Russia : Putin, arbitro supremo di un equilibrio precario (da "Lutte de Classe n° 110 - febbraio 2008)

Εκτύπωση
Russia : Putin, arbitro supremo di un equilibrio precario
8 gennaio 2008

L'elezione presidenziale russa di marzo si preannuncia una formalità. E non soltanto perché, ancora una volta, la maggior parte di coloro che potrebbero rappresentare un'opposizione, benché timida, in un modo o in un altro saranno esclusi da una competizione in cui, come d'abitudine, il martellamento mediatico e i "mezzi amministrativi" giocheranno solo a favore del potere. In realtà, i giochi sembrano già fatti dopo che le legislative del dicembre scorso sono state orchestrate in modo tale da risultare un trionfo politico personale di Vladimir Putin. Avendo condotto personalmente la campagna elettorale, in assolo, non avendo dei reali oppositori, ha ottenuto i due terzi dei voti espressi. Ed ha fatto eleggere sotto il suo nome, ben più che sotto i colori del suo partito, Russia unita, 315 dei 450 deputati della Duma, la camera bassa del Parlamento. A questa già assai forte maggioranza si aggiungono 78 deputati degli altri due partiti che si rifanno a Putin o lo sostengono. L'attuale presidente può dunque fregiarsi di aver preso nove deputati su dieci, e di averlo ottenuto grazie al sostegno che la popolazione da alla sua politica e alla sua persona.

Alla fine del 2007, in un abile discorso televisivo agli elettori, Putin aveva domandato loro di ricordarsi "da quale abisso [egli avesse] risollevato il paese". Ed effettivamente, gli elettori russi, nella loro maggioranza, hanno espresso un plebiscito per colui che vedono come quello che ha riportato ordine nel caos economico, sociale e politico ereditato dal suo predecessore, Eltsin.

Quando la macchina statale esce dall'abisso

E benché essi sappiano che così facendo non ha eliminato il ceto dei ricchissimi parassiti che continuano a saccheggiare il paese, sono tuttavia grati a Putin per aver messo dimostrativamente al palo qualcuno di quelli che, nel periodo precedente, esibivano la loro spocchia di arricchiti e un tenore di vita vergognoso mentre la maggioranza della popolazione sprofondava nella miseria. E poi, durante i suoi due mandati (2000 - 2004 e 2004 - 2008), l'economia si è risollevata. Per l'ottavo anno consecutivo, essa ha mostrato un tasso di crescita nell'ordine del 7% annuo ed ha, infine, raggiunto il livello che aveva ... nel 1990! - il che da un'idea della regressione economica provocata dalla caduta dell'Unione sovietica.

Se c'è stato un miglioramento, che non è avvenuto in modo indolore, coloro che ne traggono maggior vantaggio sono evidentemente i nuovi ricchi affaristi, gli alti funzionari e i ministri che dirigono i grandi gruppi industriali e finanziari. Ma, anche se la popolazione non ne è la principale beneficiaria - tutt'altro - ,oggi i salari e pensioni sono pagate in modo un po' più regolare. Le statistiche ufficiali, che affermano che il reddito reale della popolazione russa è cresciuto annualmente del 10% negli ultimi anni, offre certamente un riflesso falsato della realtà, mettendo sullo stesso piano i più ricchi e i lavoratori, o le regioni più ricche (come Mosca) e quelle più deprivate (il Caucaso, l'Estremo Oriente), dove lo scarto di ricchezza calcolato è di uno a dieci. Ma è un dato di fatto che, in molti posti, i salari non solo hanno smesso di abbassarsi in termini di potere d'acquisto, ma da cinque o sei anni sono sensibilmente aumentati.

Questo relativo miglioramento coincide certamente con l'impennata dei prezzi mondiali delle materie prime, e soprattutto degli idrocarburi di cui la Russia è uno dei primi esportatori mondiali, senza che Putin ne abbia il merito. Anche se è andato a suo merito. A maggior ragione se si considera che, proprio precedentemente alla prima elezione di Putin, nel marzo del 2000, la popolazione aveva subito, per oltre un decennio, uno sconvolgimento completo del proprio modo di vita e, nella sua grande maggioranza, un crollo del proprio tenore di vita.

