Di fronte alla crisi dell'economia capitalista (da Lutte de Classe n° 117 – dicembre 2008 - Congresso di Lutte Ouvrière)

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Di fronte alla crisi dell'economia capitalista
13 novembre 2008

(Questo testo è stato votato dal Congresso di Lutte Ouvrière - 6 e 7 dicembre 2008)

Oltre le sue varie manifestazioni successive o contemporanee -crisi immobiliare, crisi delle materie prime, crisi bancaria, crac borsistico, rallentamento della produzione stessa- si tratta infatti di una sola e unica grave crisi dell'economia capitalista, probabilmente quella più grave dalla crisi iniziata col crac borsistico del 1929 e prolungatasi con la grande depressione.

Dall'aggravamento repentino della crisi finanziaria il 15 settembre 2008, segnato dal fallimento della banca Lehman Brothers, uno dei pilastri di Wall Street, molti economisti, capaci soprattutto di prevedere il passato, accusano alla rinfusa la deregolazione, la deregolamentazione, il liberismo, la globalizzazione, l'assenza di controllo sul sistema finanziario di essere le ragioni della crisi.

Tutto questo ha avuto la sua parte e spiega questo o quell'aspetto delle concatenazioni che hanno portato alla crisi finanziaria attuale e alla forma che ha assunto, ma non la sua ragione fondamentale: l'economia capitalista non può funzionare senza crisi. "Finché il capitalismo non sarà stato rovesciato da una rivoluzione proletaria, vivrà gli stessi periodi di rialzo e di ribasso e conoscerà gli stessi cicli". (L'alternanza tra) "le crisi e i miglioramenti sono propri al capitalismo dal giorno della sua nascita e lo accompagneranno fino alla tomba", scriveva Trotsky commentando la crisi del 1920-1921. E aggiungeva che "durante i periodi di sviluppo rapido del capitalismo le crisi sono brevi e hanno un carattere superficiale", mentre "durante i periodi di decadenza le crisi durano a lungo e i rialzi sono momentanei e superficiali, basati sulla speculazione."

L'avvento dell'imperialismo più di un secolo fa, con i suoi trusts che stringono il mondo intero con le loro tentacoli, la sempre più grande complessità dell'attività economica nel corso del tempo, hanno reso più aleatoria la periodicità dei cicli economici, hanno moltiplicato le modalità dello scoppio delle crisi e hanno aggravato i loro danni, ma non le hanno rese meno ineluttabili. Le crisi costituiscono fasi essenziali della riproduzione capitalista. E' precisamente tramite le crisi che l'economia di mercato mossa dalla concorrenza cieca ristabilisce gli equilibri tra la produzione e il consumo solvibile, tra i vari settori dell'economia, tra l'altro quello dei mezzi di produzione e quello dei beni di consumo, tra le varie imprese che attuano le fasi successive del processo di produzione. Sono le crisi che esprimono i ribassi del saggio di profitto che risultano dalla saturazione del mercato. Sono loro che, col distruggere una parte del capitale produttivo, con l'eliminare le imprese non redditizie, creano le condizioni dell'avvio di un nuovo ciclo in cui il saggio di profitto ricomincia ad aumentare e gli investimenti riprendono così come le assunzioni.

L'annuncio di emissioni massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte delle banche centrali americana ed europee il 9 agosto 2007, così come quello della BNP-Paribas di sospendere la quotazione di tre dei suoi fondi specializzati nei titoli legati all'immobiliare rivelavano che la crisi del credito immobiliare americano si stava trasformando in una crisi finanziaria. Essa non è una di queste crisi "brevi e superficiali". Il crac dell'immobiliare americano è stato tanto il fattore che ha fatto scoppiare la crisi finanziaria quanto il suo rivelatore. La crisi finanziaria stessa è l'ultima di una successione di crisi finanziarie e borsistiche che si sono alternate dagli anni 1980 al ritmo di una crisi ogni tre anni (1982: crisi messicana; 1987: crac borsistico; 1990: crac dei "junk bonds" (obbligazioni tossiche) e fallimento delle casse di risparmio americane; 1994: crac delle obbligazioni americane; 1997: crisi finanziaria del Sudest asiatico; 1998: crisi finanziaria in Russia e nel Brasile; 2001-2003: scoppio della bolla Internet, senza dimenticare la lunga crisi del sistema finanziario giapponese.

Ciò che distingue la crisi finanziaria attuale dalle crisi finanziarie precedenti è la sua gravità, la sua estensione mondiale e il fatto di avere fatto traballare il sistema bancario mondiale nel suo complesso.

Questa frequenza delle crisi finanziarie o borsistiche più o meno gravi con più o meno ripercussioni sulla produzione è di per se il segno che la crisi attuale non è il semplice risultato di un ciclo isolato. E' in realtà la fase acuta di una lunga crisi strisciante incominciata all'inizio degli anni 1970 che si è palesata prima con una crisi del sistema monetario, per proseguire col primo urto petrolifero nel 1973 prima di portare nel 1974-1975 ad una prima crisi di sovrapproduzione e ad un riflusso della produzione in tutti i paesi industriali. Per la prima volta dalla fine della guerra mondiale una recessione che si propagava su scala del pianeta dimostrava che le capacità di produzione si scontravano con i limiti del mercato solvibile. Il ribasso del 2,2% del prodotto nazionale lordo dei soli Stati Uniti rappresentava l'equivalente del Prodotto Interno lordo totale di un paese come la Turchia e due volte quello del Portogallo.

Più significativo ancora del ribasso del Pil, che mischia produzioni creatrici di valore e servizi che non lo sono, era il ribasso della produzione di manufatti. Esso colpì tutti i paesi industriali. Nel 1975 fu del 7% negli Stati Uniti, del 8% in Francia, del 15% nel Giappone. Fu il primo forte aumento della disoccupazione.

Dalla recessione del 1974-1975 l'economia capitalista ha vissuto parecchi periodi di espansione che si sono alternati con recessioni. Ma non ha più mai ritrovato il livello di crescita del periodo precedente. L'economia capitalista mondiale non è mai uscita dalla sua lunga crisi strisciante.

La classe capitalista ha ritrovato verso l'inizio degli anni 1990 il livello di profitto di prima della crisi. Ma non c'è riuscita grazie ad un nuovo dinamismo o a nuovi allargamenti del mercato solvibile che avrebbero portato a nuovi investimenti produttivi. Fu con la guerra alla classe operaia, aggravando lo sfruttamento, bloccando i salari, intensificando il ritmo del lavoro e sfruttando la paura della disoccupazione per ridurre in modo drastico la parte dei salariati nel reddito nazionale di ogni paese. In Francia per l'insieme delle imprese la parte dei salari lordi compreso gli oneri sociali dei datori di lavoro si è fortemente ridotta passando dal 73,2% nel 1982 al 63,4% nel 1998.

Ma -e questo è il segno distintivo di questo lungo periodo di decadenza del capitalismo- anche quando il saggio del profitto fu ripristinato i capitali furono ben poco attratti dagli investimenti produttivi, e sempre più dai piazzamenti finanziari. Tale evoluzione e le sue molteplici conseguenze che si possono riassumere sotto l'espressione "finanziarizzazione crescente dell'economia" disegnano la fisionomia del funzionamento attuale dell'economia capitalista. Essa ha riunito tutti gli ingredienti della crisi finanziaria attuale.

