Durante sei settimane circa, dalla metà di gennaio 97 al 28 di febbraio, le manifestazioni contro il governo in Albania sono diventate sommosse, e le sommosse sono diventate un'insurrezione armata. Il punto di partenza di queste manifestazioni è stato il crollo delle società finanziere truffa, notoriamente legate al gruppo di potere, che hanno rovinato decine di migliaia di piccoli risparmiatori. Ma chiaramente l'ira contro il governo, contro la povertà, contro la situazione senza via d'uscita in cui si trova la maggioranza della popolazione, era risentita ben al di là di chi era stato fregato nella speranza di un guadagno rapido.
Partita dalla città di Valona, l'insurrezione ha infiammato in pochi giorni un terzo meridionale del paese. La popolazione si è impadronita dei depositi d'armi, ha preso le caserme con la benevolente neutralità dei militari, si è confrontata con lo SHIK, la polizia politica del regime. I tentativi del regime di troncare questo slancio col mandare carri o elicotteri e col dare alle truppe l'ordine di sparare, sono finiti in uno scottante scacco. L'esercito si è disciolto, le caserme sono state disertate, la polizia politica ha finito col nascondersi e una parte dei militari ha raggiunto l'insurrezione. Invece di essere contenuta, l'insurrezione ha raggiunto le città del Nord e accerchiato la capitale, Tirana.
L'insurrezione è stata un'insurrezione popolare, con il sostegno e pure la partecipazione diretta di gran parte della popolazione, nel sud almeno. Per la prima volta da molto tempo in Europa, una rivolta popolare ha saputo armarsi e mettere in pezzi l'apparato dello Stato. Ma da quel momento, sembra andare su e giù, in mancanza di prospettive e di organizzazioni per incarnarle.
Un passato di povertà e di oppressione
Piccolo paese di 30000 chilometri quadrati e 3 440 000 abitanti, l'Albania è il paese più povero del continente europeo. I commentatori aggiungono volentieri che la sua economia rovinata è il risultato di cinquanta anni di sedicente regime comunista. Questo è tendenzioso e stupido poiché, sin dalla sua indipendenza, nel 1912, l'Albania è sempre stata la regione meno sviluppata d'Europa. La prima ferrovia, per esempio, è stata costruita solo nel 1948, se si fa astrazione delle linee costruite per i bisogni militari dell'esercito italiano mentre questo occupava il paese durante la seconda guerra mondiale.
La breve storia dell'Albania moderna, come quella di tutti gli Stati vicini dei Balcani, è stata profondamente segnata dalle rivalità tra le grandi potenze imperialiste e le loro azioni, dirette o per il tramite di piccole potenze regionali. A cominciare dalla nascita stessa di un Stato albanese indipendente.
I territori abitati dagli Albanesi erano da quattro secoli sotto dominio dell'impero ottomano. Ma l'impero ottomano in decadenza da molto tempo riusciva a sopravvivere solo perché gli appetiti delle grandi potenze -le potenze imperialiste britannica, francese o tedesca, oppure l'Austria-Ungheria e la Russia, si stavano neutralizzando. E nei quaranta anni circa della fine del 19° secolo e dell'inizio del 20°, il risveglio delle diverse nazionalità presenti nei Balcani e le rivendicazioni territoriali di quelle che già erano riuscite a costituirsi come Stati, aprirono nuovi campi di manovra agli imperialismi rivali. Ne derivò la successione delle cosiddette guerre "balcaniche", finché l'ultima si trasformi in una guerra mondiale, la prima così nominata.
Fu una di queste guerre balcaniche a dare ai capi politici albanesi l'occasione di proclamare l'indipendenza nei confronti dell'impero ottomano in decomposizione. Questo fu fatto il 28 novembre 1912. Ma occorreva ancora l'accettazione delle grandi potenze.
Dopo di avere esaminato ogni possibilità di combinazione -lasciare alla Turchia una sovranità nominale su un'Albania autonoma, sbranare la regione abitata da Albanesi tra gli Stati vicini della Serbia, del Montenegro e della Grecia, oppure assegnarla in totalità al giovane e vicino imperialismo italiano- le grandi potenze, riunitesi a Londra nel luglio 1913 per concludere una delle guerre balcaniche, finalmente optarono per un'Albania indipendente. Senz'altro perché tale soluzione non rafforzava troppo uno dei campi rivali o uno degli Stati vicini nei confronti degli altri, e così preservava il futuro.
Fatto sta che l'Albania moderna non è nata a Tirana, ma a Londra. E pure a Londra furono tracciate le sue frontiere. Questo tracciato lasciava fuori dalle frontiere del nuovo Stato quasi la metà degli Albanesi della regione, divisi tra il Montenegro, la Macedonia e soprattutto la Serbia. Ancora oggi, il 40% della popolazione albanese vive nei paesi vicini dell'Albania, in maggior parte nel Kosovo a maggioranza albanese ma facendo parte della Serbia, e nella repubblica di Macedonia nata dalla decomposizione dell'ex Iugoslavia. Invece questo spartito arbitrario lasciava in una regione del Sud dell'Albania una minoranza greca, fonte anche questo di tensioni future.
Le potenze imperialiste, nella loro grande premura per gli Albanesi, si preoccuparono perfino di trovare loro un re, nella persona di un'oscuro principe tedesco. Ma il suddetto principe ebbe solo sei mesi per avvezzarsi alle bellezze pastorali delle montagne albanesi prima di essere cacciato da un'insurrezione popolare che lasciò il paese per più anni in una situazione d'anarchia in cui un certo numero di feudali e capi di clan si contendevano il potere. E durante la prima guerra mondiale, l'Albania nonostante la sua neutralità venne nondimeno occupata dalle truppe di tre potenze che, rivali prima, erano divenute nemiche : l'Italia, l'Austria-Ungheria e -doveva per forza trovare il modo di esserci !- la Francia. E non parliamo dei passaggi temporanei delle truppe della Serbia, del Montenegro e della Grecia.
