La situazione economica internazionale

Εκτύπωση
Da "Lutte de classe" n° 47 (Testi della conferenza nazionale di Lutte Ouvriere)
Dicembre 1999 - gennaio 2000

Testo della maggioranza

L'anno scorso è stato considerato un buon anno dai commentatori del mondo capitalistico. La crisi finanziaria dell'anno precedente che ha devastato il Sudest asiatico, poi la Russia, non si è trasformata in un collasso generalizzato. In quanto ai danni per la popolazione lavoratrice di queste regioni, le fabbriche chiuse, la disoccupazione aumentata, ovviamente i finanzieri non ci fanno caso.

Delle grandi potenze imperialistiche, solo il Giappone è un recessione. Invece la situazione economica degli Stati-Uniti viene celebrata ed alcuni affermano che con otto anni di continua crescita, la maggiore potenza imperialistica ha vissuto uno dei più lunghi periodi senza recessione della sua storia economica. L'Europa occidentale rimane un po' indietro, ma la Francia avrebbe un buon risultato.

Stando ai profitti delle grandi imprese, infatti la situazione è soddisfacente per la classe capitalista. Prosegue il movimento di ascesa del saggio di profitto, cominciato all'inizio degli anni ottanta. Il prezzo è il degrado della situazione delle classi lavoratrici che si sa, cioè lo sfruttamento accresciuto di chi sta al lavoro mentre una frazione importante della classe operaia viene ridotta alla disoccupazione totale, parziale o intermittente.

In Francia, con il 12% ufficiale di disoccupati, il 6% di contratti a tempo determinato o interinali ai quali bisogna aggiungere quelli che sono sotto contratti formazione lavoro e quelli che non si iscrivono più nemmeno all'ufficio di collocamento, chi non ha un lavoro stabile o non ha affatto lavoro rappresenta tra un quinto e un quarto dei salariati. In quanto alle cifre della disoccupazione, più basse in alcuni paesi come la Gran Bretagna e innanzi tutto gli Stati Uniti, anche a prescindere dalle ciarlatanerie statistiche, nascondono stentatamente il carattere precario dell'occupazione, e quindi l'abbassamento drastico del potere d'acquisto di una proporzione crescente della classe operaia.

La borghesia capitalistica continua ad approfittare del rapporto di forza creato dalla disoccupazione per accrescere il saggio di sfruttamento con tutti i mezzi a disposizione : abbassamento dei salari reali, intensità crescente del lavoro, allungamento del tempo di lavoro reale.

Durante gli anni ottanta, i profitti accumulati hanno alimentato quasi esclusivamente i circuiti finanziari. Lo fanno ancora.

Da qualche anno però, sembra di nuovo che le attività produttive siano tanto redditizie quanto le attività finanziarie.

La capacità delle imprese di produzione di accumulare alti profitti in modo duraturo non è dovuta ad un movimento di allargamento dei mercati paragonabile al periodo che ha preceduto la crisi (tranne alcuni settori, di cui quelli legati all'informatica). Il rilancio del consumo di cui parlano i commenti tendenziosi riguarda la borghesia, piccola o grande; L'ampiezza della disoccupazione e l'abbassamento del potere d'acquisto delle classi popolari limitano la possibilità di un'accrescimento importante e continuo della domanda di beni di consumo. E malgrado il ritorno ad un alto saggio di profitto, gli investimenti non hanno ancora raggiunto il livello di prima della crisi. Per aggiunta, riguardano attrezzature che richiedono meno immobilizzazioni in capitale fisso e per meno tempo.

La continua crescita dei profitti deriva quasi esclusivamente dall'aggravamento dello sfruttamento in imprese che producono in quantità uguale, o anche maggiore, con un organico diminuito e mal pagato.

Però questa capacità delle imprese di produzione di accumulare profitti alti nel lungo periodo fa sì che i capitali in cerca di investimenti, a cominciare da quelli accumulati dalle imprese stesse, sono di nuovo attratti da questo cosiddetto "investimento" che consiste nel comprare altre imprese e la parte di mercato che detengono.