Non c'è bisogno di cercare dalle parti della psicologia collettiva della classe sfruttatrice questa propensione a preferire i piazzamenti finanziari agli investimenti produttivi. La sua diffidenza rispetto al futuro della sua economia poggia su basi materiali. Riducendo la parte dei salariati le imprese hanno certamente ristabilito i loro profitti. Ma al tempo stesso hanno ridotto i consumi popolari.

Non solo il ripristino di profitti alti non è risultato da un allargamento del mercato, ma i mezzi con cui è stato ottenuto a svantaggio della massa dei salari hanno contribuito a ridurre la il consumo solvibile, cioè hanno inasprito la causa fondamentale della crisi.

Il ricorso al credito per allargare la domanda solvibile è un procedimento tanto vecchio quanto il capitalismo. Ma non è mai stato attuato su scala così larga come nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Le spese d'armamento, quel gran classico dell'economia capitalista, e il credito, cioè l'indebitamento, sono stati le due direttrici della crescita in tutte le fasi d'espansione dei trenta anni scorsi.

La stessa espressione "crescita" riflette la visione borghese della realtà e non la realtà stessa. Si affermava per esempio che la crescita degli Stati Uniti oppure quella della Spagna erano spinte dall'immobiliare. Ma nella misura statistica di questa crescita si contavano non solo i cantieri aperti e gli alloggi costruiti, cioè la produzione di beni materiali, ma anche il rincaro fondiario o gli aumenti di prezzi che risultavano dalla speculazione immobiliare. Le contabilità nazionali e le statistiche hanno sempre mischiato produzione materiale e finanza, crescita reale e crescita finanziaria. La cosiddetta fase di crescita che ha preceduto l'attuale crollo è stata quella del profitto delle imprese, quella del prezzo delle azioni in borsa, quella innanzitutto del volume e della redditività dei prodotti finanziari. Ma non era un periodo di crescita né per la massa salariale nel suo complesso, al contrario in forte ribasso, né per i salari individuali che al meglio ristagnavano, né per l'occupazione che fluttuava secondo le manipolazioni statistiche. Il carattere menzognero di queste statistiche di classe non poteva che nascondere lo scarto che aumentava tra la crescita del capitale e il ribasso del potere d'acquisto delle classi popolari che, appunto, è alla base della crisi.

Fu dopo la seconda grande recessione, quella del 1982 ancora più forte di quella del 1975, che si sistemarono i meccanismi che avrebbero accelerato la finanziarizzazione dell'economia e al tempo stesso portato l'indebitamento verso vertici senza precedenti. Per frenare l'inflazione gli stati hanno ricorsero meno alla creazione di moneta e invece si indebitarono massicciamente. Gli stati vi trovarono un interesse: l'emissione di titoli di debito pubblico -buoni del Tesoro o altre obbligazioni di Stato, ecc- portarono risorse per colmare il disavanzo. Anche il grande capitale vi ha trovato il suo interesse. L'appello degli stati all'indebitamento pubblico gli ha consentito di piazzarsi in modo vantaggioso piuttosto che di investirsi nella produzione.

Alcuni numeri riassumono questa evoluzione. Il debito pubblico degli Stati Uniti che era di 305 miliardi di dollari nel 1963, di 370 miliardi di dollari nel 1970, poco prima della crisi, era di 907 miliardi di dollari dieci anni dopo, nel 1990, di 3 233 miliardi di dollari nel 1990, e di 5 674 miliardi di dollari nel 2000. All'inizio del mese d'ottobre 2008, era di 10 024 miliardi di dollari! Questi numeri sono dati dal sito Internet ufficiale del governo americano; sembra che misurino il solo indebitamento dello Stato federale e non quello degli Stati né a maggior ragione quello delle enti locali.

Stessa evoluzione per i debiti dei privati cittadini americani. E' stata un'esplosione vera e propria che li ha portati da 580 miliardi di dollari nel 2000 a 1 250 miliardi nel 2005.

Un'economia il cui funzionamento è mosso dal credito e dall'indebitamento è un'economia che aumenta le disuguaglianze sia all'interno dei paesi che tra i vari paesi. Si presta solo ai ricchi, questo è vero sia per i singoli che per gli stati (anche se come dimostra il caso dei "subprimes", in alcune circostanze le banche sono disposte a prestare ai poveri se questo permette di fregarli).

Gli Stati Uniti sono lo Stato più indebitato del mondo per l'ammontare del loro debito, in assoluto se non relativamente. Invece una parte importante della popolazione mondiale, quella dei paesi poveri, è esclusa da questo circuito del credito pur sopportandone le conseguenze. E' alle masse misere dei paesi poveri che i loro governi fanno pagare i debiti e gli interessi dei crediti contrattati per le spese d'armamento e le realizzazioni di prestigio.

E' nei paesi poveri che la finanziarizzazione crescente dell'economia evidenzia le sue conseguenze più direttamente devastatrici. Come dappertutto, i capitali in cerca di piazzamenti redditizi non sono affatto interessati a sviluppare la produzione e quindi ad investire, invece vogliono fare fruttare il massimo di profitti agli impianti e alle produzioni esistenti e sbarazzarsi del resto. Ma data la debolezza degli impianti già esistenti, questo significa una regressione. I capitale finanziario riesce a saccheggiare i paesi poveri tramite l'indebitamento senza neanche lasciare le poche tracce materiali che potrebbero essere utili alla popolazione -strade, ferrovie, infrastrutture di base- che il colonialismo stesso aveva lasciate dietro di sé.

Le banche e il credito hanno un ruolo insostituibile nell'economia capitalista. Grazie alle banche e al credito la riproduzione capitalista si svolge senza discontinuità e le imprese industriali non sono costrette ad aspettare la vendita delle merci che producono per cominciare un nuovo ciclo di produzione. Mettendo il denaro a disposizione delle imprese, le banche contribuiscono a trasformarlo in capitale produttivo. L'interesse prelevato sul plusvalore è la remunerazione di questa funzione.

Ma l'ipertrofia di questa funzione ha un effetto contrario. Anziché facilitare la trasformazione del capitale denaro in capitale produttivo, essa al contrario allontana il capitale dalla produzione per orientarlo verso le operazioni finanziarie che sembrano avere questa meravigliosa facoltà di fabbricare direttamente denaro con denaro senza neanche dovere passare dalla fase volgare della produzione.

In questa crisi strisciante di trenta anni il ruolo accresciuto della finanza è stato nei primi tempi un effetto della crisi stessa. I capitali che in ragione della saturazione dei mercati non si potevano trasformare in investimenti produttivi hanno cercato altri piazzamenti rimunerativi. Dal riciclaggio dei petrodollari, queste somme colossali accumulate nelle mani dei trusts petroliferi e secondariamente di alcuni emiri del petrolio in seguito alla prima ondata di aumento dei prezzi del 1973, somme che i loro possessori non avevano l'intento di investire in sondaggi petroliferi o raffinerie, la massa dei capitali in cerca di piazzamenti redditizi non ha smesso di crescere.

Da sottoprodotto della crisi questo ruolo crescente della finanza è divenuto uno dei fattori del suo prolungamento. Il funzionamento che si è sistemato privilegia il profitto finanziario a breve termine rispetto agli investimenti produttivi di lungo periodo.

