La crisi del debito del 2011

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23 settembre 2011

Da "Lutte de Classe" n° 138, settembre - ottobre 2011

La storia non si ripete, balbetta. Tre anni, per così dire da data a data, dopo il fallimento clamoroso della banca statunitense Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, che segnò l'inizio di una grave crisi bancaria, una nuova crisi bancaria minaccia l'economia e la minaccia è anche più grave rispetto al settembre-ottobre 2008. A quel tempo, erano le banche a diffidare l'una dell'altra a causa dell'importanza dei titoli tossici da esse detenuti. Avevano praticamente bloccato le miriadi di operazioni di credito tra di loro, a rischio di soffocare l'intera vita economica. Furono gli stati e le banche centrali a dover intervenire, aprendo gli sportelli alla grande e accettando di garantire i titoli più sospetti, inondando i canali finanziari con denaro affinché i signori banchieri, sicuri che non ci avrebbero rimesso nulla - o meglio che ci avrebbero guadagnato - fossero disposti a ricominciare a fare il loro lavoro e ad alimentare questo flusso di crediti che costituisce la linfa vitale dell'economia capitalista.

Ma ora la diffidenza non è tra le banche, o più precisamente non solo tra le banche. Si esprime nei confronti degli stati stessi. Lo stato greco non è l'unico in causa. Il sospetto che uno stato possa non essere più in grado di pagare i propri debiti è arrivato in Spagna, in Portogallo, e infine in Italia, per limitarci ai paesi europei. Ma questo sospetto tocca anche gli Stati Uniti, di cui un'agenzia di rating ha degradato la valutazione.

Sarebbe ozioso chiedersi qual è il vero significato delle valutazioni delle agenzie di rating, astrologi ufficiali di un mondo economico caotico.

Riflettono la diffidenza dei proprietari di capitale in cerca d'investimenti redditizi? Provocano esse stesse questa diffidenza? Nel momento in cui la minima notizia su una qualsiasi dichiarazione di un qualsiasi responsabile dell'economia provoca grandi movimenti di capitali, la questione non ha alcuna importanza.

Le cause di questa diffidenza sono comunque le stesse, sia per gli Stati Uniti che per la Grecia, anche se le conseguenze non sono uguali. Gli Stati Uniti restano la più forte economia del mondo, con una nota degradata o meno, e nei momenti critici appaiono sempre come un rifugio per i capitali in cerca d'investimenti.

Per fare uscire il sistema bancario dalla bancarotta e fermare il prosciugamento del credito, nel 2008 tutti gli stati del mondo, o comunque tutti quelli che se lo potevano permettere, hanno usato lo stesso rimedio: mettere soldi a disposizione delle banche. Hanno svuotato le loro casseforti per questo. Tutti hanno preso in prestito somme enormi da questo stesso sistema bancario che avevano appena salvato.

L'indebitamento degli stati ha letteralmente fatto un balzo dopo la crisi bancaria del 2008. Il suo importo è paragonabile solo a quello dei periodi di guerra in cui l'economia, concentrata intorno all'industria bellica, funziona a credito. I debiti si gonfiano d'interessi più o meno importanti a seconda dello stato debitore.

Le differenze tra gli stati aumentano ancora in funzione dei tassi d'interesse, più o meno alti secondo la loro potenza economica, oppure secondo la loro situazione politica o magari le notizie del giorno.

Gli stati sono in realtà stretti nello stesso cappio, ma a livelli diversi. Più sono sospettati di avere difficoltà a ripagare i loro debiti, più i prestiti che prendono sono a tassi elevati o addirittura usurai. Ma più questo aumenta il loro debito, e più hanno difficoltà per rimborsare.

Il rimedio è diventato veleno

Durante un certo periodo il meccanismo installato dopo la crisi del 2008 aveva tutti i requisiti per compiacere ai banchieri. Funzionava bene. I debiti degli stati fruttavano profitti e l'attivo delle grandi banche raggiungevano gli stessi livelli di prima della crisi bancaria.

