Comizio di Arlette Laguiller allo "Zenith" di Parigi (15 aprile 2007)

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Comizio di Arlette Laguiller allo "Zenith" di Parigi
15 aprile 2007

Lavoratrici, lavoratori, compagni e amici.

Sarebbe possibile preservare i lavoratori e l'insieme della società da tre grandi catastrofi, quali la disoccupazione diffusa, la crisi degli alloggi e il peggioramento del livello di vita della maggior parte della popolazione.

Le misure che sarebbe necessario prendere sono misure radicali ma semplici, chiare e perfettamente attuabili senza neppure che qualcuna di esse implichi l'espropriazione del gran capitale e la trasformazione della proprietà privata delle grandi imprese in proprietà collettiva.

Quando ho avanzato queste misure per la prima volta, alle elezioni presidenziali del 1995, dodici anni fa, quando la crisi non era ancora così grave, ero la sola a diffonderne l'idea. Alcune di esse vengono riprese oggi da altri candidati dell'estrema sinistra, ma non sono assunte, e non me ne stupisco, da coloro che hanno una possibilità di arrivare al potere.

Certamente non ho mai avuto l'ingenuità di pensare che un governo le potesse far proprie, e soprattutto che le potesse applicare senza che vi fosse costretto.

Non c'è da stupirsi se la destra non si preoccupa dell'inesorabile discesa nella miseria di tutti quelli che vivono e lavorano senza sfruttare nessuno. La destra difende apertamente l'interesse del grande padronato e trova normale che i ricchi si arricchiscano impoverendo gli altri. Essa trova normale che le grandi imprese buttino sul lastrico centinaia o migliaia di salariati semplicemente per fare aumentare di qualche punto il corso delle loro azioni in borsa.

Non ho nemmeno mai pensato che la sinistra al governo fosse capace di prendere misure efficaci per arrestare la degrado delle condizioni di esistenza dei lavoratori.

Da quando ho avanzato questo programma di difesa dei lavoratori, all'epoca sotto il nome di "programma di emergenza" o di "piano di emergenza", ho detto che non si poteva contare né sulla destra, apertamente al servizio del grande padronato, né sulla sinistra, ipocritamente servile verso di esso.

Sarebbe stato necessario che queste misure indispensabili per i lavoratori venissero imposte al governo e al grande padronato da un potente movimento sociale che fosse capace di farli retrocedere. Bisogna forse ricordare che nel 1936 come nel 1968 sono state le lotte sociali, gli scioperi, l'occupazione delle fabbriche a costringere il governo in carica a prendere misure che raccogliessero qualche rivendicazione operaia, pur moderandola, o distorcendola? Nel 1936, è stato un governo di sinistra, quello del fronte popolare, a doverlo fare. Nel 1968, è stato un governo di destra, sotto la presidenza di De Gaulle, un generale reazionario!

Nessun movimento della stessa ampiezza si è prodotto nel corso degli ultimi anni, anche se il 1995, proprio l'anno delle presidenziali, è terminato con uno sciopero dei ferrovieri, che ha coinvolto una parte dei lavoratori della Funzione pubblica. Il movimento è stato abbastanza potente da respingere momentaneamente l'attacco di Juppé contro le pensioni della funzione pubblica, ma non abbastanza largo per respingere l'offensiva del padronato e del governo su altri terreni.

In assenza di una battuta d'arresto abbastanza potente, il degrado sociale non si è mai fermato. Il padronato ha approfittato della disoccupazione per contenere o addirittura abbassare i salari, per fare crescere i ritmi di lavoro, per licenziare e far fare più lavoro con meno operai, per aggravare lo sfruttamento. E il governo Chirac-Villepin-Sarkozy, riprendendo un piano preparato da Jospin, è finalmente riuscito ad aumentare l'età della pensione e a diminuire le pensioni quasi per tutti.

I governi, quelli di destra ovviamente, ma anche il governo della sinistra plurale diretto da Jospin dal 1997 al 2002, di cui hanno fatto parte Dominique Voynet e Marie-George Buffet, si sono piegati servilmente alle esigenze del grande padronato: il degrado di tutti i servizi pubblici, di cui quelli più redditizi sono stati trasferiti al privato, la flessibilità del lavoro, la generalizzazione dei contratti precari. Ci sono state innumerevoli altre misure che toccavano l'insieme dei lavoratori di questa o quella categoria, spesso tra quelli più fragili e che avevano più difficoltà a

Tutto questo fa sì che le cose per i lavoratori, se dal 1995 sono cambiate, lo sono in peggio !

Nel corso dei 12 anni scorsi, il potere d'acquisto dei salariati si è ridotto e la disoccupazione non è diminuita, nonostante i brogli nelle statistiche e le menzogne di quelli che ci governano. Quanto alla crisi degli alloggi, già importante nel 1995, si è fortemente aggravata in questi anni a causa della speculazione immobiliare, che ha fatto crescere i prezzi a tal punto che una parte crescente delle classi popolari alloggiano in brutte o pessime condizioni, o addirittura non hanno casa. Gli avvenimenti dell'inizio di quest'anno e l'azione dei "figli di Don Chisciotte" dopo quelli di "Diritto alla casa", hanno destato l'attenzione su questa categoria di lavoratori che hanno un posto di lavoro, qualche volta nelle grandi imprese, o addirittura nelle amministrazioni pubbliche, eppure non possono pagare l'affitto che esigono i proprietari. Troppi sono quelli che, in mancanza di casa, dormono sotto i ponti o popolano il ciglio del raccordo anulare di Parigi!