Sembrava che questo sentisse di miracolo: malgrado un'economia bolsa e in crescita debole, gli piazzamenti finanziari sfruttavano sempre di più. Ai "grandi classici" quali i piazzamenti speculativi in borsa, i prestiti agli Stati, la speculazione sui tassi di cambio tra le monete o l'immobiliare, si sono aggiunte molte altre operazioni prima inesistenti. Con la crescita delle masse finanziarie è emersa una nuova industria, "l'industria finanziaria" la cui funzione è di gestire queste quantità crescenti di capitale denaro, di inventare per loro dei "prodotti finanziari" e i mercati su cui si vendono e si comprano. Il solo accoppiamento surreale di questi due termini "industria finanziaria" è caratteristico della nostra epoca di capitalismo usurario. La funzione ha creato l'organo e ha fatto esplodere il numero delle officine finanziarie, i "fondi d'investimento" che, abbandonando l'essenziale delle attività bancarie classiche, si specializzavano nei piazzamenti tanto più redditizi che erano rischiosi. La stessa parola "investimento" perdeva il suo significato in rapporto diretto con la produzione per disegnare tutti i piazzamenti di denaro, sia quelli che contribuivano alla creazione reale di valore e di plusvalore che quelli più fantasiosi che non creavano niente o addirittura distruggevano.

La deregolamentazione degli anni 1980 non è stata all'origine dell'imballarsi della finanza ma lo ha facilitato e globalizzato. Ha distrutto le frontiere tra gli organi stessi del settore finanziario (tra banche di deposito e banche d'investimento, tra società di assicurazioni e banche) così come tra il settore produttivo e il settore finanziario.

Anche le imprese produttive, o almeno quelle più potenti, erano tanto più attratte dalle operazioni finanziarie in quanto queste ultime qualche volta producevano più profitti che non l'attività produttiva stessa.

Tutto questo sembrava respingere gli effetti della crisi. Ma innanzitutto ne snaturava il ruolo regolatore. Nascondere le crisi non è sopprimerle. Sostituire le attività produttive con ciò che le attività della finanza hanno di più fasullo non può durare eternamente.

Le attività finanziarie non creano valore. Permettono soltanto di appropriarsi una parte del plusvalore creato dallo sfruttamento del settore produttivo. Questo significa che il capitale finanziario, direttamente o tramite lo Stato e il debito pubblico, succhia i profitti dal capitale industriale, "unico modo d'esistenza del capitale la cui funzione non sia soltanto appropriazione ma anche creazione di plusvalore, ossia di sovra prodotto" (Marx).

Il gonfiarsi continuo della sfera finanziaria dagli anni 1970 non solo si alimenta dall'inasprimento dello sfruttamento della classe operaia ma contribuisce a soffocare lo sviluppo economico.

Nel 1992 cominciò però un periodo che i commentatori entusiasti ben presto battezzarono "il più lungo periodo di espansione dell'economia americana dalla guerra". Infatti tra il 1994 e il 2000, il Pil (prodotto interno lordo) degli Stati Uniti crebbe del 32%. Poiché questi anni benedetti in cui la disoccupazione diminuiva erano legate allo sviluppo di nuove tecnologie (computer, semiconduttori, reti, telefoni cellulari), si cominciò a parlare di "nuova economia". Gli investimenti produttivi stessi avevano cominciato ad aumentare portando ad una crescita della produttività. Anche durante questo periodo però il tasso di crescita del Pil americano era rimasto inferiore a quello degli anni 1960. Quanto alla ripresa degli investimenti, si era limitata per così dire esclusivamente al settore delle nuove tecnologie che, anche negli Stati Uniti, rappresentava meno di un decimo dell'attività economica. Invece nelle industrie tradizionali gli investimenti continuavano a ristagnare o addirittura, secondo alcuni studi ulteriori, diminuivano rispetto al decennio precedente. Ma che importanza poiché i profitti aumentavano, i corsi della borsa e soprattutto quello del Nasdaq specializzato nei valori tecnologici esplodevano e il basso livello dei tassi d'interesse permetteva di moltiplicare le fusioni di imprese ! Fu a quell'epoca che l'allora presidente della Banca centrale americana parlò di "esuberanza irrazionale dei mercati".

Il mercato dei computer e telefoni cellulari, nonostante il suo dinamismo durante alcuni anni non fu però abbastanza esteso da assorbire le enormi quantità di capitale denaro accumulate e soprattutto per trasformarle in capitale produttivo.

La "nuova economia" più che altro ha aperto un nuovo campo alla speculazione borsistica. Fu favorita dalla politica di credito facile attuata dalla Banca centrale americana. Quest'ultima aveva scelto di abbassare il suo tasso d'interesse e di mantenerlo basso. Ora è questo tasso di interesse, cioè il tasso con cui le banche possono ottenere denaro fresco che comanda il costo di tutta la gerarchia dei crediti. Il mantenimento di un tasso d'interesse basso ha portato le banche e le istituzioni finanziarie ad accordare tanto più facilmente credito che erano sicure di rifinanziarsi facilmente e a basso prezzo presso la Banca centrale.

Questo tasso d'interesse basso poteva sembrare una politica di credito destinata ad accompagnare l'espansione dell'informatica. In un'epoca in cui il più piccolo fondatore di "start up" credeva di essere Bill Gates, ottenere un credito facile sembrava una promessa di sviluppo esplosivo degli affari. Gli sviluppi successivi dimostrarono rapidamente che non tutte queste "start up" erano delle Microsoft o Google allo stato embrionale.

In realtà, già a quell'epoca i crediti concessi all'informatica finanziavano ben più la speculazione che non la produzione. Servivano innanzitutto a contendersi le imprese che a torto o ragione risultavano promettenti e le cui azioni salivano alle stelle. Segno di un'epoca di speculazione intensa, ad un certo momento la capitalizzazione borsistica -cioè il prezzo della totalità delle azioni- di Amazon.com, prima libreria in rete ma ancora quasi inesistente, era dello stesso ordine di quella della General Motors con le sue decine di fabbriche e i suoi 200000 operai!

Fino a quel mese di maggio 2000 in cui la bolla speculativa scoppiò e il crac Internet fece affondare l'indice Nasdaq e contemporaneamente un gran numero di promettenti "start up" e il denaro che i creduloni avevano piazzato nelle loro azioni.

L'espansione dovuta al settore informatico non fu l'innesco di una ripresa generale. Invece dopo il crac di questo settore il gonfiarsi della finanza ha ricevuto un nuovo colpo d'acceleratore. Infatti in questo contesto di minaccia di recessione a cui si aggiungevano sul piano politico le conseguenze degli attentati dell'11 settembre 2001, per preservare la liquidità del sistema finanziario e così evitare i fallimenti a catena la Banca centrale americana reagì abbassando ancora il suo tasso d'interesse. Il nuovo tasso era appena superiore a 0% in termini reali, cioè tenuto conto dell'inflazione.

Tale politica infatti evitò che il crac Internet si trasformasse in una crisi finanziaria repentina. Ma non fece altro che respingere le scadenze. La crisi finanziaria respinta nel 2001 tornò come un boomerang nel 2007, ma con una potenza moltiplicata dalla crescita delle masse finanziarie e dal numero crescente dei prodotti finanziari sempre più artificiali e con sempre più opacità anche per chi li aveva elaborati.

La crisi della nuova economia può essere considerata come la primissima fase della crisi finanziaria odierna o la sua ripetizione generale, e comunque come l'inizio di un insieme di comportamenti finanziari che non potevano portare ad altro che all'attuale collasso.