Tornata la pace, l'Albania almeno si salvò da uno spartito tra Italia e Grecia, previsto però in un trattato segreto firmato nel 1915, durante la guerra, a Londra ancora. Ma ci vollero ancora due anni, dopo la fine della guerra, perché le truppe delle varie potenze che prendevano di mira l'Albania -le truppe italiane, greche e francesi- finalmente la lasciassero una dopo l'altra.
L'Albania fu dunque ristabilita nelle sue frontiere degli accordi di Londra del 1913. Ma ci vollero ancora tre anni di lotta tra bande armate, di insurrezioni e manovre, in cui le potenze vicine erano spesso al retroscena, perché la situazione fosse ristabilizzata a suo profitto da un gran feudale e capoclan, spinto avanti dall'Italia mussoliniana. Dopo una strepitosa ascesa in cui fu successivamente il capo macellaio della repressione di un'insurrezione, ministro degli Interni, primo ministro, cacciato per qualche tempo dal paese da un'insurrezione e tornato alla testa di truppe arruolate all'estero, divenne presidente della Repubblica prima di attribuirsi nel 1928 il titolo di re degli Albanesi sotto il nome di Zog 1°.
Con l'avvicinarsi di una nuova guerra mondiale, l'imperialismo italiano non provò più il bisogno di ricorrere ad un uomo di paglia autoctono. Il 7 aprile 1939, le truppe di Mussolini occuparono il paese e cinque giorni dopo, un'assemblea fantoccio proclamò il re d'Italia Vittorio Emanuele II, re d'Albania. Da quel momento, il paese, sempre il più povero d'Europa, conservando sempre delle strutture sociali feudali, perfino prefeudali, era di più ridotto alla condizione di colonia italiana, fornitrice di materie prime e prodotti alimentari e base strategica per nuove avventure dell'imperialismo italiano nei Balcani.
Dalla resistenza al regime di Enver Hoxha
Fu nella battaglia contro l'occupazione italiana, poi nella lotta contro l'occupazione tedesca dopo la capitolazione italiana di fronte agli Alleati, che si formarono i gruppi armati di resistenza di cui stava per sorgere il principale, quello capeggiato da un partito nato recentemente dall'unificazione di parecchi gruppi sedicenti comunisti e diretto da Enver Hoxha.
Durante quaranta anni, l'Albania è stata ciò che i giornalisti amando le formule hanno allora chiamato "il paese più stalinista dell'Europa dell'Est". Comunque l'Albania è il paese rimasto più a lungo sotto la guida di un partito unico, sorto dallo stalinismo, il Partito del Lavoro albanese. In effetti, sin dal momento in cui -nel 1989-, la burocrazia fece capire chiaramente, dalla voce del suo capo di allora, Gorbaciov, che non era più interessata da questi paesi dell'Est che una volta costituivano la sua "scarpata", i sedicenti regimi di "democrazia popolare" abbandonarono rapidamente, uno dopo l'altro, le loro referenze al "socialismo" o al "comunismo". Solo l'Albania sembrava resistere all'ondata.
E' vero però che alla fine degli anni ottanta, da molto tempo l'Albania non faceva più parte delle "democrazie popolari" vere e proprie e non era più subordinata al controllo della burocrazia di Mosca.
La forza politica rappresentata dal Partito del Lavoro albanese e incarnata durante più di quaranta anni da Enver Hoxha certamente si è costituita nel corrente stalinista. Sembrava perfino che ne fosse la variante più ortodossa poiché il Partito del Lavoro proseguì nell'appellarsi alla persona di Stalin molto a lungo dopo che i nuovi capi della burocrazia sovietica abbiano addirittura cambiato i nomi delle città, vie e piazze per far dimenticare anche il nome del defunto padrino dei popoli. Portato alla testa del suo partito nel 1941 come stalinista, Hoxha morii nel 1987 sempre come stalinista.
Ma in politica, le etichette rappresentano solo una parte della realtà, e a volte non la rappresentano affatto. Prodotti dal movimento stalinista, Hoxha e i suoi lo erano ancora di più dalla situazione di quest'Albania sottosviluppata, arcaica dal punto di vista sociale, in balia del gioco delle grandi potenze, e oggetto di avidità da parte degli Stati vicini. Hoxha e il suo partito incarnavano innanzitutto una politica nazionalista mirante a costruire, consolidare, se necessario con l'uso del terrore, un'apparato di Stato indipendente. Durante lo stesso periodo storico, il Terzo Mondo ne ha conosciuti alcuni altri, di questi dirigenti "nazionalisti- progressisti" il cui qualificativo progressista riassumeva la volontà di modernizzare la società del loro paese, di farla finita con le strutture più anacronistiche, di unificarlo e, innanzitutto, di resistere il più possibile ad ogni tipo di controlo esterno, politico o economico.
L'epoca e la geografia hanno fatto sì che tale volontà politica fu espressa tramite la fraseologia stalinista. Ma nonostante la storia movimentata delle sue alleanze, Hoxha è rimasto fedele fino all'ultimo ai suoi obiettivi nazionalisti. O, più precisamente, fu appunto questa volontà politica di preservarsi da ogni tipo di controllo esterno, fosse questo venuto dalle potenze imperialiste o dalle potenze "amiche" del cosiddetto campo socialista, a spiegare la storia caotica delle alleanze di Enver Hoxha.
Prima ci fu la rottura con la Iugoslavia. Eppure a Tito Enver Hoxha doveva molto. Con l'aiuto di quest'ultimo era riuscito ad unificare il frammentato movimento stalinista albanese e a farsi riconoscere come capo. E anche con il suo aiuto il suo movimento di resistenza si era imposto, con la violenza, agli altri movimenti (tra l'altro quelli, filooccidentali, che volevano ristabilire la monarchia). E innanzitutto la resistenza jugoslava fu un esempio, e qualche volta un sostegno, per la resistenza albanese. I due paesi furono d'altronde gli unici da tutti i paesi dell'Est a trarre profitto del crollo dell'apparato militare nazista per impadronirsi del potere senza la presenza e l'aiuto diretto delle truppe sovietiche.
l fatto di avere costruito l'ossatura dell'apparato di Stato nel movimento di resistenza armata contro l'occupazione straniera ha dato, al regime di Hoxha -come a quello di Tito nella vicina Iugoslavia, nonostante il loro comune carattere dittatoriale-, un certo consenso nella popolazione.