Questo degrado in ogni campo non può, non deve proseguire indefinitivamente! Presto o tardi la collera scoppierà e provocherà un movimento rivendicativo vasto, potente, che coinvolgerà tutto il mondo del lavoro. Ed è importante che questo movimento non s'inganni sugli obiettivi e non scambi il superfluo per l'essenziale. Ed è proprio questo uno degli scopi della mia campagna.

Il programma sul quale chiedo agli elettori popolari di pronunciarsi votando per la mia candidatura è un programma di difesa dei lavoratori per impedire che una parte crescente della principale classe produttiva della società sia sempre più sospinta verso la miseria.(...).

Questo programma, anche se non colpisce la proprietà privata delle imprese, implica però che venga imposto un altro utilizzo dei profitti enormi che da parecchi anni tutte le ditte incassano, e particolarmente le imprese più grandi. Al contrario di ciò che è stato fatto da tutti i governi di destra o di sinistra in questi anni, questo programma implica che, invece di privilegiare l'interesse della classe capitalistica, si cerchi di ristabilire un po' l'equilibrio colpendo i privilegi economici dei proprietari di capitali per migliorare la sorte delle classi popolari.

Bisogna in effetti finanziare le misure favorevoli alle classi popolari con le finanze dello Stato, alimentate da un aumento selettivo delle tasse, uno aumento che colpisca più fortemente i benefici delle ditte e i redditi più alti.

Le casse dello Stato servono sempre meno a compensare le ineguaglianze di redditi. Spesso è il contrario. Da parecchi anni lo Stato dà ai gruppi industriali e finanziari più denaro di quanto ne ricava dalle tasse. Sia detto soltanto che, nel solo anno 2005, l'ammontare totale dell'imposta sulle società ha fruttato allo Stato la somma di 53 miliardi di euro mentre solo gli aiuti pubblici diretti alle imprese sommavano a 65 miliardi di euro, e oggi ancora di più!

Non c'è stata nessuna necessità economica o sociale per cui si sia dovuto abbassare l'imposta sui benefici delle società dal 50%, aliquota fissata sotto Giscard, trent'anni fa, al 33%, aliquota fissata attualmente! Questa diminuzione non ha fatto altro che contribuire all'esplosione dei profitti ed a diminuire le risorse dello Stato a detrimento di tutti i servizi pubblici utili alla popolazione. L'imposta sui benefici potrebbe e dovrebbe essere immediatamente riportata al 50% a cui ammontava tempo fa. Nessuna ditta è morta all'epoca per questo tasso dell'imposta del 50% dei benefici e non c'era al confine svizzero una folla desiderosa di portare al riparo le casseforti delle imprese!

Per le sole ditte del CAC 40 questo aumento del saggio dell'imposta permetterebbe allo Stato di recuperare 17 miliardi di euro in più. E' una somma che rappresenta quasi il triplo del disavanzo della previdenza sociale nel 2006! E riportare l'imposta sui benefici al 50% per le altre imprese che non sono nel CAC 40 rappresenterebbe ancora 10 miliardi in più, ossia il recupero totale di 27 miliardi di euro.

D'altra parte l'imposta sul reddito delle persone fisiche va modificata. E' ingiusto che i redditi più alti siano in proporzione quelli meno tassati a causa della riduzione del numero delle fasce contributive e della limitazione delle aliquote superiori dell'imposta, limitazione a cui hanno contribuito tutti i governi.

Quindi, affinché le finanze dello Stato consentano di ripristinare il ruolo dei servizi pubblici e di costruire gli alloggi popolari necessari, bisogna prima ripristinare l'imposta sui benefici e le fasce contributive dell'imposta sul reddito che sono state soppresse.

Di più, i più ricchi beneficiano di una moltitudine di sgravi di tasse, per l'impiego di persone di servizio, per investimenti nell'immobiliare locativo, per comprare barche da crociera, per gli investimenti nei dipartimenti e nei territori d'oltremare, una moltitudine di nicchie di agevolazioni fiscali. L'insieme di queste possibilità rappresenterebbe 40 miliardi di entrate in meno per le casse dello Stato. Sarebbe un atto di giustizia sopprimerle!

"Mettere mano ai profitti" significa semplicemente costringere i più ricchi a partecipare allo sforzo necessario per far fronte alla drammatica crisi sociale rappresentata dalla disoccupazione di massa, dai bassi salari e dalla situazione degli alloggi popolari.

"Lo Stato, sono io", affermava a suo tempo Luigi XIV. La ghigliottina che tagliò la testa ad uno dei suoi successori ha mostrato i limiti storici di questa pretesa.

Ma ancora oggi ogni padrone dichiara: "L'impresa, sono io". Ma se l'impresa è creatrice di ricchezze, come amano ricordarci gli economisti - in generale per negare i diritti dei lavoratori-, non è grazie ai proprietari, ma grazie a coloro che vi lavorano, grazie a coloro che fanno girare le catene dell'industria automobilistica, che colano il calcestruzzo per le costruzioni, grazie ai manovali o ai ricercatori, grazie ai cassieri dei supermercati e agli impiegati delle banche.