Poiché il tasso d'interesse basso della Banca centrale rendeva il credito facile, cioè metteva il denaro a buon mercato, perché non prendere prestiti? Così sia le banche che le imprese industriali prendevano prestiti importanti. La produzione non poteva assorbire tutto questo capitale denaro? Nessuna importanza! "L'industria finanziaria" creò prodotti sempre più sofisticati. Mischiava crediti di nature diverse, tra l'altro con la famosa tecnica di "titolizzazione", crediti di cui alla fine non si sapeva più cosa contenevano. Nessuna importanza! Finché l'acquirente aveva la convinzione, fondata o meno, che avrebbe potuto rivendere i titoli più caro che non li aveva comprati, il macchinario finanziario funzionava. Ma in modo sempre più distaccato dalla realtà della produzione e soprattutto dalla creazione di plusvalore.

Eppure la finanza e la produzione s'intrecciavano sempre più, in particolare tramite il finanziamento delle grandi operazioni di fusione-acquisizione. La strategia delle grandi imprese non era di allargare il mercato ma mirava ad aumentare la loro parte del mercato esistente, cioè a conquistarne una parte sempre maggiore alle spese dei loro concorrenti. Da lì queste scalate, cioè queste guerre scatenate dai gruppi industriali e finanziari per acquistare i gruppi rivali. Queste operazioni il cui risultato era una più grande concentrazione hanno mobilitato, durante gli anni 1990 in particolare, non solo il denaro dei gruppi in battaglia tra di loro ma anche il credito. I gruppi che vincevano queste scalate aumentavano il loro profitto in proporzione della parte di mercato conquistata e in molti casi anche di più quando la conquista gli dava una posizione di monopolio sul mercato. Ma queste scalate che si appellavano al credito, sia per attaccare, sia per difendersi, contribuivano ad aumentare l'indebitamento delle imprese. Secondo il giornale economico Les Echos oggi le imprese del CAC 40 della Borsa di Parigi, senza le banche, sommano 250 miliardi di debiti netti. La progressione è del 25% nei due ultimi anni.

Queste concentrazioni innanzitutto finanziarie non consistevano in una razionalizzazione della produzione. Non ne risultava alcun aumento delle capacità produttive. Ancora una volta, somme enorme erano mobilitate e fruttavano profitto per i finanzieri senza che ne risultasse alcun vantaggio per la produzione. Invece tutte queste operazioni rafforzavano il controllo della finanza sulla produzione.

La tecnica delle LBO, le "operazioni ad effetto di leva" costituisce la meraviglia delle meraviglie per gli operatori finanziari. E' anche l'espressione di un capitalismo non solo parassitario ma anche autodistruttivo. In sostanza una LBO è un'operazione che permette di riacquistare un'impresa col minimo di capitali propri, ma con un credito. L'obiettivo è ovviamente di rimborsare il prestito prelevandolo sul capitale dell'impresa acquistata. Al prezzo di smontarla, di svuotare la sua tesoreria, di vendere le attività più redditizie e di sbarazzarsi del resto, di mettere all'asta della speculazione immobiliare il terreno sul quale era costruita. Non solo il capitale finanziario non si trasforma più in capitale produttivo e creatore di plusvalore, ma la sua finalità diventa la distruzione del capitale produttivo.

Il capitalismo rentier di questo inizio di ventunesimo secolo ha inventato una forma di suicidio sofisticato. Però non sono i banchieri o gli operatori finanziari che ne muoiono, bensì la produzione, l'economia, cioè la società.

Davanti al crollo finanziario attuale è di moda porre sotto accusa i fondi speculativi, in particolare gli "hedge funds", queste officine specializzate nelle speculazioni più rischiose. Ma gran parte di queste officine sono emanazioni di grandi banche ben note e speculano non solo col denaro di ricchi singoli ma anche di banche e di imprese.

La finanza ha fatto scaturire organi sempre più specializzati. Nondimeno fanno parte della finanza così come la finanza stessa nondimeno fa parte del gran capitale. E' il capitalismo stesso che diventa sempre più usurario e autodistruttivo.

Malgrado gli attori della scena finanziaria e quelli della scena produttiva siano gli stessi, si tratta di due funzioni differenti. Solo lo sfruttamento, cioè l'appropriazione da parte del capitalista di una parte del valore creato dai lavoratori nella produzione, produce un plusvalore. L'attività finanziaria permette soltanto di fare un prelievo sul plusvalore prodotto dalla produzione e dallo sfruttamento dei lavoratori.

Per un dato gruppo capitalista non importa da dove viene il profitto. Quando la finanza promette piazzamenti più vantaggiosi del profitto industriale, ben vengano i piazzamenti finanziari anche se, quando questi comportamenti si generalizzano, la classe capitalista scava la sua propria tomba frenando la creazione di plusvalore.

Le preoccupazioni finanziarie a svantaggio delle preoccupazioni industriali hanno portato ad una moltitudine di evoluzioni nella gestione delle imprese industriali stesse.

Tanto più che, altra tendenza dell'evoluzione economica, i gruppi strettamente finanziari o perfino specializzati nella speculazione occupavano un posto sempre più importante nell'azionariato di un gran numero di grandi gruppi.

Sottomesse alla pressione della finanza sotto questi due aspetti anche le imprese produttive si sono adeguate alla sua logica.

I dirigenti delle imprese quindi sono stati spinti a sorvegliare innanzitutto l'evoluzione borsistica. E' questa evoluzione che ha portato ad aberrazioni quali queste "ristrutturazioni" che consistevano nello sbarazzarsi di una parte dei lavoratori di un'impresa per fare salire il prezzo delle azioni in borsa. E' un'aberrazione dal punto di vista degli interessi collettivi della classe capitalista. Riducendo il numero degli sfruttati si riduce nello stesso modo il plusvalore complessivo. Ma come diceva bene Lenin, "i capitalisti sono pronti a vendere la corda per impiccarli". E infatti per parecchi anni hanno venduto la corda che adesso sta strozzando il sistema finanziario mondiale! Fu l'ex amministratore delegato della Alcatel, Serge Tchuruk, ad esprimerlo nel modo più assurdo parlando di una "impresa senza fabbriche"! Ma senza fabbriche, cioè senza lavoratori, non c'è né profitto, né approfittatori, e quindi neanche Tchuruk e i suoi simili.

Si diceva che la crisi in de del 1929 era scoppiata in un cielo sereno. Certamente non si può dire altrettanto della crisi attuale. E' una crisi annunciata. Era evidente che questa fuga in avanti del credito facile portando ad una speculazione sempre più vertiginosa non poteva che condurre nel muro. Molti l'hanno detto, compreso certi economisti della borghesia, prezzo Nobel incluso. Constatando che da anni la crescita del Pil era dell'ordine del 3 al 4% in Francia, mentre i capitali per essere piazzati esigevano dal 15 al 20% un'economista francese esclamò, anche se in ritardo: "dall'arroganza della finanza è nata la menzogna globale all'origine della crisi: la promessa di un'impossibilità aritmetica, quella di fare guadagnare a tutti più della media dei guadagni".

Ma niente fu fatto per fermare questa corsa al muro, per questa ragione che niente poteva essere fatto nell'ambito di questa economia il cui motore fondamentale è il profitto. Per quale motivo un gruppo, un'impresa o un singolo capitalista dovrebbe arrestare l'ultimo movimento speculativo che frutta ancora un beneficio?

