L'economia capitalista mondiale

Εκτύπωση
Da "Lutte de classe" n° 62 (Il 31° congresso di lutte ouvrière)
Dicembre 2001

La situazione

Il rallentamento economico e il ribasso della produzione industriale negli Stati Uniti -con le dovute conseguenze sull'insieme dell'economia mondiale- smentiscono tutti gli stupidi discorsi su una nuova epoca di sviluppo senza crisi dell'economia americana. Anche adornata dai qualificativi "nuova" o "moderna", l'economia americana non può funzionare senza sobbalzi più o meno gravi. E' significativo peraltro che i vari settori della cosiddetta "nuova economia" (telecomunicazioni, internet, fabbricanti di computer e software, ecc) siano stati i primi ad entrare in una crisi di sovrapproduzione del tutto classica, anche se la speculazione ha amplificato tanto la crescita di questi settori quanto la loro caduta attuale. Lo spettacolare ribasso delle azioni di questo settore in Borsa, il crollo dei loro elementi di punta -le azioni di imprese quali Yahoo o la libreria elettronica Amazon.com hanno perso dall'80% al 90% del loro prezzo rispetto al loro corso più alto- non devono infatti nascondere il fatto che, dietro al crac borsistico, c'è proprio un ribasso della produzione di computer e di mezzi di comunicazione : imprese come Philips o Siemens e molte altre, ricorrono a drastiche soppressioni di posti di lavoro e molte imprese piccole o medie -queste "start up" celebrate dai fautori della "nuova economia"- spariscono senza lasciare traccia, tranne delusi e debiti.

Durante gli anni novanta e innanzitutto nella loro prima metà, le prospettive di sviluppo della telefonia cellulare e in generale delle telecomunicazioni e dell'informatica, hanno attratto gli investimenti in questi settori. Molte vecchie imprese si sono convertite a questo tipo di produzione, nuove imprese si sono create ed arricchite. Il mercato dei telefoni cellulari, dei computer, dei loro componenti elettronici o della "net economia" in pieno sviluppo, hanno attratto un volume crescente di capitali di cui una buona parte è stata investita nei mezzi di produzione. Gli investimenti in attrezzature hanno consentito importanti aumenti di produttività in questo settore, a tal punto che compiacenti economisti hanno estrapolato questa situazione all'insieme dell'economia.

L'aumento dei profitti -o, per qualche impresa come Amazon.com, la sola promessa di un aumento futuro !- hanno attratto capitali in cerca di investimenti meramente finanziari. L'afflusso della domanda ha fatto aumentare il prezzo delle azioni di queste imprese ben più rapidamente dei profitti. Nel settore tecnologico, negli Stati-Uniti, nella seconda metà degli anni novanta, l'aumento del corso delle azioni fu pressoché cinque volte più rapido di quello dei benefici, gonfiando ancora in modo fantastico la solita bolla finanziaria.

Ma le illimitate possibilità produttive alla fine si sono scontrate col carattere limitato del mercato. La cosiddetta nuova economia non era affatto immune contro le vecchie malattie dell'economia capitalista e le grandi imprese del settore, malgrado il rallentamento dell'estensione del mercato, conducevano una furiosa guerra commerciale di cui ognuna sperava di uscire vittoriosa. La crisi era inevitabile. La bolla finanziaria, alimentata ancora per qualche tempo dal crescente indebitamento del settore, alla fine scoppiò.

L'aspetto più spettacolare dell'attuale situazione sta negli incessanti sobbalzi borsistici. Brutali ascese e discese si alternano quasi ogni giorno, però intorno ad un asse in discesa.

L'indice borsistico dei valori tecnologici (NASDAQ) è passato tra la metà dell'ottobre 2000 e la metà dell'ottobre 2001 da 3316 a 1654, ossia un ribasso del 50%. Anche l'indice dell'insieme della Borsa di New York (Dow Jones) è andato in ribasso, sebbene in modo minore, passando nello stesso periodo da 10192 a 9189, mentre l'indice francese CAC 40 passava da 6064 a 4348.

Dopo aver creato una ricchezza fittizia, la speculazione borsistica la distrugge. Questo sicuramente significa la fine delle speranze di arricchimento dei creduloni che avevano puntato sull'informatica, le biotecnologie ed altre meraviglie della speculazione borsistica che, per qualche tempo, certamente costavano caro ma rendevano ancora di più. Questo però non significa affatto un impoverimento di tutti i gruppi finanziari speculatori perché, alla lotteria della Borsa, si può vincere puntando sul ribasso o addirittura provocandolo. La funzione delle crisi borsistiche nell'economia capitalista è appunto di fare le pulizie, di rallentare l'imballarsi speculativo dei capitali e la loro dispersione -e di permettere ai più potenti di raccogliere i guadagni e di centralizzare di nuovo i capitali.

Certamente non è la prima crisi a coinvolgere i corsi borsistici dopo l'inizio della loro curva ascendente intorno al 1983. Anche solo nei dieci anni scorsi, la Borsa ha attraversato almeno sei periodi, dalla guerra del Golfo nel 1991 agli attentati dell'11 settembre 2001, con nel frattempo la crisi asiatica del 1997 o il fallimento del fondo speculativo LTCM, durante i quali gli indici borsistici hanno subito variazioni oltre al 40%.

Ma il mondo della speculazione non è separato dall'economia produttiva. L'uno e l'altra costituiscono aspetti diversi di una stessa economia capitalista. Gli entusiasmi o le paure degli speculatori hanno inevitabilmente delle ripercussioni sull'insieme della vita economica.

Il ribasso attuale del prezzo delle azioni in Borsa riflette la recessione che si sta profilando nell'economia reale. Ma diventa a sua volta fattore aggravante. Se la Borsa è un luogo privilegiato di speculazione, essa al tempo stesso ha un ruolo indispensabile nell'economia capitalista : quello di mercato dei capitali che decide della destinazione del capitale-denaro, della sua ripartizione nei vari settori dell'economia. E la grande volatilità della Borsa, che provoca variazioni repentine del prezzo delle azioni, è un intralcio alla ricerca dei capitali necessari per gli investimenti produttivi a prezzi non troppo costosi. Già di per sé, l'evoluzione del mercato dei beni e dei prodotti verso la saturazione è un potente fattore di rallentamento degli investimenti. I sobbalzi della Borsa accentuano questa evoluzione, nonostante la politica di diminuzione dei tassi d'interesse praticata dalla banca centrale americana.