Gli acquisti e le vendite di imprese, tramite accordi consensuali o tramite battaglie borsistiche che mobilitano somme allucinanti, hanno segnato l'anno scorso. Il recente rapporto di una commissione dell'ONU accenna ad "un impressionante movimento di fusioni-acquisti" ed afferma che "il totale degli acquisti mondiali di imprese ha raggiunto 411 miliardi di dollari nel 1998, in aumento del 74% rispetto al 1997, anno già segnato da una progressione del 45%". Il rapporto afferma d'altra parte che "le transazioni del primo semestre del 1999 equivalgono già al totale delle fusioni del 1998". Senza parlare nemmeno degli acquisti di imprese a fini puramente speculativi, le concentrazioni che ne risultano sono in genere solo finanziarie e non ne consegue un aumento della capacità produttiva, e ancora meno delle creazioni di posti di lavoro. Quando Renault, approfittando di un'opportunità offerta dalla crisi asiatica, acquista Nissan, il suo "investimento" nel Giappone non crea fabbriche supplementari, anzi ne sopprime. La crescente concentrazione del capitale da un lato, le soppressioni di posti di lavoro dall'altro, sono due aspetti inseparabili del movimento di "ristrutturazione" in corso nel settore produttivo, come d'altronde nel settore bancario e nel gran commercio.

Una parte crescente del capitale è concentrata nelle mani di un numero limitato di grandi trust. Il medesimo rapporto dell'ONU parla di cento imprese che impiegano direttamente 6 milioni di persone e rappresentano complessivamente un fatturato di 2100 miliardi di dollari, ossia una volta e mezza il prodotto interno lordo della Francia, e sono "i nuovi maestri del mondo" che "impongono i loro obiettivi e ridisegnano il mondo".

Se ci si aggiungono anche le 60000 multinazionali che rappresentano il 25% della produzione mondiale, queste società sono infatti i maestri -non tanto nuovi insomma- dell'economia mondiale e della vita di 6 miliardi di esseri umani.

Le imprese attraggono anche, da parecchi anni, i capitali puramente finanziari.

La dominazione del capitale finanziario sul capitale produttivo è tanto vecchia quanto l'imperialismo. Da un secolo, il sistema finanziario e bancario non si limita più, e ci mancherebbe, alla parte dell'intermediario in carica dell'accentramento del capitale-denaro per metterlo a disposizione dell'economia capitalistica, sotto forma di crediti e dei fondi necessari per rendere la circolazione del capitale la più rapida possibile e nello stesso tempo contribuire alla perequazione del saggio di profitto.

Una delle conseguenze maggiori dell'evoluzione dell'economia capitalistica sin dal 1975-1976, cioè da quando è entrata in un periodo in cui le recessioni economiche ravvicinate si alternano a riprese deboli, sta nel fatto che gli investimenti finanziari sono stati a lungo, e rimangono in gran parte, più lucrativi degli investimenti nella produzione. Ne deriva la valorizzazione sempre più finanziaria dei capitali disponibili. Ne deriva anche l'abbondanza dei "prodotti finanziari" e lo sviluppo dei fondi specializzati negli investimenti finanziari.

Questi fondi d'investimento che attraggono i capitali disponibili di imprese o di ricchi privati rappresentano un potere considerevole. Il più importante di questi controlla fondi superiori al totale delle azioni quotate alla Borsa di Parigi. Vale a dire che possono comprare azioni delle maggiori multinazionali in quantità sufficiente da potere imporre loro una linea strategica.

In Francia, per esempio, i fondi d'investimento e fondi pensioni detengono il terzo e perfino la metà delle azioni di alcune delle più grandi imprese, dalla BNP alla Saint-Gobain, alla Elf-Total o alla Pinault-Printemps. La preoccupazione maggiore di questi fondi non è lo sviluppo a lungo termine dell'impresa, ma la sua capacità ad accumulare questo profitto del 15% circa che pare sia necessario, stando agli ambienti finanziari, per un aumento ben più importante del prezzo delle azioni e quindi della fortuna degli azionisti. Infatti questi fondi d'investimento ricercano un rialzo rapido del corso delle azioni ben più che l'ammonto e la regolarità dei dividendi.

Il loro investimento è quindi molto volatile e può ritirarsi non appena pare che la redditività finanziaria non sia più garantita. Ne risulta che la strategia stessa delle imprese di produzione è in gran parte influenzata dall'evoluzione a breve termine delle azioni in Borsa.

L'introduzione massiccia nel capitale produttivo di capitali in cerca di un investimento proficuo a breve termine apre un grande spazio a tutte le speculazioni.