Così, al termine del suo secondo mandato, l'attuale presidente, forte di una relativa popolarità, risultava confermato e ben saldo al vertice dello Stato russo. E siccome la Costituzione non gli consente di puntare a un terzo mandato consecutivo, e dunque di presentarsi allo scrutinio del 2 marzo, Putin ha per molto tempo fatto aleggiare un dubbio, non sulle sue vere intenzioni, perché era evidente che non intendeva assolutamente passare la mano, ma sul modo in cui avrebbe conservato l'effettivo potere.

Far eleggere un altro alla presidenza conservando le redini del potere

Per mesi è sembrato che volesse modificare la Costituzione in modo da potersi presentare comunque, e i media diffondevano periodicamente appelli in tal senso, lanciati da persone del potere. Ma questo avrebbe avuto l'inconveniente, agli occhi delle grandi potenze autoproclamatesi guardiane del decoro democratico, di procurare un strappo troppo evidente.

D'altra parte il Cremlino poteva evitare di distorcere apertamente la Costituzione usando altre strategie. Tra queste, la possibilità di una fusione tra la Russia e la Bielorussia: evocata da anni ma mai concretizzata, che avrebbe offerto a Putin una poltrona da superpresidente di una nuova entità statale. Questo avrebbe avuto anche il vantaggio, riguardo al nazionalismo russo, di rendere Putin, se non un erede degli zar di tutte le Russie, almeno il riunificatore della Grande Russia e della Russia bianca (Bielorussia), mentre la Piccola Russia (Ucraina) non sembra minimamente volersi aggiungere ad esse. Tuttavia la manovra sarebbe stata azzardata poiché, pur nella loro condizione attuale di semplice unione doganale, le relazioni Russia-Bielorussia, o piuttosto quelle tra i gruppi della burocrazia che le dirigono, restano conflittuali.

Alla fine Putin ha scelto un sostituto, riservandosi il posto di Primo ministro. Non rimane altro che eleggere colui che fin da ora egli ha investito come futuro presidente. Se, come è probabile, l'elettorato russo resterà nella stessa disposizione, questo aspetto non dovrebbe presentare alcun problema. Invece scegliere tra i vari pupilli quello a cui far portare i propri colori nella corsa presidenziale, e soprattutto dopo, si è rivelato affare più delicato. Bisognava che le fazioni che gravitano attorno al potere centrale avessero sufficiente fiducia in lui per accettarlo e, allo stesso tempo, che non gli attribuissero la volontà né soprattutto i mezzi per minacciarle o per favorire una parte di esse a detrimento delle altre. E, questione decisiva per il titolare del posto, Putin non avrebbe potuto accettare che il successore designato avesse un clan sul quale appoggiarsi una volta insediatosi, cosa che, presto o tardi avrebbe generato una rivalità tra la "controfigura" e l'"originale".

Il coniglio uscito dal cilindro presidenziale è il primo vice-Primo ministro, Dmitri Medvedev. Gli opinionisti lo presentano, a torto o a ragione, come uno che non ha altra ambizione che quella di servire Putin, nella cui equipe era entrato al comune di San Pietroburgo, dopo la caduta dell'Urss.

La cerchia dirigenziale, i suoi clan e il KGB

In un contesto in cui si esprimono rivalità tra clan dirigenti attorno al potere, tutta l'esperienza della burocrazia - sovietica e poi russa - da Stalin in poi, porta a sospettare di chi, esercitando il potere, cerca di conservarlo.

E' mettendo sistematicamente gli uni contro gli altri i grandi corpi della burocrazia, e facendo cadere periodicamente le teste di chi li dirigeva, che Stalin ha potuto imporre per più di vent'anni una disciplina di ferro allo strato sociale dominante. Era, d'altra parte, una condizione indispensabile alla sopravvivenza collettiva di quest'ultimo. Morto il dittatore, nel marzo 1953, la rivalità tra la mezza dozzina di pretendenti alla successione aveva, di fatto, compromesso questa disciplina di ferro. Ne scaturì un caos e un accapigliamento reciproco e, benché limitato ai sommi dirigenti, il potere di colui che finì per emergere come successore di Stalin, Krushov, crollò dopo pochi anni. Il compromesso che ne risultò nelle alte sfere dirigenti sotto Breznev e soci permise di evitare il protrarsi di spinte destabilizzatici per il regime. Ma al prezzo di uno sprofondamento in quella che Mikail Gorbaciov denominerà "stagnazione". Quando, per cercare di uscirne, quest'ultimo volle spezzare la resistenza delle feudalità burocratiche, non solo non riuscì ad affermare il proprio potere, ma l'alta burocrazia mandò in frantumi il potere centrale, e il quadro all'interno del quale veniva esercitato, l'URSS. Durante gli otto anni di presidenza di Boris Eltsin alla testa della Russia post-sovietica, questo processo continuò ad estendersi e ad approfondirsi. Una moltitudine di clan della burocrazia, ai differenti livelli dello Stato e dell'economia, privatizzarono la loro porzione di potere per far man bassa di tutto ciò che trovavano a portata di mano.