La crisi finanziaria odierna è stata tanto più annunciata in quanto nell'immobiliare si è riprodotto lo stesso scenario che non nel settore delle "nuove tecnologie". I capitali attratti dagli aumenti del prezzo delle case si sono diretti massicciamente verso questo settore. Anche lì, da conseguenza degli aumenti dei prezzi la speculazione è divenuta uno dei suoi motori. Il prezzo di una casa è aumentato tra il 1997 il 2006, secondo il settimanale britannico The Economist del 100% negli Stati Uniti, del 127% in Francia, del 192% nel Regno Unito... e fino al 327% nel Sudafrica. I credito a buon mercato e nondimeno pieno di trappole della sfera finanziaria, messi a disposizione di chi aveva bisogno di una casa come di chi speculava su questo bisogno, ha provocato l'impennata dei corsi, sia nel settore edilizio stesso che in quello dei prestiti ipotecari. Fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2007.

L'elemento che ha scatenato la crisi finanziaria è stato la crisi dell'immobiliare negli Stati Uniti, e i titoli che contenevano una parte del credito ipotecario americano hanno fatto da vettore di propagazione.

Infatti tutte le grandi banche del mondo possedevano tali titoli! Secondo la stima più recente l'ammontare del valore nominale dei titoli tossici detenuto dalle sole banche europee sarebbe di 800 miliardi!

La diffidenza nei confronti di questi titoli e divenuta una diffidenza nei confronti di tutti i titoli a rischio. Ora questi titoli a rischio, proprio perché erano al centro della precedente crescita della finanza, erano dappertutto: le banche, le istituzioni finanziarie, la tesoreria delle imprese e perfino quella delle enti locali.

L'ammontare totale dei "prodotti derivati" è ben maggiore di quello dei soli titoli che oggi sono considerati come tossici perché contengono una parte del credito ipotecario americano. Questo ammontare è stimato a 400 mila miliardi di dollari. A titolo di paragone la capitalizzazione borsistica di tutte le grandi imprese quotate nelle Borse, cioè il prezzo a cui tutte si potrebbero teoricamente riacquistare, è solo di 60 mila miliardi.

Se la scintilla partita da un settore ha potuto mettere fuoco a tutta la finanza mondiale, questo è dovuto ai materiali infiammabili accumulati da tutta l'evoluzione precedente.

Le diffidenza generalizzata verso tutti i titoli si è trasformata in panico bancario. Al contrario della crisi del 1929, sono le banche stesse, invece dei depositanti e clienti, che sono state colte dal panico. Al punto di dare una battuta d'arresto a tutte le transazioni tra le banche.

Ma in ragione del frazionamento del sistema bancario, senza le transazioni tra le banche la distribuzione del credito si ferma (oppure il credito diventa caro al punto di portare allo stesso risultato).

L'economia capitalista arriva fino a questa aberrazione per cui una crisi finanziaria che risulta da un eccesso di credito arriva a prosciugare il credito per le imprese di produzione.

Il crac borsistico fu seguito rapidamente dalla crisi bancaria. Il lunedì 21 gennaio 2008 fu un "lunedì nero" in tutte le sedi borsistiche con il ribasso più forte dall'11 settembre 2001. Altre giornate altrettanto nere lo seguirono fino a quel mese d'ottobre 2008 che, nonostante alcuni rimbalzi, fu nero per tutte le Borse. Il prosciugarsi del credito dovuto alla crisi bancaria non poteva che frenare le operazioni della Borsa in cui il credito ha una parte importante.

Ma c'era anche altro. La Borsa è anche un termometro dell'economia capitalista. Dietro la forma finanziaria della crisi puntava la crisi dell'economia produttiva.

Parecchi anni d'intensa speculazione stimolata dalla crescita dei profitti delle imprese hanno portato il corso delle azioni ben oltre il loro prezzo normale.

Il livello medio del prezzo di un'azione -nozione del tutto teorica perché il suo prezzo cambia ogni giorno in funzione dell'offerta e della domanda -è legato al dividendo cioè al reddito che dovrebbe procurare al suo possessore. Ma la speculazione ha portato il prezzo dell'azione ben oltre questo prezzo medio. Lo scoppio della bolla speculativa borsistica ha fatto riscendere a terra i corsi della Borsa. Il prezzo delle azioni di molte grandi imprese è caduto del 50% o addirittura dell'80%. Dopo parecchie settimane di ribasso il corso delle azioni non si è stabilizzato. Questo è il segno non solo del fatto che la speculazione va avanti, questa volta giocando al ribasso, ma anche che la correzione borsistica non è ancora sufficiente e che con la recessione il gran capitale si aspetta ad un ribasso della produzione e dei profitti nelle imprese.

Dal mese di settembre 2008 la crisi bancaria e la crisi borsistica s'intrecciano. I dirigenti dei grandi stati imperialisti moltiplicano i colloqui e sopratutto stanziano delle somme allucinanti per ristabilire la fiducia tra le banche, ma non ci riescono. L'apertura di linee di credito per permettere alle banche di rifinanziarsi o la ricapitalizzazione finanziata dagli Stati, evidentemente, non sono sufficienti per spingerle a dare nuovi crediti all'economia. Tanto vale dire che sono ancora meno sensibili ai discorsi moralizzatori di dirigenti alla Sarkozy!

La stampa economica è piena di lamenti di padroni di piccole e medie imprese che fanno riferimento al rifiuto delle banche di concedergli nuovi crediti per sviluppare i loro affari, e perfino la soppressione del loro diritto ad uno debito bancario.

Ovviamente le banche preferiscono utilizzare le facilità offerte dagli Stati per "cogliere le opportunità" cioè riacquistare le loro simili in difficoltà. Il movimento di concentrazione nella finanza, fortemente iniziato fin dai primi giorni della crisi, proseguirà tanto più che è favorito dagli Stati.

Dopo la crisi bancaria e la crisi borsistica si profila una nuova crisi, quella del sistema monetario. Il mercato dei cambi tra le monete ha completamente perso la bussola. I corsi delle monete le une rispetto alle altre assomigliano alla curva di temperatura di un malarico in crisi grave. I sobbalzi dei cambi avranno inevitabilmente delle conseguenze sul commercio internazionale.

La zona euro è preservata fino ad un certo punto, almeno per quanto riguarda le relazioni commerciali tra i paesi che fanno parte della zona. Ma fino a quando? Gli aiuti concessi da ogni Stato alla propria borghesia aumentano inevitabilmente il disavanzo di ognuno dei bilanci nazionali, ma non allo stesso ritmo né nella stessa proporzione in tutti i casi. La difesa dell'euro di fronte al dollaro, alla sterlina o al yen dipenderà necessariamente delle nazioni capitaliste più ricche. Ma fino a che punto accetteranno di pagare per i più poveri?

Inoltre i vari paesi della zona euro non hanno le stesse strutture d'importazione e d'esportazione nei confronti degli Stati Uniti. Le variazioni del tasso di cambio tra l'euro e il dollaro in rialzo o in ribasso non hanno le stesse conseguenze per ognuno dei paesi della zona euro. Ora, dopo un lungo periodo di deprezzamento del dollaro rispetto all'euro, ecco che la crisi finanziaria ha rovesciato il movimento.