Ma la macchina funzionava a vuoto. L'evoluzione economica non era affatto alla stessa altezza della redditività richiesta dai capitali finanziari. Il fatto però era mascherato da un'altra evoluzione che sembrava parallela: quella dei profitti delle grandi imprese industriali e commerciali. Le banche, che si procuravano denaro a buon mercato presso le banche centrali, stimarono che potevano prelevare interessi alti non solo sugli stati ma anche sul settore produttivo, poiché anche questo fruttava un profitto elevato.

Ma in realtà le banche, e dietro di loro tutte le imprese capitaliste per cui lavoravano, stavano tagliando il ramo a cui tutto era sospeso. Per finanziare le somme sempre più importanti pagate ogni giorno al sistema bancario, tutti gli stati impongono alle popolazioni piani di austerità. Pur diversi e variegati che siano da un paese all'altro questi piani di austerità, pur fertile che sia l'immaginazione dei governi borghesi per inventarsi provvedimenti tesi a svuotare le tasche delle varie categorie popolari, tutti intaccano la capacità di consumo della popolazione.

Questo è anche il risultato della diminuzione del numero dei lavoratori dello stato, dell'indebolimento dei servizi pubblici, dei prelievi sulla previdenza sociale, senza parlare dei mille provvedimenti di cui molti passano inosservati perché riguardano solo categorie che hanno poche possibilità di difendersi, i disabili per esempio.

Dietro le forme moderne del capitale finanziario, dietro i prodotti finanziari sempre più sofisticati, l'economia capitalista si inabissa sempre più nella stessa contraddizione fondamentale tra la capacità di consumo limitata delle classi popolari e il bisogno del capitale di crescere continuamente, che costituisce la ragione fondamentale delle crisi dell'economia capitalista.

Un altro meccanismo del capitalismo in crisi ha operato nella stessa direzione: le grandi imprese, che certamente incassavano profitti elevati, lo facevano a detrimento di tutta l'economia. Questi profitti elevati delle imprese di produzione erano dovuti in primo luogo al sovra sfruttamento della classe operaia. Far uscire una produzione superiore con un numero più ristretto di lavoratori, più mal pagati, è alla base dei profitti delle grandi imprese nonostante la diversità dei mezzi utilizzati. I licenziamenti, la diminuzione degli organici, la riduzione della massa dei salari distribuiti, restringono sempre più il mercato del consumo.

Un altro fenomeno interviene per spiegare i profitti più alti delle grandi imprese in testa al listino: la pressione crescente che esercitano sui loro fornitori, piccoli o grandi ma comunque meno grandi di loro, le ditte d'appalto, ecc. I profitti alti delle imprese più potenti inducono non solo la riduzione del tenore di vita della classe operaia, ma anche l'indebolimento del tessuto economico capitalista stesso.

L'attualità sottolinea un altro danno collaterale della crisi finanziaria del 2008: l'enorme aumento dell'indebitamento degli enti locali. A parte l'aspetto sensazionale e giornalistico del quotidiano Libération del 21 settembre 2011 quando titolava "Dexia: la banca che ha rovinato 5000 comuni", c'è la realtà di una bomba a scoppio ritardato per questi enti locali. Questa banca e alcune altre hanno proposto agli enti locali (città, dipartimenti, regioni ma anche istituzioni pubbliche locali, ospedali, ecc.) prodotti finanziari presentati all'epoca come vantaggiosi ma i cui tassi, sofisticati e oscuri, erano indicizzati su altri prodotti finanziari oppure varie monete. Ne risulta che i tassi sono aumentati e quindi anche le somme dovute. Così il dipartimento della Loira si è ritrovato a dover pagare un interesse di 22 milioni di euro per un prestito di 96 milioni, l'ospedale di Digione a dover pagare 31 milioni di interessi in più di un prestito di 111 milioni. 25 miliardi di euro di prodotti tossici di questo genere sono stati dati in prestito dalla sola Dexia. Conseguenza prevedibile: enti locali asfissiati, tasse locali aumentate, crollo dei servizi pubblici locali in mancanza dei mezzi finanziari ormai dedicati a pagare le banche. Ma se tutto questo pesa sulle classi popolari, distrugge anche la domanda solvibile, l'unica che conta per i capitali privati.