Un'economia in ginocchio e messa all'asta, un apparato di Stato frantumato e impotente, con finanze pubbliche svuotate, in una parola uno Stato fallito, in ogni senso del termine, questo fu ciò che Eltsin lasciò dietro di sé quando, alla vigilia del Nuovo Anno 2000, dette le dimissioni per cedere il posto a Putin.

Quest'ultimo, allora sconosciuto al grande pubblico, veniva descritto dagli opinionisti come esterno alle frazioni che stavano scatenando una lotta all'ultimo sangue attorno alla imminente successione ad Eltsin. Niente di più azzardato. Certo, si trattava di un oscuro colonnello dell'ex-KGB. Ma proprio l'appartenenza a questo corpo che era diventato il braccio armato della burocrazia, ed era rimasto meglio di altri a galla in una URSS, e poi una Russia in pieno tracollo, gli offrì le carte vincenti nella lotta per il potere. Oltretutto, appena prima di divenire Primo ministro e poi Presidente, aveva diretto la FSB, principale erede del KGB. Certo, in una situazione in cui tra i ranghi della burocrazia faceva furore la corsa all'accaparramento di tutto ciò che poteva rendere qualcosa, in cui ogni burocrate, ognuno al suo livello, era pronto a fare a pezzi un'impresa, un'istituzione, purché potesse trarne un beneficio immediato, l'ex-KGB non poteva che avere un ruolo decisivo in questa razzia. Ma proprio perché ricoprivano spesso le più alte cariche dello Stato centrale, e perché molti dei suoi capi recenti (Andropov, che aveva diretto brevemente l'URSS alla morte di Breznev, Primakov, che era stato Primo ministro di Eltsin) erano apparsi inclini a difendere la "potenza dello Stato", la FSB, sotto molti punti di vista, pareva l'organismo più adatto a preservare lo Stato centrale e un certo interesse generale della burocrazia. E, ancor prima di appoggiarsi su questo apparato e questa gente nel modo che conosciamo, Putin appariva un garante affidabile agli occhi della "Famiglia", la prima cerchia del clan Eltsin.

Putin lasciò San Pietroburgo - dove era stato il vice del sindaco Sobchak, un alleato politico di Eltsin - per Mosca, dove la Famiglia ebbe la possibilità di testare la sua lealtà al "dipartimento degli affari generali" della presidenza. Aveva il compito, tra gli altri, di insabbiare gli enormi scandali di corruzione che ricoprivano Eltsin e il suo entourage in un clima di decadenza. Putin adempì così bene al proprio compito che dopo un passaggio alla direzione della FSB, si ritrovò alla testa del governo. Eltsin aveva provato in questo ruolo ben quattro primi ministri in meno di un anno e mezzo. Putin, sullo sfondo della nuova guerra contro la Cecenia, riuscì a provocare una sorta di unione sacra e a far vincere le elezioni legislative del dicembre 1999 al partito di potere. Fisicamente e politicamente al capolinea, ma ormai sicuro di trascorrere giorni tranquilli dopo il suo ritiro politico, Eltsin poté cedergli la poltrona.

Riprendere nelle proprie mani lo Stato e l'economia

Presidente ad interim, Putin venne eletto ufficialmente tre mesi più tardi. Ricevette il sostegno della Famiglia, in particolare il sostegno dei soldi degli "oligarchi" più in vista: gente che, all'ombra dei grandi clan della burocrazia, si era arricchita soprattutto di saccheggio di beni dello Stato sotto Eltsin, e con la sua complicità. Putin promulgò un decreto che concedeva un'immunità giudiziaria e fiscale all'ex-presidente e ai suoi parenti prossimi. Ma tale immunità non era estesa a coloro che un tempo erano i suoi protetti e favoriti, cosa che gli "oligarchi" Berezovski e Goussinski non tardarono a verificare.