E' per questo che un programma di difesa dei lavoratori significa necessariamente che i lavoratori, i salariati in genere, possano controllare quel che succede nella propria impresa, che ne assumano collettivamente il funzionamento. E, data l'importanza sociale di certe imprese, che giocano un ruolo enorme nell'economia, bisogna che i consumatori, che la popolazione partecipi a questo controllo e abbia accesso a tutte le informazioni che riguardano queste imprese.

La prima misura da prendere per permettere un tale controllo è dunque quella di sopprimere le leggi sul segreto commerciale, bancario e industriale. Che gli impiegati, i contabili, i segretari, gli operai, i magazzinieri possano dire se quel che i dirigenti delle imprese dichiarano è vero o falso e che essi possano verificare se ciò che vien fatto fare a loro nelle loro fabbriche corrisponde davvero a ciò che è utile alla società.

Questa misura è complicata solo per quelli che temono che il controllo da parte della popolazione possa evidenziare non solo i loro profitti, bensì innanzitutto il modo in cui li ottengono e, più ancora, come scelgono di utilizzarli.

Non parlo soltanto dei guadagni fraudolenti. Anche se l'avviso di garanzia recente, ma a scoppio ritardato, all'amministratore delegato di Total, ha fatto un po' di luce sui fondi neri di questa impresa, fondi che servono a comprare, nei paesi produttori di petrolio, ministri o addirittura capi di Stato e la loro cerchia.

Sto parlando del controllo della comtabilità ordinaria, quotidiana, sia delle entrate che delle uscite e della loro natura, del controllo di chi sono i fornitori di un'impresa e del perché vengono scelti. Cosa viene fornito da una ditta d'appalto e a quale prezzo?

A scapito di quali altre spese vengono elargite le tangenti generose che il gran capitale sa distribuire ai suoi servitori di alto livello? 8,4 milioni di euro per Forgeard, l'ex dirigente di Airbus. 8,2 milioni di euro per Tchuruk, dirigente di Alcatel, proprio mentre queste imprese licenziano. Ma i particolari di questi "paracaduti dorati" non devono nascondere l'insieme del funzionamento capitalistico dell'economia e non dobbiamo lasciarci distrarre da questi esempi, perché per quanto scandalosi siano, non sono niente rispetto ai profitti realizzati, e se gli azionisti accettano questo, è perché ricevono ancora molto di più. E queste ingiustizie non sono niente rispetto ai danni economici provocati dalla speculazione improduttiva che risulta da questi profitti.

E' di moda nelle grandi imprese di "esternalizzare" tale produzione o tale servizio. Bisogna potere controllare il perché. A chi tutto ciò giova profitto, e a scapito di chi? E nell'ambito del grande commercio bisogna controllare quali sono i prezzi pagati ai produttori di carne, di ortaggi, di frutta, soprattutto ai piccoli produttori. Quali sono i margini della grande distribuzione sui prodotti di consumo corrente non industriali?

E a cosa serve il profitto ottenuto? I difensori di ogni genere dell'ordine capitalistico ci spiegano che il profitto è necessario perché, secondo il loro slogan di qualche anno fa, "i profitti odierni sono gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani". Questo però è una menzogna!

Uno degli aspetti più rilevanti della crisi economica nella sua fase attuale sta nel fatto che, se i profitti sono alti e addirittura senza precedenti, non servono a veri investimenti, cioè a costruire nuove fabbriche, a fabbricare nuove macchine, a lanciare nuove produzioni e quindi a creare nuovi posti di lavoro.

Ciò che i finanzieri e i bilanci contabili odierni chiamano investimenti non sono che la riacquisizione di tutta un'impresa, concorrente o meno, o parte di essa, con l'obiettivo principale di riconquistare i suoi mercati. Tale operazione non si traduce in creazione di nuove forze produttive, ma soltanto in una concentrazione finanziaria. Non si traduce in creazione di nuovi posti di lavoro, bensì in ristrutturazioni, nell'eliminazione di cosiddetti doppioni e in licenziamenti.

La recente fusione di due grandi imprese di apparecchiature di telecomunicazioni, la Alcatel e la Lucent, ne fornisce l'illustrazione. La collettività non ci ha guadagnato niente, le fabbriche sono le stesse, ma su scala mondiale più di 12 000 persone si ritrovano sul lastrico, di cui 1500 in Francia.

Ricordo per inciso che ho avuto spesso l'occasione di dire rivolgendomi a chi pretendeva di sostenere che la disoccupazione fosse solo un problema di formazione: sia l'Alcatel che l'Airbus licenziano ricercatori, ingegneri, tecnici, cioè lavoratori con un'alta qualifica. Quindi nessun diploma protegge dalla disoccupazione, e per il padronato un ingegnere è un'unità contabile alla pari di un operaio della catena di montaggio che può sbattere fuori senza rimpianti quando pensa di non ricavarne più lo stesso profitto !

E colgo l'occasione per dire : ricordiamocelo. Ogni corporativismo, ogni illusione che potremmo difenderci meglio aggrappandoci agli interessi della propria categoria, sono nocivi ai nostri stessi interessi. Al di là delle categorie, al di là delle barriere artificiali che si cerca di innalzare tra i lavoratori, è solo insieme che possiamo difenderci!

Per tornare alla questione del controllo sulle contabilità, elemento essenziale di un programma di difesa della popolazione lavoratrice, bisogna anche darsi la possibilità di conoscere i progetti a breve e a lungo termine dell'impresa. Per esempio, non è accettabile che la sua direzione possa preparare un piano di licenziamenti con un anno d'anticipo, e qualche volta di più, mentre i lavoratori ne vengono informati solo quando arriva la decisione.