Le conseguenze distruttive delle turbolenze finanziarie

Il sistema capitalista sta illustrando, nel contesto del capitalismo moderno, questa tanto giusta espressione di Lenin: "il capitalismo è pronto a vendere la corda per impiccarlo." I tempi di questa vecchia corda ormai sono andati, ma si è inventato meglio: una moltitudine di prodotti finanziari dai nomi banali o esotici, che rappresentano una moltitudine di forme di crediti o di assicurazioni per garantire questi crediti, che si comprano, si vendono e si spostano da un punto all'altro del mondo.

Tra di loro ci sono i pezzi di carta che rappresentano una frazione dei debiti di uno stato, i "debiti sovrani" che derivano da prestiti per dieci anni, un anno, un mese o addirittura un giorno.

I mercati, cioè i servizi specializzati delle banche per gli investimenti finanziari, un tempo meravigliati da questi magnifici strumenti di arricchimento quali sono i debiti sovrani di cui inoltre si diceva che avessero il vantaggio di essere più sicuri dei debiti privati, hanno cominciato a dubitare della capacità degli stati di rimborsare i loro debiti. Da lì è nato il panico del sistema finanziario. Da lì gli spostamenti di masse considerevoli di capitali che si spostano da un debito sovrano a un altro. E questo tanto più che, con una specie di ritorno di boomerang, la diffidenza nei confronti degli stati - almeno quelli sospetti di non poter pagare tutti i loro debiti - si sta rivolgendo contro le banche stesse. Nel 2008 la diffidenza tra le banche era stata alimentata dal sospetto nei confronti dei titoli che rappresentavano debiti ipotecari americani. Oggi a sollevare lo stesso sospetto sono i titoli che rappresentano i debiti sovrani di alcuni stati.

Se i prezzi delle azioni delle banche francesi crollano uno dopo l'altro, c'è un motivo. Société Générale e Crédit Agricole erano state le prime ad acquistare i debiti dello stato greco, che fruttavano un bel reddito. Oggi alcune di queste banche hanno perso sulla loro capitalizzazione borsistica, cioè sul valore totale delle loro azioni, più che non hanno guadagnato sui debiti greci.

I prezzi delle azioni delle banche europee, anche quelle conosciute come più sicure come BNP-Paribas, seguono alti e bassi. Il giornale Le Monde del 18 e 19 settembre afferma: "Al rialzo come al ribasso, i mercati chiaramente non hanno bisogno di EPO per eccellere. Giù di 12,4% il lunedì 12 settembre, su di 7,2% il giorno dopo, giù di 3,9% mercoledì, più 13,4% giovedì e meno 7,6% venerdì, così sono stati i movimenti giornalieri delle azioni di BNP-Paribas". Ognuno di questi movimenti ha fatto una quota di soddisfatti tra gli speculatori, a volte al rialzo, a volte al ribasso.

Ma improvvisamente, la diffidenza cresce nei confronti delle banche europee. La recente notizia che Siemens ha ritirato una parte dei suoi fondi gestiti da Société Générale (500 milioni di euro, una bella somma comunque!), per la sua mancanza di fiducia nei confronti di una banca appesantita dai pezzi di carta del debito greco, illustra un comportamento più generale. L'azienda, anche se industriale, è pure accreditata come una banca, e a questo titolo poteva trasferire l'importo ritirato da Société Générale alla Banca centrale europea, evidentemente considerata più affidabile.

Le banche europee, a loro volta, tendono a depositare il loro denaro in questo momento alla BCE, piuttosto che di affidarlo a un'altra banca privata.