Nello stesso modo del sistema bancario, il mercato borsistico ha sempre avuto una parte indispensabile nell'economia capitalistica. Facilita la mobilitazione e la concentrazione del capitale e, teoricamente, la sua trasformazione in capitale produttivo. Ma il prezzo delle azioni che, ricordiamolo, rappresentano una parte di proprietà dell'impresa che le emette, non è più solo tratto in avanti dai profitti risultanti dalla produzione presente. Sono stimolati ancora di più dalle anticipazioni sui profitti futuri, fondate o meno, il cui sbocco inevitabile è la speculazione.

L'involo surrealista del prezzo delle azioni delle società in rapporto coll'Internet ne dà un'illustrazione. Così la capitalizzazione borsistica della società Yahoo!, la più importante del settore, - cioè il prezzo complessivo delle sue azioni in Borsa- supera quella del gigante del petrolio Texaco. Si specula su queste azioni come si speculava ieri sulle monete asiatiche (o contro di loro), con lo stesso risultato prevedibile.

La crescente dipendenza delle imprese, cioè la produzione di beni materiali, rispetto ai capitali speculativi e ai loro imprevedibili sobbalzi, mette l'economia internazionale sotto una minaccia permanente. La crisi asiatica, anche se è rimasta limitata, ha ricordato l'acutezza di questa minaccia.

Lo sviluppo dei fondi d'investimento è il tributo pagato dal capitale produttivo al capitale finanziario. Il fatto che ambedue stiano bene è un'altra espressione del maggiore sfruttamento della classe operaia. Il capitale produttivo riesce a riportare sulla classe operaia tutto il peso del parassitismo del capitale finanziario.

Una delle funzioni del sistema bancario è sempre stata di drenare verso il gran capitale il risparmio delle classi popolari. Tale fenomeno prende delle dimensioni mai raggiunte prima. I fondi pensione che centralizzano il denaro risparmiato dai salariati per assicurare la loro pensione sono divenuti attori maggiori della speculazione mondiale. Ma l'importanza assunta da questi fondi pensione non è solo dovuta alle deregolamentazioni della mondializzazione, ma anche al fatto che dappertutto le protezioni sociali sono indebolite e che, dappertutto anche, lo Stato attinge alle casse sociali per accordare favori al gran padronato.

Il capitalismo in putrefazione trasforma una frazione crescente della classe operaia stessa in "risparmiatori forzati". E chi non ha un salario sufficiente per risparmiare o per assicurarsi in modo conveniente contro la malattia è ridotto, al meglio, all'elemosine pubblica o privata, e al peggio non gli resta più, venuta la vecchiaia, che da sparire.

Sotto certi aspetti, quello che viene chiamato "la mondializzazione finanziaria", cioè la libertà del capitale finanziario di spostarsi ed investirsi al di là delle frontiere, non è un fenomeno nuovo. Era almeno tanto importante all'inizio di questo secolo quanto lo è oggi. Con l'oro come strumento di pagamento internazionale e la convertibilità in oro delle monete delle grandi potenze imperialistiche, gli spostamenti di capitali su scala mondiale in cerca di investimenti redditizi, incontravano ancora meno ostacoli che oggi.

Dopo un primo periodo di regolamentazione durante la prima guerra mondiale, è la crisi del 1929, poi la seconda guerra mondiale che hanno portato i vari Stati, compresi quelli delle maggiori potenze imperialistiche, ad abbandonare, parzialmente in quanto agli Stati-Uniti e totalmente per gli altri, la convertibilità della loro monete in oro e ad imporre un regime di regolamentazione delle operazioni finanziarie, di controllo dei cambi e dei movimenti di capitali. La "mondializzazione finanziaria" attuale risulta nello stesso tempo dall'abbandono di questi controlli degli Stati in seguito alle misure di deregolamentazione iniziate da venti anni circa, dalla soppressione delle barriere tra i mercati finanziari nazionali e dalla loro interpenetrazione e, in fine, dalla despecializzazione progressiva delle banche che non sono più sole ad agire sui mercati finanziari.

Questa "mondializzazione finanziaria" a sua volta dà un formidabile colpo di acceleratore alla crescita delle operazioni finanziarie. Non solo il controllo, ma anche la semplice misura delle transazioni finanziarie, diventano impossibili.

