Di fronte alla crisi capitalista, l'alternativa rivoluzionaria (dagli interventi di Nathalie Arthaud alla Festa di Lutte Ouvrière - 2010)

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Di fronte alla crisi capitalista, l'alternativa rivoluzionaria
24 maggio 2010

Più il mondo capitalista sprofonda nella crisi finanziaria, e più assomiglia a un manicomio. Le Borse giocano al rialzo e al ribasso, crescono prima di ricadere subito. I miliardi svaniscono, poi riappaiono. Gli Stati sono minacciati di fallimento. Basta qualche voce per gettare le borse nel panico e minacciare le monete. Nessuno controlla questa economia, neanche quelli che ne sono i beneficiari e sicuramente non i dirigenti politici, che sono lì solo per giustificare ciò che si fa, cioè quello che è favorevole agli interessi del grande capitale.

Quest' agitazione disordinata della finanza si trasmette a tutta l'economia, perché sono la finanza e i finanzieri che dominano il mondo. E soprattutto, questi i miliardi che i finanzieri giocano al casinò della speculazione vengono in fin dei conti dallo sfruttamento, dagli sforzi, dalla sofferenza, dal lavoro di centinaia di milioni di esseri umani in tutto il mondo!

Crisi finanziaria e speculazione

Si parla di "mercati finanziari" come se si trattasse di un'entità vaga e misteriosa. Ma in realtà si tratta solo dell'attività di alcune decine di banche del tutto identificate, le cui ramificazioni stringono nella loro morsa tutta l'economia, tutta la società del pianeta. E queste grandi banche d'affari non agiscono solo con i loro capitali ma con i soldi di migliaia e migliaia di capitalisti.

Le operazioni finanziarie, la speculazione, non sono il fatto di qualche fondo speculativo specializzato. Non basterebbe regolamentare le loro attività, né tagliarli dalle loro basi nei paradisi fiscali per fare sì che il capitalismo possa funzionare tranquillamente. Tutti i gruppi capitalisti, anche quelli le cui attività essenziali si svolgono nella sfera produttiva, dedicano una parte crescente dei loro capitali alle operazioni finanziarie, cioè alla speculazione.

Quindi, ciò che succede attualmente nell'economia non è il fatto di questa o quella categoria di capitalisti. Non è neppure il risultato di una politica particolare ispirata alla classe capitalista da questa o quella scuola di economisti liberali. No, la crisi attuale è la crisi del capitalismo stesso, di un'organizzazione economica basata sullo sfruttamento, imposto alla maggioranza della società in nome della proprietà privata delle fabbriche, delle banche e dei mezzi di produzione. Un'economia regolata dal mercato cieco, dalla concorrenza, il cui unico motore è la ricerca sfrenata del profitto.

Tutti quelli che, di fronte ai danni giganteschi che risultano dall'attuale crisi, ci parlano di riforma o di regolazione del capitalismo e danno qualche ricetta per migliorarlo, al meglio sono inoffensivi sognatori. Ma più spesso, chi esprime questo genere di stupidaggine è un nemico di tutte le classi sociali che soffrono della crisi.

Non è sulla crisi che viviamo oggi che fondiamo le nostre convinzioni comuniste e rivoluzionarie, perché anche in tempi normali il capitalismo è una società ingiusta che aggrava le disuguaglianze tra le classi sociali e le disuguaglianze tra i paesi. La convinzione che bisogna rovesciare questa organizzazione economica e sociale non è basata su fatti congiunturali. È basata sulla constatazione che questo sistema economico costituisce l'ostacolo essenziale ad ogni vero progresso dell'umanità.

Però la crisi finanziaria, e in particolare la sua fase più recente cominciata nel 2007 - 2008, svela i meccanismi del capitalismo in tutta la loro assurdità e li spinge fino in fondo. Ricordiamoci solo degli avvenimenti degli anni scorsi.

Due anni fa, allo scoppio della crisi borsistica, tutti i dirigenti politici ci dicevano: "bisogna salvare le banche" e ripetevano che salvare il sistema bancario era una necessità per tutta la società. Senza le banche l'economia non può funzionare, dicevano. Era una menzogna enorme, anche solo per omissione, perché salvare il sistema bancario non significa necessariamente "salvare i banchieri" che sono stati, ricordiamolo, i principali responsabili dello scatenamento della crisi.

Nessuno Stato però immaginò di espropriare i banchieri e di mettere sotto controllo il sistema bancario, anzi. Gli Stati al contrario concessero loro centinaia di miliardi, di più senza chiedere la minima contropartita e senza imporre loro il minimo vincolo. E successe ciò che doveva succedere: appena salvati i banchieri ripresero a speculare come prima. Ma questa volta gli Stati stessi furono il loro principale bersaglio.

Per salvare i banchieri, tutti gli Stati si sono indebitati fino al collo. Tutti sono costretti di prendere sempre più prestiti per rimborsare le cambiali dei loro debiti anteriori. Allora s'innesca un meccanismo che purtroppo le famiglie indebitate conoscono benissimo. Più ci si è indebitato, più si prendono prestiti per rispettare le scadenze delle cambiali. E più queste cambiali sono pesanti, più si pagano interessi alle banche e meno ci sono possibilità di uscire da questo spiraglio infernale!

