La crisi dell'economia capitalista

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5 novembre 2010

(testo votato dal 40° congresso di Lutte Ouvrière - da "Lutte de Classe n° 132, dicembre 2010 - gennaio 2011)

La rapida reazione degli stati imperialisti dopo la crisi bancaria prodotta il 15 settembre del 2008 dal fallimento della banca Lehman Brothers, una delle maggiori banche d'affari degli Stati Uniti, lo stanziamento di somme colossali messe a disposizione delle banche -dell'ordine di 3 mila miliardi di euro- i prestiti quasi gratuiti delle banche centrali alle altre banche, hanno evitato che la grave crisi di fiducia tra le banche portasse al crollo del sistema bancario mondiale. Quest'ultimo ha ripreso a funzionare, e anche la speculazione, e ciò che le banche chiamano "crisi di sistema" è stato evitato. Ma i mezzi utilizzati per uscire da questa fase della crisi finanziaria hanno creato gli elementi di una nuova fase che si sta aggravando.

Le somme enormi immesse nel sistema bancario nel 2008 sotto le forme più diverse hanno ancora amplificato la creazione monetaria a livello mondiale. Niente che i soli interventi dei governi europei sono stati pari a circa 1800 miliardi di euro, ossia il 14% del Pil europeo. Mentre l'insieme delle monete e dei crediti aumentava già dall'inizio degli anni 2000 dal 13 al 15% all'anno, cioè di un tasso sproporzionato rispetto all'evoluzione della produzione che rimaneva ferma, questo tasso è ancora salito nella seconda metà del 2008 per arrivare al 30% a ritmo annuale.

Le liquidità mondiali, che nel 1988 rappresentavano in valore un po' più dell'8% del Pil mondiale, hanno raggiunto dall'inizio del 2009 un po' più del 18% di questo stesso Pil. La finanziarizzazione dell'economia ha fatto un importante passo in più.

La crescita dell'indebitamento degli Stati

Un'altra conseguenza dei miliardi stanziati per salvare il sistema bancario è stata l'enorme crescita dell'indebitamento degli stati e li riguarda nella loro totalità, senza eccezione alcuna.

Il debito pubblico francese ha raggiunto, al primo semestre del 2010, 1535 miliardi di euro, ossia l'80,3% del prodotto interno lordo (nel 2008 questa cifra era solo il 67% del Pil). In Germania era, nel 2009, del 73,2%; negli Stati Uniti dell'85%; del 96,7% in Belgio e del 115% in Italia).

Il debito pubblico è tanto vecchio quanto le istituzioni statali. Da sempre ha avuto una parte importante nei profitti della borghesia.

La sua crescita repentina, conseguenza delle spese statali nel 2008-2009 per salvare il sistema bancario ed aiutare le grandi imprese, consegue da una doppia necessità: quella per i sistemi statali di accendere prestiti per far fronte alle scadenze, e quella della finanza di investire i suoi capitali.

Ciò che per gli Stati è un debito, è una fonte di redditi per le banche. La gestione del debito sovrano è uno degli aspetti maggiori della loro attività, e gli interessi pagati su questo debito sono una fonte di redditi che si autoalimenta. Anche per pagare le scadenze del debito i governi sono costretti a prendere prestiti.

Nel bilancio previsionale francese per il 2011, il rimborso del debito è diventato la prima voce di spesa, superando la pubblica istruzione. I soli interessi, cioè la contribuzione dello Stato ai benefici delle banche, rappresentavano - nel 2009 - 43 miliardi di euro. È una somma dello stesso ordine del disavanzo annunciato delle casse pensionistiche nel 2018. Questa somma, che rappresenta solo una piccola percentuale del denaro che va dalle casse dello Stato alle casseforti dei capitalisti privati, basterebbe quindi ad equilibrare le casse pensionistiche sulla base del loro funzionamento attuale, senza dover posticipare l'età del pensionamento, né aumentare il numero degli anni di contributi.

Il cosiddetto mercato del "debito sovrano", cioè il mercato sul quale si comprano e si vendono i titoli che rappresentano i debiti degli Stati (Buoni del Tesoro, obbligazioni di Stato, ecc.) è diventato uno dei rari mercati in rapida espansione. Questo mercato, sul quale una ventina di grandi banche d'affari che agiscono per il proprio conto e per quello dei gruppi finanziari rappresentano la domanda, è un mercato altamente speculativo. La speculazione consiste nello scommettere sulla capacità degli Stati che prendono prestiti di rispettare le scadenze del loro debito, e nello stabilire il tasso d'interesse da pagare in funzione di questa scommessa.

Quest'anno la cosiddetta crisi "greca" lo ha illustrato. Il mercato, cioè le grandi banche d'affari responsabili del lancio dei prestiti, stimando che lo Stato greco difficilmente potrà far fronte alle sue scadenze, ha imposto tassi d'interesse usurari, aumentando così gli oneri del debito. Era un modo di costringere la popolazione greca ad aumentare ancora il suo contributo ai benefici del sistema bancario, rappresentato in questo paese per l'essenziale da banche occidentali, innanzi tutto francesi: Crédit Agricole, BNP-Paribas e Société Générale.

Il fatto che i vari paesi della zona euro, anche se dispongono di una stessa moneta, pagano i loro prestiti a tassi diversi, suscita forti tensioni tra questi paesi. Al momento più alto della "crisi greca", la Grecia poteva prendere prestiti solo a tassi usurari girando intorno al 12%, mentre al tempo stesso lo Stato tedesco prendeva prestiti a tassi intorno al 2,6%.

Il debito sovrano è diventato il veicolo di una potente forza centrifuga che, nei mesi d'aprile e maggio di quest'anno, ha minacciato di trasformarsi in una crisi dell'eurozona, o addirittura dell'Unione europea stessa. Comunque, ha fatto esplodere il patto di stabilità iscritto nel trattato di Maastricht.

Questo trattato è stato uno dei compromessi stipulati tra gli stati a interessi diversi che costellano la storia di ciò che le borghesie chiamano la "costruzione europea". Spinte da potenti necessità economiche, data l'interdipendenza delle economie nazionali europee -e in realtà, mondiali- le borghesie europee sono al tempo stesso incapaci di costituirsi in un insieme politico unico, in una federazione europea e di assemblare il mosaico di Stati che costituisce l'Unione europea.

Certamente, c'è una moneta unica -anche se in solo 16 paesi su 27-, ma non lo Stato unico che potrebbe sostenerla al fine di creare sia una politica monetaria unica che una politica fiscale coordinata.