Di fronte alla minaccia di fallimento rappresentato per le banche europee dall'eccesso di titoli di debito che potrebbero essere di nessun valore, c'è una pressione da parte delle istituzioni internazionali della borghesia, in particolare l'FMI, perché siano ricapitalizzate, in altre parole per aumentare la loro quantità di capitale in proprio rispetto al capitale depositato presso di loro. Ma come incoraggiare i mercati finanziari, i possessori di capitali, a entrare nel capitale di una grande banca proprio quando essa sembra minacciata?

Inoltre, dalle parti dei portavoce della borghesia si sente dire sempre più spesso che in caso di riluttanza da parte dei "mercati", gli stati dovrebbero dare loro il cambio. "Le banche vanno ricapitalizzate, e l'unico attore che le possa aiutare è lo stato", afferma l'amministratore delegato di un fondo d'investimento. Lo stesso amministratore delegato e più concreto ancora quando afferma che la ricapitalizzazione "deve assumere la forma di una partecipazione dello stato al capitale delle banche francesi dell'ordine del 30%".

La parola "nazionalizzazione" delle banche che così a lungo fu un tabù sta tornando di moda. A coglierla i politici non sono stati gli ultimi. Così ha detto François Hollande, futuro candidato del Partito socialista francese alle elezioni presidenziali del 2012: "se succedesse un default della Grecia e le banche dovessero constatare delle perdite, ci sarebbe un appello allo stato, come nella crisi dei subprime. In questo scenario, a differenza del 2008, mi sento di raccomandare che lo stato non presti alle banche, ma prenda una partecipazione al loro capitale ".

Il giornale di domenica 12 settembre che pubblica questa dichiarazione dà anche notizia di quella del segretario nazionale dell'UMP Jean-François Copé che considera il metodo come obsoleto e dice: "Ci sono tecniche sofisticate che consentono di evitare la nazionalizzazione".

Queste due citazioni illustrano perfettamente come l'unica differenza tra un dirigente politico di sinistra e un suo avversario di destra sta nella giusta scelta delle parole e delle tecniche. Sono completamente d'accordo per attribuire allo stato la parte di stampella del capitale che è stata sua in un recente passato.

Se l'idea di ricorrere a una partecipazione più importante dello stato al capitale delle banche viene confermata, si può scommettere che la sinistra la coglierà presentando le nazionalizzazioni come una soluzione "socialista" ai danni provocati dalla crisi. E in caso di vittoria della sinistra alle elezioni in Francia si potrà contare sul Partito Comunista, il Fronte di Sinistra e molti altri, per provare a rendere presentabile, agli occhi delle classi lavoratrici, il ricorso allo stato per il salvataggio del capitale finanziario.

In questo modo, di fronte all'anarchia del sistema bancario così come di fronte ai vari progetti di nazionalizzazione, va detto che l'interesse della società è di espropriare i banchieri senza indennizzo n riacquisto, e di riunire le istituzioni finanziarie oggi concorrenti in una banca unica, controllata dalla popolazione.

La loro preoccupazione: ancora una volta, come salvare i banchieri

Tutte le discussioni dei vertici dirigenti vertono, come nel 2008, sul modo migliore di salvare il sistema bancario. Si discute delle operazioni di salvataggio con nomi tanto diversi quanto menzogneri: "salvare la Grecia" è il termine più standard. Oppure si parla di "salvare l'euro", "salvare l'Unione europea", "evitare l'implosione del sistema monetario internazionale". Ma dietro questi nomi diversi, c'è la stessa preoccupazione. L'incontro recente al vertice dei ministri dell'economia della zona euro a Breslavia, in Polonia, in presenza del Segretario americano al Tesoro, è indicativo di quale farmaco stanno prendendo in considerazione, ma anche della difficoltà di amministrarlo.

Gli Stati Uniti si sono impegnati da parecchie settimane, come nel 2008, in un'operazione a sportelli aperti per le banche private, tra l'altro riacquistando i titoli più sospetti di perdita di valore. Le Monde de l'Economie (6 settembre 2011) ritiene che "la Fed, la banca centrale americana, ha assorbito dall'inizio della crisi circa 1000 miliardi di titoli del debito pubblico americano, dopo di avere assorbito ancora più titoli privati". Questo è equivalente a un'emissione supplementare di moneta, la quale rischia di rilanciare e peggiorare l'inflazione in questa valuta.