La crisi del debito

Tutti gli Stati capitalisti senza eccezione sono oggi indebitati. Tutti sono per questo motivo nelle mani delle grandi banche d'affari. Hanno bisogno di prendere prestiti, e ancora prestiti per fare fronte alle loro spese. E siccome le somme da pagare aumentano sempre, bisogna diminuire le altre spese. Compreso e innanzitutto le spese più indispensabili alla popolazione. Allora, più gli Stati pagano alle banche e meno hanno soldi per i servizi pubblici, per le tutele sociali, per le pensioni.

Ecco perché dappertutto in Europa i governi prendono misure di blocco o addirittura di riduzione dei salari dei lavoratori statali. Dappertutto, riducono gli organici del settore pubblico, anche nei campi più indispensabili alla società: sanità pubblica, educazione, trasporti collettivi. Dappertutto aumentano le tasse, non quelle dei ricchi ma le tasse indirette che tutti pagano ma che colpiscono essenzialmente le classi popolari.

Di fronte alla crisi attuale, quella che in questo anno 2010 è stata chiamata prima la crisi greca, e poi crisi dell'euro, si propongono le stesse ricette: venire in aiuto ai banchieri con il denaro pubblico.

Alcuni rimproverano agli Stati e ai dirigenti di non avere appreso niente dalla crisi del 2008. Ma non è che i dirigenti degli Stati non hanno appreso niente! Non è che i loro consiglieri, tutti usciti dalle migliori scuole, non hanno capito niente! È solo che sono tutti al servizio della borghesia. Tutti sono stati educati, preparati, per rimanere sul terreno del capitalismo. La loro unica preoccupazione in tutte le situazioni difficili è di sapere come salvare i capitalisti, come salvare i loro profitti, la loro fortuna, la loro pelle, anche al prezzo che la società crepi per le loro soluzioni!

Sarkozy, come altri dirigenti europei, ha appena annunciato che vuole iscrivere nella Costituzione l'obiettivo del ritorno all'equilibrio delle finanze pubbliche. Questa modifica vuole essere simbolica, ma fa solo ridere: non sarà la Costituzione a impedire allo Stato di spendere senza limiti a favore della borghesia. Ma ciò che non fa ridere è l'attacco contro le classi lavoratrici che ne deriva. Il governo Sarkozy annuncia già che vuole ridurre i sussidi ai disoccupati e gli aiuti per la casa. Vuole far economie sulla previdenza sociale, cioè diminuire le spese per la sanità. Vuole bloccare gli aiuti dello Stato agli enti locali. E tutto questo si aggiunge il blocco delle spese dello Stato già annunciato.

Ecco poi il nuovo attacco in corso contro le pensioni. Da mesi, da anni, i governi di tutte le tendenze preparano quest' attacco. A cominciare dall'idea che un'evoluzione sia indispensabile a causa dell'aumento della durata della vita. È una menzogna grossolana. La durata della vita è aumentata ma molto meno della produttività del lavoro.

Se non ci sono abbastanza soldi per pagare le pensioni, è innanzitutto a causa della disoccupazione ma anche e soprattutto perché la classe capitalista ha intascato il frutto della crescita di questa produttività. Allora, se non ci sono abbastanza soldi nelle casse pensionistiche, bisogna prendere nella cassa dei capitalisti ciò che hanno rubato ai lavoratori.

Ma con gli ultimi sviluppi della crisi finanziaria, l'aumento dell'indebitamento diventa il pretesto di tutte le misure di austerità imposte al mondo del lavoro. È una fregatura! Gli stessi dirigenti che hanno speso miliardi a favore delle banche, che hanno inventato lo scudo fiscale, oggi fanno grandi discorsi per affermare che il debito sia divenuto insopportabile perché rappresenta 22.000 euro per abitante, compreso i neonati.

Ebbene, si faccia pagare quelli chi ne ha approfittato! Si faccia pagare chi ha svuotato le casse. Non sono gli operai, non sono i disoccupati, non sono stati i pensionati a svuotare le casse dello Stato. I miliardi che sono stati stanziati non erano per loro. Questi miliardi sono andati alle tasche dei banchieri, dei grandi gruppi, dei capitalisti che hanno proseguito i loro affari e tra l'altro hanno ritrovato benefici.

Tutto questo debito è stato fatto a vantaggio della classe ricca. I più poveri, in questa storia non c'entrano per niente. Non è il loro debito, non devono pagare. Tocca alla classe ricca pagare. E non possono farci credere che non possono pagare, non è vero. Loro hanno dei soldi e ne hanno più del necessario, a cominciare dalle banche, appunto, che nel 2009 hanno ostentato i benefici più importanti.