La recessione dell'economia americana comunque appare già nelle cifre di produzione dell'industria. In un anno di tempo, la produzione industriale è ribassata dal 5,8%. Il tasso d'utilizzazione delle capacità industriali che si è stabilito al 75,5% è al livello più basso dal 1983. Si tratta del dodicesimo calo mensile consecutivo della produzione industriale. Secondo la banca centrale americana, bisogna risalire al periodo compreso tra il novembre 1944 e l'ottobre 1945 per ritrovare un regresso durato dodici mesi di seguito.

A crollare ben prima degli attentati dell'11 settembre, non ci fu solo la produzione di computer e semiconduttori, e più largamente tutto quello che si collega ai settori delle alte tecnologie. Fu anche così nell'industria aeronautica e perfino nei trasporti aerei, anche se i padroni di questo settore e quelli delle assicurazioni invocano questi attentati per ottenere aiuti e sovvenzioni supplementari. Anche l'industria automobile americana ha diminuito la produzione e ridotto l'organico. Le esportazioni degli Stati-Uniti stanno calando, così come gli investimenti.

Il rallentamento dell'attività economica dei paesi industrializzati ha portato ad un ribasso più o meno brutale del prezzo delle materie prime.

Nel corso degli ultimi trent'anni, l'economia americana ha attraversato tre recessioni. Non si può dire se quella appena cominciata sarà più profonda o più lunga delle precedenti. Gli economisti della borghesia non sono più affidabili quando predicano una nuova ascesa a breve termine di quando sprofondano nel catastrofismo.

L'eccezionale lunghezza della fase d'espansione, cominciata negli Stati-Uniti nel 1991-1992 e finita quest'anno, ha alimentato però miti di ogni genere. Non parliamo dei commenti più imbecilli, pur largamente propagati, che annunciavano la fine delle crisi e delle variazioni cicliche. E' vero che ci fu un professore d'economia politica di una delle più agiate università americane per annunciare addirittura "la fine della Storia" dopo il crollo dell'URSS senza neanche coprirsi di ridicolo.

Ma la crescita americana ha alimentato tanti altri miti, più sfumati, sulla "nuova economia". Aldilà di una presentazione idillica di questa crescita attribuita a questa "rivoluzione tecnologica" rappresentata dalla diffusione dei computer e delle nuove tecniche di comunicazione, le migliaia di pagine scribacchiate a proposito della "nuova economia" comportavano in generale l'idea che questa "rivoluzione tecnologica" portava ad un aumento della produttività ed apriva al capitalismo una nuova fase di crescita. E' questa visione del capitalismo che stiamo combattendo.

Ci siamo spiegati nel testo della Conferenza dell'anno scorso sulla portata limitata della fase d'espansione dell'economia americana -anche prima che questi limiti diventino palesi con la flessione della curva della produzione industriale.

Per riassumere : malgrado la sua durata, la fase d'espansione americana non aveva niente d'eccezionale, niente comunque che possa giustificare i discorsi che vanno di moda sul nuovo respiro dell'economia capitalista. Il tasso di progressione del prodotto interno lordo (PIL) americano -con quello che c'è comunque in questa nozione di vago e di mistificatore della realtà economica- era rimasto inferiore a quello degli anni sessanta. E se il tasso degli investimenti produttivi, dopo un regresso e poi una lunga stasi, ha ricominciato a crescere tra il 1992 e il 2000 e portato guadagni di produttività, la crescita dei tassi d'investimento e sopratutto quella della produttività si sono limitati per l'essenziale ai settori della nuova tecnologia, computer, semiconduttori, microprocessori, reti, telefoni cellulari, ecc.. E questa crescita della produttività si è espressa con importanti diminuzioni dei prezzi (o nel caso dei computer con una potenza aumentata per lo stesso prezzo). Ma non fu la stessa cosa negli altri settori dell'economia, in cui certamente le spese per gli impianti informatici hanno gonfiato le cifre delle spese d'investimento, ma non quelle della produttività. Ora, anche negli Stati-Uniti, il settore dei prodotti di alta tecnologia rappresenta solo l'8% dell'attività economica.

L'unico campo in cui gli anni 90 hanno indubbiamente sorpassato gli anni 60 è quello dei profitti e della progressione dei corsi della Borsa. Ma appunto, questo divario tra la crescita limitata dell'economia produttiva e l'imballarsi della Borsa è oggi una delle principali cause di tensione.

Il cosiddetto "miracolo economico americano" tra il 1992 e il 2000 poggiava innanzitutto su due fattori.

Il primo -che riguarda l'insieme dell'economia capitalista mondiale- è l'aumento dello sfruttamento della classe operaia. Questo si esprime con una moltitudine di fatti, dalla diminuzione generale della parte dei salari nel reddito nazionale alla generalizzazione della precarietà, dal deterioramento della protezione sociale alla diminuzione delle varie forme di salario indiretto o all'intensificazione dei ritmi di lavoro. Il disimpegno dello Stato da pezzi interi del servizio pubblico agisce in modo indiretto nella stessa direzione. Il peggioramento dello sfruttamento è reso possibile dal deterioramento del rapporto di forze complessivo tra borghesia capitalista e classe operaia.

Il secondo fattore è propriamente statunitense. Esprime un altro rapporto di forze, questa volta tra l'imperialismo e i paesi sottosviluppati e, all'interno di questo rapporto di forze, tra l'imperialismo americano e gli imperialismi concorrenti d'Europa o del Giappone. Quello che oggi viene chiamato "mondializzazione" è la deregolamentazione generalizzata, la soppressione degli ostacoli davanti alla circolazione e agli investimenti dei capitali, la crescente integrazione dei paesi del Terzo mondo nel sistema imperialista mondiale, compreso quelli che in passato hanno provato ad assicurarsi un certo livello di sviluppo economico tramite lo statalismo protetto dal monopolio del commercio estero. Questa "mondializzazione" approfitta ovviamente innanzitutto ai maggiori consorzi multinazionali che sono in maggioranza americani. D'altra parte, la potenza economica americana si combina con il ruolo del dollaro nel commercio e la finanza mondiali per permettergli di finanziare la sua crescita con capitali esteri.