Nel corso di questa riunione dei ministri dell'economia della zona euro, il Segretario di stato americano al Tesoro, invitato, si è anche sentito autorizzato a fare una brutale paternale ai suoi colleghi, rimproverando loro la riluttanza a fare la stessa cosa e ad autorizzare la banca centrale europea ad aprire gli sportelli del credito alle banche private. Il rimprovero in parte non è fondato poiché la BCE acquista presso banche private una quantità crescente di titoli tossici di cui i loro conti sono pieni.

Ma ciò che, negli Stati Uniti, richiede solo una decisione del governo - che già può non essere facile, a giudicare dal battibecco politico organizzato dai repubblicani contro Obama su questo tema è particolarmente complesso nel caso della zona euro dove ci vuole l'accordo di ciascuno dei diciassette governi, per non parlare, se è il caso, dei loro rispettivi parlamenti.

Quindi bisogna dire che un nuovo periodo d'inflazione è inevitabile, come lo dimostrano gli aumenti di prezzi in corso. È importante che i lavoratori si preparino. I capitalisti, che controllano più o meno i loro prezzi di vendita, sanno bene come indicizzarli su gli aumenti dei prezzi delle materie prime che utilizzano, sugli aumenti dei prezzi del petrolio, dell'elettricità, ecc. È vitale per i lavoratori dipendenti imporre un'indicizzazione automatica dei loro salari sull'aumento dei prezzi, la scala mobile dei salari.

La crescita cancerosa della finanza in un'economia capitalista malata dal proprio funzionamento

È stato il lungo periodo di stagnazione o di crescita lenta dell'economia globale a portare all'aumento mostruoso del peso della finanza e al moltiplicarsi delle crisi finanziarie più o meno gravi che hanno segnato la storia economica degli ultimi dieci anni: caso Enron, crollo delle casse di risparmio americane e crisi dei subprime, ecc. Ma i molteplici sviluppi della crisi finanziaria pesano a loro volta sull'economia che non riesce a uscire da una situazione caratterizzata da una forte disoccupazione, da investimenti produttivi stagnanti e da una produzione industriale complessivamente ferma.

L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE) comincia a usare il termine "grande recessione", ripresa dalla stampa economica, per parlare degli ultimi quattro anni, diciamo dal 2007, inizio della crisi immobiliare statunitense. Le statistiche che pubblica, anche se ufficiali e quindi in gran parte truccate, ritengono che il numero dei disoccupati nei paesi industrializzati appartenenti all'OCSE sia di 44 milioni. Questo rappresentava, nel luglio 2011, l'8,2% della forza lavoro. Significa che, con il tasso di disoccupazione dell'ottobre 2009, è il tasso di disoccupazione più alto dalla fine della seconda guerra mondiale.

Ma si tratta di una media, e la situazione è differente da un paese all'altro, da una classe sociale all'altra. Così, la disoccupazione giovanile tra 15 e 24 anni di età, stimata al 23,4% in Francia e al 20,5% per l'eurozona nel suo complesso, raggiunge il 46,2% in Spagna.

Una nuova crisi bancaria, con un conseguente rallentamento o perfino l'arresto del credito alle imprese, non può che aggravare la situazione.

Molte piccole e medie industrie già lamentano le crescenti difficoltà a ottenere un credito bancario. Ma le conseguenze dell'inizio di crisi di liquidità che ne risulta non si limitano alle piccole e medie imprese. "Le difficoltà delle banche francesi stanno minando i finanziamenti per l'acquisto di aerei" era il titolo di Les Echos del 22 settembre, che affermava che "le difficoltà per rifinanziarsi in dollari hanno già condotto Société Générale e BNP-Paribas a chiudere il rubinetto dei finanziamenti di aerei nella valuta americana. Ma le banche francesi svolgono un ruolo di primo piano nel finanziamento degli acquisti di velivoli". E il giornale insiste: "la crisi finanziaria potrebbe avere un effetto collaterale sulle consegne di aerei. Soprattutto sulle vendite di Airbus". La Airbus tuttavia non è una piccola impresa!