Una delle regole d'oro del capitalismo era riassunta nel detto: "chi paga i debiti si arricchisce". Sarebbe più esatto dire: "chi fa pagare i propri debiti dagli sfruttati si arricchisce"! Allora vi ricordo che una delle prime misure del governo nato dalla rivoluzione proletaria dell'ottobre 1917 in Russia fu di sopprimere il debito pubblico, cioè di non riconoscere i debiti fatti dallo zar e di rifiutare di farli pagare dalle classi sfruttate. La borghesia mondiale e i suoi creditori non hanno perdonato alla Russia sovietica questo crimine di lesa maestà delle regole capitaliste, ma questo è quello che può imporre uno Stato operaio!

Tutte le cricche politiche, sia di destra che di sinistra, ripetono che bisogna rimborsare questo debito. Questo dimostra solo che sono appiattiti davanti alla classe capitalista e ne sono i servi, e tutti quanti sono molto fieri di esserlo.

Rispondere all'offensiva della borghesia

La crisi economica stessa, come l'ammontare del debito pubblico e la volontà della borghesia di farli pagare dagli sfruttati, porteranno inevitabilmente a un'intensificazione della lotta di classe. Per ora, è solo a senso unico. Solo la borghesia, la classe capitalista, la stanno facendo contro la classe operaia. Invece noi, gli sfruttati, siamo tremendamente in ritardo.

Dobbiamo sapere però che tutto il contesto economico porterà il padronato, la borghesia a colpire sempre più duramente i lavoratori, a tornare indietro su tutto ciò che la sinistra riformista chiama "gli acquisti" che però nella società capitalista non sono mai definitivi. Hanno bisogno di soldi. Li estorceranno dagli sfruttati in tutti i modi immaginabili, e anche nei modi che oggi non possiamo immaginare.

Allora sarà necessario che gli sfruttati si difendano. Non potranno difendersi sul terreno elettorale, anche se sarà su questo terreno che il Partito socialista e i suoi compari riformisti come il Partito comunista o il Partito di sinistra, cercheranno di trascinarli.

I risultati di un'elezione non hanno mai cambiato il rapporto di forza tra gli sfruttatori e gli sfruttati. Per questo, non si tratta per noi di partecipare, né oggi né domani, a qualche combinazione elettorale. Anche se la sinistra, Partito socialista in testa, dovesse vincere la prossima elezione presidenziale, essa farebbe inevitabilmente la stessa politica di austerità della destra. Basta vedere come, sia in Grecia che in Spagna, sono oggi i governi socialisti a prendere le misure d'austerità antioperaie, con gli incoraggiamenti di Strauss-Kahn, oggi padrone del FMI, membro anche lui del Partito socialista, e forse il suo futuro candidato all'elezione presidenziale.

Il Partito socialista, tutti i suoi dirigenti, tutta la sua gerarchia e tutto il suo apparato sono legati anima e corpo alla borghesia. Dall'opposizione, possono promettere qualche misura diversa di quelle che prenderà la destra. Ma anche se lo faranno, sarà solo per poter prenderne altre, forse anche più dure. Il loro maggiore argomento nei confronti della borghesia è di potere fare passare più facilmente queste misure presso le masse popolari.

Allora continueremo in questo periodo ad affermare più che mai l'idea che i lavoratori dovranno difendersi se non vogliono essere completamente schiacciati dal capitale. E dovranno difendersi con i loro propri mezzi, con le loro proprie armi di classe: gli scioperi, le manifestazioni di piazza, con un'esplosione sociale abbastanza potente da fare sì che la classe capitalista abbia paura per i suoi profitti, e anche per la sua proprietà e per il suo potere sull'economia.

Per questo continueremo anche a portare avanti obiettivi di lotta che portino i lavoratori alla coscienza che bisogna mettere in discussione le fondamenta stesse della società capitalista. Davanti alla catastrofe sociale quale la disoccupazione, continueremo a portare avanti il divieto dei licenziamenti e la ripartizione del lavoro tra tutti per mantenere e creare posti di lavoro.

L'indebitamento degli Stati porta inevitabilmente all'inflazione. E c'è già, anche se per ora non prende forme così visibili come negli anni 70. Per accrescere il potere d'acquisto dei lavoratori bisognerà imporre aumenti di salario importanti. E bisognerà sopratutto proteggerli imponendo che i salari aumentino automaticamente ad ogni aumento dei prezzi. È quello che si chiama scala mobile dei salari.

E continueremo a difendere un obiettivo più generale, che è la condizione stessa di tutti gli altri ed è di imporre il controllo dei lavoratori e della popolazione sui conti delle imprese e delle banche. Senza questo controllo i padroni possono raccontarci quello che vogliono e spiegarci che non hanno la possibilità di soddisfare anche le nostre rivendicazioni più elementari. Ebbene, bisogna che si possa verificare i loro conti, cosa guadagnano, cosa spendono, cosa percepiscono gli azionisti, cosa viene pagato o meno ai fornitori, cosa pagano alle banche.

Quanto alle banche, appunto, dopo ciò che è successo in questi anni e che ha dimostrato la loro irresponsabilità nei confronti della società, l'unico obiettivo giusto è di imporre l'esproprio dei banchieri e il raggruppamento di tutte le banche in una banca unica che funzioni sotto il controllo della popolazione.