Anche durante la fase d'espansione, di crescita importante dei profitti e quella, molto relativa, degli investimenti, solo una parte dei capitali accumulati si è trasformata in capitale produttivo.

Malgrado il dinamismo della sua espansione durante alcuni anni, il mercato dei computer e altri telefoni cellulari non era abbastanza importante da assorbire le enormi quantità di capitale-denaro accumulate da venti anni che, dai crac borsistici alle crisi monetarie, dalle ondate di speculazioni immobiliari ai finanziamenti di fusioni-acquisizioni, erano sempre in cerca di nuovi investimenti. Anzi, come già detto, uno tra i "successi" principali della nuova economia, dal punto di vista capitalista, è stato di aver aperto un nuovo campo alla speculazione borsistica, particolarmente attraente per un po' di tempo.

Meglio -o peggio-, per finanziare il proprio futuro sviluppo, per ottenere licenze di sfruttamento, spinte dalla concorrenza accanita a cui si davano tra di loro, le imprese del settore delle telecomunicazioni si sono indebitate in modo importante. La gara alle fusioni che risulta dalla volontà di acquisire una "dimensione mondiale" e sopratutto le conseguenti posizioni di monopolio, faceva decisamente appello al credito e contribuiva così all'indebitamento globale dell'economia.

Il movimento delle fusioni-acquisizioni tra i consorzi di diverse nazionalità, che nel 2000 aveva raggiunto l'ammonto record di 1270 miliardi di dollari, era in gran parte un movimento speculativo. Le imprese hanno utilizzato i loro capitali accumulati per comprarsi l'una o l'altra, e alcune hanno semplicemente approfittato della rivalutazione fittizia dei loro capitali, grazie all'aumento della Borsa, per comprare delle impresi più potenti. Una delle conseguenze della caduta della Borsa è stata il rallentamento di questo movimento.

Senza neanche parlare di quest'altro indebitamento, quello dei nuclei familiari della piccola e media borghesia che le speranze di futuri profitti borsistici hanno portato a consumare aldilà delle loro reali possibilità del momento. Il consumo è stato, a quanto pare, uno dei principali motori degli anni d'espansione negli Stati- Uniti. Il crollo delle illusioni borsistiche rischia di bloccare anche questo motore. Non è detto che gli appelli al "patriottismo economico" di Bush possano sostituire le perdite in Borsa, anche se queste perdite sono tanto virtuali quanto lo erano i guadagni.

Anche all'ora della "nuova economia", si è mantenuta la tendenza dell'accumulazione del capitale a prendere una forma essenzialmente finanziaria, tendenza che aggrava l'ipertrofia del settore finanziario.

Il capitale finanziario, direttamente o tramite lo Stato e il debito pubblico, preleva una parte dei profitti del capitale industriale, "solo modo d'esistenza del capitale in cui la sua funzione non consiste solo nell'appropriazione, ma anche nella creazione di plusvalore, ossia di sovrapprodotto" (Marx), creando un ceto meramente parassitario di redditieri, una "classe di creditori dello Stato".

Con l'imperialismo, il parassitismo del capitale finanziario ha preso proporzioni ancora maggiori.

Lenin considerava come una delle caratteristiche fondamentali dell'imperialismo il fatto che implicava "una immensa accumulazione in pochi paesi di capitale liquido" (Lenin : l'imperialismo) e vedeva in questa accumulazione di capitale liquido la base dello "sviluppo straordinario della classe o meglio del ceto dei rentiers, cioè di persone che vivono del "taglio di cedole", non partecipano ad alcuna impresa ed hanno per professione l'ozio" (id). L'ininterrotto gonfiarsi del settore finanziario dagli anni settanta, conseguenza della stasi dell'economia capitalista, è diventato un fattore maggiore di aggravamento. Si nutre dell'aggravamento dello sfruttamento della classe operaia, nonché contribuisce a soffocare lo sviluppo economico.

La critica marxista del capitalismo non si limita alla denuncia dello sfruttamento e della pauperizzazione. Il capitalismo sin dall'inizio si è sviluppato su questa base -il che non ha impedito a Marx di sottolineare nel Manifesto comunista l'immenso ruolo giocato nella sua fase ascendente dalla borghesia, questa classe che non poteva "esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione, cioè i rapporti di produzione, cioè l'insieme dei rapporti sociali".

Il capitalismo da molto tempo non ha più questa capacità di "rivoluzionare". E' diventato un freno dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive e un fattore di conservazione essenziale nel campo dei rapporti sociali. Le scienze e le tecniche non hanno certo mai smesso di progredire, benché si tratti di una progressione colpita dal predominio degli interessi privati, della concorrenza, ecc. I progressi tecnici non danno però ad un'economia capitalista sempre più parassitaria la capacità di impadronirsi di questi progressi per accrescere in modo significativo le forze produttive. L'uso dell'energia nucleare, la militarizzazione dello spazio illustrano per esempio la tendenza del capitalismo a trasformare invenzioni maggiori in mezzi di distruzione anziché in mezzi di crescita delle forze produttive.

Aldilà delle variazioni cicliche inerenti all'organizzazione capitalista dell'economia a tutti gli stadi del suo sviluppo, è il carattere imperialista a predominanza finanziaria dell'economia capitalista che costituisce un ostacolo di fronte ad un nuovo slancio delle forze produttive.

Quando Lenin e Trotski vedevano nell'imperialismo l'epoca della senilità dell'organizzazione capitalista dell'economia, non esprimevano un giudizio morale. Constatavano che questa organizzazione economica aveva esaurito le proprie risorse dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive.

Né l'uno, né l'altro si aspettavano che questo ordine sociale sopravvivesse a se stesso così a lungo e che "l'epoca della senilità" sia molto più lunga di questa giovinezza in cui, per riprendere il termine del Manifesto Comunista, il capitalismo compì delle "meraviglie".

Trotski visse abbastanza per conoscere una parte del prezzo che l'Umanità ebbe da pagare per questa sopravvivenza con la grande depressione del 1929, il fascismo e il nazismo, la Seconda Guerra mondiale e, in modo indiretto, la degenerazione del primo Stato operaio.