Non appena tentarono di mettere in discussione il suo nuovo potere, Putin, che pure avevano contribuito a far diventare presidente, infierì contro di essi. Trascinati in tribunale, sbattuti in prigione o costretti a fuggire all'estero, e obbligati a cedere, in cambio di un esilio dorato, la maggior parte delle imprese su cui avevano messo le mani: Putin uscì vincitore da questo primo braccio di ferro. Ma ne sarebbero seguiti altri dello stesso genere.

Appena raggiunta la vetta dello Stato, Putin aveva annunciato di voler rimettere ordine negli affari dello Stato, restaurando, diceva, "la verticale del potere" per mezzo della "dittatura della legge". Quel che intendesse con questo lo si vide molto rapidamente.

Alla fine del 1999, quando era ancora soltanto Primo ministro, aveva lanciato una seconda guerra contro gli indipendentisti ceceni. Condotta a tambur battente da un esercito avido di rivincita (aveva perso la prima guerra, sotto Eltsin), questa guerra, atroce per la popolazione cecena e per le reclute russe, stava devastando tutta la regione. Infatti Putin voleva che questo servisse da lezione per i capi regionali della burocrazia, governatori e presidenti delle repubbliche federate, che avevano arraffato comodamente sotto Eltsin, trasformando i loro feudi in entità sulle quali spesso il Cremlino non esercitava ormai che una tutela nominale. Contemporaneamente la brutale caduta dei Berezovski, Gussinski e di qualche altro era rivolta a tutti i nuovi ricchi che fossero stati tentati di dimenticare che dovevano la loro (bella) fortuna ai detentori del potere politico.

Così, nel 2003, andò male all'uomo più ricco del paese, Khodorkoski, che osò mettersi più o meno in concorrenza con Putin,. Venne condannato a nove anni di prigione e la giustizia lo spogliò di gran parte dei suoi beni. Il gruppo petrolifero di cui si era appropriato venne smantellato e ceduto a lotti ad altri clan del mondo degli affari che avevano alla loro testa gente che apparteneva alla sfera di influenza di Putin o che con lui aveva stretto alleanze, e che si presentavano come i garanti degli interessi dello stato russo.

Tra l'altro, poco dopo la sua prima elezione, Putin divise il paese in nove distretti federali, mega-regioni alla testa delle quali era posto un super-prefetto, scelto da lui tra le alte sfere del KGB o dell'esercito. Tali rappresentanti del presidente avevano il compito di tenere in mano gli esecutivi locali, in regioni ormai costrette a sottomettersi al Cremlino. Nel 2005 ci fu la seconda grande tappa di questa nuova centralizzazione politica del potere: Putin soppresse alle regioni e alle repubbliche federate il diritto di eleggere direttamente il proprio governatore o presidente: ormai il Cremlino stilava una lista di personalità a lui gradite, lasciando alle regioni la facoltà di scegliere tra i diversi candidati, tutti di stampo putiniano.

Anche se esiste un progetto analogo di alte nomine per le grandi città, queste possono ancora eleggere il proprio sindaco. O piuttosto, il loro "capo del governo", una designazione ufficiale che ricorda l'era Eltsin, quando i burocrati alla testa delle entità territoriali volevano tutti più o meno essere, se non indipendenti dal centro, almeno autonome nello sfruttamento delle risorse del loro territorio. Ma dal 2006, Putin ha iniziato, anche là, a mettere al passo i recalcitranti. Il metodo è sperimentato: processi, seguiti da carcerazioni e destituzioni. Quanto al pretesto; è presto trovato: corruzione. Un anno fa, lo stesso procuratore aggiunto della Federazione della Russia ha dichiarato che c'è stata un'esplosione della corruzione, passando in cinque anni da 33,5 miliardi di dollari a 240 miliardi di dollari, ovvero l'equivalente del bilancio dello Stato russo! Così, sotto le sembianze di una nuova campagna di lotta alla corruzione - sia l'una che l'altra vecchie tradizioni della burocrazia da Stalin in poi, per non risalire all'epoca zarista -, campagna evidentemente solo apparente dal momento che è tutto l'apparato dello Stato che, per quanto non ne abbia certo bisogno, si arricchisce nella corruzione, da qualche mese una dozzina di sindaci di grandi città sono approdati davanti ai tribunali, e talvolta dietro le sbarre.