Sarà attraverso le lotte per queste rivendicazioni che le masse sfruttate avranno la possibilità di arrivare collettivamente alla coscienza che il successo di questa o quella rivendicazione parziale non è tutto, che il padronato può sempre tornare indietro su un aumento di salario o una diminuzione del tempo di lavoro. Finché la borghesia conserverà il suo dominio sull'economia e finché sarà il suo Stato a governare, ogni concessione fatta sotto pressione dei lavoratori in lotta sarà provvisoria e durerà solo il tempo necessario ai capitalisti di sentirsi nella posizione di forza per rimettere tutto in discussione.

Sì, bisogna che i lavoratori si difendano. Ma bisogna anche che attraverso questa legittima difesa mettano in discussione il funzionamento dell'economia capitalista nel suo complesso.

Certamente non siamo, o non siamo ancora, in una situazione in cui la classe operaia si pone tutte queste domande, e ancora meno in cui si dà i mezzi per risolverli.

Spesso i giornalisti pongono la domanda: come mai la crisi e le sue terribili conseguenze per il mondo del lavoro non portano a risultati elettorali un po' più a favore dell'estrema sinistra. La domanda è ipocrita, perché comunque sono i mass media che trasmettono dalla mattina alla sera la visione del mondo della borghesia. E i mezzi della borghesia per plasmare l'opinione, anche quella delle classe popolari, sono imparagonabili ai pochi mezzi dei comunisti rivoluzionari.

Ma in realtà non saremo noi, i rivoluzionari, con le nostre poche forze, a spingere il mondo del lavoro alla rivolta, ma sarà la borghesia stessa, il gran padronato, saranno i loro servitori alla testa degli Stati. Nessuno può dire oggi quale sarà la misura di troppo che scatenerà l'esplosione sociale. Ma le misure ingiuste, infami, che si accumulano con l'aggravamento della crisi, alla fine supereranno la massa critica.

Sappiamo che fu solo dopo la presa della Bastiglia, o anche dopo la decapitazione di Luigi XVI, che retroattivamente si potè individuare tutti i segni che dimostravano che la rivolta maturava. Nessuno aveva visto niente, prima che esplodesse alla faccia della classe dominante dell'epoca. Nel 1788 il re, la regina, come tutta la nobiltà che viveva nel lusso di Versailles, potevano credere che il loro regno sarebbe stato eterno, e i migliori tra i filosofi dell'epoca potevano lamentare che la popolazione schiacciata, oppressa, accettasse i colpi senza reagire.

Un programma comunista e internazionalista

Allora, anche se niente oggi annuncia l'esplosione sociale, e a maggior ragione la rivoluzione che distruggerà il capitalismo, portiamo avanti in questo periodo di crisi il programma comunista che siamo gli unici a difendere.

Gli sfruttati hanno bisogno di un partito che rappresenti i loro interessi e che abbia la volontà di fare chiarezza ai lavoratori da quel punto di vista; di un partito deciso a svelare i molteplici aspetti dello sfruttamento; di mostrare ai lavoratori chi sono, tra i loro nemici, quelli che tengono i fili. Un partito che sia capace di preparare moralmente e materialmente i lavoratori alle difficoltà che li aspettano.

Un tale partito non deve essere legato in nessun modo alla società attuale, né alla sua gerarchia e ai suoi valori, né tramite i posti o le posizioni con cui il sistema parlamentare borghese sa tanto bene corrompere gli elementi della classe sfruttata.

Un autentico partito comunista rivoluzionario ha per ragione d'essere di permettere alla classe operaia di contendere il potere alla borghesia. Ma per questo stesso motivo, è un tale partito che può rendere più efficaci le lotte dei lavoratori, quelle di tutti i giorni come quelle rese necessarie dall'offensiva attuale della borghesia.

Queste parole "comunismo" e "comunista" sono state sviate, pervertite in passato dai regimi stalinisti, in Russia e altrove. E anche dalla politica di un partito come quello che in Francia si afferma ancora comunista ma non ha più niente da vedere con il comunismo, se non per le sue lontane origini.

Siamo oggi gli unici a ridare a questa parola "comunismo" il suo primo senso, cioè l'emancipazione della società con l'emancipazione della classe operaia. La prima condizione è l'esproprio della borghesia, la presa di controllo dei mezzi di produzione da parte della collettività democraticamente organizzata che instaurerà la pianificazione dell'economia, in funzione non del profitto ma dei bisogni di tutti.

Allora compagni, il periodo che ci aspetta sarà un periodo duro, innanzitutto perché sarà duro per tutti gli sfruttati. Ma sono periodi così che formano, che educano politicamente le classi sfruttate.

In periodi così, esse possono arrivare alla coscienza e capire che non hanno niente da aspettarsi dalla società attuale, né dallo Stato attuale, qualunque sia il governo che lo dirige.

Ma per questo ci vogliono militanti comunisti per fare chiarezza e per offrire prospettive: non la prospettiva irrisoria di un cambio di presidente o di governo, che non cambia niente alla loro condizione, ma la prospettiva del rovesciamento dell'ordine sociale stabilito.