Il trattato di Maastricht con i suoi criteri - una specie di regolamento condominiale- è segnato innanzitutto dalla preoccupazione dei comproprietari più agiati di non dover pagare gli oneri dei proprietari considerati come insolvibili. Gli Stati più ricchi della zona euro, la Germania in particolare, rifiutavano in anticipo di dover pagare per il disavanzo di Stati più poveri. Condividere la stessa moneta sì, ma ognuno per sé, senza responsabilità collettiva e senza solidarietà. Da cui le condizioni imposte per l'adesione di un paese: un indebitamento inferiore al 60% del Pil e un bilancio il cui disavanzo non superi il 3%.

Questo regolamento è stato spazzato via dall'esplodere del debito pubblico. Non c'è più, nell'eurozona, un solo Stato il cui indebitamento sia inferiore al 60% del Pil, e neanche uno solo il cui bilancio sia equilibrato. Il disavanzo del bilancio dello Stato francese, per esempio, quest'anno supererà l'8,2% del Pil, ben lungi dal 3% autorizzato da Maastricht, e il suo indebitamento con l'80,3% del Pil è da paragonare al 60% prescritto dagli stessi criteri.

Davanti alla minaccia di fallimento dello Stato greco, suscettibile di provocare per gli Stati le stesse reazioni a catena che hanno seguito il fallimento della banca Lehman Brothers, i dirigenti degli Stati più ricchi d'Europa, la Germania in particolare, hanno dovuto però, nonostante le loro riluttanze a pagare, agire subito con un piano di salvataggio finalizzato il 2 maggio 2010.

Hanno finito col mettersi d'accordo per sbloccare, in collaborazione con l'FMI (fondo monetario internazionale) la somma di 110 miliardi per la Grecia e istituire un "fondo europeo di stabilizzazione finanziaria" di 750 miliardi di euro, casomai seguissero, dopo la Grecia, il Portogallo, l'Irlanda, la Spagna e, perché no, l'Italia.

Lo Stato greco ha evitato il fallimento, e le banche la minaccia che i loro prestiti vadano in fumo. Anche lì, la quantità di moneta in circolazione è aumentata, la finanziarizzazione si è aggravata e sopratutto la popolazione greca deve pagare il salvataggio delle banche che operano nel paese con un piano di austerità drastico.

L'indebitamento degli Stati è tale che, anche in caso di uscita dalla crisi -ne siamo ben lontani- ci vorrebbero anni per un ritorno all'equilibrio dei bilanci. Gli Stati quindi sono sempre più incatenati al mercato finanziario, anche solo per assicurare le loro spese di funzionamento.

Lo Stato francese è costretto a prendere prestiti per più di un miliardo al giorno -400 miliardi all'anno! Per far fronte alle sue spese. Ma più accende prestiti, più accresce le proprie spese a causa del pagamento di interessi per le somme prese in prestito.

In questa maniera e a differenti livelli, tutti gli Stati si sono messi il cappio al collo del debito pubblico.

Gli Stati sotto la sorveglianza delle grandi banche

Tutti gli Stati sono sotto la sorveglianza di una ventina di grandi banche d'affari che costituiscono il mercato finanziario e di poche grandi agenzie di valutazione che rappresentano in realtà gli stessi interessi.

Il semplice fatto di non intraprendere delle politiche di austerità, cioè di non essere capaci di imporre alla propria popolazione misure economiche relative ai servizi pubblici, ai salari degli statali e al loro numero, basta perché la valutazione di uno stato sia degradata e si traduca con un tasso d'interesse più alto per le somme prese in prestito. Solo gli Stati Uniti sfuggono, ma non completamente, a questa pressione perché - seppure la specificità di avere come moneta nazionale la valuta mondiale non evita loro la diffidenza dei mercati di capitali - sono nella situazione di poter far pagare le conseguenze di questa diffidenza alle altre economie.

Così si chiude il cerchio. Per aiutare i banchieri, gli Stati si sono indebitati. Il debito stesso dà mezzi supplementari alle grandi banche per vincolare gli Stati. La politica di austerità fatta da tutti gli Stati senza eccezione deriva dalla pressione del gran capitale.

Pur diverse che siano queste politiche di austerità da un paese all'altro, in funzione della ricchezza della loro economia, della capacità del loro governo di imporre misure più o meno drastiche, hanno dappertutto lo stesso contenuto di classe: liberare una parte crescente delle casse pubbliche per metterle a disposizione della classe dominante. Uno dei modi per riuscirci consiste nel ridurre le tasse della borghesia. Così in Francia gli sgravi, le diminuzioni di oneri e i vari privilegi fiscali si traducono con un mancato profitto dell'ordine di cento miliardi di euro per il bilancio. Ma la scelta di diminuire la tassazione della borghesia significa che le politiche di austerità sopravviveranno alla crisi.

L'importante crescita della massa monetaria mondiale e la necessità imperiosa per i suoi possessori di piazzarla, portano quasi meccanicamente ad ondate speculative. Anche se schiere di economisti della borghesia hanno analizzato le cause della crisi finanziaria del 2008, anche se tutti hanno puntato la responsabilità della speculazione e del formarsi di bolle speculative, appena superata la crisi di fiducia tra le banche, la speculazione è ricominciata al massimo!

Nuove bolle speculative si stanno formando. "L'impennata dell'oro fa temere la formazione di una bolla speculativa" (Les Echos). "Il timore di bolle obbligazioniste torna a galla" (Les Echos, 9 settembre 2010). "L'impennata del cotone fa soffrire i professionisti del tessile-abbigliamento" (Les Echos 23 agosto 2010). I titoli della stampa specializzata sono significativi dei movimenti finanziari che passano da un prodotto finanziario ad un altro, da una materia prima ad un'altra.

Le carestie della speculazione

Come nel 2008, uno degli aspetti più odiosi della speculazione è che si riflette sui prodotti alimentari e ha preso proporzioni che annunciano catastrofi.

Il corso dei prezzi delle materie prime ha toccato i vertici durante la primavera del 2008. Da quel momento i prezzi hanno sicuramente conosciuto un ribasso, senza mai però tornare a quelli del periodo precedente. Il potere d'acquisto delle popolazioni nei paesi poveri si è quindi ridotto considerevolmente dal 2008. Ma, dalla primavera del 2010, le materie prime alimentari hanno di nuovo conosciuto un aumento catastrofico dei prezzi: dal 60 al l'80% per il grano, il 40% per il granoturco, il 30% per lo zucchero, e il 33% per il riso nel giro di tre mesi.