Ma in realtà, se la Airbus è la prima colpita, anche la Boeing e la Bombardier possono esserlo. Probabilmente non a caso la banca centrale americana, che ovviamente non ha alcun motivo di favorire la Airbus nei confronti della Boeing nella competizione globale che si fanno le due ditte, ha però accettato di venire in aiuto alle banche francesi e, in collaborazione con la BCE, di sbloccare un credito in dollari.

L'angoscia del gran capitale... o meglio di quelli che lo possiedono

Pur ciechi e stupidi che siano i mercati, i proprietari del capitale non possono ignorare che la crisi economica, di cui sono i principali fattori di peggioramento, finirà per prosciugare le fonti della loro propria fortuna. Come ha riassunto un redattore di Le Monde del 10 settembre, "le turbolenze finanziarie di luglio e agosto, che hanno fatto cadere le Borse dal 20 al 25%, hanno convinto che troppi tagli nei bilanci statali potrebbero portare sicuramente a un raddoppio della recessione, la cui eventualità terrorizza gli investitori alla pari della prospettiva di un default greco o della fragilità delle banche europee." In conclusione, gli stessi che esigono misure di austerità più draconiane che impoveriscono le classi popolari, e innanzitutto i lavoratori dipendenti, chiedono allo stesso tempo piani di rilancio dell'economia in grado di sostituire i consumi popolari. Ma questa è la quadratura del cerchio!

Durante la crisi cominciata nel 1929, alla fine l'unico modo trovato dalla borghesia per risolvere questa quadratura del cerchio fu di sostituire il consumo popolare in regresso con mezzi statali artificiali: prima con le grandi opere e poi, in Germania e successivamente in tutti i paesi, con una politica di riarmo, con l'industria bellica e infine con la guerra stessa. Per ora non siamo ancora a questo punto. Ma il meccanismo è già presente.

Il giornale Les Echos del 8 settembre rileva che "i dividendi restano alti nonostante la crisi. Gli analisti non si aspettano minori dividendi per il 2011, prevedono anche un nuovo ricavo record di quasi 42 miliardi di euro per l'indice CAC 40 della Borsa di Parigi".

L'economia capitalista è un macchinario per la fabbricazione di plusvalore e quindi di dividendi anche nei peggiori momenti di crisi. Allo stesso tempo, la ricchezza accumulata non viene investita nella produzione. Oltre alla speculazione nelle sue molteplici forme, è di moda per le grandi aziende utilizzare i loro fondi enormi per riacquistare le proprie azioni. Ciò significa al tempo stesso che i dividendi degli azionisti aumenteranno e che questi soldi non saranno investiti nella produzione. Il crescente sfruttamento dei lavoratori, i sacrifici crescenti richiesti alle classi lavoratrici con i piani di austerità, non aprono alcuna prospettiva che la crisi sarà superata e addirittura chiudono una tale prospettiva.

Un'illustrazione quasi aneddotica della follia del sistema e al tempo stesso dell'ignominia di coloro che pretendono gestirlo, è la dichiarazione di dirigenti come Fillon, per cui bisognerebbe ritardare l'età del pensionamento: costringere legalmente i lavoratori a lavorare più a lungo mentre non c'è lavoro per tutti e ci sono ufficialmente tre milioni di disoccupati, in realtà sei milioni se si conteggiano tutte le forme di disoccupazione! Ciò significa non solo che i lavoratori hanno il diritto morale di imporre la tutela del loro posto di lavoro e del loro salario, ma che fermare la dinamica pazzesca dell'economia capitalista è l'interesse vitale di tutta la società.

Schiacciare la condizione operaia per aumentare i dividendi non è soltanto un'ignominia, spinge l'economia verso l'abisso e la società alla decadenza!