Ma, all'indomani della guerra, Tito era troppo potente e troppo vicino per non essere una minaccia per l'indipendenza dello Stato albanese. dirigenti jugoslavi all'epoca non nascosero il loro intento di fare dell'Albania la settima repubblica federata della Federazione jugoslava. L'idea certo non era aberrante in questi Balcani tanto frazionati, tanto meno che la politica dei dirigenti jugoslava mirava anche al di là, alla costituzione di una federazione balcanica, che avrebbe incluso in più la Bulgaria.
Tale politica trovò eco anche presso alcuni dei seguaci di Enver Hoxha. Ma non era la politica di quest'ultimo. Hoxha cercò l'appoggio dell'Unione sovietica, e lo trovò con tanta più facilità che Stalin si stava preparando ad affrontare Tito, la cui indipendenza gli pareva eccessiva.
Nel momento della rottura tra URSS e Iugoslavia nel 1948, Hoxha si schierò naturalmente dalla parte della prima contro la seconda. La preferenza per un protettore lontano invece di un protettore più vicino e quindi più minaccioso, stava per essere un'elemento costante della politica del regime albanese.
Durante un po' più di dodici anni, l'alleanza con l'Unione sovietica ha protetto lo Stato albanese da ogni avventura venuta dalla Iugoslavia, anzi lo ha aiutato a resistere ad ogni pressione venuta dall'Ovest.
Inoltre, l'aiuto economico dell'Unione sovietica e la possibilità di scambi con un'Albania povera ma provvista di apprezzabili ricchezze minerarie, sono stati fattori di sopravvivenza economica per l'Albania.
Sin dal 1960 però, quando sembrava che la pressione sovietica sull'apparato di Stato e sull'economia diventava troppo forte, e tra l'altro quando Mosca impegnò una politica di riavvicinamento con le potenze occidentali, di cui l'Albania poteva temere le conseguenze di fronte alle pretese italiane sulla sua economia o alle pretese greche su qualche parte del suo territorio, Enver Hoxha fece la scelta di un appoggio cinese contro l'Unione sovietica.
Durante diciotto anni circa, la Cina sostituì l'URSS come alleata diplomatica dell'Albania e come collaboratore economico e commerciale. Chiaramente la Cina era un paese povero come l'Albania, ma le sue dimensioni erano sufficienti da consentire all'Albania di accedere ad una certa divisione del lavoro, ad alcune competenze e aiuti.
Il cerchio fu chiuso quando, nel 1978, l'Albania di Enver Hoxha alla fine ruppe anche con la Cina, provando a sopravvivere a malapena, con un'economia in gran parte autarchica, frontiere ermeticamente chiuse, con la mentalità di una "roccaforte assediata" imposta dall'alto, in nome di un brodo ideologico che miscelava un vocabolario staliniano e un nazionalismo isterico.
Durante i quaranta anni e più del regno di Enver Hoxha, prolungato per tre anni da quello del successore Ramiz Alia, l'Albania ha vissuto sotto una dittatura feroce. Ma il ruolo di Enver Hoxha non fu solo questo, poiché il Terzomondo, di cui l'Albania è una parte nonostante il continente in cui si trova, ne ha conosciute tante altre, di queste dittature che, in più, hanno rovinato il paese economicamente.
Questo non era esattamente il caso in Albania.
La dittatura di Enver Hoxha cercava, infatti, ad attuare ciò che il suo predecessore dell'anteguerra non aveva neanche tentato : liquidare l'eredità feudale, le tradizioni tribali, tentare di creare un'industria nazionale, e innanzitutto unificare uno Stato che, tra le due guerre, era stato ben di più una coalizione di bande armate più o meno potenti che uno Stato nel senso moderno della parola, e renderlo capace di resistere alle pressioni imperialistiche. Almeno per quanto riguarda l'apparato di Stato, Enver Hoxha è riuscito, almeno fin tanto che lui e il suo successore erano al potere. Hanno saputo creare un'apparato di Stato in possesso di un'esercito e di una polizia politica potenti e numerosi rispetto all'importanza numerica della popolazione, e la cui eredità rimane nelle mani dei successori del regime di Enver Hoxha, anche sotto direzione dei suoi avversari politici filooccidentali.
Per quanto riguarda la vita sociale, c'è stata qualche analogia tra la dittatura di Enver Hoxha e quella di Kemal Ataturk in Turchia. Con la violenza poliziesca essa liquidò le bandi armate e il potere dei capi di clan feudali in alcune zone. Con la violenza poliziesca ancora volle risolvere la questione della religione, in quel paese a maggioranza musulmana ma con un'importante minoranza cattolica e anche un'importante minoranza ortodossa. E' l'unico paese dell'Est in cui alla fine la religione fu completamente vietata e tutti gli edifici religiosi chiusi, per venire proclamato nel 1967 il "primo Stato ateo del mondo". (E' difficile però dire quale è stata in questa decisione la parte del "progressismo" antireligioso, e quale è stata la parte della volontà di non tollerare nel paese alcuna struttura che potesse fare da riparo ad un'opposizione alla dittatura.)
Dall'alto anche, fu imposta una lingua albanese unificata al posto dei due principali dialetti, usati rispettivamente nel nord e nel sud del paese.
Con mezzi polizieschi ancora il regime ha combattuto alcuni degli aspetti più retrogradi della società albanese come l'oppressione tradizionale delle donne, i matrimoni combinati, l'endogamia tribale. In tal modo che, in quel paese in cui, nel 1938, il 95% delle donne erano analfabete, nel 1982 il 44% dei quadri medi e superiori veniva reclutato tra di esse.