Se alcuni elementi tecnici o climatici e ambientali spiegano in parte questo aumento, il fattore fondamentale è la speculazione finanziaria. Infatti nonostante i grandi incendi che hanno sconvolto la Russia - con le loro conseguenze per l'agricoltura - le raccolte e le riserve di cereali non sono basse. La domanda mondiale rimane stabile. L'aumento dei prezzi non corrisponde affatto ad una difficoltà nella produzione o gli scambi. È dovuto in particolare all'arrivo sul mercato finanziario internazionale di nuove masse di capitali.

Nell'autunno del 2010, un fondo speculativo ha potuto riacquistare in meno di una settimana il 7% della produzione mondiale di cacao per un miliardo di dollari, con l'unico obiettivo di provocare un aumento del corso della materia prima e di intascare un beneficio sostanzioso.

Secondo un rapporto della FAO (organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura) solo il 2% delle operazioni a termine sul mercato delle materie prime si chiudono con effettivi scambi di merci.

Tutta questa attività finanziaria ha un costo catastrofico per le popolazioni. I prezzi alimentari aumentano qualche volta in modo esplosivo, come nel Mozambico dove, in settembre, il grano ha subito un aumento del 25%, così insopportabile per le popolazioni da provocare rivolte della fame. Nel Camerun in questo momento si parla di gpenuria silenziosah. Sui mercati locali non si trovano più bombole di gas, pesce, zucchero. E quando se ne trovano, i prezzi sono allucinanti. Per mancanza di carne o di pesce i consumatori si ripiegano sul njama njama (varietà di verdura) passato da 50 franchi Cfa (moneta della Comunità Finanziaria d'Africa, l'euro è pari a 656 Cfa) a 150. In Costa d'Avorio, la bottiglia di 90 cl. d'olio di palma è passata da 600 franchi cfa a 900 in questo momento. L'impennata dei prezzi riguarda il latte in polvere, le uova, le patate. L'igname rimane troppo costoso, per non parlare della carne.

Complessivamente, dal 2008, si stima che il numero delle persone in pericolo a causa della malnutrizione è passato da 850 milioni a circa un miliardo. Questo è il risultato quasi matematico della speculazione finanziaria.

L'unica differenza con il periodo 2007-2008 è che la speculazione riguarda somme di denaro ancora accresciute dalla creazione monetaria degli anni 2008-2009.

Le bolle finanziarie erratiche si sostituiscono all'inflazione galoppante

Contrariamente ai timori degli ambienti finanziari, o addirittura dei dirigenti politici delle grandi potenze imperialiste, l'utilizzo sfrenato dell'emissione monetaria non si è tradotto, o non ancora, con il ritorno alla forte inflazione degli anni settanta.

La crisi dell'economia produttiva stessa è un elemento essenziale per spiegare perché la creazione massiccia di moneta non si traduce con un'inflazione massiccia. Le crisi economiche nell'economia capitalista si sono tradotte, in un passato più lontano e fino alla crisi del 1929, non solo con la crescita della disoccupazione, la chiusure di fabbriche e il ribasso del tasso di profitto, ma anche con il crollo dei prezzi. In generale è quando comincia la ripresa, con una crescita della domanda a cui l'offerta è incapace di rispondere rapidamente, che i prezzi tendono ad aumentare e l'inflazione a sistemarsi. L'economia dei grandi paesi imperialisti non è oggi in questa situazione. Le capacità di produzione sono in gran parte sottoutilizzate. La disoccupazione pesa sui salari. "Lo scenario dell'iperinflazione non avrà basi finché il mondo sarà in situazione di sottoccupazione, cioè per molto tempo" afferma l'economista Jean Arthuis, e aggiunge :"l'unica fonte d'inflazione è stata alla fine l'andirivieni registrato sui prezzi di alcune materie prime, a cominciare dal petrolio".

In più, tutto si svolge come se l'economia fosse a compartimenti stagni e la massa monetaria supplementare, risultando da una grande emissione di moneta, fosse completamente assorbita dal sistema finanziario stesso. In qualche modo, serve ai pochi finanziari per dedicarsi al gigantesco gioco di monopoli della speculazione, a latere dell'economia reale. Per spiegare questa compartimentazione, non c'è soltanto l'attrazione verso la sfera finanziaria stessa, sarebbe a dire il profitto che fruttano i capitali così piazzati. Il sistema bancario stesso vi contribuisce in gran parte. La politica di credito delle banche, favorendo alcuni tipi di credito o sfavorendone altri, assume il ruolo di scalo di smistamento. È significativo che, nonostante le enormi quantità di liquidità, il credito al consumo in Francia abbia registrato nel 2009 un arretramento storico.

La Banca centrale americana, la Fed, ha deciso recentemente, come piano di rilancio, di iniettare di nuovo 600 miliardi nell'economia riacquistando buoni del Tesoro americano. Ma questa somma enorme non sarà investita nelle imprese americane o nella produzione reale, perché i mercati non si allargano. L'essenziale di questi 600 miliardi saranno orientati dalle banche stesse, verso gli investimenti redditizi esistenti. Già i cosiddetti paesi emergenti si affermano vittime di un flusso di valute e temono sobbalzi speculativi sulla loro moneta o sulle materie prime, il petrolio in particolare o i prodotti alimentari.

Dando la precedenza ai crediti che, per un tramite o un altro, permettono investimenti speculativi, il sistema bancario non solo favorisce questi ultimi ma li amplifica. E poiché gli speculatori sono prudenti al massimo, la politica di credito del sistema bancario favorisce gli entusiasmi per questo o quel tipo di investimento, cioè per il formarsi di bolle speculative con forte minaccia di crac. All'inflazione si sostituisce in qualche modo il formarsi di bolle che si spostano da un prodotto finanziario ad un altro, da una materia prima ad un'altra.

La combinazione di questi fattori ha fatto sì che l'inflazione a livello mondiale possa essere stimata all'1% circa, per quanto questa cifra, risultando da un calcolo sull'insieme delle monete delle grandi potenze imperialiste, possa avere un qualche senso. Ma l'inflazione così misurata sarebbe quella più bassa conosciuta dall'economia mondiale dal 1945.

Questo non impedisce affatto gli aumenti dei prezzi, particolarmente per i prodotti o servizi che riguardano i lavoratori, come testimoniano in Francia in più degli alti e bassi del prezzo del petrolio, gli aumenti dei prezzi degli affitti o del gas e dell'elettricità.