L'impotenza dei dirigenti, un riflesso dell'anarchia della loro economia

Questo spiega il panico dei mercati e il panico dei dirigenti politici. Di là dagli aspetti aneddotici puntuali degli sviluppi della crisi, a seguito di una dichiarazione o di qualche notizia, l'intera classe capitalista non si fida più della propria economia.

Secondo gli stessi uomini della borghesia, tutto diventa possibile: dal fallimento degli stati, e non solo della Grecia, all'esplosione di questa zona euro così faticosamente istituita e tanto utile al capitale stesso e al commercio interno europeo.

In quest'atmosfera di panico generale, i pensatori della borghesia litigano su questioni come queste: dobbiamo aiutare lo stato greco a rimborsare il suo debito, un modo ipocrita per dire: dobbiamo aiutare le banche a non perdere troppi soldi? In caso affermativo, fino a quale livello? Dobbiamo ripartire equamente i debiti degli stati, ossia fare in modo che gli stati più ricchi si assumano parte dei debiti degli stati più vulnerabili? E in caso affermativo, come fare? Sarà con l'insediamento del Fondo europeo di stabilità finanziaria, con una garanzia dei prestiti pari a 440 miliardi di euro, già approvato ma non ancora operativo, alimentato dagli stati europei, lo stato tedesco in primo luogo? Oppure bisogna emettere obbligazioni europee, gli "eurobond", come alcuni propongono?

Ma per tutte le soluzioni indicate, ci vuole l'accordo di tutti gli stati dell'Unione europea, o almeno l'accordo di quelli principali, abbastanza potenti da imporre le loro decisioni ai più deboli.

Alle contraddizioni proprie del sistema economico capitalista si aggiungono le contraddizioni tra gli interessi particolari dei vari stati, tutti solidali per salvare le banche, certo, ma tutti desiderosi che sia il vicino ad assumere la maggior parte della zavorra.

I danni della finanza, massima espressione dei danni del capitalismo stesso

Lo sviluppo del settore finanziario non è solo l'espressione del crescente parassitismo della classe capitalista. Spinge fino all'assurdo tutti gli aspetti di un sistema economico già assurdo di per sé. La ferocia della concorrenza, la natura cieca e stupida del mercato come regolatore dell'economia, sono spinti fino all'estremo nel campo finanziario.

A causa del carattere privato dei mezzi di produzione e dei capitali, l'economia capitalista non è mai stata controllabile, anche ai tempi delle ferrovie e della produzione di massa, del fordismo, della lotta tra le potenze imperialiste per allargare le proprie zone d'influenza.

Ma alcuni aspetti della vita economica potevano essere sorvegliati, se non controllati. La circolazione delle merci poteva essere ostacolata da barriere doganali, quote, controlli amministrativi, tante cose che peraltro sono ben lungi dall'essere scomparse con il capitalismo odierno e la globalizzazione.

L'inafferrabilità dei "prodotti finanziari", la velocità con cui possono piazzarsi e spostarsi, la graduale scomparsa della differenza tra investimenti produttivi e investimenti finanziari, hanno aperto prospettive infinite agli aspetti più negativi delle leggi dell'economia capitalista.

Affermare che nessuno controlla i mercati finanziari è diventato una banalità, tanto questo sembra ovvio. Questa mancanza di controllo della borghesia sul funzionamento della propria economia non è apparente solo con la palese impotenza dei prestigiatori che dirigono gli stati. Le riunioni dei G7, G20 o dei ministri dell'economia sembrano brutte commedie da teatro di basso livello in cui le stesse scene si ripetono in modo tanto prevedibile che non fanno più ridere! Ma l'impotenza è quella di una intera classe sociale fino ad includere i suoi cervelli più competenti nel loro campo.