Con la violenza poliziesca ancora il regime impose una politica di creazione di un'industria pesante, partendo dalle materie prime esistenti tali il cromo (di cui l'Albania è il terzo produttore mondiale), il petrolio o il bitume. Questa politica di industrializzazione, attuata senza appello ai capitali esteri, e neanche a prestiti dall'esterno (vietati dalla costituzione !) ha richiesto uno sforzo considerevole, pagato con il mantenimento del basso tenore di vita dei lavoratori e contadini, e certamente non ha fatto dell'Albania un paese industriale. Ma la centralizzazione dello Stato e gli aiuti per qualche tempo dell'URSS e della Cina fecero sorgere complessi chimici, grandi aziende industriali (tessili, zucchero, centrale idroelettrica, e perfino complesso siderurgico) e innanzitutto una classe operaia, quasi inesistenti prima della guerra.
In Albania, non più che nella Turchia di Kemal Ataturk, la dittatura poliziesca era in grado di liquidare ciò che era più anacronistico nella società, però l'Albania del 1990 certo non era più l'Albania di prima dell'occupazione mussoliniana.
Il ritorno verso il mondo imperialista
Dopo la caduta della coppia Ceaucescu in Romania, nel dicembre 1989, in conclusione di una serie di cambiamenti successivi di regimi dei paesi dell'Est, diventava chiaro che l'Albania non poteva più sopravvivere in autarchia economica e politica. Fino a questa parte la transizione dalle dittature sedicenti comuniste e sotto controllo di Mosca, a regimi con pretese democratiche e aperti all'occidente, si era svolta in tutti i paesi dell'Est in modo pacifico. Si era svolta con la tacita complicità tra gli esponenti del regime caduto (quando questi non avevano preso in persona la testa della transizione) e i dirigenti dell'opposizione filooccidentale. Tutto questo sotto la sorveglianza e con l'aiuto dei dirigenti politici del mondo occidentale.
Questo non era scontato in partenza. Certamente, non perché gli esponenti degli apparati di Stato dei paesi dell'Est tenevano alle forme economiche e sociali imposte loro da Mosca durante la guerra fredda ! La tendenza ad allontanarsi da Mosca e a riallacciare legami con l'occidente era stata invece una costante dei cosiddetti Stati di "democrazia popolare" durante i quattro decenni della loro storia.
In quanto a sacrificare l'economia statalizzata e pianificata a vantaggio del mercato capitalistico, l'aspirazione più forte in tale direzione veniva appunto dai ceti dirigenti in cui si mischiavano e si saldavano, da molto tempo o meno a seconda del paese, gli apparatchik dell'economia e della politica e un'autentica piccola-borghesia.
Ma un cambiamento di regime, il passaggio da una dittatura con pretese "socialiste" o "comuniste" al parlamentarismo fiooccidentale e apertamente favorevole al capitalismo, poteva risultare difficile da controllare dall'alto.
Durante il precedente decennio, l'Occidente era stato confrontato, in un altro contesto e con dati di partenza diversi, al problema della transizione da Franco in Spagna, da Salazar-Caetano nel Portogallo e dalla più recente dittatura dei colonnelli in Grecia, a regimi parlamentari. Tutto si era svolto senza problema per l'ordine imperialista, ma non senza difficoltà, almeno nel caso del Portogallo.
Anche nel caso dei paesi dell'Est, il problema era di evitare che la transizione sollevasse delle illusioni altre che passive, o comunque che portasse ad un'intervento delle masse, o per accelerarla, o forse invece per difendere il regime esistente, o che portasse ad un confronto tra le masse e il regime.
La transizione si è svolta quindi nel modo migliore, dal punto di vista delle grandi potenze, in tutti i paesi dell'Est. Solo in Romania è stata necessaria un'"insurrezione-spettacolo" per disfarsi della coppia Ceaucescu che si aggrappava un po' troppo al potere.
Restava dunque l'Albania. In fin dei conti fu in quel paese, il più povero d'Europa, la cui produzione nazionale per abitante si avvicina a quella della Mauritania, che la transizione si svolse con più difficoltà. Eppure, anche lì, la vecchia squadra dirigente, considerata la più stalinista di tutte, aveva dimostrato il suo senso delle responsabilità col sapere cedere il passo ad un'opposizione sedicente democratica, sorta anche essa dalle file del vecchio partito stalinista. Ma nel caso dell'Albania, sin dall'inizio i problemi sociali si sono mischiati al processo politico e hanno preso una forma, per qualche periodo, esplosiva. E sotto certi aspetti l'attuale crisi insurrezionale non è altra che l'ultima nata di queste esplosioni che hanno accompagnato il processo di transizione sin dall'inizio.
L'iniziativa del cambiamento è venuta dal successore di Hoxha, Ramiz Alia stesso. Con molta cautela ! Cominciò con alcune misure, tale per esempio l'ammorbidimento del codice penale, tollerando ormai la fuga illegale all'estero, o la propaganda religiosa, che non veniva più punita con la pena di morte.
Nel giugno 1990, l'assemblea nazionale albanese decideva la libera circolazione dei connazionali. Subito, parecchie migliaia di persone invasero le ambasciate occidentali in Tirana e chiesero i visti per partire. Ad un colpo, tutti gli ambasciatori dei grandi paesi (Stati-Uniti, Francia, Germania tra l'altro) scoprirono che i loro locali necessitavano urgenti lavori di restauro, e chiusero le loro ambasciate a Tirana una dopo l'altra. Questa volta, non fu la dittatura dall'interno, ma le potenze occidentali, che chiusero le porte di fronte a chi voleva scappare alla povertà generale e alla penuria che si stava aggravando. E certo non fu l'ultima volta...