Allora compagni e amici, coraggio, e alziamo alta la nostra bandiera, quella del comunismo.

L'attuale crisi dimostra, purtroppo in negativo, fino a che punto l'economia mondiale è un tutto, e fino a che punto i destini dei popoli sono strettamente collegati.

La crisi non è nazionale. Nonostante i discorsi dei sapienti imbecilli, dagli economisti ai ministri, la crisi finanziaria non è rimasta limitata agli Stati Uniti come hanno provato a convincerci all'inizio. Nessun paese ne può stare fuori, e siamo tutti nella stessa barca. E ci teniamo a riaffermare che essere comunista vuol dire essere internazionalista. Questo nostro internazionalismo non è fondato su semplici sentimenti di solidarietà, ma sulla constatazione che, poiché l'economia mondiale è un tutto, l'umanità non potrà sbarazzarsi dell'organizzazione capitalista dell'economia, se non su scala mondiale.

I progressi nelle tecniche della comunicazione, dell'informatica, sono enormi e permetteranno all'umanità di domani, sbarazzata dello sfruttamento, di compiere miracoli. Ma per ora permettono innanzitutto di trasmettere istantaneamente gli ordini d'acquisto e di vendita delle azioni nelle Borse.

Una volta si diceva dell'impero di Carlo V che il sole non vi tramontava mai. Oggi si può dire che la speculazione non si ferma mai, perché da Tokyo alla costa ovest dell'America c'è sempre una borsa aperta da qualche parte.

La crisi economica ha già provocato danni dappertutto nel mondo. Bisogna solo ricordare che una delle sue prime fasi è stata la crisi alimentare. La speculazione si è precipitata in modo massiccio, a un certo momento, sui prodotti alimentari di base, il grano, il riso, facendo salire i prezzi e così condannando alla carestia centinaia di milioni di bambini, di donne, di uomini che già in tempo ordinario non mangiano sufficientemente per sfamarsi.

L'Europa e la crisi

In un campo del tutto diverso, la crisi sta facendo nuove vittime: l'unione europea e l'euro. Lo spezzettamento dell'Europa in una moltitudine di Stati è un anacronismo almeno da un secolo. La rivalità tra le vecchie potenze imperialiste del continente è stata all'origine di due guerre mondiali. E lo spezzettamento dell'Europa costituisce, anche in tempo di pace, un ostacolo per le classi capitaliste di Germania, di Gran Bretagna o di Francia, sempre distanziate dagli Stati Uniti.

I dirigenti politici dei più grandi paesi europei si congratulavano di avere superato questo spezzettamento con la costruzione dell'Unione europea. Hanno impiegato mezzo secolo per riuscire a fare esistere l'Unione europea così com'è oggi, con le apparenze di un autentico Stato, dal Parlamento allo pseudo governo della commissione europea. Hanno impiegato anche parecchi anni a instaurare una moneta unica, l'euro. Eppure sono bastate poche settimane di speculazioni per fare tremare la zona euro e Unione europea fino alle fondamenta.

Al contrario delle stupidaggini propagate dai nazionalisti di ogni genere, l'unificazione dei vari paesi d'Europa è una necessità. Ma ciò che succede in questo momento dimostra fino a che punto la borghesia è una classe troppo reazionaria per essere capace di attuare un'autentica unità dell'Europa. Ha solo saputo creare il Mercato comune.

Anche la moneta unica, condizione indispensabile per un mercato un po' unificato, è stata istituita solo in una zona ristretta, di cui anche una delle maggiori potenze economiche della regione, il Regno Unito, non fa parte. E questa eurolandia è un accostamento di 16 paesi, con 16 Stati, 16 borghesie che vanno tutti nella loro propria direzione perché ognuna è innanzitutto preoccupata di difendere i suoi interessi particolari contro quelli delle altre.

Dietro l'euro non c'è uno Stato unificato con una politica economica e fiscale unica. Non è stato difficile per gli speculatori giocare gli Stati gli uni contro gli altri, o più precisamente scommettere sugli uni e contro gli altri. Ancora poche settimane fa, sembrava assurdo pensare a una scomparsa dell'euro. Ma ora sono i maggiori esperti economici, i capi di governo, che ne parlano seriamente.

I lavoratori non hanno niente da guadagnare a uno scoppio dell'euro. Sarebbe una regressione, una scelta fatta dalle varie borghesie d'Europa, in particolare quelle più potenti, di mettersi al riparo dietro le loro frontiere, la loro moneta, la loro ricchezza. Sarebbe il ritorno del protezionismo e un fattore di peggioramento della crisi.

E poi l'atteggiamento delle borghesie più ricche d'Europa di fronte alla crisi in Grecia, e il diktat imposto a questo paese, evidenziano i rapporti di dominio esistenti anche in seno dell'Europa fra i paesi imperialisti e le loro semicolonie di una volta. In realtà questi rapporti di dominio non sono mai scomparsi. Sono stati nascosti da tutta una sceneggiata democratica, con un Parlamento europeo e degli accordi che pretendevano trattare tutti i paesi in modo equo. Ma oggi questi rapporti di dominio appaiono con tutta la loro brutalità.