Fu precisamente con una crisi monetaria che cominciò all'inizio degli anni 70 la lunga crisi strisciante di cui la crisi odierna costituisce la fase più acuta. La crisi monetaria dell'epoca ha condotto alla scomparsa del sistema monetario internazionale istituito all'indomani della guerra in Bretton Woods. Questo sistema con i suoi tassi fissi, essendo le monete definite rispetto al dollaro e il dollaro rispetto all'oro, aveva largamente facilitato lo sviluppo del commercio internazionale. Il suo crollo e poi la sua sostituzione nel 1975 con un sistema di cambi flottanti, cioè evolvendosi in funzione dell'offerta e della domanda, non hanno pertanto messo fine al regno del dollaro né come principale moneta degli scambi internazionali né come principale moneta di riserva per tutte le banche centrali. Ma questo nuovo sistema ha aperto prospettive illimitate alla speculazione monetaria con la possibilità di giocare con le variazioni dei tassi di cambio anche sul breve periodo. Ha avuto una parte importantissima nella finanziarizzazione dell'economia.

Anche piccole variazioni dei tassi di cambio hanno tanto più conseguenze sul sistema finanziario in quanto le somme accumulate a titolo di riserva dagli Stati e le banche centrali, in dollari per la maggior parte, sono divenute gigantesche. Secondo Les Echos ammontano oggi a 7 100 miliardi di dollari. Ma più ancora della somma, è significativa la sua crescita esponenziale. Oggi è cinque volte più alta di dieci anni fa e pari a 150 volte quella di 37 anni fa, al momento della soppressione della convertibilità del dollaro in oro! Essendo le riserve delle banche centrali destinate in particolare a difendere le monete nazionali, il gonfiarsi del loro ammontare dà la misura della speculazione e quindi del parassitismo del capitale finanziario.

Malgrado sia rimasto l'asse del sistema monetario internazionale, il dollaro da parecchi anni va male. Dalla metà degli anni 80, da paese creditore gli Stati Uniti sono diventati un paese debitore. I loro debiti raggiungono 2 500 miliardi di dollari ossia il 20% del loro prodotto interno. L'equilibrio dei conti è raggiunto da anni solo grazie ai depositi in buoni del Tesoro americano delle riserve di paesi stranieri, in particolare il Giappone, la Cina e un certo numero di paesi produttori di petrolio. Ma la crescita dell'indebitamento degli Stati Uniti non può che destare la diffidenza nei confronti del dollaro e influire nel senso del deprezzamento di questa moneta sul mercato dei cambi. Un mercato dei cambi che è in crescita vertiginosa da parecchi anni, non per accompagnare il commercio mondiale ma per operazioni finanziarie e per operazioni speculative sulle monete (solo il 3% circa delle somme scambiate sui mercati dei cambi corrisponderebbero a transazioni commerciali).

Il deprezzamento del dollaro ha portato da parecchi anni al ribasso del suo tasso di cambio rispetto all'euro. Nel 2002 il cambio dell'euro era di 86 cents e alla fine del 2007 di 1,48 dollari. Così la moneta americana ha perso metà del suo valore rispetto all'euro!

Ma la crisi attuale ha rovesciato questa tendenza. Alla fine d'ottobre 2008 l'euro valeva solo 1,23 dollari. Si prevede perfino un ritorno alla parità prima della fine dell'anno.

I dirigenti dei paesi industriali colpiti dalla crisi conoscono bene le conseguenze della volatilità dei cambi sul commercio internazionale. Essa costituisce un elemento importante dell'aggravamento della crisi. Ma non hanno alcun mezzo di arrestare i movimenti speculativi e sopratutto non se li vogliono dare. Si parla molto di istituire un nuovo sistema monetario internazionale, di fare un nuovo accordo di Bretton Woods, ma sono solo parole. L'accordo di Bretton Woods aveva solo la forma di un accordo. Era stato dettato dagli Stati Uniti alle potenze imperialiste inglese, francese, ecc, indebolite dalla guerra e che non avevano allora altra scelta che quella di ubbidire. Indeboliti oggi anche loro dalla crisi, non è sicuro che gli Stati Uniti possano allo stesso modo dettare la loro volontà.

Il movimento speculativo che rafforza il dollaro non significa un ritorno di fiducia nella moneta americana, bensì una diffidenza maggiore nei confronti dell'euro. Nel regno dei ciechi anche un guercio è re e in questi tempi di burrasche finanziarie, i capitali in cerca di piazzamenti cercano rifugio dalle parti dei buoni del Tesoro americano. A questo si aggiungono gli interventi delle banche centrali che hanno anche piazzato le loro riserve in questi buoni del Tesoro. La Cina per esempio poco tempo fa ha aumentato di 100 miliardi di dollari il suo stock di depositi in dollari. Eppure ogni deprezzamento del dollaro significa che una parte delle sue riserve vanno in fumo. Ma i due paesi sono intralciati dalle stesse catene. Questa è una delle ragioni per cui i commenti che vedono nei paesi cosiddetti emergenti quali Cina, India o Brasile delle isole di crescita da cui l'economia mondiale potrebbe rimbalzare sono completamente stupidi. Un crollo del dollaro, una chiusura totale del mercato americano davanti ai prodotti cinesi oppure il ritiro dei capitali americani o giapponesi, sia che avvengano separatamente o simultaneamente, rovinerebbero la crescita cinese.

Dopo i fatti del 1929 il ritiro dei capitali americani fu il principale vettore di trasmissione della crisi verso la Germania. La stessa storia si potrebbe ripetere per l'economia dei paesi dell'Europa dell'Est di cui sia il sistema bancario sia la grande distribuzione e il settore industriale sono completamente sotto dominio delle grandi società occidentali, soprattutto europei. L'Ungheria e l'Ucraina sono già sull'orlo del fallimento, salvate da iniezioni di denaro del FMI.

I fondi d'investimento, in particolare quelli specializzati nelle speculazioni più rischiose, presi in contrattempo dalla speculazione e di fronte a grandi bisogni di liquidità che non trovano presso le banche, già ritirano massicciamente i loro capitali.

L'industria automobilistica è stata tra le poche che non si sono accontentate di riacquistare a prezzo straziato delle fabbriche ereditate dal periodo delle "democrazie popolari" ma ha costruito fabbriche nuove in Repubblica ceca, in Slovacchia, in Ungheria o in Slovenia. La crisi di questa industria e il ritiro dei suoi capitali e delle sue fabbricazioni avrebbero in questi paesi semi sviluppati conseguenze più drammatiche ancora che in Occidente.

La diminuzione della domanda prevedibile dell'industria, amplificata dalla speculazione, dà al prezzo delle materie prime un carattere erratico. Dopo avere raggiunto dei vertici, il prezzo del petrolio greggio è crollato dei due terzi in poche settimane. Le classi misere dei paesi poveri che avevano pagato con la crisi alimentare le speculazioni al rialzo pagheranno per le speculazioni al ribasso quando il loro stato cercherà di rifare sulle loro spalle la mancanza di entrate per la vendita del caffè, del riso o delle materie prime minerarie.

La crisi già va oltre i soli settori dell'immobiliare e della finanza.

L'industria automobilistica è coinvolta. Al calo del consumo finale si aggiungono le anticipazioni pessimistiche delle imprese del settore. Il riflusso della produzione automobilistica si ripercuote sulle numerosissime ditte d'appalto e su tutta la catena dei fornitori. Fino alla siderurgia, di cui l'automobile è con l'edilizia uno dei principali clienti, che già sta pianificando riduzioni drastiche della produzione e chiusure di imprese. Dato il ruolo economico del settore automobilistico con l'insieme delle ditte d'appalto e dei fornitori tutto questo porterà ad un balzo della disoccupazione. Le giornate di cassa integrazione si aggiungeranno alla crescita della disoccupazione per ridurre ancora il potere d'acquisto delle classi popolari e inasprire ancora la crisi.