Da allora, i tentativi di fuga, verso l'Italia tra l'altro, divennero periodicamente un fenomeno di massa. Fu un movimento disperato, con l'aggiunta qualche volta di scioperi operai come quello dei minatori della grande miniera di carbone di Valias, di sommosse come quella di Scutari, di manifestazioni studentesche per rivendicazioni politiche. Ramiz Alia mollò sotto l'unico aspetto sul quale poteva andare indietro : l'aspetto politico. L'11 dicembre 1990, in seguito ad una manifestazione di studenti, autorizzò il multipartismo. Fu l'occasione colta da un certo Sali Berisha, un cardiologo membro e quadro medio del partito stalinista, per restituire la tessera del partito e annunciare la fondazione di un "partito democratico".
Nel febbraio 1991 ci fu una nuova ondata di sommosse e di esodi, e il 22 febbraio grandi manifestazioni in Tirana, durante le quali le onnipresenti statue di Enver Hoxha furono demolite. Ramiz Alia indietreggiò ancora, sempre sotto l'aspetto politico. Provò a dare un nuovo viso al suo regime con la nomina alla testa del governo di Fatos Nano, un giovane economista ma ancora un membro del partito. Il governo di Fatos Nano organizzò delle elezioni nell'aprile 1991. Era un modo elegante, per la squadra che assumeva ancora l'eredità di Enver Hoxha, di farsi da parte nell'eventualità di cedere il posto ad un'altra squadra, più in grado di incarnare la rottura con la vecchia dittatura.
Così furono il noto stalinista Ramiz Alia e il suo seguace Fatos Nano ad inaugurare la politica che stava per segnare tutto il periodo successivo e consisteva nel provare a garantire il buon svolgimento della transizione con l'offerta di elezioni a più non posso, ogni volta che la situazione si faceva più tesa e che i problemi sociali tornavano a galla. In tale politica il vecchio partito stalinista, presto ribattezzato partito socialista, e il suo rivale maggiore, il Partito democratico di Sali Berisha, supposto incarnare un'orientamento filooccidentale, stavano per giocare una partizione a due voci. Certamente erano rivali, ma innanzitutto erano complici.
Accadde però che, a sorpresa, queste elezioni dell'aprile 1991, battezzate anticipatamente dalla stampa occidentale "le prime elezioni libere in Albania da quarantacinque anni", ridettero "democraticamente" il potere a chi lo aveva già : il partito del lavoro del defunto Enver Hoxha. I titoli della stampa occidentale furono allora : "il riflesso conservatore dei contadini ha consentito la vittoria dei comunisti". E si spiegava : "spaventati dalla possibilità di un ritorno dei bey, ossia gli ex signore feudali, i contadini hanno preferito il vecchio partito comunista". Infatti il Partito del lavoro ottenne una maggioranza confortevole con il 64,5% dei votanti. Alla fine del mese, Ramiz Alia giunto al potere quattro anni prima come successore di Enver Hoxha alla testa del partito stalinista, questa volta veniva "democraticamente" rieletto dal parlamento presidente della Repubblica. Per dimostrare la sua volontà riformatrice, Ramiz Alia sostituì il nome della repubblica popolare socialista d'Albania con quello di Repubblica d'Albania.
Però ne le schede elettorali, e neanche i cambiamenti di regime, hanno la virtù di riempire gli stomachi vuoti. Un mese solo dopo le elezioni vittoriose, il 18 maggio, scattò uno sciopero generale di quindici giorni per rivendicare aumenti di salario dal 50 al 100%. E il 5 giugno, incapace di ristabilire l'ordine neanche con la minaccia di chiedere l'intervento dell'esercito, il cosiddetto governo "comunista" dette le dimissioni. Qualche giorno dopo, probabilmente per fare ancora una concessione nel campo della politica, in mancanza di potere farne nel campo delle rivendicazioni economiche, il Partito dei lavoratori cambiò nome per quello di Partito socialista.
Allora si succederono diverse combinazioni con prima un cosiddetto governo di "stabilizzazione nazionale" , nel quale il partito di Berisha accettò di compromettersi in una collaborazione con i suoi "nemici comunisti", che poi dette le dimissioni per lasciare il posto ad un governo di tecnici. Ma nel frattempo crollava l'economia, già povera, che doveva essere privatizzata. In due anni, la produzione industriale era calata del 50 o 60%, e la metà delle terre agricole non veniva più inseminata. La penuria diventava catastrofica.
Nel mese di dicembre 1991, nella maggior parte delle grandi città, scoppiarono sommosse della fame. I rivoltosi presero d'assalto i magazzini e depositi di viveri e vestiti per condividersi il poco che ci si trovava. Il corrispondente speciale di Le Monde citava un abitante della città di Fushe Arrëz, dove la sommossa aveva preso la forma più violente, causando una quarantina di morti : "non abbiamo più niente da mangiare, le scuole sono chiuse perché non c'è più riscaldamento. Se questo continua, potremo essere ancora più violenti. Per vendicarci, alcuni potrebbero prendersela con le miniere o i combinat". E il corrispondente aggiungeva : "più del 50% degli abitanti della città sono disoccupati e basta vedere bambini di dieci anni camminare a piedi scalzi in sandali di fortuna, mentre fa 5° sotto zero per capire !". L'ondata di queste sommosse della fame dilagò in tutto il paese.
Allora, con la complicità del gruppo di governo e dell'opposizione, alle masse che chiedevano da mangiare vennero ancora offerte delle elezioni ! Infatti alla fine di marzo 1992, si svolsero queste nuove elezioni. Questa volta, il partito democratico conquistò i due terzi dei seggi. Quattro giorni dopo, Ramiz Alia, eletto però un anno prima per cinque anni, fece un'ultimo gesto politico responsabile : diede le dimissioni per lasciare il posto, il 6 aprile 1992, a Sali Berisha.