E anche i "trenta gloriosi", questi tre decenni -in realtà appena la metà- che oggi sono considerati l'età dell'oro del capitalismo, in realtà non avevano niente di glorioso per la società. E questo, non solo perché la sorte della classe operaia migliorò solo rispetto alla guerra e agli anni immediatamente successivi, ma perché non rappresentavano affatto quel periodo di ascesa economica descritto dai suoi adulatori, secondo i quali la crescita del prodotto interno lordo equivale ad una crescita delle forze produttive, mentre il primo include gli sprechi dell'economia capitalista, anche compreso le spese d'armamento e il costo del militarismo, senza neanche parlare delle varie ricadute del traffico della droga.

Il primo cosiddetto periodo dei "trenta gloriosi -un quarto, anche forse un terzo- è quel periodo del dopoguerra in cui la ricostruzione dell'apparato industriale distrutto aprì per qualche tempo un vasto mercato ai capitali. Però anche l'ammiratore più giocondo dell'economia capitalista farebbe fatica a presentare quel periodo, dal 1945 agli anni 1951-52 circa, come l'espressione di "una crescita sostanziosa delle forze produttive" mentre non si faceva altro che ricostituire le forze produttive distrutte dalla guerra imperialista. La borghesia, tra l'altro quella dell'Europa occidentale, approfittò del disorientamento della classe operaia, dovuto alle sconfitte dell'anteguerra, alla guerra stessa e innanzitutto ai tradimenti della socialdemocrazia e dello stalinismo, per imbavagliare i lavoratori e, in nome delle difficoltà della ricostruzione, per imporgli pessime condizioni di vita e di salario.

Ma fu innanzitutto lo statalismo a dare al capitalismo un'apparenza di dinamismo : "in Francia, in Gran Bretagna, ma anche in Germania, la spesa pubblica complessiva incide del 40% sulla produzione... Le spese d'intervento economico dello Stato sono aumentate in tutti i paesi industriali" (Pierre Léon, Storia economica del mondo). Fu lo Stato ad incaricarsi di tutto quello che non rendeva un profitto immediato ed era però necessario al funzionamento complessivo dell'economia capitalista. Fu lo Stato ad assicurare i grandi investimenti. Nel caso della Francia, furono le materie energetiche indispensabili (carbone e poi elettricità, gas, ecc..) ad essere statalizzate, nonché tutte le infrastrutture dei trasporti, le ferrovie come la rete stradale. Fu ancora lo Stato ad incaricarsi dello sviluppo delle infrastrutture del futuro : la rete telefonica, inseguita dalla sistemazione della rete di emittenti per la televisione, ecc...

Gli Stati hanno giocato un ruolo di primo piano per preservare gli interessi fondamentali della borghesia, nonché per assicurare i suoi profitti in un numero limitato di cosiddetti settori redditizi, incaricandosi del resto. Non c'è bisogno di ricordare fino a che punto il settore nazionalizzato ha fatto da nutrice per le imprese private. Nel caso della Francia, come d'altra parte in molti altri paesi d'Europa, lo Stato ebbe anche la cortesia di prendere il controllo delle banche di deposito per assicurare ai borghesi crediti "disinteressati" ed offrire loro un largo campo di truffe che non si finiscono mai di pagare.

Aldilà del ruolo enorme delle sovvenzioni, delle commesse rivolte al settore privato, lo Stato in qualche modo "nazionalizzò" buona parte delle spese della produzione capitalista, pur lasciando ai capitalisti i loro profitti : fondi pubblici per la ricerca e per gran parte degli investimenti, e profitti privati per i proprietari delle imprese.

E anche le "riforme sociali" del dopoguerra in Francia o il "Welfare" dei paesi anglosassoni, coll'aiutare le persone lasciate in disparte dall'economia capitalista -disoccupati, pensionati, malati- sono state fruttuose per la classe capitalista, giacché hanno mantenuto un certo livello di consumo.

La borghesia ebbe un periodo fasto perché ogni borghesia era appoggiata dal suo Stato, e anche gli Stati imperialisti di serie B erano appoggiato dagli Stati Uniti. Di più, se furono anzitutto gli Stati Uniti ad approfittare dal fatto che il dollaro si fosse imposto come strumento di pagamento e di tesaurizzazione dell'economia mondiale, il rilancio del commercio internazionale non sarebbe stato possibile senza tale strumento e fruttò, a vari gradi, a tutte le potenze imperialiste.

Non bisogna sottovalutare il ruolo della corsa all'armamento nel mantenimento di un tasso di crescita relativamente alto. Le spese militari hanno registrato, dalla fine della Seconda guerra mondiale al crollo dell'Unione sovietica, una crescita enorme. E come misurare l'incidenza, sul livello del PIL degli Stati Uniti, della guerra di Corea, della guerra del Vietnam o di questa "guerra delle stelle" che fortunatamente non è stata militare ma ha permesso alla NASA di riversare centinaia di miliardi di dollari nell'economia americana ?

Vale a dire che la crescita, pur relativamente durevole, era solo parzialmente e debolmente quella delle forze produttive, anche in quel felice periodo dell'economia capitalista. Il militarismo, la corsa all'armamento, vengono contabilizzati in positivo nelle statistiche borghesi e contribuiscono a gonfiare il tasso di crescita del PIL. Ma per Rosa Luxembourg, Lenin o Bucharin che già ne erano testimoni in un'altra "bella epoca" del capitalismo, quella che precedé la Prima guerra mondiale, questi erano l'espressione della putrefazione del capitalismo e non di un ritorno di vitalità.

Il fatto che in alcuni paesi la crescita sia stata continua, senza importanti recessioni, aveva già portato molti economisti a dire che il capitalismo aveva superato le crisi e che si era aperta un'era nuova (benché gli stessi Stati-uniti avessero già vissuto parecchie recessioni a quell'epoca).

Si sa cosa successe... Le minacce di recessione furono superate a forza di interventi statali, finanziati da emissioni monetarie con in controparte l'inflazione, il deterioramento delle monete, le svalutazioni, le crisi monetarie successive fino a quella del 1971 che segnò la fine del sistema monetario internazionale sistemato alla fine della guerra.