Sulla scia di questo rimpossessarsi della sfera politico-amministrativa, Putin ha iniziato a indicare, questa volta sul terreno economico, chi può aspirare a cosa, ricordando a chi lo deve. Con una serie di richiami all'ordine tramite esempi eclatanti (con condanne alla reclusione, o alla privazione di un parte dei beni, contro Berezovski, Gussinski, Khodorkovski e, l'estate scorsa, contro il padrone di Russneft, ottava compagnia petrolifera della Russia), si tratta di far comprendere ai dirigenti dei grandi gruppi privatizzati sotto Eltsin che non potranno più intraprendere alcuna grande scelta che non abbia prima avuto l'approvazione del Cremlino. Nello stesso tempo lo Stato si è rimpossessato, con le buone o con le cattive, di alcuni gioielli dell'economia Russa.

Senza queste grandi imprese, in effetti, lo Stato russo non avrebbe i mezzi per intraprendere questa "politica di risanamento del paese contro avversari che non gli hanno lasciato che una posizione umiliante nel mondo contemporaneo" di cui parla il manifesto del partito di Putin, Russia unita.

A un altro livello, non più quello degli interessi dello Stato, ma quello dei burocrati come individui, stabilire un controllo politico-finanziario della potenza pubblica su questi grandi gruppi presenta dei grossi vantaggi. Permette sicuramente di impiegare, e di fatto trattenere, un numero relativamente alto di burocrati come salariati di queste imprese. Questo permette anche di offrire loro una rendita ben più cospicua rispetto ai salari dichiarati poiché, avendo un rilevante controllo su dei giganti economici dediti all'esportazione, nonché grandi riserve di denaro, possono saccheggiarli dall'interno.

Questa "ricentralizzazione" di responsabilità economiche, e di privilegi che ne conseguono, è stata caratterizzata dalla ripresa di controllo da parte dello Stato su una delle più importanti imprese mondiali: la numero uno del gas, Gazprom, nel cui capitale lo Stato russo ha ripreso una posizione maggioritaria nel 2003. Tornato nelle mani dello Stato, questo gruppo ha anche costretto "l'oligarca" Abramovitch a cedergli la compagnia petrolifera Sibneft, avendo il Cremlino fatto intendere al magnate che d'ora in poi sarebbe stato meglio che si occupasse dei suoi affari...a Londra, dove abita, senza più interferire negli affari sui quali lo Stato russo ha delle mire. Gazprom è stata anche utilizzata dal Cremlino con fini di politica estera: per riprendere il controllo di settori situati fuori dalle frontiere della Russia - ma dentro quelle dell'ex-URSS - per fare pressione politica su alcuni paesi dell'Est Europa, in particolare su vecchie repubbliche sovietiche, ricattandole con l'interruzione dell'approvvigionamento di gas.

Il settore delle materie prime (gas, petrolio, metalli preziosi, rame, pietre preziose...), essendo molto legato all'esportazione, è stato preso particolarmente di mira dalla ricentralizzazione putiniana. Ma non è il solo. Anche il settore manifatturiero è stato ripreso in mano dal potere statale, almeno alcuni dei suoi pezzi migliori, come Avtovaz, gigante russo automobilistico, OMZ e SV, nel settore delle macchine-utensili, ecc.

Così nell'articolo intitolato "Una corporation chiamata Stato", uscito lo scorso 3 agosto sul grande quotidiano pro-Putin Izvestaia, si poteva leggere: "Lo Stato ha bisogno di essere proprietario [delle grandi imprese] per risolvere i problemi che gli vengono posti da fattori di politica estera. Infatti non è così facile prevalere nelle aggiudicazioni internazionali, sostenere prezzi elevati sul petrolio, sviluppare i mezzi per essere competitivi nei settori delle tecnologie di punta.

Compiti che vengono assolti con successo nella Russia di oggi. I due terzi delle principali azioni della Borsa russa nel ramo degli idrocarburi sono sotto il controllo, più o meno diretto, dello Stato. Le due più grandi banche appartengono allo Stato. Nelle sue mani si trova il 75% del settore delle telecomunicazioni."