La natura stessa della deregolamentazione ricorda però che questa "mondializzazione finanziaria" non è il risultato della sola evoluzione economica di fronte alla quale gli Stati rimarrebbero impotenti. Si è svolta con l'aiuto dei governi, tutti desiderosi di spianare il terreno di fronte al capitale finanziario. Basta ricordarsi delle lodi alla Borsa e alle attività borsistiche del defunto primo ministro socialista francese Bérégovoy. La deregolamentazione è stata l'opera dei governi.

Certamente non abbiamo da contrapporci alla "mondializzazione finanziaria" in nome del ripiegamento nazionale, né agli aspetti liberisti del capitalismo in nome dei suoi aspetti statalisti. Tanto meno che gli aspetti liberisti non hanno per nulla fatto sparire gli aspetti statalisti.

Raramente nel passato gli Stati hanno dedicato una parte così importante del loro bilancio ad aiutare la classe capitalista. I più grandi trust del mondo si appoggiano sulla potenza dei loro Stati per fare prevalere i loro interessi, nelle negoziazioni internazionali come sul terreno stesso ; con la diplomazia internazionale come, se necessario, con la presenza militare.

Il problema non è che gli Stati imperialistici stiano diventando impotenti di fronte alla mondializzazione. Sta nel fatto che questi Stati sono al servizio del gran capitale.

Trattandosi delle potenze imperialistiche, il problema non sta neanche nelle "rinunzie alla sovranità", come viene affermato non solo dai demagoghi di destra, ma anche da correnti che si pretendono di sinistra, addirittura d'estrema sinistra. Quando gli Stati nazionali trasmettono ad istituzioni sovranazionali una parte della loro autorità, è perché ritengono che gli interessi dei loro mandatari sono meglio protetti in associazione con altri Stati.

I "mercati comuni" regionali, le Unioni doganali, esprimono fondamentalmente il fatto che lo sviluppo dell'economia e la divisione internazionale del lavoro avrebbero dovuto, da molto tempo, ridurre le frontiere e le barriere economiche nazionali ad un semplice ricordo di un periodo della storia dell'umanità ormai superato. Ma la sopravvivenza del capitalismo fa sì che questo periodo non è chiuso. L'emergenza di complessi economici più vasti esprime la sopravvivenza del sistema capitalistico così come la necessità della sua sparizione.

Questi "raggruppamenti economici", che non uniscono le entità nazionali in un complesso omogeneo, ma al contrario fortemente gerarchizzati, in genere costituiscono la sfera d'influenza di una o parecchie potenze imperialiste dominanti (quando non corrispondono semplicemente ad un ex impero coloniale o semicoloniale).

Il NAFTA (North American Free trade Agreement - Accordo di libero scambio Nord Americano) che raggruppa Stati-Uniti, Canada e Messico, è uno strumento di dominazione dei primi. E il Mercosur, il mercato comune del cono sudamericano, ha un bel atteggiarsi ad un'alternativa al dominio degli Stati Uniti, è in realtà uno dei suoi vettori, così come lo è il CARCOM, il mercato comune della zona dei Caraibi. In quanto all'AFTA (Asian Free Trade Union - Unione asiatica di libero scambio), rappresenta più o meno l'ex zona d'influenza del Giappone.

Così è per l'Unione europea con questa originalità che le tre principali potenze imperialistiche d'Europa, la Germania, la Gran Bretagna, la Francia, con altre potenze imperialistiche ancora più deboli, pur rivali tra di loro, sono state costrette ad associarsi per salvaguardare i loro interessi di fronte a potenze più forti di loro. L'Unione non ha affatto posto termine a questa rivalità, come lo dimostra la recente "guerra della carne di manzo" che oppone Francia e Gran Bretagna.

Ma altre guerre commerciali, come per esempio la guerra della banana che oppone tra di loro due entità imperialistiche, gli Stati-Uniti e l'Unione europea, di cui né l'una né l'altra produce sul proprio suolo delle banane in quantità significativa, ricordano che una delle ragioni di essere dell'Unione europea è di permettere a potenze imperialistiche di secondo ordine di tentare di preservare insieme delle sfere d'influenza economica che esse non sono più in grado di preservare solo con le proprie forze. Le difficoltà dell'imperialismo francese a preservare la sua "zona riservata" africana dall'influenza americana e dalle merci giapponesi, illustra tale necessità.