Le forze produttive non si misurano solo nei paesi imperialisti ma su scala dell'intera società. L'accumulazione di ricchezze nei paesi imperialisti è stata pagata col mantenimento del Terzo mondo nel sottosviluppo.

L'evoluzione dell'economia capitalista mondiale verso la finanziarizzazione crescente ha ancora peggiorato la situazione. Se un numero limitato di paesi una volta sviluppati, sistematicamente messi sul piedestallo, hanno approfittato della loro integrazione nel sistema capitalista mondiale (senza pertanto che ci sia un miglioramento della sorte delle loro classi lavoratrici), per la gran maggioranza dei paesi del Terzo Mondo, per continenti interi come l'Africa, il divario si è ancora approfondito e si è perfino tradotto in un impoverimento in valore assoluto. Non si possono sottovalutare le ripercussioni su questi paesi della crescente finanziarizzazione dell'economia.

Anche ai tempi della dominazione coloniale, il saccheggio imperialista aveva qualche volta come sottoprodotto la costruzione di un minimo di infrastrutture, fosse solo per trasportare le materie prime verso le imprese occidentali di trasformazione.

Il capitale usurario non produce neanche necessariamente queste ricadute. Quanti paesi poveri sono dissanguati perché rimborsano con interessi i debiti fatti dai loro dittatori per acquistare armi destinate a reprimere le popolazioni o per lavori di prestigio completamente inutili ? Il "progresso" del capitale finanziario, da quel punto di vista, fu di sostituire le catene o la frusta del lavoro forzato con le catene dello sfruttamento usurario che, pur invisibili, sono altrettanto catastrofiche, e anche peggiori, per la popolazione dei paesi poveri.

Le stesse statistiche ufficiali riconoscono -stando alle formulazioni della Banca mondiale- che "l'ammonto complessivo dei debiti esteri dei paesi emergenti è triplicato dall'inizio degli anni 80 per raggiungere, nel 1997, 2171 miliardi di dollari. L'importo degli interessi fu, in quel momento, di circa 250 miliardi di dollari, ossia praticamente l'ammonto del debito dei 15 paesi più indebitati all'inizio degli anni 80".

La grande maggioranza dei paesi poveri del mondo escono quindi dal cosiddetto periodo d'espansione dell'economia capitalista più indebitati e più dissanguati di quando c'erano entrati. Rischiano, invece, di pagare caro la recessione.

Quello che fu chiamato la "crisi asiatica", nel 1998, non si è trasformato in un crac generalizzato e gli speculatori, cioè innanzitutto le grandi imprese dei paesi imperialisti, se la sono cavata con alcuni agghiaccianti brividi. Ma questo innesco di crisi, benigno se visto dai paesi imperialisti, intanto coinvolse seriamente l'economia di parecchi paesi del Sudest asiatico e, in alcuni di loro come l'Indonesia, respinse nella miseria parecchi milioni di lavoratori, divenuti disoccupati.

Anche se la recessione che sta cominciando negli Stati-Uniti e potrebbe prolungarsi in Europa rimanesse benigna, significherebbe il moltiplicarsi di chiusure di fabbriche come quelle della Moulinex o della Philips. Nei paesi sottosviluppati e tuttavia molto integrati nell'economia imperialista -che un eufemismo del vocabolario borghese chiama "paesi emergenti"- come il Brasile, l'Argentina, il Messico o la Corea del Sud, la recessione minaccia però di trasformarsi in crisi e di portare a conseguenze catastrofiche per la popolazione lavoratrice. Basta che l'economia capitalista incontri piccole difficoltà nei ricchi paesi imperialisti perché, nella parte più povera del mondo, milioni di persone varchino di nuovo la linea che separa la povertà dalla miseria.

Ovviamente le ipocriti dichiarazioni su eventuali moratorie sul debito non possono modificare una situazione in cui metà degli abitanti del mondo, ossia 3 miliardi di donne e uomini, vivono con meno di due dollari al giorno, in cui un miliardo non accede all'acqua potabile e quasi 800 milioni patiscono la fame. Questo unico fatto smentisce le affermazioni degli economisti borghesi sulla crescita delle forze produttive dell'umanità.

A proteggere questa situazione ci sono la diplomazia e, se necessario, le forze militari delle potenze imperialiste. Ecco il terriccio sul quale crescono tanto le guerre etniche quanto i conflitti tra bande armate o lo sviluppo del terrorismo.

Il ricorso allo statalismo

Con la recessione che sta cominciando, i dirigenti delle potenze imperialiste, anche quelli che rivendicano il liberalismo più sbrigliato, riscoprono i vantaggi del ricorso allo statalismo, tanto più velocemente che in realtà non hanno mai smesso di coltivarlo. L'amministrazione Bush sta preparando un vasto piano di rilancio che potrebbe superare 100 miliardi di collari. La stampa economica evoca una quasi- nazionalizzazione dell'industria aeronautica in difficoltà. Queste pseudo nazionalizzazioni ovviamente non mirano a limitare il capitale privato ma, al contrario, a salvarlo nazionalizzando oggi le perdite per potere preservare i profitti privati dell'oggi e del domani.

Lo stesso cambiamento d'atteggiamento si sta profilando in Europa. Pur mantenendo la tesi ufficiale della "stabilità finanziaria", gli Stati dell'Unione europea cominciano ad "usare l'arma degli stanziamenti statali", per riprendere l'eufemismo di un quotidiano economico. Il governo di sinistra in Francia ha appena presentato un mini-piano di rilancio, ma i governi di destra di Spagna e d'Italia si stanno preparando a fare lo stesso. In questi tre casi, questi piani di rilancio economico comportano innanzitutto incentivazioni all'investimento sotto forma di sgravi fiscali, riduzioni di tasse, che inevitabilmente possono alimentare il disavanzo del bilancio statale e il ritorno all'inflazione.

Malgrado le cosiddette idee liberali o anti-interventiste dominanti, da molto tempo in realtà il capitale privato sopravvive o rimane redditizio, anche nei paesi imperialisti che però approfittano del saccheggio del mondo intero, solo grazie alle stampelle statali.