Al di là del modo attraverso il quale lo Stato ha ottenuto questo risultato, è sorprendente constatare che spesso sono degli alti funzionari o dei membri dell'esecutivo centrale che, oltre alle loro funzioni politiche, risiedono al vertice di questi mastodonti dell'economia russa. E l'alta burocrazia è sicuramente attratta dall'aumento delle risorse, infatti, per esempio, tra il 2003 e il 2007 la parte di petrolio prodotta dalle compagnie appartenenti allo Stato è passata dal 7% al 40%. Così, Miller, dirigente di Gazprom, fa parte del clan vicino a Putin, detto dei Pietroburghesi, e ha fatto parte della sua amministrazione presidenziale, una sorta di governo-bis. Sergej Ivanov, primo vice-Primo ministro, dato a lungo come possibile delfino di Putin, controlla il complesso militar-industriale e presiede il consorzio aeronautico OAK. Alexander Zhukov, vice-Primo ministro, dirige la compagnia delle ferrovie. Igor Sechin capo-aggiunto dell'amministrazione presidenziale, presiede la direzione di Rosneft, gruppo petrolifero di Stato. Inoltre, non meno di otto membri di questa amministrazione presidenziale occupano funzioni dirigenti in grandi gruppi industriali o finanziari.

Intervenendo recentemente di fronte alla Camera di commercio di Mosca, Putin ha dichiarato: "Non stiamo formando un capitalismo di Stato". Cosa intendesse, non l'ha precisato. Né ha precisato quel che vuole costruire. D'altra parte, a mo' di difesa, ha sottolineato il fatto che l'economia e la società russe restano formazioni originali dove - con una forte interconnessione tra il potere politico e quello economico, benché ambedue si rivendichino "di mercato" - non è ancora il mercato a dare il "la". In questa situazione Putin ha sicuramente la sua parte di responsabilità. Ma non si comprenderebbe granché dimenticando l'origine di questa società e di questa economia russe; la loro sempre più lontana origine rivoluzionaria; come si sia insediata sul corpo dello Stato operaio nato dalla Rivoluzione d'Ottobre una burocrazia parassitaria che ha soffocato questo stesso Stato - una burocrazia i cui attuali rappresentanti continuano a tenere le redini del potere e dell'economia nella Russia dei nostri giorni.

Quel che ostacola lo sviluppo della "classe media"

La qual cosa ha differenti manifestazioni. In un numero recente, avente per tema: "Quel che ostacola lo sviluppo della classe media in Russia", il mensile economico russo Diélovyé Lyudi (in italiano: Uomini d'affari) constatava che nel paese si è sviluppata una piccola e media borghesia, stimandola in "25-30 milioni di persone, ossi circa il 20% della popolazione". "Tale classe media dispone" riporta il mensile, di "300-400 dollari mensili a membro del nucleo familiare", il che la colloca a livello dell'"India, ma non degli Stati Uniti, del Giappone o della Svizzera" dove le rendite della classe media sono da dieci a venti volte superiori. Ma soprattutto, aggiunge la rivista, "A differenza della classe media d'Europa o d'America, la nostra non è fatta di imprenditori. (...) Composta per il 54% da depositari dell'autorità pubblica [non consiste], come in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, per una parte consistente, in persone che hanno un alto livello di studio, medici, insegnanti, universitari, liberi professionisti, che tra l'altro fanno sì che questa classe sia un punto d'appoggio per la democrazia". Inoltre, se "nel 2003, circa il 20% dei membri della classe media russa erano persone che avevano una propria attività, nel 2006 la loro percentuale è precipitata al 4%" tanto che la "parte relativa alle rendite degli imprenditori in seno a questa classe si è ridotta della metà". Considerando che "lo sviluppo economico dal 1999 al 2006 ha arricchito i 'servitori dello Stato' e rovinato la classe media degli imprenditori privati", la rivista conclude: "Ad oggi, la nostra classe media rimane di fatto meno che media".

In effetti, se in questi ultimi anni una classe privilegiata si è consolidata in Russia, è stato all'ombra o piuttosto in seno allo Stato. La si trova tra i membri della alta e media burocrazia che hanno potuto approfittare del saccheggio dell'economia e dello Stato, ormai "ricentralizzato". Vale a dire con delle regole fissate dall'alto e applicate, secondo una gerarchia propria della burocrazia, dall'alto verso il basso della piramide del comando, rafforzata, e in parte riconfigurata, dal potere centrale, che si è anche assicurato un certo monopolio nell'accesso alle principali fonti di arricchimento e di privilegi.