I commentatori chiosavano sulla fine del sistema comunista. "I popoli dei paesi asserviti non si sono accontentati di una libertà razionata e di un'economia di mercato edulcorata" scriveva il giornale Le Monde il 6 aprile 1992. Infatti, alle masse sarebbe data la libertà di morire da fame in un paese ormai dominato da un mercato non edulcorato, cioè sotto controllo di trafficanti albanesi o italiani, preoccupati di arricchirsi rapidamente, o addirittura sotto controllo di mafie albanese, italiana, e da poco, sembra, russa ! Le potenze occidentali festeggiarono la vittoria di Sali Berisha. Gli diedero aiuti finanziari, l'Italia tra l'altro. Non si trattava di generosità nei confronti di un regime che si affermava democratico, ma di fare sì che la stabilizzazione del regime fermasse il flusso di profughi verso la Grecia o l'Italia ! E innanzitutto, grazie all'accessione al potere di un governo che si proclamava a favore di un capitalismo liberato, l'imperialismo italiano ritrovava finalmente la sua tradizionale zona d'influenza. Le misure di privatizzazione, iniziate da Fatos Nano, accelerate da Sali Berisha non hanno fatto nascere una borghesia albanese (se non sotto forma di capi di bande mafiose). Invece fanno piazza pulita per gli investitori venuti dall'Italia. Non si tratta certo per loro di investire nelle grandi aziende costruite durante il periodo dell'industrializzazione ad oltranza ! Questi "combinat" rimangono disperatamente chiusi e i loro operai disoccupati. Probabilmente rimarranno così o saranno solo parzialmente riattivati, solo per i settori redditizi dal punto di vista capitalista. Invece la molto relativa stabilizzazione dei primi anni del governo Berisha ha attratto un certo numero di padroni italiani, specializzati nei settori che richiedono pochi investimenti materiali e molta manodopera, allettati con i salari dieci volte o perfino venti volte più bassi di quelli italiani. Ha attratto ancora di più mercanti e trafficanti di ogni genere, senza dimenticare la mafia pugliese. Ma tutto questo non ha consentito all'economia di tornare neanche al livello dell'inizio degli anni ottanta.
Nel mese d'aprile 1992 le agenzie di stampa ripercotevano le parole di tale giovane pieno di gioia la sera dell'elezione di Sali Berisha : "Sali Berisha è la stella del mondo", la stella si è sempre più offuscata, di fronte a scioperi, manifestazioni e sporadiche sommosse della fame.
Passato il suo periodo di grazia, Sali Berisha cercò un nuovo diversivo nel nazionalismo. L'atteggiamento del governo della Grecia vicina lo facilitava. Atene incoraggiava il nazionalismo antialbanese in tutti i modi. Lo fece prima sul proprio territorio, innescando periodicamente la caccia agli immigrati albanesi, clandestini o meno. Lo fece poi nei confronti dell'Albania stessa, rivendicando i territori albanesi abitati dalla minoranza greca. Sali Berisha colse l'occasione. Pur rimanendo molto discreto sulla sorte degli Albanesi del Kosovo, cominciò una campagna antigreca. Questo però non fu sufficiente per fare dimenticare la corruzione generalizzata e l'immiserimento continuo della maggioranza della popolazione. Questa miseria era tanto più difficile da accettare che all'uniformità della povertà generalizzata degli ultimi anni di Ramiz Alia si sostituiva una crescita vistosa della disuguaglianza. Il lusso ostentato dei nuovi ricchi, spesso apparatchik vecchi o nuovi, contrastava con la miseria della maggioranza.
Mentre gli esperti internazionali si rallegravano della relativa stabilizzazione dei primi anni del regno di Sali Berisha, la miseria faceva risorgere delle malattie medioevali come il colera.
La scadenza elettorale legislativa del maggio 1996 diede ancora una maggioranza di due terzi dei seggi al partito di Sali Berisha. Ma, come già è successo parecchie volte, quel risultato ha rallegrato di più le cancellerie occidentali che la popolazione albanese.
La nuova maggioranza al parlamento ha ancora consentito a Sali Berisha di farsi rieleggere, nel marzo 1997, presidente della Repubblica. Ma nel momento stesso in cui questo parlamento fantoccio nominava Sali Berisha successore di se stesso, le sommosse, cominciate nel sud del paese, in questa regione si stavano trasformando in un'insurrezione armata.
L'insurrezione di febbraio-marzo 1997
L'innesco dell'esplosione è stato il fallimento di queste società finanziarie fraudolenti, legate al potere politico, che avevano promesso un rapido arricchimento prima di crollare. Ma questo è stato solo la miccia dell'esplosione. Le reazioni popolari di fronte alla miseria crescente erano state solo frenate durante i primi anni di Sali Berisha. Non c'era più niente da sperare da questa "economia di mercato senza intralci" tanto osannata dai commentatori occidentali.
La rivolta populare, partita dalle città del sud del paese, era il ripetersi delle sommosse della fame della fine del 1990.
Ma questa volta, dappertutto i rivoltosi si sono impossessati degli armi. Invano Sali Berisha ha inviato l'esercito (ereditato, ricordiamolo, dal regime di Enver Hoxha tanto denunciato da Sali Berisha) e la polizia segreta, questo ha solo approfondito l'insurrezione popolare. Dei soldati aprirono le caserme senza combattere e spesso si schierarono dalla parte degli insorti. Gli altri si tolsero la divisa e tentarono di tornare a casa. Come lo affermò un quotidiano dell'opposizione : "non solo i soldati avevano paura, ma la causa non era ritenuta giusta". In quanto ai membri della polizia politica che assumevano il loro ruolo con troppa serietà, sono stati liquidati senza mezzi termini dalla popolazione armata.
Di fronte all'aggravarsi della situazione, le grandi potenze occidentali che fino a questa parte sostenevano completamente Sali Berisha, cominciarono ad abbandonarlo. I primi furono gli Stati-Uniti, mentre la Francia, come al solito, aveva una guerra di ritardo. E' difficile sapere se il rimprovero a Berisha era di non aver saputo schiacciare la ribellione, o di aggrapparsi ancora al potere dopo di aver constatato la sua impotenza.