L'introduzione dell'euro

L'anno sarà segnato dall'introduzione dell'euro. L'introduzione di una nuova moneta, comune a parecchi paesi europei, è certamente un passo in avanti dell'Europa capitalista. Ricordiamo però che fra i quindici paesi d'Europa, tre non ci partecipano, o comunque non ancora, tra cui la Gran Bretagna, una delle principali potenze capitaliste d'Europa. Ricordiamo anche che la moneta poggia in ultima analisi sulla sovranità degli Stati, in situazione di imporre ai cittadini una moneta di carta che non ha nessun valore obiettivo. Ma l'esistenza dell'euro non poggia sull'esistenza di uno Stato europeo : si basa su un'intesa contrattuale tra gli Stati, alla quale ogni Stato può porre fine quando vuole e come vuole.

I dirigenti politici delle varie borghesie europee si vantano del fatto che grazie all'euro, l'Europa evita la speculazione monetaria all'interno dell'Unione europea e le conseguenze catastrofiche che ne risultarono in passato.

La situazione dell'Europa è diversa però da quella degli Stati Uniti, dove il dollaro è la moneta unica dei vari Stati, e dove la politica finanziaria viene fatta da un solo e unico Stato federale. L'Europa è in una situazione contraddittoria : esiste infatti una banca centrale unica, che dovrebbe determinare una politica monetaria su scala dell'Unione, ma per preservare l'essenziale dei loro diritti ad aiutare la loro propria classe capitalista, i governi nazionali hanno conservato il controllo della loro politica finanziaria.

Tuttavia, per evitare divari troppo importanti tra politiche finanziarie che potrebbero portare a disavanzi sproporzionati dei bilanci statali, gli Stati si sono messi d'accordo nei Trattati di Maastricht, Amsterdam, ecc, su un "patto di stabilità". Questo patto di stabilità, che prevede un tetto al disavanzo autorizzato, fu tanto più facilmente accettato da tutti gli Stati partecipanti all'Unione che la loro economia era in crescita relativa e che, peraltro, erano decisi per il proprio conto -e per quello dei finanzieri- a limitare l'inflazione imponendo alla loro classe operaia una politica d'austerità.

La questione potrà forse porsi diversamente con la recessione e i piani di rilancio che i vari Stati d'Europa progettano l'uno dopo l'altro.

Ciò che temono le istituzioni europee non è che gli Stati aiutino la loro borghesia - le istituzioni europee non si comportano diversamente. Ma, secondo il grado di recessione in ogni paese, secondo la ripartizione tra i vari settori economici, gli aiuti statali saranno necessariamente diversi da un paese all'altro, e anche il loro ammonto. Poiché nessun Stato vorrà finanziare il disavanzo degli altri, l'unità europea potrebbe subire forti scosse se la politica di sostegno condotta da ciascuno degli Stati, senza concertazione con gli altri, generasse disavanzi sproporzionati dei bilanci. Non è sicuro che l'euro sarà capace di resistere alle tensioni che ne risulteranno, e certi Stati saranno forse tentati di riprendere il controllo completo dell'emissione della moneta.

I principali paesi europei partecipanti a questa moneta, Francia, Germania e Italia tra gli altri, speravano che la moneta comune diventasse una moneta di pagamento internazionale, e anche una moneta di riserva, che fosse almeno capace di fare concorrenza al dollaro, se non di uguagliarlo. Ovviamente andrebbe bene alle potenze europee poter pagare la fattura petroliera in euro piuttosto che in dollari. Gli andrebbe anche bene che le banche centrali di altri paesi conservino riserve in euro, accanto o magari al posto del dollaro. Questa speranza però è stata delusa. Fin dalla sua istituzione, il 1° gennaio del 1999, l'euro ha perso il 23% del suo valore rispetto al dollaro. E perfino l'inizio di una speculazione contro il dollaro, dopo gli attentati, non ha rialzato la sua parità.

Paradossalmente, non è neanche sicuro che l'euro riuscirà a sostituire completamente quelle valute europee che già oggi fanno da strumento di transazione e di tesaurizzazione fuori dai paesi d'emissione. E' il caso innanzitutto del marco tedesco. Il 30% a 40% dei biglietti emessi vengono utilizzati fuori dalla Germania o perfino dalla zona euro. Il marco è la moneta ufficiale del Kosovo, e la moneta quasi ufficiale della Bulgaria. E' utilizzato su larga scala, tanto dalle banche quanto dalle imprese, nella totalità degli Stati sorti dall'ex Iugoslavia. Fa da strumento di tesaurizzazione in Romania e anche in Turchia.

Quanto al franco francese, su scala molto più ridotta assume lo stesso ruolo di strumento di pagamento e di riserva nella zona CFA in Africa, e anche in Algeria.

Al primo gennaio 2002, il denaro tesaurizzato sotto forma di marchi tedeschi o di franchi francesi all'estero non si trasformerà per forza in euro piuttosto che in dollari, totalmente o parzialmente. Pure spinti ad associarsi nell'ambito dell'Unione europea, sotto pena di essere schiacciati, gli Stati europei non hanno creato un complesso economico unico, con un potere politico unico che sia in grado di tenere testa agli Stati-Uniti. La fragilità dell'euro nei confronti del dollaro nasce da questa realtà.

L'insieme delle evoluzioni riassunte sotto il termine di "mondializzazione" non fa altro che spingere ancora più avanti il carattere parassitario del capitale. Anche in un cosiddetto periodo d'espansione le forze produttive vengono imbrigliate, proprio perché sono adoperate per soddisfare i bisogni solvibili e non l'insieme dei bisogni sociali. Di fronte alla recessione, l'unica "soluzione" dell'economia capitalista sta nel chiudere le fabbriche, spingere all'inattività forzata ancora più lavoratori ed aggravare la miseria dei paesi poveri. E' indispensabile sbarazzare la società dalla dittatura dei gruppi industriali e finanziari sopprimendo la proprietà privata dei grandi mezzi di produzione, e togliendo così le fondamenta del parassitismo della classe capitalista e dell'anarchia della concorrenza. Si potrà così organizzare coscientemente e democraticamente l'economia secondo un piano razionale. Il programma comunista, il programma del proletariato rivoluzionario, è l'unico che possa aprire una prospettiva alla società.