"Siloviki" e pietroburghesi

Per restaurare il controllo dello Stato centrale, Putin ha trovato sostegno nei settori della burocrazia - e dei "siloviki", gli "uomini delle strutture di forza". ministero della Difesa, ministero dell'Interno, servizi segreti e polizia politica - che ritenevano non aver goduto dei favori del regime di Eltsin durante l'immensa svendita delle privatizzazioni del decennio precedente.

Putin d'altra parte ha trovato più facilmente un'intesa con questa gente, con la quale aveva delle relazioni e in cui poteva trovare degli appoggi, dal momento che avevano degli obiettivi comuni da raggiungere e che è il suo ambiente naturale, al quale anch'egli apparteneva.

Ma Putin ha cercato di non avere il solo sostegno di questi settori della burocrazia, cosa che lo avrebbe reso un loro portavoce... e loro ostaggio. A partire dalla sua incoronazione, alla fine del 1999 - inizio del 2000, ha trovato un altro punto d'appoggio nel clan che aveva costruito intorno a sé dai tempi in cui era il numero due del comune di San Pietroburgo (il suo successore designato Medvedev, o German Gref, il ministro dell'Economia, sono figure che provengono da questo clan). Egli ha anche messo l'uno contro l'altro, un classico dall'epoca staliniana in poi, gli ambienti dell'una e dell'altra capitale: la "nuova", Mosca, e la "vecchia" San Pietroburgo, che veniva considerata sfavorita quando, nel decennio precedente, l'80% dei flussi finanziari che entravano in Russia passavano per Mosca. Ha anche messo l'uno contro l'altro, quasi sistematicamente a coppie, "siloviki" e pietroburghesi, in seno al governo, nell'amministrazione presidenziale e nelle alte sfere del settore pubblico dell'economia. E all'interno delle stesse "strutture di forza" Putin non ha avuto bisogno di intervenire perché gli alti gradi dell'esercito e quelli della FSB, in concorrenza tra loro attorno a interessi enormi, si sorvegliassero reciprocamente e, all'occasione, si neutralizzassero.

Pur essendo meno frequenti, in ogni caso meno eclatanti che sotto Eltsin, i regolamenti di conti tra clan rivali della burocrazia finiscono continuamente in scandali, incarcerazioni di generali, o di ministri, assassinii di alti funzionari di banca... Per Putin che si vanta di aver ristabilito l'ordine nel paese, anche col mare di sangue in Cecenia, questi disordini al vertice non sono che inconvenienti: servendosi delle rivalità tra fazioni dell'alta burocrazia, ha avuto mani più libere rispetto al suo predecessore. Nello stesso tempo ha potuto far sì che il proprio potere non fosse solo l'espressione di un clan ristretto, ma in qualche modo espressione degli interessi collettivi, al di là delle particolarità, espressione della burocrazia come ceto sociale.

Un equilibrio precario

Grazie a una congiuntura di fattori esterni molto favorevoli (in primo luogo l'elevata quotazione delle materie prime), la burocrazia russa, con Putin, ha raggiunto in una condizione di minor decadenza che sotto Eltsin per garantirsi la dominazione politica e i prelievi sull'economia. Questo, evidentemente, non ha cambiato di una virgola la natura predatrice di questa burocrazia, nonostante alcuni la ribattezzino "classe media".

Oggi vediamo un numero sempre maggiore di Russi nella hit-parade annuale della ricchezza mondiale che appare in riviste come Forbes. Comprano squadre di calcio in Inghilterra, splendide città sulla Costa Azzurra e sulla riviera italiana, i loro yacht ormeggiano nei paradisi fiscali, spendono senza limiti nelle stazioni sportive invernali più alla moda. E questo flusso continuo di spesa trasporta, per parafrasare il titolo di un recente articolo di Libération, pepite per l'industria del lusso francese. "Il 2007 è stato un anno eccezionale in Russia", si felicitava la portavoce del Comitato Colbert che raggruppa 70 società e istituti come Vuitton, Dior, Chanel; etc. Quanto ai Russi della piccola borghesia, li si vede viaggiare numerosi verso l'Egitto, la Turchia e verso tutte le più varie destinazioni turistiche possibili e immaginabili. Al punto che a volte si ha quasi l'impressione che si precipitino all'estero per spendere una parte della fortuna del petrolio e del gas russi.

