcanizzazione del paese in mini-Stati abbandonati alle burocrazie locali e alle rivalità tra le potenze imperialiste, con la regressione e la miseria che ciò provocherebbe.
Il ceto privilegiato che si proclama volentieri quello dei "nuovi Russi", che saccheggiando le risorse del paese o parassitando le imprese, accumula delle fortune, non rappresenta l'inizio di una borghesia alla misura della potenza economica del paese, ma solo dei vermi che brulicano sul suo cadavere. Distruggono la produzione, ma non sono neanche capaci di trasformarne l'organizzazione nel senso capitalista.
Per la popolazione, e particolarmente per la classe operaia, questo caos economico e politico si traduce con una continua caduta del livello di vita ; coll'incremento della parte della popolazione che, secondo le stesse autorità russe, non dispone nemmeno del minimo vitale ; con la riapparizione di gravi malattie infettive di cui il paese si era liberato da tempo.
Quest'estate, il governo russo si è congratulato con l'avere riportato l'inflazione praticamente allo 0%, e di avere così meritato - ma si era allora in periodo elettorale - le strepitose felicitazioni dell'FMI per avere, in anticipo sul calendario previsto, adempito agli impegni nei suoi confronti. Ma quel "successo" è stato ottenuto con un rimedio peggio del male, poiché lo Stato russo, in cessazione di pagamento virtuale fin dal 93-94, garantisce sempre meno il minimo di protezione sociale precedente e paga con sempre più ritardo, o addirittura non paga più niente di ciò che dovrebbe pagare, a cominciare dai salari e dalle pensioni. Molti lavoratori, inclusi insegnanti, medici, ricercatori, pensionati, da mesi non ricevono un soldo e sono ridotti a cercarsi parecchi lavori, sperando che tal mese almeno uno dei loro datori di lavoro non avrà rubato la cassa, o che questa non sarà sparita nelle mani dei burocrati dirigenti della città, della regione o del settore economico interessato.
Risultando equivalenti a 6000 miliardi di lire nel febbraio, gli arretrati di salari ammontavano, sempre secondo il governo, a più di 9000 miliardi quest'estate. E questa situazione, che risulta allo stesso tempo dalla rapacità dei burocrati e dalla parziale incapacità dello Stato e delle aziende a pagare i loro impiegati, continua ad aggravarsi.
Di fronte a tale situazione, i lavoratori si impegnano in lotte difensive. Delle ondate di scioperi si succedono con un ritmo sostenuto per tutta la Russia (ed anche nell'Ucraina, nel Kazahstan, ecc.) e in aggiunta al caos generale, questo ha fatto dire a certi responsabili del paese, Lebed tra l'altro, ed anche a certi membri del governo, che si sta avvicinando rapidamente, nello stesso tempo, ad una catastrofe economica e ad un'esplosione sociale.
I problemi della Russia necessitano una risposta complessiva, politica ed economica. Fin dall'inizio del lungo processo di decomposizione, la classe operaia non si è fatta sentire dal punto di vista politico. Ai tempi della perestrojka, la sua frazione politicizzata è stata disorientata o ingannata dalla fraseologia democratica e pro-occidentale di cui la piccola borghesia e l'intellighenzia, si sono imbevute. Ma anche una buona parte di questa piccola borghesia che sognava di un modo di vita all'occidentale ha dovuto da allora ricredersi. A maggior ragione la classe operaia. Le elezioni sono solo termometri, ma i progressi del PC, i risultati del suo candidato Ziuganov all'elezione presidenziale di quest'anno, riflettevano un rigetto massiccio della politica degli attuali dirigenti russi e delle sue conseguenze.