Ma non penso soltanto ai licenziamenti, penso anche a tutti i progetti che contengono minacce per l'ambiente. Le associazioni che cercano di agire in questo campo devono poter partecipare al controllo, così come le associazioni dei consumatori.

Dal punto di vista tecnico tutto questo non pone nessun problema, c'è solo la legge da cambiare. Bisogna che i salariati non siano più costretti al segreto professionale, in modo che possano dire tutto quello che sanno.

Il controllo esige, inoltre, che si possano rendere pubblici, ovvero accessibili a tutti, le rendite, gli averi e i beni di tutti i grandi padroni, dei loro alleati, dei loro lacchè. Il controllo è indispensabile per poter imporre al padronato le misure urgenti per riassorbire la disoccupazione.

Non si tratta né di espropriare, né di nazionalizzare le imprese private, ma semplicemente di renderle permanentemente trasparenti per la popolazione.

Solo così i lavoratori, i consumatori, cioè la popolazione, potranno veramente controllare i benefici e i profitti ed opporsi ai brutti colpi di quelli che possiedono e dominano l'economia. Solo così essi potranno giudicare le decisioni politiche di chi difende meglio gli interessi del capitale rispetto a quelli del lavoro.

Questo controllo è anche nell'interesse delle altre classi popolari, i piccoli contadini, i piccoli pescatori, schiacciati dalle grandi reti di distribuzione, e gli artigiani strozzati dalle banche.

Sono le grandi imprese che hanno una responsabilità maggiore nella gravità della disoccupazione. Se leggiamo la lista dei piani di licenziamenti annunciati, quelli che sono già in corso come alla Airbus, alla Alcatel-Lucent, alla Kodak o alla Nestlé, o quelli che sono previsti come alla Michelin o alla Peugeot-Citroën, troviamo i nomi di tutte le imprese del Cac 40, o quasi tutte! Sono le stesse imprese di cui i dirigenti vantano i profitti eccezionali. E le poche ditte che hanno fatto meno profitti dell'anno precedente ne hanno egualmente ottenuti di importanti!

Sarà il controllo stretto, quotidiano, da parte dei lavoratori e della popolazione che renderà possibile verificare che i licenziamenti collettivi non sono mai giustificati e permetterà di opporvisi. Il controllo delle contabilità consentirà di verificare che si possono mantenere i posti di lavoro mettendo mano ai benefici, sia quelli dell'anno, sia quelli che sono stati accumulati negli anni precedenti.

Ci vogliono le 35 ore senza deroga. Bisogna generalizzarle a tutte le imprese, vietare gli straordinari e sostituire quelli che sarebbero necessari con assunzioni supplementari.

Bisogna sostituire tutti i contratti precari con contratti a tempo indeterminato e, per evitare i part-time imposti, non lasciare che un salario possa essere inferiore al salario minimo legale (Smic) anche se il tempo di lavoro è inferiore a 35 ore. Innanzitutto, perché le imprese che, per la natura delle loro produzioni o dei loro servizi hanno interesse a delocalizzare, lo possono già fare oggi, e lo fanno già. Ma queste delocalizzazioni sono ben lungi dall'essere la causa principale della disoccupazione attuale, perché sono marginali e non sono queste a creare i 3 milioni di disoccupati e tutti i posti di lavoro precari.

Inoltre la grande industria, con le sue strutture complesse integrate qui in tutto il tessuto industriale, ha maggiore difficoltà a delocalizzare. E nello stesso modo le grandi reti commerciali avrebbero difficoltà a delocalizzare semplicemente perché i mercati, il denaro, il potere d'acquisto almeno delle categorie più agiate, sono qui e non nei paesi poveri.

Auchan o Carrefour possono aprire alcuni supermercati in Cina, ma non possono trasferire tutti i loro negozi in questo paese, anche se la manodopera è meno cara. Di più, non è sicuro che lì le tasse siano inferiori. E Total può estrarre il petrolio nel Gabon o nella Nigeria, ma non potrà mai spostare in Africa tutte le pompe di distribuzione della benzina!

Tutte le imprese industriali hanno un interesse economico maggiore laddove stanno i loro principali mercati. Non è vero che si possono produrre camion in Cina per venderli in Europa. Molti produttori giapponesi di automobili hanno riacquistato o costruito fabbriche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania o in Francia per evitare di dovere trasportarle.

Ma non ci sono solo le misure nei confronti delle grandi imprese. Lo Stato stesso ha soppresso, col passar del tempo, centinaia di migliaia di posti di lavoro nei servizi pubblici o nell'amministrazione, posti di lavoro che aiutavano la vita quotidiana delle classi popolari.

Gli aumenti selettivi delle tasse sui benefici delle società e dell'imposta sugli altri redditi, di cui ho parlato poco fa, dovrebbero servire ad invertire il movimento e a creare posti di lavoro utili nei servizi pubblici.

Col riformare le imposte, lo Stato può e deve assumere immediatamente personale negli ospedali, nelle poste, nella pubblica istruzione. Il personale della sanità lavora al limite delle sue possibilità. Gli straordinari, che teoricamente esso dovrebbe recuperare, non sono mai recuperati. Molti ospedali semplicemente non potrebbero funzionare se non imponessero al personale orari di lavoro logoranti. E nonostante i sacrifici imposti al personale della sanità, si chiudono delle sale nei grandi ospedali delle grandi città. Si chiudono anche piccoli ospedali in provincia o ospedali ostetrici, costringendo i malati o le future madri a fare decine di chilometri.