Il mondo finanziario non è un mondo a parte, sconnesso dall'economia produttiva. È la stessa economia. I profitti finanziari in fin dei conti vengono dal plusvalore, che viene spartito tra i settori produttivi e il settore finanziario. La crescita della parte del settore finanziario, conseguenza del ristagno o addirittura del regresso degli investimenti produttivi, ne diventa così un fattore aggravante.

D'altra parte, l'aumento considerevole, nel bilancio delle banche, dei titoli che rappresentano debiti sovrani e le qualità molto diverse di questi titoli, in funzione della credibilità dello Stato che li ha emessi, fanno pesare di nuovo sul sistema bancario la minaccia di una crisi di fiducia. Da oggi e questa volta a causa della quantità di cattivi debiti statali, si delinea la situazione aberrante creatasi durante la crisi di liquidità del 2008: nonostante la quantità colossale di liquidità che le banche detengono, la loro circolazione è rallentata sul mercato interbancario. Ora la vita economica quotidiana è scandita da una miriade di operazioni, di prestiti, di crediti. Se il flusso finanziario si ferma, tutta l'economia è paralizzata come ha rischiato di esserlo dopo la bancarotta della banca Lehman Brothers.

Una delle speculazioni che si producono sulle somme più importanti è quella sulle monete. 4000 miliardi di dollari si scambiano ogni giorno sul mercato dei cambi, sessanta volte l'ammontare quotidiano del commercio internazionale, secondo la Banca dei pagamenti internazionali. Tale speculazione è inerente al sistema monetario mondiale attuale, con le fluttuazioni incessanti delle grandi monete le une rispetto alle altre.

In una certa misura, l'euro ha risolto il problema per i paesi europei che appartengono all'eurozona. Ma esso stesso è fluttuante rispetto al dollaro, allo yen, allo yuan, e anche rispetto ad altre monete europee che non fanno parte dell'eurozona, la sterlina, il franco svizzero ed alcune altre.

Ogni evoluzione prevedibile o anticipata del tasso di cambio di una moneta rispetto ad un'altra scatena inevitabilmente spostamenti di importanti somme di denaro.

La quantità di valute che si spostano, sia per essere piazzate nei paesi dove la situazione economica sembra momentaneamente buona (Brasile o Cina), sia per mettersi al riparo, sia per motivi puramente speculativi, porta ad una volatilità dei cambi che pesa sul commercio internazionale.

Nonostante il moltiplicarsi delle riunioni al vertice, dal G8 al G20, e malgrado che il FMI (Fondo Mondiale Internazionale) si concentri durante l'assemblea annuale sul "riassorbimento del disordine monetario attuale", tutte queste riunioni non arrivano a niente. Tutte le grandi potenze si lamentano di questo disordine, ma le loro soluzioni sono diverse fra di loro e anche contraddittorie. Tutto questo perché le variazioni delle valute le une rispetto alle altre non sono solo conseguenze della speculazione, anche se questa le amplifica.

La politica monetaria degli Stati fa della moneta un mezzo protezionista, o addirittura un'arma economica della guerra commerciale che si fanno le grandi potenze.

Il tasso di cambio, un'arma protezionista

Per rilanciare la loro economia, gli Stati Uniti conducono all'interno del paese una politica inflazionista di denaro facile e di indebitamento, e verso l'estero una politica del dollaro debole in grado di favorire le esportazioni di merci americane sul mercato internazionale. Ma pur facendo tale politica protezionista, cercano di fare pressione sulla Cina per impedirle di comportarsi allo stesso modo.

Gli Stati Uniti pretendono che in molti settori la Cina inonda il mercato mondiale dei suoi articoli a buon mercato a causa di un tasso di cambio troppo basso della moneta nazionale, lo yuan. Si tratta di una doppia ipocrisia. Entrando nel merito, questo significa trascurare lo sfruttamento feroce della classe operaia cinese, i bassi salari e le condizioni di lavoro indescrivibili che riducono i costi di produzione in Cina. Questi costi così schiacciati dal sovrasfruttamento degli operai cinesi favoriscono innanzitutto i gruppi industriali occidentali e giapponesi, senza parlare di Taiwan, di Hong Kong o di Singapore, che fanno avanzare la produzione in Cina per il mercato internazionale. Per non parlare delle grandi catene di distribuzione e in particolare americane come la Wal Mart. Inoltre gli Stati Uniti formulano queste critiche proprio mentre essi stessi conducono la politica della svalutazione del dollaro.

Senza avere ancora ottenuto una rivalutazione dello yuan all'altezza delle loro esigenze, gli Stati uniti hanno già ottenuto che non sia più legato al dollaro. Dal giugno 2010 lo yuan si è apprezzato del 2,2%. Ma questo non è sufficiente per i dirigenti americani.

La stampa a sensazione descrive come un'espressione del potenziamento della Cina nei confronti degli Stati Uniti il fatto che la Banca centrale cinese detiene il corrispettivo di 2600 miliardi di dollari, di cui la maggior parte in moneta o obbligazioni americane -la più importante riserva di dollari nel mondo fuori dagli Stati Uniti. È però una presentazione tendenziosa. I dollari detenuti dalla Cina la rendono più dipendente dagli Stati Uniti che non il contrario. Essendo gli Stati Uniti i padroni dell'emissione dei dollari, hanno tutte le possibilità di trasferire la loro inflazione agli altri paesi del mondo, fra i quali la Cina.

In altri termini ogni svalutazione del dollaro, volontaria o meno, erode le riserve accumulate dalla Cina che non ha neppure la possibilità di scambiarle contro qualche altra valuta senza gravi danni per la sua economia.

Se è vero che le relazioni tra la Cina egli Stati Uniti sono di dipendenza reciproca, la Cina è più vulnerabile sul mercato mondiale degli Stati Uniti che continuano a dominarlo.

In questa guerra delle monete, le potenze imperialiste di seconda fila dell'eurozona sono sfavorite. Il dollaro, come d'altra parte lo yuan, sono basati su uno Stato nazionale unico capace di fare una politica monetaria. Gli Stati Uniti per esempio, in questo momento, fanno emissione monetaria tramite il riacquisto di buoni del Tesoro americano, cioè di documenti che rappresentano il loro debito. Questo ha il doppio vantaggio, da un lato di ridurre il loro debito e d'altra parte di indebolire il dollaro e così di favorire le loro esportazioni.