Attac ed altri movimenti anti-globalizzazione

Siamo sempre più confrontati al cosiddetto movimento "antimondializzazione" o "antiglobalizzazione" rappresentato in Francia da ATTAC la cui fraseologia viene anche assunta dal PCF e lo è anche sempre di più, all'avvicinarsi delle elezioni, dallo stesso Partito socialista. Ecco cosa dicevamo a proposito di questo movimento nel testo preparatorio al nostro congresso del 1998, pochi mesi dopo la creazione di questo movimento, all'epoca dei suoi primi passi :

"Da qualche tempo una corrente si sta sviluppando nell'intellighenzia, tradizionalmente influenzata dalla socialdemocrazia ma oggi spaventata dall'evoluzione del capitalismo e delusa dalla pratica governativa dei socialdemocratici e dalla loro servilità rispetto al capitale finanziario. Questa corrente -di cui l'ambiente raggruppato intorno al mensile "Le Monde Diplomatique", e ai comitati Attac di cui è l'anima, è abbastanza rappresentativo- attrae dei riformisti che credono che il riformismo sia possibile ma non si ritrovano nella politica dei gestori del capitalismo, gente che flirta con l'estrema sinistra senza essere rivoluzionaria, umanisti rivoltati dall'inumanità del capitalismo, senza parlare di intellettuali ed economisti che gravitano intorno al PC.
Questa gente è cosciente degli effetti devastanti del capitale finanziario sulla vita sociale, sul futuro stesso del pianeta. Spesso la diagnosi è giusta, ma la cura si limita a misure la cui ambizione dichiarata è di "intralciare la speculazione internazionale" che vanno dall'instaurazione di una Tobin tax -questo premio Nobel d'economia propose venti anni fa la tassazione dell'1% di tutti gli spostamenti finanziari- alle sanzioni contro i "paradisi fiscali". Questa corrente difende anche una politica di rilancio del consumo, l'abbandono della politica d'austerità finanziaria e la scelta di un orientamento verso una politica di grandi opere pubbliche. Si propone di combattere "l'assolutismo dei mercati" in nome del "ritorno allo Stato" (i quali Stati vengono pregati di "non più autodistruggersi") e la deregolamentazione finanziaria in nome di una regolamentazione internazionale.
Spaventati dalle conseguenze del regno del capitale finanziario impazzito, sembra che i fautori di questa corrente lo siano altrettanto davanti all'idea di un'esplosione sociale che questo potrebbe provocare. Denunciano i trattati che ufficializzano la deregolamentazione e facilitano la circolazione del grande capitale -Maastricht, Amsterdam, Dublino- ma non combattono il gran capitale stesso. Si propongono di "disarmare i mercati", di "rifondare la proprietà", ma non di distruggere la proprietà capitalista. In sostanza, vogliono spuntare le unghie del capitale finanziario, ma senza distruggere il gran capitale.
Combattere il capitale finanziario senza combattere il capitalismo è al meglio un'utopia. fare appello allo Stato per combattere il capitale finanziario vuol dire ignorare la sottomissione dello Stato al gran capitale. E' anche una trappola per il futuro. Perché è molto possibile che, costretto e forzato, il capitalismo torni alla regolazione statale.
Bisogna ricordarsi che la crisi del 1929 scoppiò anche come una crisi borsistica dopo un lungo periodo segnato dall'imballarsi e dal potere assoluto del capitale finanziario. Ma per salvare il capitalismo in collasso, le borghesie alla fine ricorsero allo statalismo ; quello del New Deal, ma anche quello dell'economia nazista. Ma né il "liberalismo impazzito", né lo statalismo salvarono l'Umanità dalla guerra. Perché la questione non è solo quella dello statalismo o meno, ma anche di sapere al servizio di quale classe sociale è lo Stato.
Il ricorso allo Stato, così come la politica di grandi opere pubbliche, sono idee alla moda. Gli organismi internazionali dell'imperialismo, l'FMI in particolare -che, sia detto per inciso, è l'agente internazionale del capitale finanziario, nonché uno dei pochi organismi di regolazione del capitalismo internazionale- hanno dato la benedizione al rafforzamento dello statalismo in alcuni paesi del Sudest asiatico colpiti dalla crisi. Hanno contribuito a spingere il Giappone alla nazionalizzazione mascherata del suo sistema bancario. Quanto alle grandi opere pubbliche, sono una vecchia idea socialdemocratica, di cui anche Delors si fece portavoce e che potrebbe servire di nuovo in qualche caso.
La borghesia è una classe troppo cupida, troppo preoccupata dal profitto a breve termine, perché non sia necessario di salvare periodicamente i suoi interessi e di salvare lei stessa, tramite istituzioni statali in grado di difendere i suoi interessi generali, qualche volta contro lei stessa. Ma non più che dopo la crisi del 1929 il ricorso allo statalismo verrebbe fatto nell'interesse delle classi sfruttate e della società. Sia attuato da cosiddetti governi democratici, sia da regimi autoritari se sembra necessario alla borghesia di schiacciare prima la classe operaia, il suo contenuto di classe è inevitabilmente di fare pagare alle classi sfruttate i danni causati dal gran capitale.
L'interesse della classe operaia non è certamente di accodarsi a correnti in cerca di politica di ricambio per la borghesia capitalista, bensì di espropriare la grande borghesia e mettere fine all'organizzazione capitalista dell'economia".