La borghesia tedesca e quella francese sono intervenute, non per salvare la Grecia ma per salvare gli interessi dei loro banchieri. Lasciano ai dirigenti dello Stato greco solo la libertà di ubbidire alle misure che impongono loro. E i dirigenti greci, pur socialisti che siano, sono vittime tanto più consenzienti dei diktat di Berlino e Parigi in quanto le misure di austerità imposte alle classe popolari in Grecia corrispondono anche agli interessi della borghesia greca.

Dappertutto in Europa l'unica soluzione proposta per ristabilire ciò che i dirigenti chiamano la "fiducia dei mercati finanziari" è stata di varare misure di austerità che colpiscono la maggioranza della popolazione.

Dopo la Grecia è stata la volta del Portogallo e della Spagna di lanciare questa politica di austerità. L'Irlanda già la praticava da un po' di tempo, senza parlare dei paesi dell'est europeo. L'Italia, la Francia, il Regno Unito e anche la Germania lo faranno alla loro volta. Tutti lo faranno.

In tutti i paesi, quelli che governano cercheranno di fare pagare alla maggioranza della popolazione, innanzitutto le classi sfruttate, i debiti fatti a vantaggio dei capitalisti e dei banchieri.

Dividere per imperare

Più di tutti i nostri discorsi, saranno i provvedimenti dei governi a provocare un giorno o l'altro delle reazioni. Saranno forse reazioni disperate o di prostrazione all'inizio, ma le reazioni di collera verranno inevitabilmente.

Per smorzare le reazioni dei lavoratori contro le misure di austerità, per impedire che diventino esplosive, la borghesia conterà sulle illusioni oggi propagate dai grandi partiti. La borghesia conterà anche sugli apparati sindacali, sulla loro capacità di incanalare le lotte per ridurle a semplici manifestazioni di forza mirando a favorire i negoziati tra governo e direzioni sindacali. Ma al tempo stesso la borghesia ricorrerà, e già ricorre ai vecchi trucchi per indebolire il mondo del lavoro, provando ad aizzare le sue differenti componenti le une contro le altre .

È una politica consueta aizzare le une contro le altre le varie categorie del mondo del lavoro, provare ad opporre settore pubblico e settore privato, lavoratori in attività e lavoratori disoccupati, giovani e anziani.

Uno dei metodi più ignominiosi è di farlo in funzione della nazionalità o delle origini. È il gioco tradizionale dell'estrema destra, ma questo poggia sui pregiudizi in gran parte propagati da altre forze politiche della borghesia, compreso quelle di sinistra. Tutto questo indebolisce il mondo del lavoro e lo rende meno cosciente dei suoi interessi di classe.

Per questo, essere dalla parte dei lavoratori immigrati è per noi più di una questione di solidarietà. Di là delle origini e della nazionalità, la classe operaia costituisce una sola e unica classe sociale che può cambiare il rapporto di forze in suo favore nella società, nell'economia capitalista, solo a patto di portare avanti i suoi interessi di classe. È con questa convinzione che rivendichiamo anche la regolarizzazione di tutti i clandestini.

Aggravandosi le politiche di austerità colpiranno inevitabilmente varie categorie della piccola-borghesia: dai piccoli contadini ai medici, dai produttori di latte ai commercianti, ai camionisti e ai cerealicoltori. Queste varie categorie sapranno combattere contro i veri responsabili della loro disgrazia: la grande borghesia e l'economia capitalista? È una questione decisiva per il futuro. Perché se la borghesia si sente minacciata, cercherà di aizzare le une contro le altre le varie categorie popolari vittime della sua economia.

Ma questa politica trova anche un riscontro nel campo delle relazioni tra gli Stati. Per ora, quando si tratta di paesi imperialisti d'Europa occidentale, questa scelta classica della borghesia di attribuire ad altri la colpa delle difficoltà economiche e delle misure di sacrifici imposte alla popolazione si palesa ancora in modo discreto.

Ricordiamoci delle parole ribadite qui dai commentatori, sulla popolazione greca che "viveva oltre le sue possibilità". Oltre le loro possibilità i lavoratori, i disoccupati, i pensionati greci! Affermarlo non è solo una stupidaggine, è anche un modo per rimandare la responsabilità della crisi sulle spalle delle vittime greche delle banche che imperano in questo paese, di cui una maggioranza di banche francesi.

Ma questo modo sprezzante di trattare le classi sfruttate di un altro paese è solo un inizio, è solo una preparazione delle anime. Nei paesi dell'est d'Europa le cose sono già più avanzate, con l'ascesa dell'estrema destra, la sua propaganda odiosa contro le nazioni vicine o le minoranze nazionali, a cominciare dagli zingari. La storia caotica di questa regione, gli scontri del passato tra popolazioni spesso mescolate, e più ancora gli interventi delle grandi potenze imperialiste nella vita di queste nazioni, hanno lasciato una moltitudine di contenziosi e di territori contesi. È facile per l'estrema destra cercare, nelle scorie della storia, rivendicazioni territoriali in grado di aizzare le popolazioni le une contro le altre.