L'Europa, più precisamente l'eurozona, non ha la stessa possibilità. Per permettere alla Banca centrale europea di fare un'emissione monetaria simile ci vorrebbe un accordo tra i sedici paesi dell'eurozona e più particolarmente tra i due paesi imperialisti che la dominano, Germania e Francia. Ma questi due paesi non hanno gli stessi interessi. A causa della struttura delle sue esportazioni la Germania regge meglio della Francia, e a maggior ragione dell'Italia e della Spagna, attraverso il rafforzamento dell'euro.

L'instabilità finanziaria dal 2008 è stata portata a vette senza precedenti. Alle operazioni finanziarie febbrili succedono bruschi rallentamenti in cui il mondo, anche se inondato di monete, si ritrova sull'orlo della crisi di liquidità. La speculazione sui cambi, uno degli elementi dell'instabilità finanziaria, la aumenta a sua volta.

Sarkozy parla della necessità di un nuovo ordine monetario mondiale, ma sono solo parole. Dato il disaccordo negli interessi nazionali, non sarà per domani un nuovo ordine monetario internazionale paragonabile a quello istituito nel 1944 a Bretton-Woods. Infatti fu possibile di istituire questo nuovo ordine solo perché a quell'epoca gli Stati Uniti erano l'unica grande potenza capace di mettere tutti d'accordo e di imporre la propria volontà. Oggi, anche se essi rimangono la potenza economica dominante, non sono più nello stesso rapporto di forza, cioè non hanno la possibilità di imporre un sistema monetario internazionale corrispondente ai loro interessi, o più precisamente di consolidarlo giuridicamente. E questo a causa del fatto che comunque, nei fatti, sono loro che impongono la loro legge, ma lo fanno tramite scontri e anarchia.

Lo stesso si può dire dei tentativi di regolazione o di regolamentazione del sistema finanziario. Nonostante il fallimento di un certo numero di riunioni internazionali dedicate a questo problema (Basilea 1, Basilea 2) non è impossibile che l'attività bancaria alla fine sia un po' più regolamentata.

Bisogna ricordare che in passato, tra l'altro durante il periodo della guerra o in seguito alla crisi del 1929, gli Stati sono intervenuti per imporre ai capitalisti, nel loro stesso interesse, un certo numero di regole. Ma questo non ha impedito al capitalismo di rimanere capitalismo, e alle crisi capitaliste di prodursi lo stesso !

Prima del periodo di deregolamentazione degli anni Reagan e Thatcher, l'attività bancaria era regolamentata, tra le altre cose, dalla separazione tra le banche d'affari e le banche di deposito, ed era strettamente riservata alle banche. Solo dopo il periodo di deregolamentazione degli anni ottanta le attività bancarie sono state aperte alle assicurazioni e perfino alle imprese industriali. Di più, finché è esistito un controllo dei cambi nei paesi imperialisti, dava allo Stato che lo praticava una possibilità di controllare gli spostamenti di capitali.

Per ora le grandi riunioni ecumeniche internazionali non sono riuscite a inventare, come tipo di regolamentazione, che l'idea di imporre alle banche il mantenimento in riserva di una percentuale più alta di fondi propri.

Non è impossibile però che gli sforzi di regolamentazione si spingano più avanti. Certamente non sarebbe la prima volta che lo Stato, rappresentante degli interessi generali della borghesia, sia costretto ad intervenire per proteggere gli interessi generali della stessa contro gli interessi privati dei borghesi.

L'imballarsi anarchico del periodo di boom che precedette la crisi del 1929 fu seguito da diverse regolamentazioni. Quelle che si sono imposte durante la Grande Depressione per salvare il grande capitale erano però il fatto di Stati nazionali e si integravano in una politica protezionista e di ripiegamenti nazionali. Le regolamentazioni erano adatte agli interessi e alle specificità di ogni borghesia imperialista. Hanno preso forme diverse negli Stati Uniti di Roosevelt e nella Germania nazista.

Oggi il problema, almeno allo stadio attuale della crisi, è però di evitare i ripiegamenti nazionali. Il 1929 ha dimostrato che questi ripiegamenti dietro le barriere protezionistiche, l'autarchia più o meno accentuata, hanno aggravato la crisi. Ma inquadrare il sistema bancario, elaborare regole di funzionamento su scala internazionale necessitano di un governo mondiale, che non esiste. Ogni accordo deve avere il consenso almeno delle grandi potenze economiche.

La crisi finanziaria del 2008-2009 è stata solo il più recente scossone della crisi economica. Conseguenza della crisi dell'economia produttiva, la crisi finanziaria ne è anche un fattore aggravante. La storia economica si ricorda della crisi del 1929 e della Grande Depressione che la seguì -dal 1929 al 1932 la produzione industriale mondiale diminuì del 40%- ma è più difficile misurare le conseguenze della crisi del 2008-2009 sulla produzione.

Ma la questione si pone davvero in questo modo? Davvero, l'economia sta evitando l'equivalente della Grande Depressione?

La perfusione finanziaria non guarisce l'economia : prolunga la sua agonia

Così come l'abbiamo ricordato nel testo preparatorio al congresso del 2008 : "Ciò che distingue la crisi finanziaria attuale dalle crisi finanziarie precedenti è la sua gravità, la sua estensione mondiale e il fatto di avere fatto traballare il sistema bancario mondiale nel suo complesso.

"Questa frequenza delle crisi finanziarie o borsistiche più o meno gravi con più o meno ripercussioni sulla produzione è di per sé il segno che la crisi attuale non è il semplice risultato di un ciclo isolato. È in realtà la fase acuta di una lunga crisi strisciante incominciata all'inizio degli anni 1970 che si è palesata prima con una crisi del sistema monetario, per proseguire con il primo urto petrolifero nel 1973 prima di portare nel 1974-1975 ad una prima crisi di sovrapproduzione e ad un riflusso della produzione in tutti i paesi industriali. Per la prima volta dalla fine della guerra mondiale una recessione che si propagava su scala del pianeta dimostrava che le capacità di produzione si scontravano con i limiti del mercato solvibile." (...)

" Dalla recessione del 1974-1975 l'economia capitalista ha vissuto parecchi periodi di espansione che si sono alternati con le recessioni. Ma non ha più mai ritrovato il livello di crescita del periodo precedente. L'economia capitalista mondiale non è mai uscita dalla sua lunga crisi strisciante".