Jean-Pierre Jouyet è uno di questi, che in Francia presiede l'Autorità dei mercati finanziari (AMF), che dovrebbe essere un organismo di regolamentazione. In un recente programma radiofonico, descrivendo l'impotenza a cui è ridotto il sistema, ha dato due indicazioni molto parziali, ma significative. Notando la riluttanza delle grandi banche degli Stati Uniti a concedere prestiti alle grandi banche europee, a rischio di favorire una nuova crisi di liquidità, alzando le braccia al cielo in un gesto d'impotenza, ha sottolineato l'opacità totale dei trasferimenti di denaro tra le due sponde dell'Atlantico. Tuttavia, ha aggiunto, più della metà di queste transazioni passa attraverso cinque o sei grandi banche degli Stati Uniti! Insistendo sull'impossibilità di ogni regolamentazione, ha ricordato che tre quarti delle transazioni del sistema borsistico sono l'opera di computer e sono automatizzate. Lo scopo di questa automatizzazione è ovviamente di approfittare di infime differenze dei prezzi delle azioni nelle varie piazze borsistiche per potere giocare ingenti somme durante un lasso di tempo più breve possibile. Ha affermato di aver proposto in un recente rapporto di frenare in qualche modo i computer, in tal modo che una transazione in Borsa richieda al minimo un secondo... Questa è la più audace proposta di regolamentazione dei mercati finanziari di cui è responsabile!

Questa economia è davvero in una crisi di follia furiosa!

La "grande recessione", di cui nessun segno indica la fine è già uno spreco enorme. Quarantaquattro milioni di disoccupati registrati ufficialmente solo nei paesi OCSE, è la forza lavoro di un grande paese. Sono altrettante forze produttive di cui la società si priva, pur aumentando sempre più l'impoverimento dei lavoratori colpiti dalla disoccupazione.

Una economia di spreco

Sono uno spreco anche i miliardi persi nelle operazioni finanziarie. E non c'è niente di confortante nel sapere che una parte dei più di 5500 miliardi persi negli ultimi crolli borsistici è fittizia. Questi miliardi scomparsi, come i miliardi guadagnati da alcuni - perché non bisogna mai dimenticare che anche un crollo del mercato azionario può essere una fonte di arricchimento per quelli capitalisti che hanno scommesso su questa evoluzione al ribasso-, risultano dal lavoro umano, dallo sfruttamento, ma anche dai bisogni insoddisfatti, perché quelli che li potrebbero soddisfare sono rimasti senza lavoro.

Quindi l'unica questione valida per i lavoratori non è immaginare soluzioni che possano consentire all'economia capitalista di uscire dalla stagnazione, soluzioni che le migliori teste pensanti della classe privilegiata sono incapaci di trovare. La questione è di proteggere le loro condizioni d'esistenza contro i danni materiali e morali della crisi, senza occuparsi della pletora di "soluzioni" proposte dalla borghesia in funzione delle circostanze.

La crisi stessa e tutte le sue conseguenze per il mondo del lavoro, così come tutte le politiche di austerità perseguite dagli stati, fanno parte della lotta di classe, ma di una lotta di classe fatta in questo momento esclusivamente dalla classe privilegiata per salvaguardare i propri privilegi.

La situazione non può essere risolta che dalla lotta di classe, condotta questa volta dagli stessi sfruttati contro i loro sfruttatori.

Nessuno può prevedere come comincerà la mobilitazione della classe operaia. Tutto quello che possiamo dire è che è necessaria e che questa necessità diventerà sempre più impellente con l'aggravarsi della crisi.

Attraverso la lotta per le sue condizioni di vita la classe operaia può essere portata alla consapevolezza che l'organizzazione capitalistica va distrutta da cima a fondo, che la borghesia va espropriata e l'economia riorganizzata su basi più razionali, pianificata, sotto il controllo democratico della popolazione.

È in questi periodi in cui l'economia capitalista mostra, non solo la sua ingiustizia, che è permanente, ma anche la sua irrazionalità e il suo costo umano e materiale per la società, che bisogna difendere le idee comuniste, propagarle, in tal modo che quando sarà il momento, per parafrasare Marx, le masse se ne impadroniscano e ne facciano una forza trainante.

23 settembre 2011