Per ora si tratta solo di propaganda, di un'agitazione politica nauseabonda in cui la politica nazionalista e xenofoba di uno di questi paesi alimenta la xenofobia dei dirigenti del paese vicino. Ma ricordiamoci con quale velocità la demagogia nazionalista dei dirigenti ha portato, un ex paese europeo come la Jugoslavia, a scontri tra i popoli tanto sanguinosi quanto sterili.

Quindi è vitale per il futuro prendere il contropiede di ogni propaganda che mira ad opporre i popoli gli uni contro gli altri. E questo comincia con tutti i pregiudizi che pretendono rendere un altro popolo responsabile delle disgrazie causate dalla borghesia e dalla crisi della sua economia.

Il pericolo di guerra

La storia non si ripete mai, certamente, e comunque mai in modo identico. Ma l'ultima grande crisi dell'economia capitalista, la crisi del 1929, si era tradotta dappertutto con l'ascesa delle idee e delle politiche nazionaliste e xenofobe, l'instaurazione di regimi autoritari che cercavano di bilanciare la loro impopolarità con un discorso guerrafondaio nei confronti della nazione vicina. E tutto questo aveva posto le basi che avrebbero portato alla seconda guerra mondiale.

Infatti, quando la borghesia è alle strette di fronte ai danni della sua propria economia in crisi, quando dopo di aver schiacciato il proprio popolo si sente in capacità di allargare il suo mercato con la conquista militare, non esita davanti alle peggiori politiche, anche quelle che portano alla barbarie.

Focolai di tensione esistono dappertutto nel mondo. L'oppressione del popolo palestinese da parte dello Stato d'Israele, sostenuto e armato dall'Occidente, ha contribuito da cinquanta anni a fare del Medio Oriente una polveriera. E ci sono molte altre bombe a scoppio ritardato.

In realtà, mai dalla seconda guerra mondiale il pianeta ha conosciuto un vero periodo di pace. Anche quando le truppe imperialiste non sono direttamente coinvolte, come lo sono in Iraq o in Afghanistan, l'imperialismo lo è comunque.

Quante cosiddette guerre etniche in Africa, dietro le quali troviamo le rivalità tra le imprese capitaliste d'Europa o d'America per saccheggiare le ricchezze minerarie? Ogni tanto la stampa riporta racconti di atrocità che sembrano sopravvivenze di un passato barbaro mai in cui, in realtà, le armi sono quelle più avanzate tecnologicamente, e in cui dietro i trafficanti d'armi ci sono grandi compagnie e dirigenti politici di grandi paesi imperialisti.

E non dobbiamo mai dimenticare il ruolo infame giocato dal nostro imperialismo, principale potenza coloniale su questo continente ancora poco tempo fa, che oggi ancora sta dietro la maggior parte dei regimi autoritari del posto.

Anche il pentimento di alcuni dirigenti politici per il passato coloniale, per il traffico di schiavi e per il saccheggio del continente, è solo ipocrisia. Infatti, il passato continua oggi in altro modo. Il colonialismo è finito, ma la dominazione imperialista su questi paesi va avanti.

I trust occidentali hanno messo la mano su tutto ciò che ha qualche valore e può fruttare profitti. Costringendo i popoli d'Africa a rimborsare il debito contrattato dai loro dittatori successivi, l'imperialismo ha trovato il mezzo di saccheggiare questo continente tanto efficacemente quanto con i metodi coloniali del lavoro forzato.

L'Africa continua a essere svuotata del suo sangue come ai tempi delle colonie. È questa realtà che difendono le truppe francesi in Costa d'Avorio, nello Ciad, in Gibuti o altrove. La rivendicazione del ritiro delle truppe francesi dal continente africano è una rivendicazione di solidarietà elementare. Ma solo la distruzione dell'imperialismo può salvare l'Africa dallo sviluppo permanente del suo sottosviluppo. E poi è anche evidente che le truppe francesi devono essere ritirate dall'Afghanistan.

Gran parte di queste zone di tensione, gran parte di questi conflitti potrebbero diventare il punto di partenza di una guerra generalizzata. "Il capitalismo porta in sé la guerra come la nube porta la bufera", diceva Jean Jaurès a suo tempo. Questo rimane sempre vero, sopratutto in periodo di crisi.

Sì, rovesciando i rapporti economici la crisi inevitabilmente farà evolvere e forse sconvolgerà i rapporti sociali. Può portare a sobbalzi politici e scontri. Intensificherà la lotta di classe e, secondo il risultato delle prove di forze tra la borghesia capitalista e le altre classi sociali, può portare a evoluzioni come quelle che, dopo l'anno 1929 in cui la crisi era cominciata, solo in un piccolo decennio hanno portato l'umanità a una guerra generalizzata.