"La classe capitalista ha ritrovato verso l'inizio degli anni 1990 il livello di profitto di prima della crisi. Ma non c'è arrivata grazie ad un nuovo dinamismo o a nuovi allargamenti del mercato solvibile che avrebbero portato a nuovi investimenti produttivi. Ma grazie alla guerra contro la classe operaia, aggravando lo sfruttamento, bloccando i salari, intensificando il ritmo del lavoro e sfruttando la paura della disoccupazione per ridurre in modo drastico la parte dei salariati nel reddito nazionale di ogni paese. In Francia, nelle imprese in complesso, la parte dei salari lordi - compresi gli oneri sociali dei datori di lavoro - si è fortemente ridotta passando dal 73,2% nel 1982 al 63,4% nel 1998.

"Ma - segno distintivo di questo lungo periodo di decadenza del capitalismo - anche quando c'è stato di nuovo un forte tasso del profitto i capitali non sono stati attratti dagli investimenti produttivi, ma sempre più dagli investimenti finanziari. Tale evoluzione e le sue molteplici conseguenze, che possiamo riassumere nell'espressione "finanziarizzazione crescente dell'economia", disegnano la fisionomia del funzionamento attuale dell'economia capitalista. Essa ha riunito tutti gli ingredienti della crisi finanziaria attuale."

Il vanto dei dirigenti dell'economia e della politica è di aver evitato ciò che si produsse dopo il crac del «lunedì nero» e poi del «giovedì nero» dell'ottobre 1929, quando il crollo dei valori borsistici, portando ad una crisi bancaria, fece sprofondare l'economia nella Grande depressione che fu superata solo dopo la guerra. Ma la storia non si ripete mai in maniera identica. Niente dice che si eviterà questa grande depressione, anche se prenderà un'altra forma. In realtà è già cominciata, e dall'inizio degli anni settanta !

Nel 2008-2009, l'economia mondiale ha vissuto la sua più forte recessione dalla seconda guerra mondiale. Il Pil mondiale, che è aumentato del 4% all'anno tra il 1997 e il 2007, ha rallentato nel 2008 per ritrovarsi allo 0,6% nel 2009. Ricordiamo qui il carattere fallace di questa crescita così come peraltro della nozione stessa di Pil. Il movimento al ribasso è però significativo. A titolo di paragone il regresso del Pil nel mondo durante la Grande Depressione degli anni trenta fu stimato al -3% nel 1930, -4% nel 1931, -4% nel 1932. Ma la cifra relativamente modesta del regresso del Pil riflette male l'importanza della crisi. Più significativi sono gli indici della produzione industriale: secondo l'Ocse (Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico) il ribasso al livello mondiale è del 13% (12% negli Stati Uniti).

La Francia, da parte sua, ha vissuto la recessione più importante dal dopoguerra, con un regresso del 2,6% del Pil e una produzione manifatturiera in calo del 12%. L'investimento delle imprese, già molto basso, è calato dell'8%. È se c'è stato un nuovo aumento della produzione industriale dopo l'estate 2009, la tendenza si è di nuovo rovesciata senza che il livello di produzione fosse riuscito a raggiungere quello di prima della crisi. Lo testimoniano le capacità di produzione che sono utilizzate solo al 75% nell'industria manifatturiera.

Secondo le previsioni Ocse per il 2011 la crescita nei paesi del G-7 potrebbe cadere all'1,5%. Negli Stati Uniti la produzione industriale è diminuita a settembre, per la prima volta da quindici mesi, a causa del calo della produzione del settore energetico dell'1,9%.

Il livello della disoccupazione, che rimane alto in tutti i paesi, è aumentato del 4% in un anno in Francia. Nel settembre 2010 l'agenzia di collocamento ha registrato esattamente 3999200 iscritti alla disoccupazione, tutte categorie incluse: ufficialmente la soglia dei 4 milioni di disoccupati non è stata varcata!

Quindi è senza investire e senza allargare la produzione e il mercato che le imprese hanno ritrovato benefici enormi a anche accumulato miliardi in tesoreria. Al 30 giugno 2010 le sole ditte industriali americane disponevano di 840 miliardi di dollari di cash nei loro conti. I grandi gruppi industriali e finanziari in Francia, il famoso Cac 40, dormono su un "materasso" di 150 miliardi di euro. Questa montagna di cash e i dividendi già distribuiti sono stati accumulati "col sudore della fronte" si potrebbe dire, cioè con il peggioramento quotidiano dello sfruttamento dei lavoratori.

Un direttore della Banca d'Inghilterra ha recentemente stimato che il valore attualizzato di tutte le perdite di produzione presenti e future si avvicinerà probabilmente ad un anno di prodotto interno lordo mondiale, ossia 60 mila miliardi di dollari (46700 miliardi di euro). Ovviamente è solo un ordine di grandezza. Ma il disastro che questo rappresenta è, per le sue dimensioni, senza paragone con nessuna catastrofe naturale di questi anni, e probabilmente neanche con l'insieme di queste catastrofi. Ma non si tratta di una catastrofe naturale. Non è lo tsunami del sud est asiatico del dicembre 2004, né il terremoto di Haiti del gennaio 2010, o quello del Pakistan dell'agosto 2010. È il funzionamento stesso dell'economia capitalista.

Nonostante gli annunci periodici sull'uscita dalla crisi, l'unico settore che ne sia momentaneamente uscito è la finanza. "La domanda mondiale è sempre giù" titolava il supplemento economico del giornale Le Monde dei primi di ottobre, sottolineando che gli investimenti produttivi sono ancora diminuiti nei paesi imperialisti. E come potrebbero andare diversamente mentre non solo i meccanismi specifici della crisi, la pressione della disoccupazione, il rapporto di forze a favore del padronato riducono il consumo dei salariati, ma di più le politiche di austerità degli Stati amplificano questo regresso?

Concentrazione dei capitali

I profitti ritrovati dai grandi gruppi industriali poggiano sullo sfruttamento accresciuto ma anche sull'eliminazione dei loro concorrenti. "La domanda mondiale", cioè il mercato, non si allarga e la guerra dei trust gli uni contro gli altri per contendersi le parti di mercati stagnanti o in diminuzione si inasprisce. È significativo che l'evento che ha scatenato la crisi finanziaria del settembre 2008, cioè il fallimento della Banca Lehman Brothers, sia stato al tempo stesso l'occasione per la Goldman Sachs di eliminare il suo principale concorrente.