E poi bisogna anche assumere nelle poste. Le chiusure di uffici postali nei villaggi non solo danneggiano la vita, in particolare quella delle persone anziane o che hanno difficoltà a spostarsi, ma contribuiscono alla decomposizione di tutta la vita sociale. Nelle grandi città il fattorino che passava due volte al giorno fa parte del passato. Recarsi in un ufficio postale in città, anche per un'operazione semplice e quotidiana, diventa una prova, tanto le code sono lunghe e il personale sovraccarico di lavoro.

Bisogna assumere nei trasporti pubblici e nelle ferrovie. Bisogna assumere e formare maestri, professori, personale tecnico e medico nella pubblica istruzione.

E poi, bisogna assumere in un nuovo servizio pubblico per la creazione di un ufficio nazionale degli alloggi, che prenderebbe la responsabilità della costruzione delle case popolari che mancano. Infatti la situazione degli alloggi popolari in questo paese costituisce una vera catastrofe sociale. Oggi i numeri sono in gran parte conosciuti. Secondo la fondazione Abbé Pierre, 1 300 000 famiglie sono in lista d'attesa per le case popolari, e 3 milioni di persone sono mal alloggiate.

La gravità della crisi è evidente. E' inaccettabile e scandaloso che nel ventunesimo secolo, in uno dei paesi più ricchi del pianeta, 3 milioni di persone siano costrette di vivere in alberghi vetusti, in alloggi scalcinati, in tuguri schifosi, o addirittura nelle roulotte, mentre sarebbe possibile, tanto sul piano tecnico quanto sul piano dei finanziamenti, costruire il numero necessario di alloggi per riassorbire la crisi degli alloggi in tre anni!

Nel 2005 le imprese hanno beneficiato di 65 miliardi di aiuti pubblici diretti, e da quel momento questa cifra è ancora aumentata. Inoltre, più di 35 miliardi annui di aiuti indiretti passano tramite le sovrafatturazioni di prodotti e servizi acquistati dallo Stato, i terreni con infrastrutture già pronte offerti alle imprese che vogliono sistemarsi da qualche parte, o anche tramite le numerose agevolazioni con cui lo Stato favorisce le imprese. Ciò rappresenta come minimo 100 miliardi annui che vengono dati a fondo perduto alle imprese, cioè ai loro proprietari, senza che questo sia utile in qualche modo alla collettività, e senza che la disoccupazione smetta di aumentare.

E così si va avanti a spendere il denaro pubblico, anno dopo anno, sotto tutti i governi, mentre la crisi degli alloggi popolari è tale che dovrebbe essere una priorità nazionale!

Con questi 100 miliardi annuali, sarebbe possibile costruire un milione di alloggi a 100 000 euro ciascuno. E se sarà lo Stato stesso a fare assunzioni senza che i cementatori alla Bouygues possano prelevare la loro parte di profitti, è probabile che la costruzione costerà ancora meno. In tre anni l'attuale problema degli alloggi popolari potrebbe essere risolto, non solo col risolvere i bisogni immediati, bensì superandoli per prevedere il futuro e fare anche diminuire per contraccolpo gli affitti del settore privato.

Rispetto agli acquisti fondiari lo Stato non deve accettare per i suoi progetti l'aumento speculativo degli anni scorsi. Bisogna requisire a prezzo zero gli immobili, gli alberghi ed i tuguri che i proprietari abusivi danno in affitto. Hanno guadagnato abbastanza denaro affittando da anni a prezzi proibitivi questi tuguri.

E se sarà un ufficio pubblico a centralizzare la gestione della costruzione edilizia, sarà possibile pianificarla in modo da evitare i ghetti e distribuire le case popolari costruendone anche nei centri delle città.

Nel corso di questi anni il tenore di vita delle classi popolari è andato molto indietro. E qui non parlo solo dei disoccupati o dei precari, il cui potere d'acquisto è veramente crollato.

Il calo del potere d'acquisto riguarda anche chi ha conservato durante tutto questo periodo un posto di lavoro stabile, ciò a causa del blocco dei salari deciso per la prima volta dal governo del socialista Mauroy. I salari aumentano più lentamente dei prezzi e, innanzi tutto, i governi successivi hanno aggiunto delle trattenute come la CSG o l'RDS, l'aumento del ticket negli ospedali, il non rimborso o il rimborso solo parziale delle medicine o delle consultazioni mediche. Tutto questo pesa sul potere d'acquisto.

È indispensabile aumentare tutti i salari di 300 euro netto al mese, solo per recuperare il potere d'acquisto derubato nel corso degli anni. Nessun salario deve essere inferiore a 1500 euro netti al mese e nemmeno alcuna pensione o sussidio per persone disabili. 1500 euro oggi è il minimo per vivere!

Ecco il programma assolutamente necessario per arrestare la degradazione delle condizioni di esistenza delle classi popolari.

Certamente non è quello di Sarkozy, ma non è neanche quello di Ségolène Royal. E se Sarkozy può aggravare ancora le cose, Ségolène Royal non potrà assolutamente migliorarle perché lascerà al gran capitale le mani completamente libere.

Questo programma esige misure autoritarie. Lo Stato borghese stesso sa, in tempi di guerra, prendere tali misure. Ebbene, la lotta contro la disoccupazione, contro la miseria, esige una politica almeno altrettanto autoritaria perché è una questione di sopravvivenza per tutta la popolazione.