L'unica alternativa è comunista e rivoluzionaria

La storia del nostro futuro non è ancora scritta. La borghesia dispone su scala internazionale di forze potenti: il suo denaro, i suoi Stati e la loro potenza militare. Ma pur potenti che siano queste forze, possono essere sconfitte dalla forza delle masse sfruttate. Ci fidiamo di questa forza lì, capace di sconfiggere gli eserciti più potenti, e anche capace di rompere il muro del denaro.

Il proletariato oggi è invisibile sulla scena politica. Sulla scena si agitano solo i burattini di cui la borghesia e il gran capitale tengono le fila. Ma ben di rado le rivoluzioni si annunciano in anticipo.

Eppure sono le rivoluzioni che hanno permesso alla società di sbarazzarsi dei tiranni o delle classi privilegiate che credevano di essere eterni. Sono esse che hanno permesso all'umanità di andare avanti.

Pur buio che sia stato il decennio che seguì l'inizio della crisi del 1929, e più bui ancora i sei anni successivi con gli orrori della seconda guerra mondiale, bisogna anche ricordarsi che questa crisi portò a mobilitazioni operaie di grandi dimensioni in molti paesi. E se alla fine la borghesia riuscì a riprendere il controllo della situazione, la responsabilità non fu delle masse stesse ma della loro direzione incapace o traditrice.

Abbiamo la convinzione che le masse sfruttate, attaccate da una borghesia avida, sottomesse alla pressione sempre più insopportabile del gran padronato e del suo Stato, reagiranno. Allora tutto dipenderà della capacità del proletariato di fare sorgere partiti comunisti rivoluzionari all'altezza dei loro compiti. Capaci di contribuire a fare sì che la crisi sociale si trasformi in una rivoluzione cosciente, mirando alla trasformazione della società.

Non sappiamo in quali circostanze questi partiti sorgeranno, e quali saranno i primi paesi dove diventeranno abbastanza influenti da potere influire sulla vita politica. Ma sappiamo che questo sarà necessario. Anche piccole organizzazioni che si fissano questo obiettivo rappresentano una speranza per il futuro. E per questo auguriamo coraggio alle organizzazioni che si appellano al comunismo rivoluzionario, qualunque sia il paese dove militano.

Ciò che auguro loro, come lo auguro a noi stessi, è di resistere alla pressione dell'attuale evoluzione reazionaria, di non scoraggiarsi, di non mettere le loro idee comuniste rivoluzionarie in serbo aspettando giorni migliori. Ciò che auguro loro è di non subire la pressione diretta o insidiosa della borghesia che mira, nei nostri regimi di democrazia parlamentare, a fare rientrare tutte le forze di contestazione nell'ambito delle sue istituzioni.

Dico anche di non cercare scorciatoie, cioè di non cercare di cambiare l'ordine sociale attuale con altri mezzi che la forza collettiva della classe operaia. Il cercare scorciatoie porta inevitabilmente all'abbandono della propaganda delle idee comuniste rivoluzionarie in seno all'unica classe sociale capace di fare di questi ideali una realtà: la classe operaia.

Marx diceva a suo tempo che le idee diventano una forza quando le masse se ne impadroniscono. Per fare sì che grandi masse possano impadronirsi delle idee comuniste, ci vogliono circostanze particolari che mettano in moto centinaia di migliaia, milioni di uomini e li spingano a difendere i loro interessi di classe, ad interessarsi al futuro della società, a sentirsi coinvolti, a volere essere partecipi, a smettere di essere gli spettatori della vita politica per diventarne gli attori. Sono questi periodi che si chiamano periodi rivoluzionari.

Ma perché le masse sfruttate possano impadronirsi delle idee comuniste rivoluzionarie, bisogna che nelle loro file si trovino i militanti, le donne e gli uomini che le possano fare passare.

Per questo, è vitale che questa minoranza di comunisti rivoluzionari esista in seno alla classe operaia, nelle imprese, nei quartieri popolari. Bisogna che questi militanti siano raggruppati in un partito la cui attività non consista solo a ripetere la sua speranza nel futuro cambiamento sociale, in un futuro comunista.

Dovranno anche dare una risposta, dal punto di vista degli interessi della classe operaia, ad ogni avvenimento politico e sociale. Bisogna che partecipino alle lotte dei lavoratori con la volontà di rafforzare l'efficacia di ogni lotta, ma anche con la volontà di agire perché ogni sciopero, ogni reazione dei lavoratori contro questa o quella infamia dello sfruttamento capitalista, porti a un progresso della loro coscienza politica.

La trasformazione sociale non risulterà da qualche legge, da qualche decreto deciso dall'alto, ma dall'attività rivoluzionaria delle masse stesse, cioè di milioni di donne e uomini decisi a prendere nelle mani il destino collettivo della loro classe e di tutta la società.

Allora, compagni, pur importante che sia la differenza tra il seme e l'albero adulto, ogni seme porta le potenzialità dell'albero futuro. Per questo le organizzazioni che si appellano al comunismo rivoluzionario rappresentano una parte della speranza nel futuro dell'umanità. Ma bisogna che il seme trovi un terriccio fertile nella classe sociale che può dare alle idee comuniste rivoluzionarie la forza necessaria per cambiare il mondo.