Ma, per i contenuti così come per la forma, il PC non si è affatto differenziato da ciò che proponeva Eltsin -e i suoi elettori hanno votato "contro" Eltsin più che "a favore" di Ziuganov. Questo risultato elettorale ha permesso al PC di ottenere che le cricche al potere gli lascino uno spazio un po più grande nei vari organismi di quel potere (così il presidente PC della Duma, insieme al suo omologo della Bassa Camera, al primo ministro ed al capo dell'amministrazione presidenziale, ha fatto parte del "Consiglio" ristretto incaricato da Eltsin della gestione del paese durante la sua operazione). Sembra che, delusa, una parte dell'elettorato popolare e operaio di Ziuganov stia riportando le sue speranze verso Lebed, il nuovo demagogo la cui stella sale nei sondaggi. Ma caso mai questo avventuriero riuscisse a prendere la successione di Eltsin, niente ci indica finora che egli potrebbe, più del suo predecessore, se non altro cercare di opporsi al processo di decomposizione del paese. Per questo non servono la determinazione, e neanche il titolo di ex-generale ben visto dalle sue truppe, poiché lo stesso esercito è in uno stato di decomposizione avanzata.
Per complessa e multiforme che sia l'evoluzione di una società scomposta dall'indebolimento dello Stato e la frantumazione dei poteri, l'analisi e la caratterizzazione lasciate in legato da Trotski rimangono quelle che meglio possono chiarire la realtà ex-sovietica.
Tali analisi e caratterizzazione, in cui la degenerazione prende una parte sempre più importante, non solo rimangono l'espressione di una solidarietà con le generazioni che, pur combattendo lo stalinismo, hanno difeso l'eredità della rivoluzione proletaria del 1917, ma sono anche una bussola per orientarsi oggi.
Questa analisi mantiene l'idea che la burocrazia, che fin dal suo accesso al potere in URSS è stata l'affossatore della rivoluzione, della sua politica e delle sue prospettive, e non una borghesia autoctona di per se, è da parecchi anni non solo l'affossatore di tutto quello che rimane nel paese delle trasformazioni rese possibili dalla rivoluzione, ma anche l'affossatore del paese stesso. L'unica speranza per l'avvenire sta nel ritorno della classe operaia sulla scena politica e sociale, con l'obiettivo affermato di riprendere in mano il destino dell'ex-URSS.
Se la classe operaia riprendesse l'iniziativa politica, essa dovrebbe avere come programma, innanzitutto, di socializzare e di pianificare di nuovo l'economia. Per questo, essa dovrà riprendere in sostanza, il programma di transizione. Essa dovrà di nuovo creare dei consigli operai democratici, dei soviet. Essa dovrà cacciare via i burocrati, qualunque siano le loro etichette politiche, per sostituire il loro potere politico, sia locale che nazionale, con quello dei soviet.
Essa dovrà cacciare via i burocrati che dirigono le aziende, qualunque sia la forma giuridica di questa dominazione, per instaurare un vero controllo dei produttori e dei lavoratori. Essa dovrà, ovviamente, espropriare e controllare il commercio estero per importare i beni e i prodotti più utili alle classi popolari e alla produzione agricola e industriale. Dovrà anche controllarlo per esportare solo ciò che è più utile per pagare gli acquisti indispensabili.
La classe operaia dovrà porre fine allo smembramento del paese dalle feudalità burocratiche e proporre la riunificazione dell'Unione sovietica, sulla base del rispetto democratico del diritto dei popoli all'autodeterminazione.
Certo non sappiamo se, nelle attuali condizioni di demoralizzazione e di disorientamento in Russia, una forza politica capace di intervenire sulla base di tale programma può costituirsi. Ma finché la classe operaia non è completamente sfasciata dalla disoccupazione, infetta dal veleno delle opposizioni nazionaliste, regionaliste, separatiste, finché mantiene la forza numerica che è ancora sua, e la concentrazione nelle grandi aziende, che sono gli acquisti dell'industrializzazione pianificata del periodo precedente, questo programma è necessario e possibile. Tocca anche agli intellettuali misurare le loro responsabilità storiche e scegliere il loro campo.