Siamo tornati sulla questione durante la preparazione del congresso del 1999, coi seguenti termini :

"Con i loro obiettivi tanto limitati quanto utopici di un capitalismo un po' più "pulito", così come con i metodi moderati e rispettosi delle autorità stabilite che stanno proponendo, gli iniziatori di queste correnti sarebbero al meglio degli innocui sognatori, se non fossero innanzitutto ostili alla lotta di classe ed anticomunisti. Fanno parte in realtà di questo ambiente socialdemocratico che contro gli "eccessi" del capitalismo è generoso solo di parole vuote, ma i cui capi politici al governo conducono la politica che il gran capitale chiede loro di condurre.
Spesso, quelli che partecipano alle iniziative ed alle manifestazioni di queste correnti sono spinti da una sincera indignazione contro questi aspetti delle devastazioni del capitalismo quali la speculazione o il saccheggio usurario del Terzo mondo. Questa sincerità nell'indignazione non significa necessariamente che chi si organizza in ATTAC o manifesta con i comitati per l'annullamento dei debiti o "giubileo 2000" non sia in fase con gli iniziatori riformistici di queste correnti e con le loro idee, e neanche che voglia andare più lontano del poco che gli viene proposto. Gli ambienti sensibili a queste questioni, almeno per il momento, fanno parte della base sociale dei Partiti socialisti.
Può darsi che per alcuni di loro, raggiungere queste correnti sia un primo passo verso una presa di coscienza di che cosa è l'organizzazione capitalistica dell'economia e della società e, forse, una prima e timida espressione della volontà di combatterla. A maggior ragione spetta ai comunisti rivoluzionari spiegare a questa minoranza gli obiettivi ed i limiti di queste correnti. Non si combattono gli aspetti schifosi del capitalismo con vane risoluzioni rivolte ai dirigenti del mondo imperialistico e, innanzitutto, non li si combattono nel rispetto del capitalismo stesso ma, invece, con la lotta di classe del proletariato per rovesciare il capitalismo. E questo comincia col riallacciarsi alle idee della lotta di classe, e non coll'ignorarle o col combatterle.
Quanto a mobilitarsi contro il WTO ed a raggiungere il largo arco che va dalla destra alla sinistra, da Pasqua a Chevènement e al PC, di chi chiede una moratoria sulle prossime negoziazioni, sarebbe partecipare ad un'operazione d'inganno politico che svia i lavoratori dagli obiettivi necessari e dall'azione efficace. Quando i lavoratori scenderanno in lotta, sarà loro interesse farlo contro i capitalisti -francesi o no- che hanno sotto mano e che possono fare andare indietro, e non contro la riunione lontana di un'organizzazione inafferrabile che, di più, non è la causa ma solo una delle molteplici espressioni del dominio dei trust e del capitale finanziario sul mondo".

Tre anni dopo, non abbiamo niente da aggiungere nel merito, tranne precisare che il tasso generalmente evocato per la Tobin tax non è più neanche l'1%, bensì lo 0,1% ; e che, nonostante il ridicolo di tale proposta, se ne parla tanto più che non c'é stato neanche l'inizio di un'applicazione.

Nel frattempo, si è sviluppata ATTAC, tanto più che il vago delle sue idee e il carattere floscio delle sue forme d'organizzazione sono fatti per piacere negli ambienti della piccola borghesia intellettuale. D'altra parte, la sua partecipazione ad alcune manifestazioni e contro-vertici le hanno dato una parvenza di radicalismo che le sue idee certamente non meritano. Per l'attuale generazione di giovani, sostituisce ciò che era stato il terzomondismo per altre : è un modo di esprimere il suo sdegno, nonché di sviarla dalla rivolta cosciente contro il sistema capitalista nel suo complesso e dalla scelta del campo del proletariato per combattere efficacemente il sistema. Tutto questo si combina per darle un certo valore agli occhi dei dirigenti del PS che vogliono, all'avvicinarsi delle elezioni, rifarsi una certa verginità dopo cinque anni passati al governo.

Non solo ATTAC viene accolta con favore in questi ambienti, ma il comitato ATTAC creatosi all'Assemblea nazionale francese conta ormai 126 deputati, in maggior parte venuti dalla sinistra plurale.

Oggi, è di moda chiacchierare sulla fattibilità della Tobin tax. Affermarsi antimondialista è un modo comodo per fare dimenticare il proprio sostegno alla politica filopadronale del governo, ai suoi ripetuti attacchi contro la classe operaia. La ricetta viene usata tra l'altro aldilà della maggioranza di sinistra poiché il centrista Bayrou ne ha fatto il suo cavallo di battaglia e Pasqua fa finta di interessarsi a questa idea.

Facendo finta di un'apoliticità di facciata, ATTAC fa sempre più apertamente da battitore per il PS. Si vedrà in futuro se l'ambizione dei dirigenti di ATTAC si limiterà a questo ruolo o se, trascinati dallo slancio, si candideranno ad un proprio ruolo politico. Potrebbero ritenere che il relativo discredito dei Verdi dopo la loro lunga partecipazione al governo e i loro problemi attuali, lascia uno spazio più o meno libero, se non a sinistra della sinistra, almeno nelle sue vicinanze.

ATTAC però, così come i Verdi, non costituisce una corrente riformista nello stesso senso che partiti come il PS o il PC. Al contrario di questi due partiti, queste correnti non hanno alcun collegamento, anche lontano, col movimento operaio.

Quanto alla LCR, essa pensa di avere trovato, ancora una volta, un'ondata che la potrebbe portare. Non solo molti dei suoi militanti e parecchi dei suoi dirigenti si sono impegnati nell'animazione o il controllo dei comitati ATTAC, ma sembra che stiano per imperniare la campagna del loro candidato all'elezione presidenziale intorno alle tematiche portate avanti dai comitati ATTAC. Il loro candidato si vanta di distinguersi da Arlette Laguiller, accusata di imperniare la sua campagna "sulla sola condizione operaia" mentre lui si fa portavoce della lotta alla mondializzazione.

Questa politica non contribuisce per niente a chiarire le idee di quelli giovani che sono attratti da ATTAC in ragione delle sue alcune critiche al sistema capitalista. E' incapace di portarli ad una battaglia coerente contro questo sistema. Al contrario contribuirà a buttarli nelle braccia della socialdemocrazia.

In passato, la direzione della LCR giustificava generalmente con considerazioni tattiche le sue politiche di accodamento ai movimenti alla moda, dai movimenti nazionalisti sostenuti in modo completamente acritico al movimento ecologista, dall'accodamento al candidato "rosso-verde" Juquin al flirt con Chevènement. Ma oggi l'obiettivo di costruire un partito rivoluzionario si è sciolto da tempo in quello di un partito "anticapitalista, ecologista, femminista, internazionalista" e non si tratta neanche più di considerazioni tattiche o "di efficacia" (mai dimostrata, del resto). La LCR si scioglie politicamente e tanto più facilmente in ATTAC, in quanto gli obiettivi riformisti di quest'ultima corrispondono con gli obiettivi proclamati dalla stessa LCR.

(25 ottobre 2001)