Ben lungi dal porre fine alla concentrazione finanziaria, la crisi la rafforza. Le quattro più grandi banche degli Stati Uniti possedevano il 23% degli attivi bancari nel 1999, il 38% nel 2007 e il 47% nel 2009! Più significativo ancora, nel 2010 negli Stati Uniti., cinque banche possedevano il 96% dei 293 mila miliardi di dollari di prodotti derivati detenuti dalle istituzioni finanziarie americane.

La stessa guerra si svolge nell'industria. La ripresa delle operazioni di fusioni e acquisizioni, passato lo spettro della crisi bancaria, è l'espressione della potente tendenza al la concentrazione tramite il riassorbimento o l'eliminazione dei più fragili.

Questo si è palesato quest'anno con grandi operazioni nel settore minerario. Il primo gruppo minerario mondiale, BHP-Billiton, che già risulta da una successione di Opa ostili o amichevoli, si è dichiarato pronto a sborsare 43 miliardi di dollari per mettere la mano sul numero uno mondiale del potassio. Anche prima che l'operazione fosse riuscita, era già il primo produttore mondiale di piombo, il secondo per l'argento, il terzo per il rame e il nickel, il quarto per i diamanti grezzi, senza parlare della sua presenza nell'uranio naturale, l'alluminio, il ferro o il manganese. Non essendo riuscito a mettere la mano sull'altro gigante del settore minerario, la Rio Tinto, nonostante un'offerta allucinante di 150 miliardi di dollari, è riuscito ad associarsi con esso per lo sfruttamento delle ricche miniere di ferro dell'Australia.

Gli specialisti si accordano per indicare l'industria farmaceutica e le telecomunicazioni come i prossimi terreni di scontro tra i grandi gruppi per creare gruppi ancora più grandi, capaci di controllare questi settori su scala mondiale.

Grande capitale e sostegno statale

È possibile che gli "Stati generali dell'industria" dall'ottobre 2009 al marzo 2010, per fasulli che siano stati, non siano stati solo un alibi per Sarkozy, ma anche l'annuncio di una politica futura. Questa politica industriale già si evidenzia con varie iniziative, di attuazione più o meno avanzata, quali la creazione di "poli di competitività" con l'aiuto dello Stato, la creazione di "fondi strategici d'investimento", il "piano auto elettrica" e le varie forme di crediti d'imposte per la ricerca. Sotto questo governo di destra, fautore proclamato del "mercato libero", lo Stato è intervenuto nel salvataggio della Alstom. È intervenuto in molte operazioni di fusioni e acquisizioni per favorire grandi imprese nazionali. Non si parla di "nazionalizzazioni", bensì di "patriottismo economico"!

In caso di peggioramento della crisi o semplicemente del suo prolungarsi, questo si generalizzerà per diventare, al minimo, un tramite per sovvenzionare in maniera massiccia l'industria in nome della "battaglia contro la deindustrializzazione", e quindi della "creazione di impieghi industriali", senza parlare di tutti i progetti di sovvenzioni industriali con il pretesto ecologico. La stampa economica parla per esempio di "corsa all'eolico off shore" (Les Echos) giustificata da preoccupazioni ecologiche, sottolineando al tempo stesso che questo costituisce "una miniera d'oro per i fabbricanti di elettrodotti" per collegare i parchi eolici alla rete. Un mercato che si contendono gruppi come la Alstom e la Siemens.

Mentre una parte crescente di capitali privati si rivolgono alla finanza, che frutta molto di più e senza l'immobilizzo di capitali necessario per gli investimenti produttivi, lo Stato dovrà prendere sempre di più la responsabilità dello sviluppo, o addirittura del semplice mantenimento della produzione industriale. Che lo faccia sotto forma di nazionalizzazioni o sotto forma di aiuti vari destinati a finanziare ciò che i capitali privati finanziano sempre meno, in fondo è una questione secondaria.

Così come nel dopoguerra il Partito Comunista si era preso carico di presentare la politica delle nazionalizzazioni come un grande progresso, o perfino come un passo verso il socialismo, se la sinistra tornasse al potere si incaricherebbe di giustificare lo statalismo potenziato con l'interesse delle classi popolari. Sarebbe però solo un nuovo tentativo di salvare il capitalismo da se stesso. Sarebbe anche un passo di più del parassitismo del capitale. Mentre i capitali privati derivano verso la finanza, lo Stato stesso s'incarica sempre più di fare funzionare i settori produttori di plusvalore. In proposito, vale la pena ricordare che se i capitali investiti nella finanza partecipano alla spartizione del plusvalore complessivo in proporzione del loro ammontare -e in realtà, da parecchi anni, oltre questa proporzione- in realtà il plusvalore è creato dallo sfruttamento nell'attività produttiva. La speculazione permette di accaparrarsi una parte del plusvalore creato dallo sfruttamento ma non permette di aumentare il suo ammontare complessivo.

Ovviamente non dobbiamo sostenere l'episodio statalista del salvataggio del capitalismo. Tanto meno che, più o meno statalista, il salvataggio del capitalismo si può fare solo a spese delle classi sfruttate. La sinistra, se tornerà al potere, ritroverà forse accenti degni del 1981 per presentare le misure economiche che prenderà e i sacrifici che ne deriveranno per le classi lavoratrici come una necessità per queste ultime.

Il fatto che lo Stato e lo statalismo devono correre periodicamente in aiuto al capitalismo privato sottolinea solo il fatto che sia il capitalismo che la proprietà privata sono largamente superati.

L'atteggiamento del gran padronato e i piani di austerità degli Stati indicano chiaramente in che modo la classe capitalista intende superare la crisi. La risposta borghese alle conseguenze della crisi consiste, nel miglior e dei casi, nel peggiorare lo sfruttamento: direttamente nelle imprese con il ribasso dei salari, l'aggravamento delle condizioni di lavoro, o indirettamente, tramite lo Stato, con l'abbassamento delle tutele sociali, la riduzione delle spese per i servizi pubblici utili a tutta la popolazione, con l'aumento delle tasse che colpiscono innanzitutto le classi popolari - come le imposte indirette -, con il mettere a disposizione della borghesia tutti i fondi pubblici, il bilancio dello Stato e pure le casse pensionistiche o della previdenza malattia. Ma ricordiamo che le soluzioni borghesi alla crisi del 1929, pur variegate che siano state tra il New Deal di Roosevelt e l'economia tedesca sotto il nazismo, hanno tutte portato alla guerra.