Un governo la cui preoccupazione fosse quella di arrestare il degrado delle sorti delle classi popolari potrebbe applicare questo programma, che in fondo è molto moderato. Ma per fare questo, dovrebbe essere deciso ad affrontare la borghesia per costringerla a rinunciare ad una parte dei privilegi che si è appropriati durante i 25 anni scorsi, a scapito delle classi lavoratrici.

Eppure, nessun governo di destra o di sinistra naturalmente lo farà, perché nessuno di loro vorrà toccare, neanche un po', gli interessi e i privilegi della classe ricca.

Questo è evidente per Sarkozy o per Bayrou che ne è la copia conforme sul piano sociale. Non voglio discutere qui del loro programma: il semplice fatto che Sarkozy, a quelli che hanno sempre più difficoltà ad arrivare a fine mese, non abbia altro da dire che "lavorate di più per guadagnare di più", mentre quasi 3 milioni di persone non hanno nessun lavoro e quasi altrettanti precari vorrebbero poter lavorare di più, è una testimonianza del cinismo di quest'uomo e del suo disprezzo per le classi popolari.

Su questa questione Le Pen, De Villiers, Sarkozy, hanno tutti lo stesso programma e Bayrou è differente solo nelle formule. E poi la destra ha appena trascorso cinque anni al potere, e si possono misurare tutti i danni della sua politica per il mondo del lavoro.

Ma prima ancora, abbiamo anche potuto verificare che la sinistra al governo non valeva molto meglio.

Il governo Jospin ha preso un certo numero di misure, come il Pacs o la CMU (copertura malattia universale) che rappresentano progressi non indifferenti per delle minoranze, ma progressi che non costano niente ad un padronato intoccabile. Ma non meno della destra, la sinistra non ha osato prendere misure che potevano a malapena toccare i privilegi esorbitanti della grande borghesia.

E basta ancora vedere la campagna di Ségolène Royal che sta bene attenta a non prendere impegni che potrebbero irritare il padronato. Preferisce non essere eletta piuttosto che di fare tale scelta.

Essa parla sempre meno anche del salario minimo a 1500 euro. Eppure si tratta, per lei, di 1500 euro lordi, cioè solo 1254 euro netto, e questo non dal suo arrivo alla presidenza ma solo "da quando sarà possibile" o alla fine della legislatura ! Ciò vuol dire che a quel momento un tale salario minimo non significherà più potere d'acquisto, bensì meno di quello odierno.

E per gli altri salari, c'è solo la vaga promessa di chiedere a quelli che vengono chiamati le "parti sociali" di impegnarsi in una negoziazione. Si sa cosa sono le negoziazioni tra i padroni e i sindacati dei salariati: i padroni dicono di no e i sindacati ne prendono atto. La stessa espressione di "parti sociali" è una menzogna: padroni e lavoratori non sono delle parti perché i primi sono quelli che detengono il potere, e sono dei nemici per i lavoratori!

Quanto alla disoccupazione, tranne gli "impieghi trampolino" così ben definiti per dire che saranno salti nell'ignoto, c'è la sua nuova invenzione, il CPCE (contratto prima chance per l'impiego), fratello gemello del CPE (contratto prima assunzione) che Villepin ha cercato di imporre, senza successo grazie alla mobilitazione della gioventù. Questo contratto va anche oltre il CPE sotto l'aspetto filo padronale: non si accontenta più di sopprimere le trattenute sociali per i padroni, addirittura lo Stato paga i salari al loro posto! Quale sarà il piccolo padrone che non cercherà di sbarazzarsi del più anziano dei suoi salariati o dell'ultimo assunto, per assumere un giovane a tale tariffa ?

Rispetto agli alloggi, la promessa di costruire 120 000 alloggi all'anno, contenuta nelle "100 proposte" di Ségolène Royal, permetterebbe a tutti quelli che sono in lista d'attesa per le case popolari di avere un tetto solo entro dieci anni. E nel frattempo ce ne saranno tanti altri ad iscriversi sulle liste, senza neanche parlare dei due altri milioni di persone male alloggiate.

A quanto pare, davanti ai sondaggi che attribuiscono a Ségolène Royal sempre più ritardo rispetto a Nicolas Sarkozy, alcuni dei suoi consiglieri le raccomandano di adottare un discorso più di sinistra. "Bisogna concentrare le nostre forze a sinistra" proclama Henri Emmanuelli, raccomandando al partito socialista di tornare al suo elettorato naturale.

Ma avere un discorso più di sinistra, cosa verrebbe a significare? Se questo significa fare promesse alle classi popolari rispetto ai loro problemi reali ed urgenti, Ségolène Royal non lo farà.

Se Ségolène Royal verrà eletta, difenderà come tutti i suoi predecessori, di sinistra come di destra, gli interessi del gran capitale. Ma così facendo, non potrà risolvere nessuno dei problemi delle classi popolari. Non potrà fare niente per riassorbire la disoccupazione. Non farà niente per arrestare il crollo del potere d'acquisto. Non farà niente per risolvere la crisi degli alloggi popolari.

Se difficilmente essa potrebbe fare peggio di ciò che hanno fatto in cinque anni il presidente e il governo di destra, non farà molto meglio, tranne alcuni gesti, se riesce a trovarne, che non costeranno niente al padronato.