Infatti la situazione è preoccupante per le grandi potenze. Si soleva dire, all'inizio del secolo, che i Balcani erano una polveriera, ma spesso si aggiungeva che l'Albania ne costituiva la miccia. Una polveriera, i Balcani lo sono di nuovo. L'esplosione in Albania contiene forti rischi di ripercussioni, a cominciare dalle regioni vicine con popolamento albanese, come il Kosovo e la Macedonia. Un'infiammarsi delle sole regioni albanesi già rischierebbe di mettere in forse le frontiere esistenti e, di conseguenza, di portare ad una nuova edizione delle vecchie conflagrazioni balcaniche.
E poi c'è pure per le grandi potenze l'altro aspetto dell'esplosione : un aspetto sociale, di rivolta dei poveri. Anche se, purtroppo, non c'è nessuno per farsi l'espressione di questo aspetto delle cose, e soprattutto per organizzare la rivolta dal punto di vista di quelli che sono stati le vittime della dittatura di Enver Hoxha prima di diventare le vittime della dittatura del denaro e dell'"economia di mercato".
Come è ormai di tradizione in questo tipo di situazione, Sali Berisha ha proposto agli insorti del sud una tregua, e innanzitutto delle elezioni. L'opposizione, sempre rappresentata in primo luogo dal Partito socialista, cioè il vecchio partito del lavoro, ex-stalinista, ovviamente ha dato al potere politico una risposta favorevole. Il 9 marzo, Sali Berisha ha firmato, con niente meno di dieci partiti dell'opposizione, un accordo per fare nuove lezioni nel mese di giugno e, nel frattempo, un "governo di riconciliazione nazionale".
Tale accordo è stato salutato a Roma, Parigi e Atene. Ma, chiaramente, ha lasciato gli insorti di marmo. Certo, l'insurrezione ha liberato Fatos Nano, diventato il nuovo capo dell'ex partito stalinista, nello stesso tempo che liberava altri prigionieri. Ma per tanto non si fida di più di quel partito che di quello che era al governo. Invece, l'insurrezione si è estesa al nord, ha infiammato Scutari al nord di Tirana, poi ha accerchiato la capitale stessa.
Ecco a che punto è arrivata l'insurrezione.
Popolare, l'insurrezione lo è stata indubbiamente, nel senso di una partecipazione ampia, nelle città tra l'altro. Le masse popolari albanesi hanno dimostrato, in queste settimane, la loro volontà e la loro capacità di armarsi. Hanno dato prova di un'energia e di una combattività capaci di dislocare l'apparato di Stato.
Da questo punto di vista, viene immediatamente in menta il paragone con l'insurrezione del 1956 in un altro paese dell'Est europeo, l'Ungheria. Ma tale paragone mette anche in luce le differenze. Differenza, chiaramente, nel contesto internazionale che era di divisione in due blocchi. Differenza ancora nel fatto che il regime di dittatura che l'insurrezione doveva affrontare in Ungheria appariva agli occhi della popolazione un'emanazione della burocrazia sovietica ed era direttamente sostenuto dalle truppe sovietiche presenti nel paese.
Ma ci sono altre differenze. L'insurrezione in Ungheria era stata segnata da una differenziazione di fatto della classe operaia all'interno delle masse popolari sollevate, differenziazione concretizzatasi nella costituzione di consigli operai e il ruolo crescente di questi ultimi. Era stata segnata da una forte politicizzazione delle masse in generale e della classe operaia in particolare ; da dibattiti in seno alla classe operaia rispetto all'avvenire politico o sull'organizzazione dell'economia ; dall'esistenza anche di tutta una generazione di militanti, presenti nelle aziende come nell'intellighenzia, sorti dall'ambiente del movimento staliniano, i quali però da più o meno tempo avevano rotto i ponti con questa, e di cui buona parte cercava sinceramente una strada d'opposizione, tanto di fronte alla dittatura burocratica contro la quale si era alzata l'insurrezione, quanto contro l'idea di un ritorno all'economia di mercato e alla proprietà privata delle aziende industriali. E c'era, in fine, una tradizione d'organizzazione proletaria e il ricordo collettivo della rivoluzione del 1919.
Nonostante tutto questo, non è nato un partito che si faccia veramente carica degli interessi del proletariato e che abbia per obiettivo la presa e l'esercizio del potere da parte dei consigli operai. Tale partito non si può improvvisare. Se è vero che una situazione come quella dell'Ungheria del 1956 gli avrebbe dato delle possibilità immense, è anche vero che per farlo nascere sarebbero stati necessari un capitale politico, una chiara coscienza della situazione dal punto di vista degli interessi del proletariato, cose che è difficile acquistare nel fuoco degli avvenimenti, senza una filiazione con il passato. I consigli operai in Ungheria, pur esercitando il potere di fatto, lo cederono politicamente ad Imre Nagy, finché l'intervento delle truppe della burocrazia sovietica abbia troncato ogni possibilità di sviluppo rivoluzionario della situazione.
Non c'è niente di tale in Albania.
L'innesco dell'insurrezione stessa, la collera contro un governo che copriva i truffatori e che, innanzitutto, non voleva rimborsare i danni sopportati da chi era stato truffato, non indica un alto livello di coscienza. Ovviamente, questo può cambiare nel corso dell'insurrezione stessa.
Ma l'insurrezione, nonostante si sia armata, sembra collocarsi in continuità con le sommosse della fame degli anni 1991-1992 con il suo apolitismo, con il carattere disperato di un sollevamento lasciato senza prospettive. E per quanto si può sapere, la classe operaia non si è differenziata in quanto tale nell'ascesa dell'insurrezione, ne nei fatti, ne con l'apparizione di forze politiche appellandosi, chiaramente o meno, alla difesa dei suoi interessi.
Certamente bisogna tenere conto del carattere sporadico, insufficiente, orientato, delle notizie. Ma se è chiaro che la popolazione sa cosa non vuole più, sembra saper tanto meno cosa vuole che non c'è alcuna forza politica per fare luce. E' ben difficile sapere che cosa rappresentano, rispetto alla popolazione, quelli che sono convinti che la loro azione armata può cambiare il futuro e ne hanno la volontà, e quelli che, non credendo a nessun futuro in Albania stessa, pensano innanzitutto a scappare.