Tutti i partiti che rappresentano le varie sfumature delle politiche che rimangono sul terreno della borghesia, dal Fronte Nazionale al Partito Socialista e i suoi compari, partono dall'idea che ciò che è buono per la borghesia è buono per l'insieme della società. Martellano tutti, come se fossero verità elementari, di banalità del genere "è necessario rimborsare il debito" oppure "a causa dell'allungamento della durata della vita, è inevitabile prolungare la durata dei contributi per le pensioni". Ma che quelli che hanno contratto il debito lo rimborsino!

Quanto al disavanzo delle casse pensionistiche, potrebbe non esistere se la classe capitalista continuasse a pagare i salari dei lavoratori anche quando, raggiunta l'età, non sono più fisicamente in condizioni di farsi sfruttare.

Alla politica della borghesia di fronte alla crisi bisogna opporre una politica che parta dagli interessi vitali della classe operaia. La questione fondamentale si pone in questi termini: chi deve pagare per la crisi e chi deve essere tutelato delle sue conseguenze? Nei confronti di questa alternativa fondamentale, le sfumature politiche hanno solo un'importanza secondaria.

L'unica alternativa politica: il ribaltamento dell'ordine capitalista

Il prossimo periodo sarà segnato da attacchi sempre più violenti della borghesia contro la classe operaia, e senz'altro più largamente ancora contro le classi popolari. I limiti saranno definiti dai rapporti di forze. Gli attacchi della borghesia non risultano da un'opzione politica particolare e ancora meno dall'etichetta della squadra politica momentaneamente al potere. Risultano da potenti interessi di classe.

La parte lasciata ai dirigenti politici è di applicare la politica necessaria alla borghesia e di giustificarla, se pensano di trarne profitto a scopi elettorali. Nonostante le diverse etichette, tutti i governi d'Europa conducono politiche d'austerità più o meno gravi, più o meno brutali. Questa sola constatazione indica i limiti delle promesse di cambiamento in caso di arrivo al potere del Partito Socialista alle elezioni del 2012, accompagnato o meno dal Partito Comunista e dal Partito di Sinistra.(Melanchon? Il faudrait expliquer)

La borghesia ha tutte le carte in mano per imporre la propria politica di fronte alla crisi, ma al tempo stesso dimostra che non esiste un'altra risposta alle conseguenze della crisi sulla base della proprietà privata delle imprese e delle banche, se non un nuovo rafforzamento dell'onnipotenza dei gruppi finanziari e il regresso per le classi lavoratrici.

L'unico programma che apra una prospettiva è quello i cui vari obiettivi, rispondendo ai problemi dell'oggi dal punto di vista delle classi sfruttate, portino nello stesso tempo a rimettere in discussione il dominio della borghesia sulla società. Tale programma diventerà un punto di forza solo quando le masse se ne impadroniranno. Quando e come? Nessuno lo può dire oggi. Gli attacchi della borghesia innescheranno necessariamente reazioni più o meno violente, più o meno coscienti da parte delle vittime della sua politica. Un autentico programma di lotta deve rispondere alle questioni sollevate dalla lotta stessa.

Quando la classe operaia si mette in movimento per difendere le proprie condizioni d'esistenza, un programma di lotta rivoluzionaria diventa indispensabile.

Di fronte allo sviluppo della disoccupazione, catastrofico sul piano materiale per chi lo subisce e anche fattore di decomposizione sociale, bisogna imporre la ripartizione del lavoro tra tutti senza diminuzione di salario e il divieto dei licenziamenti.

Di fronte alla demolizione del potere d'acquisto dei salariati, aggravata ancora dai prelievi dello Stato e dal degrado dei servizi pubblici, è vitale imporre la scala mobile dei salari e delle pensioni.

Di fronte alla crisi finanziaria, bisogna espropriare le banche, unificarle in una sola istituzione bancaria controllata dalla popolazione.

E soprattutto, di fronte all'irresponsabilità della classe capitalista, bisogna contestare il suo controllo dell'economia e imporre il controllo dei lavoratori e della popolazione sulle imprese e sull'economia.

È inutile provare ad indovinare quando e in che modo verrà una reazione della classe operaia abbastanza massiccia da modificare radicalmente il rapporto di forze con la borghesia. Ma la crisi e le sue conseguenze costituiscono una dura scuola ed è la violenza degli attacchi della borghesia a spingere alla rivolta.

Il movimento del settembre-ottobre 2010, nonostante i limiti della mobilitazione stessa e i limiti alla sua direzione sindacale riformista, nonostante la modestia degli obiettivi portati avanti e l'apparente scacco anche rispetto a questi obbiettivi modesti, è diventato una lotta politica, una reazione della classe operaia contro la borghesia. Ha rivelato agli occhi di una frazione importante della classe operaia, più o meno chiaramente, che la crisi, la gravità degli attacchi della borghesia, non lasciano posto ai corporativismi e che solo l'azione collettiva permette di ritrovare la combattività e la coscienza di appartenere ad una stessa classe sociale. È una lezione preziosa. Il ruolo dei rivoluzionari nel prossimo periodo sarà di appoggiarsi a questa esperienza collettiva, di esplicitarla e di dimostrare che essa indica la strada del futuro per la classe operaia. A condizione che la classe operaia non si lasci sviare verso vicoli ciechi, a cominciare da quello dell'elettoralismo e delle evoluzioni elettorali presentate come una possibilità di cambiamento.

La classe operaia ha appena dimostrato, fosse per ora su scala modesta, che ha la possibilità di influire direttamente sulla politica della borghesia con i mezzi che le sono propri, gli scioperi, le manifestazioni. Tocca ai rivoluzionari difendere e popolarizzare l'idea che il difendere gli obbiettivi in grado di preservare le condizioni d'esistenza dell'"unica classe produttiva della società" (Trotsky) non solo è legittimo, ma è necessario. Solo la classe operaia può, se va fino in fondo alla difesa dei suoi interessi materiali e politici, mettere in discussione il dominio della borghesia sulla società.

I compiti immediati dei rivoluzionari sono doppi: partecipare pienamente alle varie forme di lotta della classe operaia, ma anche difendere nel proprio seno con la propaganda, con le discussioni di ogni genere, il programma rivoluzionario, cioè il programma che, mediante la battaglia per la difesa degli interessi vitali della classe operaia, s'impegna nella lotta per il ribaltamento dell'ordine borghese. Sarà nella battaglia in questi due campi che sorgerà il partito comunista rivoluzionario indispensabile per incarnare e spingere questa lotta fino alla sua conclusione.

5 novembre 2010

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