L'Unione europea, la moneta unica, non sono solo destinate a sopprimere le barriere interne delle potenze imperialistiche d'Europa, a permettere loro di fronteggiare meglio la concorrenza americana o giapponese ed a facilitare il loro dominio sui piccoli paesi non imperialistici del continente. Sono anche destinate a garantire meglio l'accesso degli imperialismi d'Europa al saccheggio del Terzo Mondo.

Fatto sta che il saccheggio e lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati continuano a giocare un ruolo di primo piano nella prosperità della borghesia dei paesi imperialistici. Questo saccheggio si svolge sempre più tramite gli interessi usurari pagati da questi paesi al sistema finanziario occidentale. Ma non è solo finanziario. Non bisogna dimenticare il dominio, di nuovo in crescita oggi, passate le ondate di nazionalizzazioni che hanno seguito la decolonizzazione, sui settori economici di questi paesi in grado di produrre profitti.

Uno degli elementi della "decolonizzazione finanziaria", la pressione esercitata sui paesi poveri per privatizzare le imprese nazionalizzate e spianare il terreno davanti alla circolazione dei capitali, toglie a questi paesi gli strumenti di resistenza di cui alcuni di loro disponevano. Anche la Cina, sulla strada di un ritorno rapido al capitalismo privato, ha in progetto la convertibilità della sua moneta, la generalizzazione delle privatizzazioni ed un'apertura crescente alle merci e ai capitali imperialistici, e lo ha espresso con la sua richiesta d'adesione all'Organizzazione Mondiale del Commercio. Il ceto privilegiato nazionale forse troverà interesse, come la borghesia parassitaria di tutti i paesi sottosviluppati, a riallacciare così i rapporti con l'imperialismo -anche se questo non è scontato. Ma in Cina come altrove, i capitali occidentali - nella misura in cui non saranno puramente speculativi- andranno ai pochi settori proficui. Le privatizzazioni si tradurranno inevitabilmente con chiusure di fabbriche, con la distruzione di una parte più o meno consistente di un'industria nazionale faticosamente costruita al prezzo dei sacrifici imposti dal regime alle classi lavoratrici, che dovranno ormai fronteggiare una disoccupazione massiccia.

La Conferenza di Seattle, che doveva aprire un nuovo ciclo di negoziazioni nell'ambito dell'organizzazione Mondiale del Commercio, è stata presentata come un passo in avanti nell'organizzazione del mercato mondiale. Ma gli urti tra gli interessi contraddittori delle potenze imperialistiche d'Europa e quelle dell'America e del Giappone dimostrano che non si tratta affatto di un mercato armonioso, nel quale ogni paese abbia diritti, privilegi ed inconvenienti simili. Così come, molto esattamente, sarebbe ridicolo parlare di uguaglianza sui mercati interni, sarebbe ridicolo parlare di uguaglianza tra Carrefour ed un piccolo bottegaio di quartiere, tra un gigante dell'industria agroalimentare ed il piccolo contadino, o ancora, sul mercato del lavoro, tra il padrone capitalista ed il disoccupato che bussa alla sua porta per chiedere un lavoro.

Il mercato mondiale, anche organizzato -perché in effetti l'OMC rappresenta un tentativo d'organizzazione e fino ad un certo punto di regolazione sovranazionale- è e rimarrà un luogo di confronti e di guerre commerciali dove solo contano i rapporti di forza. Il commercio internazionale, di cui all'avvicinarsi della conferenza di Seattle è stato lodato il ruolo determinante nella crescita economica, sta sotto il dominio di alcuni grandi monopoli, appoggiati dagli Stati. Di più, una parte crescente del commercio internazionale rappresenta semplicemente la circolazione di prodotti tra le imprese di uno stesso trust.

Siamo sempre più spesso di fronte all'attività, anche solo verbale, di associazioni o raggruppamenti come ATTAC (Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie per l'aiuto ai cittadini) oppure i comitati per l'annullamento dei debiti del terzomondo.

Creatasi appena due anni fa, ATTAC, senz'altro la più conosciuta di queste tendenze in Francia e il cui obiettivo è riassunto nel suo titolo, sembra abbia trovato un certo riscontro non solo in seno alla piccola-borghesia intellettuale, ma anche presso alcuni apparati sindacali o associazioni che fanno parte di quello che viene chiamato abusivamente "il movimento sociale". La rivendicazione della cosiddetta tassa Tobin, l'idea di una tassazione dei capitali speculativi, viene anche assunta da un certo numero di politici, innanzitutto dell'ambiente del Partito socialista o del PC.