Con lei al potere, le classi popolari non saranno tutelate contro l'avidità del gran capitale. Con lei alla presidenza, come con qualunque altro, la classe operaia avrà solo quello che sarà capace di imporre con le proprie forze.

Ma è vero che fino a questa parte, anche nel suo discorso e i suoi propositi, Ségolène Royal ha cercato di accodarsi a Sarkozy più che di differenziarsi da lui. Come Sarkozy, ha condannato la "società dell'assistenza". Si è fatta la sostenitrice del profitto e dello "spirito d'impresa". Si è infilata nel falso dibattito sull'identità nazionale impegnato da Sarkozy. Mentre Sarkozy, gli occhi fissati sull'elettorato del Fronte Nazionale, corre dietro a Le Pen -sempre che non gli sia davanti-, Ségolène Royal da parte sua corre dietro a Sarkozy.

Non so se il fatto di correre dietro all'elettorato lepenista sarà fruttuoso o meno per le ambizioni presidenziali di Sarkozy. Invece sono sicura che, riprendendo per proprio conto i temi della destra, Ségolène Royal non guadagnerà alla sua destra elettori supplementari. Tutto questo rappresenta uno slittamento a destra dell'insieme. Ciò che alla fine rimane a galla, in tutto questo concerto, sono le idee reazionarie qualche volta espresse nel peggior modo.

E se, al contrario del 2002, Le Pen non sarà presente al secondo turno, le sue idee reazionarie, i suoi slogan retrogradi, avranno segnato tutta la campagna elettorale.

Vorrei tornare sul dibattito a proposito delle bandiere, della "Marsigliese" e dell'identità nazionale. Dalla destra alla sinistra, compreso il PCF, abbiamo sentito un rincaro di discorsi, in cui la destra affermava che non bisognava lasciare questo terreno all'estrema destra e la sinistra affermava che non bisognava lasciarlo alla destra.

Il PS come il PC, obbligati dall'essere partiti di sinistra, si sono giustificati ricordando le origini rivoluzionarie della bandiera tricolore.

Sì, al momento della battaglia di Valmy nel 1792, la bandiera tricolore era la bandiera della rivoluzione! Ed è rimasta per decenni il simbolo della rivoluzione francese del 1789 agli occhi di molti popoli.

Ma da quando la Francia borghese è diventata la Francia imperialista, le truppe francesi hanno massacrato in tutte le parti del mondo sotto questa bandiera. Sotto questa bandiera, hanno massacrato durante la conquista dell'Algeria, del Madagascar e dell'Indocina, poi hanno assassinato quelli che osavano rimettere in discussione la dominazione coloniale francese. In tutti questi paesi la bandiera francese non è il simbolo della libertà, ma è quello dell'oppressione e degli oppressori.

E poi nella stessa Francia, sotto questa bandiera sono stati massacrati i comunardi e si è sparato su tanti scioperanti e manifestanti, ancora non tanto tempo fa.

Ma in fondo non c'è da meravigliarsi se Ségolène Royal l'ha fatta propria poiché il suo partito, il PS, è stato quello che sotto questa bandiera ha condotto, durante parecchi anni, la sporca guerra d'Algeria che ha fatto quasi un milione di morti!

Ebbene, da parte nostra non riconosciamo questa bandiera come nostra. E' la bandiera dei fucilatori e noi siamo dalla parte dei fucilati. E la nostra bandiera non è la bandiera tricolore, è la bandiera rossa, la bandiera degli operai, è la bandiera della rivoluzione da quando la classe operaia ha incarnato l'emancipazione futura della società!

E il nostro canto non è la Marsigliese che Ségolène Royal fa cantare alla fine dei suoi comizi, è l'Internazionale.

L'aspetto comico di questo pietoso concerto nazionalista sta nel fatto che, nello stesso momento, i dirigenti politici commemoravano il cinquantesimo anniversario dell'inizio del mercato comune, e quindi di ciò che chiamano la "costruzione europea". Il fatto che, dopo cinquant'anni, si stia ancora a brandire le bandiere nazionale, questo è davvero emblematico della loro unione europea che non è altro che una giustapposizione di nazionalismi anacronistici ed è solo unificata alla meno peggio dagli affari, per i mercati e per i capitali.

Da parte mia, riaffermo che il futuro non sta nei ripiegamenti nazionali, sia nella realtà sia nelle menti. Il futuro sarà la soppressione completa delle frontiere, e sarà un'Europa unita di cui faranno parte tutti i popoli che lo desidereranno, senza rigettare nessuno.

Pur riprendendo parte del discorso di Le Pen e di Sarkozy, è brandendo congiuntamente il "pericolo Le Pen"e la necessità di battere Sarkozy che il PS chiama al cosiddetto voto utile, vale a dire al voto in favore di Ségolène Royal al primo turno.

Insomma, nel linguaggio dei dirigenti del PS, battere la destra e l'estrema destra è far tacere tutto ciò che sta alla sinistra del PS, l'estrema sinistra sicuramente ma anche l'alleato di domani, il PC.

Invece no, occorre che l'opposizione alla politica di Ségolène Royal non venga solamente da chi le sta a destra, ma anche da chi le sta a sinistra. Bisogna soprattutto che si manifesti in questa elezione una corrente che non abdichi di fronte al campo padronale, rappresentato sia da Sarkozy e da Bayrou che dalla Royal.