Gli interventi degli Stati non vanno in direzione di una "moralizzazione" dei mercati finanziari -ma che diavolo può significare "moralizzazione della finanza"?- ma proprio in senso opposto. Le linee di credito sbloccate per tirare i finanziari dai guai e aiutarli alla ricapitalizzazione non solo sono un'assoluzione per le speculazioni passate, sono anche un incoraggiamento per le speculazioni future.

La riduzione dei tassi d'interesse delle banche centrali col pretesto di incoraggiare le banche a sbloccare crediti a favore delle imprese va nella stessa direzione. Fino a questa parte le facilità di credito di cui beneficiano le banche presso le banche centrali non le spingono a concedere crediti alle imprese di produzione, bensì a spiare le loro concorrenti in difficoltà per potere cogliere le "opportunità" cioè per riacquistarle a buon prezzo.

I dirigenti politici impazziti del mondo capitalista promettono di riformare il sistema finanziario mondiale. Ma oltre il fatto che ognuna delle grandi potenze imperialiste che ha qualche diritto alla parola in questa materia prevede questa riforma a suo modo, cioè quello della sua propria borghesia, che cosa potrebbero riformare? L'unica certezza è la crescita degli interventi di Stato. Sono stati immediati. Sin dal primo giorno della crisi finanziaria le banche centrali hanno aperto i cordoni del credito. Hanno invocato la necessità di superare la crisi di fiducia tra le banche per aprire linee di credito che gli possano permettere di fare a loro volta prestiti alle imprese. Ma, esempio eloquente riportato dal Wall Street Journal, la Banca Goldman Sachs per esempio che ha ricevuto 10 miliardi di dollari ha trovato modo di versare 11,8 miliardi ai suoi propri dirigenti!

Data la tendenza delle banche a sviare il credito al proprio uso senza distribuirlo all'industria, o ben poco, non è impossibile che gli Stati siano spinti verso varie forme di nazionalizzazione e la creazione di una specie di servizio pubblico bancario per venire in aiuto ai capitalisti più messi in difficoltà dalla crisi. Non ci fu altra scelta, nell'interesse della borghesia, all'indomani della guerra in Francia dove tutte le banche di deposito furono nazionalizzate.

Dopo le banche tocca alle grandi imprese dell'automobilistica chiedere l'elemosina. Dagli Stati Uniti ai paesi d'Europa si parla sempre più di "programmi ambiziosi" per rilanciare l'industria. Un'altra forma d'intervento dello Stato potrebbe essere l'apertura di cantieri di lavori pubblici. Lo Stato non ha mai smesso di contribuire ai profitti capitalisti con i soldi pubblici. Ma in periodo di crisi come in periodo di guerra gli Stati prelevano, più ancora che in tempo normale, direttamente sulla popolazione le somme necessarie per finanziare il profitto capitalista.

Sin dall'inizio la lunga crisi strisciante dell'economia capitalista ha portato ad un inasprimento della lotta di classe. Ma è sempre stata condotta a senso unico. E' la borghesia che ha avuto l'iniziativa. E' riuscita a fare pagare la crisi alla classe operaia poggiando in particolare su una delle conseguenze della crisi: la disoccupazione massiccia e il timore di perdere il posto di lavoro. Ha potuto contare su tutti i partiti per fare la politica che voleva, compreso i partiti che per il loro passato avevano un legame con la classe operaia.

Questo periodo di trenta anni rappresenta un lungo periodo di regresso sia per la condizione operaia sia più in generale per la società. Non bisogna dimenticare che non è stato solo con la riduzione continua della massa dei salari e il peggioramento brutale delle condizioni di lavoro che le imprese hanno aumentato i loro profitti e la classe capitalista ha mantenuto la quantità complessiva di plusvalore che i capitalisti si contendono con le operazioni finanziarie. Il gonfiarsi della finanza si è alimentato anche con la diminuzione delle protezioni sociali, dei prelievi enormi su tutto ciò che è utile all'insieme della società, compreso ai più diseredati. Prelievi sempre più importanti su tutto ciò che avrebbe potuto, e avrebbe dovuto andare alla sanità, alle scuole, alle infrastrutture collettive, sono serviti a pagare i servizi del debito, cioè ad alimentare la sfera finanziaria.

Basta solo ricordare che negli Stati Uniti, il più potente e più ricco paese capitalista, quasi 40 milioni di persone vivono in una povertà spaventosa; e questo paese che oggi riesce a spendere la somma allucinante di 150 miliardi di dollari per salvare una sola impresa di assicurazioni non è capace di istituire un sistema sanitario che consenta ai 40 milioni di poveri di curarsi correttamente. Porre la domanda di chi pagherà la crisi del capitalismo è una falsa domanda: le classi lavoratrici l'hanno già pagata e pagata caro.

Eppure non hanno finito di pagare. L'aggravamento della crisi non può che inasprire ancora di più la guerra condotta dalla borghesia. Il grado di statalismo che sarà raggiunto secondo la situazione concreta dei paesi e in funzione innanzitutto della gravità della crisi, non vi cambierà niente. Gli Stati interverranno non per migliorare la sorte delle classi lavoratrici bensì per permettere alla borghesia di uscire al meglio dalla crisi.

I prestigiatori impotenti del FMI, del WTO, delle banche centrali, potranno scavare nella bisaccia del passato per ritrovare la buona regolamentazione o il buon controllo che potrebbero impedire le catastrofi, i vertici dei G4, G8 o G 20 si potranno alternarsi a vicenda, non troveranno un buon sistema capace di regolare l'economia capitalista.

Lo dimostra anche il fatto che tutti i partiti socialisti che sono alla testa di un governo, fiancheggiati o meno da un PC, hanno condotto la stessa politica consegnando i servizi pubblici al mercato, favorendo il settore finanziario con un indebitamento crescente dello Stato, ecc.

Sempre più numerosi sono i commenti per cui l'economia di mercato sia perfetta solo con una certa dose di controllo e di regolamentazione, ricordando gli anni 1950 e 1960. Ma non riescono a spiegare come mai fu proprio in questi periodi regolamentati che l'economia capitalista è stata gravida della crisi scoppiata all'inizio degli anni 1970. Non sono neanche capaci di spiegare come e perché questo sistema, dipinto col senno di poi con colori idilliaci, ha potuto partorire il laissez-faire generalizzato e il liberalismo sfrenato che oggi è di moda denunciare dopo averli lodati ieri.

E' assolutamente irrisorio invocare l'influenza di tale economista fautore del liberalismo, o la politica ultraliberale di Reagan o della Thatcher. Se l'arrivo alla testa degli Stati Uniti di un attore di serie B ha potuto segnare a tal punto l'evoluzione del capitalismo degli anni scorsi, questo significa che comunque tale evoluzione doveva essere nell'aria, cioè nelle aspirazioni e la volontà della classe capitalista di cui i dirigenti politici sono solo i servitori, e nella logica dell'evoluzione stessa del capitalismo.