Ma all'interno della Russia, nuovi ricchi e "classi medie" non investono nell'economia. Salvo in settori marginali, quelli legati al consumo, soprattutto al consumo di luce, agli immobili di lusso. Quanto alla produzione, al riammodernamento degli strumenti di produzione e delle infrastrutture - che per la maggior parte risalgono a prima della caduta dell'URSS, e hanno dunque spesso più di vent'anni -, è raro e in misura limitata che i burocrati-nuovi ricchi vi investano una parte delle proprie ricchezze. E non c'è da stupirsi. Dopo essere stata, per tre quarti di secolo, un parassita dell'economia pianificata dell'URSS, la burocrazia non ha cambiato natura con la caduta dell'URSS e della sua economia. Socialmente parassitaria è, casta parassitaria resta.

E' vero che, attualmente, anche nei paesi capitalisti sviluppati, la borghesia investe poco, o punto. Non avendo fiducia nella sua stessa economia, preferisce speculare in Borsa, sulle quotazioni del petrolio, su una valanga di "prodotti finanziari" e altri "prodotti derivati". Questo non da nessun apporto all'economia reale, costituisce una minaccia per essa e per tutta la società, come si vede con la crisi finanziaria nella quale è sfociata la speculazione sul settore immobiliare e sui "subprime" negli Stai Uniti.

Ma la differenza tra il parassitismo della borghesia insediatasi nelle potenze imperialiste e i nuovi ricchi della Russia, sta proprio nel fatto che la prima si è insediata, generazione dopo generazione, con solide radici nell'economia. Dal fondo della prigione dove Putin l'ha fatto segregare, Khodorkovski può meditare su ciò che differenzia lui, come prototipo di un ceto sociale, dai Rothschild, Ford, Rockefeller o Bill Gates.

Quel che è cambiato sotto Putin, rispetto all'era Eltsin, è che è stato messo un po' di ordine nella corsa - che oppone gli uni agli altri i clan burocratici - alla demolizione dello stesso apparato centrale dello Stato. E' la piramide di capi e sotto-capi, con al vertice una sorta di arbitro supremo, Putin, a regolare più o meno l'accesso di ogni burocrate a questo saccheggio. A dire il vero, non è proprio una novità per la burocrazia, se si ricorda come funzionava ai tempi di Stalin.

D'altra parte Putin non si fa scrupoli ad attingere, neanche dalle antiche profondità dello zarismo, a simili ricette e metodi di governo. Ad esempio quando cerca di inquadrare i giovani, dai più piccoli (con l'organizzazione dei Michki - gli Orsetti) alle scuole superiori (con l'organizzazione Nachi - i Nostri). O quando favorisce senza sosta la Chiesa ortodossa, la sua presenza nelle scuole e in diversi istituti pubblici come strumento di imbrigliamento morale. Quando non manca occasione per incensare il nazionalismo, la "grandezza della Russia". Quando agita in continuazione lo spettro dello "straniero" minaccioso, di "traditori" perché oppositori. Quando la legge permette di interdire pubblicamente ogni opposizione per quanto poco organizzata col pretesto che sarebbe "estremista" - accusa legale utilizzata frequentemente anche contro gli scioperanti - e che riattiva gli ospedali psichiatrici come prigioni per certi oppositori, come nell'epoca brezneviana...

E non c'è da meravigliarsi. Se Putin ha realizzato attorno alla propria persona un relativamente nuovo consenso in seno al ceto dirigente, e se lo Stato russo è stato consolidato da lui, i dirigenti della burocrazia sanno bene che, anche dopo aver ottenuto un recente plebiscito, il loro potere non è al riparo da ogni contestazione e che l'equilibrio del potere dell'era Putin rimane fragile. Rimane in effetti in balìa di fattori che sfuggono allo Stato russo e ancor più alla burocrazia, che si tratti di un'inversione di tendenza della quotazione delle materie prime o di un aggravamento della crisi finanziaria mondiale. O, ed è ciò che si potrebbe sperare, che la classe operaia russa, risvegliata da una certa ripresa economica e dal fatto che alcuni settori si sono riattivati sul terreno della lotta e degli scioperi, rimetta in discussione il potere dei parassiti che la sfruttano.

8 gennaio 2008