Certamente, non so se Ségolène Royal sarà eletta o no all'uscita del secondo turno. Tutta la stampa afferma, sulla base dei sondaggi, che mai dal 1969 le intenzioni di voto a favore della sinistra, tutte le tendenze prese insieme, sono state così basse. Se è così, i dirigenti della sinistra riformista vi hanno una grande parte di responsabilità, tanto per la loro politica al governo in passato quanto per il loro accodarsi alla destra nella presente campagna, e innanzitutto per il loro rifiuto di impegnarsi su obiettivi suscettibili di cambiare la vita delle classi popolari.

E poi non dimentichiamo mai che, se la destra è quasi sempre maggioritaria nell'elettorato, è perché una parte importante del mondo del lavoro, i lavoratori immigrati, sono scartati dal diritto di voto. Eppure la sinistra aveva promesso di dare questo diritto di voto almeno in alcune elezioni, e ne accenna la promessa quando è all'opposizione, ma non l'ha mai fatto al governo.

Allora, certamente, sono a favore di dare il diritto di voto ai milioni di lavoratori che vivono e lavorano in questo paese, e questo in tutte le elezioni. Sarà non solo un gesto democratico elementare, ma anche un rafforzamento politico del mondo del lavoro e soprattutto dei settori più sfruttati.

Ma anche se i lavoratori immigrati avessero questo diritto, questo non sarebbe loro sufficiente per difendersi in modo efficace, non più dei lavoratori che hanno già un certificato elettorale in tasca. Perché se le elezioni permettono di esprimere un'opinione, non permettono mai di cambiare la vita e di cambiare la società.

Il compagno che ha parlato dello sciopero Citroën non ha detto, e lo capisco, quanti fra gli scioperanti hanno la carta d'identità francese e quanti non l'hanno, quanti sono di origine francese e quanti sono di origine maghrebina, africana, turca o di una delle circa quaranta nazionalità che si possono contare nel personale dell'impresa. Eppure durante più di un mese hanno destato la simpatia dell'opinione pubblica operaia e contribuito a popolarizzare le rivendicazioni che corrispondono ai bisogni dell'insieme dei lavoratori. Ebbene, questo non è avvenuto con le schede di voto, bensì con il loro sciopero!

E domani, nelle lotte che i lavoratori saranno costretti a condurre per imporre gli obiettivi suscettibili di cambiare veramente la loro situazione, non ci saranno differenze tra quelli che hanno un certificato elettorale è quelli che non ne hanno. Qualunque siano le nostre origini, siamo un'unica classe operaia di cui il padronato è l'unico avversario, e insieme nella lotta avremo il peso per imporre una politica che terrà conto dei nostri interessi!

Da quando esiste la società capitalista, con le sue ingiustizie, le sue oppressioni, c'è sempre stata una corrente per combattere tutto questo, con la prospettiva dell'emancipazione sociale della classe operaia.

Infatti è tutto il funzionamento dell'economia che bisogna cambiare radicalmente. Questa economia dove si produce in funzione del profitto è un'economia folle, un'economia dove è il mercato cieco e stupido a comandare, e non la coscienza degli uomini. Un'economia che riproduce senza sosta l'ineguaglianza sociale, che aumenta in ogni momento lo scarto tra un piccolo numero di paesi industriali e il resto del mondo, condannato alla povertà.

La nostra convinzione è che l'avvenire appartiene ad un'organizzazione sociale differente da quella di oggi, senza sfruttatori, senza sfruttati e senza sfruttamento, dove la produzione e la ripartizione saranno organizzate non in funzione delle attese di profitto di qualcuno, ma in funzione della soddisfazione dei bisogni di tutti.

Ma oggi non si tratta che di un'elezione, che non ha il potere o la possibilità di cambiare le strutture della società. Non si tratta di agire, ma di esprimere un'opinione. Non si tratta di pronunciarsi sull'avvenire della società, ma sull'urgenza immediata, su un programma di sopravvivenza del mondo del lavoro.

E' su questo programma che io chiedo agli elettori di pronunciarsi, votando per la mia candidatura!

Certamente io so che una gran parte dell'elettorato popolare spera che in questa presidenziale Sarkozy verrà scartato. Questo augurio lo capisco.

Ma al primo turno non si tratta di questo.

Col votare per la mia candidatura voterete ovviamente contro Sarkozy e tutto ciò che rappresenta in quanto a sottomissione al gran padronato, in quanto a cinismo nei confronti delle classi popolari.

Voterete anche, ovviamente, contro Le Pen e la sua ombra De Villiers. Bisogna che, di fronte all'elettorato che si esprime sul nome di questo milionario reazionario, xenofobo e anti operaio, si affermi un elettorato che difenda con fierezza gli interessi politici e i valori della classe operaia.

Ma voterete anche contro la politica portata avanti da Ségolène Royal, che vorrebbe far passare la sua politica come l'unica che si possa opporre alla destra, mentre le assomiglia sempre di più.

Al primo turno, bisogna avvertire Ségolène Royal che, se verrà eletta, non avrà un assegno in bianco e che i lavoratori, le classi popolari, non la lascerebbero condurre la politica della destra senza reagire.

Col votare per la mia candidatura, voterete perché, di fronte al campo padronale rappresentato tanto dai principali candidati della destra quanto dalla candidata della sinistra, si affermi il campo dei lavoratori!

Col votare per la mia candidatura, voterete perché gli obiettivi che ho esposto diventino quelli delle lotte future di tutti i lavoratori.

Compagni e amici, c'è ancora una settimana di campagna, io so che posso contare su di voi per condurla con me!