La classe operaia oggi non è preparata all'intensificazione della guerra che la borghesia le farà. I partiti che pretendono rappresentare i suoi interessi -e tra l'altro lo pretendono sempre meno- l'hanno tradita da molto tempo. E non è meglio per le confederazioni sindacali. L'inasprimento della crisi stessa, l'ascesa repentina della disoccupazione a cui bisogna aspettarsi, non spingono per ora alla combattività. Ma i colpi ricevuti fanno anche maturare la combattività e la coscienza. L'una e l'altra possono cambiare di colpo. Bisogna ricordarsi che se la depressione degli anni trenta ha sorpreso e disorientato le classi lavoratrici, poi ha portato a lotte di grande respiro.

La reazione della classe operaia non fu immediata. I licenziamenti, la crescita brutale della disoccupazione, le chiusure di fabbriche, gli attacchi di ogni genere, prima sorpresero e scoraggiarono i lavoratori.

Ci vollero parecchi anni per fare maturare la controffensiva dei lavoratori. Mai ci fu, e fu massiccia. Alla metà delle ogni 30, essa scosse paesi diversi come gli Stati Uniti, la Spagna o la Francia. Ondate di sciopero si svolsero anche in altri paesi.

Per la Germania la reazione arrivò troppo tardi. Tramite il regime hitleriano la borghesia riuscì a schiacciare la classe operaia di questo paese. Ma l'arrivo al potere del nazismo, evidenziando la minaccia fascista, contribuì in modo decisivo all'ascesa operaia in Francia e in Spagna.

Fu col poggiare sull'esperienza di questi anni di lotte operaie massicce che Trotsky stese il Programma di Transizione destinato alle organizzazioni della Quarta internazionale che si stavano costituendo.

Al momento in cui il programma fu pubblicato, nel 1938, l'ondata operaia già rifluiva, sconfitta, sviata su strade false o tradita. Mentre la seconda guerra mondiale si stava già avvicinando Trotsky lo stese però nella speranza che la guerra avrebbe portato come la guerra precedente a rivolte operaie.

Il programma era uno strumento per un'organizzazione rivoluzionaria decisa a rivolgersi ad una classe operaia già in lotta, proponendole una serie di obiettivi in grado di portarla a contestare concretamente il controllo della borghesia sulle imprese e sulle banche. Un programma che mirava a trasformare situazioni prerivoluzionarie in situazioni rivoluzionarie.

La storia della crisi attuale non è ancora scritta e nessuno può dire come, dove e quando si produrranno esplosioni operaie di fronte all'offensiva ineluttabilmente aggravata della borghesia. Nessuno anche può avere la certezza che si produrranno lotte abbastanza larghe, profonde e durevoli per scuotere le borghesie e i loro Stati.

Ma la ragione d'essere di un'organizzazione rivoluzionaria è di prepararsi a tali periodi, gli unici in cui la lotta di classe può sconvolgere la storia. Il Programma di Transizione fu scritto per tale periodo. Sarà in tale situazione, se si produrrà, che conquisterà il suo significato.

L'evoluzione della crisi riporta al centro dell'attualità gli obiettivi parziali del Programma di Transizione: la scala mobile dei salari per preservare il potere d'acquisto e la ripartizione del lavoro fra tutti senza diminuzione dei salari per proteggersi dalla disoccupazione che aumenta.

Ma il passato ha dimostrato come la borghesia o i suoi servitori politici di sinistra sapevano sviare queste due rivendicazioni, trasformandole da obiettivi rivoluzionari di un proletariato in azione a ricette da cucina per smobilitarlo. L'Italia ha conosciuto per parecchi anni un sistema di indicizzazione dei salari sui prezzi, e in un certo modo anche la Francia col sistema del salario minimo garantito. Quanto alla ripartizione del lavoro fra tutti l'idea ne è stata pervertita per diventare un argomento per il Partito Socialista al momento delle leggi Aubry delle 35 ore in cui l'abbassamento dell'orario di lavoro era presunto creare nuovi impieghi.

Quindi queste rivendicazioni essenziali del Programma di Transizione conservano il loro significato rivoluzionario solo se sono collegate all'obiettivo del controllo dei lavoratori e della popolazione sulle banche e sulle imprese. Il segreto bancario come più in generale il segreto degli affari sono assolutamente indispensabili ai capitalisti per perpetuare il loro saccheggio dei beni della società. La soppressione di questi segreti fa parte degli obiettivi prioritari perché costituisce il primo passo verso il controllo operaio dell'industria.

Gli obiettivi sono anche legati ai mezzi, alla democrazia operaia nelle lotte, alla creazione di comitati di sciopero o di comitati di fabbrica in grado di diventare Stati-Maggiori riconosciuti da tutti i lavoratori, compreso quelli più sfruttati che in periodo ordinario rimangono in disparte dei sindacati come della politica.

La crisi bancaria attrae l'attenzione dell'opinione pubblica operaia non solo sulla necessità del controllo ma anche sulla questione di chi controlla. Una constatazione evidente è che sia il controllo delle banche tra di loro, sia il controllo da parte dello Stato, sono controlli solo dal punto di vista della classe possidente e portano alla catastrofe. Bisogna strappare il controllo delle banche ai grandi finanzieri. Bisogna non solo nazionalizzare tutte le banche e nazionalizzare senza indennizzo, bisogna anche unificarle e sottomettere la banca di Stato unica al controllo dei lavoratori e della popolazione in modo che possa funzionare nell'interesse della società.

Non solo questi obiettivi non sono ricette magiche, ma troveranno il loro vero significato solo quando diventeranno quelli delle masse. Certamente non dipende da una piccola organizzazione suscitare la reazione delle masse operaie. Ma è nei periodi in cui la classe operaia agisce, e agisce davvero, che i piccoli gruppi rivoluzionari possono crescere e, se sono all'altezza, giocare un ruolo negli avvenimenti.

Ciò che è successo negli anni 30 dimostra che non fu la classe operaia a fallire di fronte alle necessità dell'epoca. Se le rivolte operaie, dagli Stati Uniti alla Spagna e alla Francia, non sono riuscite ad impedire alla borghesia di fare prevalere le sue soluzioni contro la crisi -il New deal negli Stati Uniti, il fascismo in Germania e lo statalismo in Francia, e alla fine la guerra mondiale- questo è dovuto alla politica condotta dalle organizzazioni di cui la classe operaia si fidava allora.

Nonostante il suo costo per la società, l'organizzazione economica capitalista non sparirà da sola. Sparirà solo se una forza sociale sarà capace di farla scomparire.

Conserviamo la convinzione che il proletariato rimane l'unica classe portatrice di tale trasformazione sociale. L'attualità della crisi e il formidabile spreco di lavoro umano che sta rivelando ne sottolineano la necessità. Non sappiamo oggi, più di venti o cinquant'anni fa, per quale strada, per quale cammino, per quali esperienze collettive il proletariato arriverà alla coscienza del suo ruolo storico dandosi per obiettivo il rovesciamento rivoluzionario del regno della borghesia, la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la riorganizzazione della produzione in funzione dei bisogni sotto il controllo democratico della collettività.

Ciò che sappiamo è che questa presa di coscienza necessita un partito operaio rivoluzionario. "Il significato del programma è il senso del partito" diceva Trotsky. Il partito operaio rivoluzionario ha il compito di difendere e di propagare questi obiettivi rivoluzionari in tutte le circostanze. Deve innanzi tutto essere capace per la sua coesione, per la sua comprensione comune degli avvenimenti, di attuarli quando il proletariato si mobilita.

Contribuire a questo compito nella misura delle nostre forze è la nostra fondamentale ragione d'essere.