Ora la popolazione albanese detiene gli armi, occupa buona parte delle caserme e basi navali.
E' il fatto che la popolazione sia armata e, come dicono con eleganza i commentatori, il fatto che sia "incontrollabile", che sta alla base del timore dei dirigenti delle grandi potenze, così come dei dirigenti albanesi, il Partito democratico di Sali Berisha e il Partito socialista (ex-stalinista) ugualmente. Non per nulla il Partito socialista, pur essendo all'opposizione, ha inviato uno dei suoi per aiutare Berisha in veste di primo ministro. Il Partito socialista rifiuta perfino di chiedere le dimissioni di Sali Berisha, una delle principali rivendicazione, se non l'unica, di tutti gli insorti.
Tutti i partiti ribadiscono che la condizione del ristabilimento dell'ordine è il disarmo della popolazione. Tutte le capitali delle grandi potenze si fanno i portavoci di tale programma.
Fin tanto che la popolazione povera rimane mobilitata e detiene gli armi, il futuro rimane aperto. Ma il solo fatto di conservarle richiede una volontà politica e un'organizzazione. Una insurrezione popolare che non progredisce coscientemente verso l'esercizio del potere dalla popolazione armata, presto o tardi finisce con l'andare indietro.
Parecchie testimonianze hanno riferito di genti che, attaccati alla loro Kalashnikof, dichiaravano orgogliosamente che il potere, ormai, era loro. Ma purtroppo questo è solo una parte della realtà, e contiene anche molte illusioni.
Se i fucili e i carri armati sono degli strumenti indispensabili del potere, essi non sono il potere di per se. La conquista e l'esercizio del potere esigono un livello di coscienza politica molto alto e un altro livello d'organizzazione. E non c'è in Albania nessuna forza politica, nessun partito che ne rappresenti e ne porti avanti, anche solo la prospettiva, presso le masse popolari.
Per il momento, sembra che l'esplosione del potere centrale favorisce la ricostituzione di poteri locali, tanto più facilmente che la costituzione di un potere centralizzato è in Albania un fatto recente. In qualche posto, sembra che questi poteri locali siano l'emanazione di assemblee più o meno democratiche, ma a giudicare dalle testimonianze riportate, la tendenza di queste assemblee è di affidare la direzione ad ufficiali superiori dell'esercito albanese sbandato, i quali si collegano in modo tutto naturale ai notabili locali, senza dimenticare la parte delle bande mafiose.
In modo significativo, le due personalità dirigenti più in vista dell'insurrezione nel sud sono rispettivamente un generale, alla testa della città di Girocastro, e un colonnello, capo degli insorti della città di Saranda. E come lo ammetteva recentemente il secondo -riportato da Le Monde- "gli ufficiali si conoscono e tendono a coordinare la loro azione".
E questa gente costituisce un punto d'appoggio possibile per i residui del potere centrale, per ingannare la popolazione prima, e poi per disarmarla.
Infatti le notizie più recenti riportano il fatto che "i delegati delle quattordici città ribelle hanno accettato di lavorare con Fito (il primo ministro) se riesce a riformare le istituzioni direttamente collegate al presidente Berisha. Hanno smentito di volere lanciare un'attacco contro Tirana" (Le Monde del 25 marzo)
Non voltarsi contro Tirana, contro un potere che, durante parecchi giorni, è apparso isolato, appoggiato solo dai membri della polizia politica rimasti fedeli, questo già vuol dire lasciare tempo a questo potere politico per riprendersi. E' già un modo di tradire l'insurrezione. Ma non è sicuro che l'accordo non diventerà più profondo nel futuro.
E' molto difficile prevedere se ci sarà nel paese una forza in grado di ristabilire l'ordine e l'unità statale, e in che modo ci riuscirà. Ma se questo dovesse capitare, sarebbe al prezzo di un'annientamento cruento della popolazione e di una nuova dittatura che non sarebbe di meno di Enver Hoxha. E se non sorgesse tale forza, almeno in un futuro prossimo, l'Albania potrebbe frantumarsi e, di fronte al vuoto del potere di Stato centrale, cedere il posto alla rivalità di una moltitudine di poteri locali. L'Albania ha conosciuto almeno due volte nel secolo una situazione simile.
In quanto alle grandi potenze, si preparano all'invio di forze militari. Chiaramente, è l'imperialismo italiano il capo dell'operazione in una zona da lui considerata come la sua zona d'influenza. Lo accompagnano in questa avventura l'inevitabile imperialismo francese e le truppe di parecchi Stati, d'Europa centrale tra l'altro.
Non è sicuro che tale forza d'intervento riuscirà a disarmare la popolazione, se questa rimane decisa a conservare le armi. Questo non sembra essere l'obiettivo immediato della forza d'intervento, il cui intento ostentato è di garantire l'ordine nelle città, in primo luogo la città portuale di Durazzo e la capitale Tirana, in modo da consentire la sopravvivenza di un governo che possa rivendicare un minimo di legittimità, almeno giuridica. Può essere sufficiente, per qualche tempo, garantire l'ordine nei posti strategici per ristabilire un potere centrale, i quali sono pure i posti in cui sono concentrati gli interessi stranieri - italiani tra l'altro. E per quanto riguarda l'Italia, in aggiunta alla preoccupazione di preservare i propri interessi in Albania, c'è sicuramente quella di rinforzare, verso le coste albanesi questa volta, il cordone sanitario mirante ad impedire ai "boat-people" albanesi di fuggire.
Se la situazione si prolungherà sotto forma di insurrezioni endemiche, con una popolazione non disarmata o non completamente, o perfino con un'evoluzione alla somala con confronti tra i poteri locali, così come se si stabilizzerà sotto controllo di un potere autoritario ristabilito, comunque le grandi potenze riserveranno all'Albania dei poveri la sorte di un campo di concentramento nel quale si crepa di miseria e di fame, senza neanche la possibilità di scappare. A meno che la situazione diventi più esplosiva di ciò che le grandi potenze temono, e faccia sì che tutta la regione si infiammi.