Le correnti come ATTAC o i comitati per l'annullamento dei debiti del terzomondo se la prendono con alcuni degli aspetti più schifosi del capitalismo, ma non al capitalismo stesso. Si atteggiano a combattenti contro il capitale finanziario ma per questo fanno appello agli Stati che sono gli esecutori del capitale finanziario. Anche nel campo particolare del rapporto tra paesi imperialistici e paesi sottosviluppati, se la prendono con una delle forme di saccheggio dei paesi poveri, il saccheggio tramite i prestiti usurari, ma non al saccheggio stesso. Nello stesso tempo diffondono molte illusioni riformistiche, mentre la crisi e il ruolo squallido dei partiti riformisti al potere dimostrano il vuoto di queste illusioni.

Con i loro obiettivi tanto limitati quanto utopici di un capitalismo un po' più "pulito", così come con i metodi moderati e rispettosi delle autorità stabilite che propongono, gli iniziatori di queste correnti sarebbero al meglio degli innocui sognatori, se non fossero innanzitutto ostili alla lotta di classe ed anticomunisti. Fanno parte in realtà di questo ambiente socialdemocratico che contro gli "eccessi" del capitalismo è generoso solo di parole vuote, ma i cui capi politici al governo conducono la politica che il gran capitale chiede loro di condurre.

Spesso, quelli che partecipano alle iniziative ed alle manifestazioni di queste correnti sono spinti da una sincera indignazione contro questi aspetti delle devastazioni del capitalismo quali la speculazione o il saccheggio usurario del terzomondo. Questa sincerità nell'indignazione non significa necessariamente che chi si organizza in ATTAC o manifesta con i comitati per l'annullamento dei debiti o "giubileo 2000" non sia in fase con gli iniziatori riformistici di queste correnti e con le loro idee, e neanche che voglia andare più lontano del poco che gli viene proposto. Gli ambienti sensibili a queste questioni, almeno per il momento, fanno parte della base sociale dei Partiti socialisti.

Può darsi che per alcuni di loro, raggiungere queste correnti sia un primo passo verso una presa di coscienza di che cosa è l'organizzazione capitalistica dell'economia e della società e, forse, una prima e timida espressione della volontà di combatterla. A maggior ragione spetta ai comunisti rivoluzionari spiegare a questa minoranza gli obiettivi ed i limiti di queste correnti. Non si combattono gli aspetti schifosi del capitalismo con vane risoluzioni rivolte ai dirigenti del mondo imperialistico e, innanzitutto, non li si combattono nel rispetto del capitalismo stesso ma, invece, con la lotta di classe del proletariato per rovesciare il capitalismo. E questo comincia col riallacciarsi alle idee della lotta di classe, e non coll'ignorarle o col combatterle.

Quanto a mobilitarsi contro l'OMC ed a raggiungere il largo arco che va dalla destra alla sinistra, da Pasqua a Chevènement e al PC, di chi chiede una moratoria sulle prossime negoziazioni, sarebbe partecipare ad un'operazione d'inganno politico che devia i lavoratori dagli obiettivi necessari e dall'azione efficace. Quando i lavoratori scenderanno in lotta, sarà loro interesse farlo contro i capitalisti -francesi o no- che hanno sotto mano e che possono fare andare indietro, e non contro la riunione lontana di un'organizzazione inafferrabile che, di più, non è la causa ma solo una delle molteplici espressioni del dominio dei trust e del capitale finanziario sul mondo.

Anche nei suoi periodi d'espansione, il capitalismo sviluppa l'economia in modo irrazionale rispetto ai bisogni reali e coll'aggravare le disuguaglianze tra la borghesia e le classi lavoratrici, come tra i paesi imperialistici ed i paesi poveri. Ma fin dall'inizio della crisi, l'economia capitalista è diventata sempre più usuraria e la sua putrefazione si palesa con l'interpenetrazione dell'economia del crimine -droga, mafie, traffico d'armi e corruzione- e la cosiddetta economia normale. Questa economia non può essere migliorata, emendata o riformata.

La guerra che la classe operaia dovrà condurre non sarà contro la "mondializzazione" ma contro il capitalismo. Gli obiettivi fondamentali non sono cambiati da quando sono stati espressi da Marx e da quando la rivoluzione operaia di Russia ha provato a realizzarli.

5 novembre 1999