Iraq: gli Stati Uniti in cerca di una via d'uscita (da "Lutte de Classe" n 102 - febbraio 2007)

Εκτύπωση
Iraq: gli Stati Uniti in cerca di una via d'uscita
11 gennaio 2007

Il 10 gennaio, con l'annuncio di una "nuova strategia" in Iraq, il presidente americano Bush ha innanzitutto dato notizia dell'invio di 21 500 soldati supplementari, invio che nessuno pensa potrà cambiare qualcosa della situazione presente sul terreno. Contemporaneamente ha riconosciuto che ci sono stati degli "errori" nella condotta della guerra. Ma la maggior parte dei dirigenti americani, anche vicini al presidente, adesso riconoscono apertamente ciò che il presidente riconosce solo a mezza voce.

"Non stiamo vincendo la guerra in Iraq" ha anche dichiarato il 5 dicembre il nuovo segretario di Stato alla difesa Robert Gates, interrogato dalla commissione delle forze armate del Senato. Gates, uomo vicino al presidente e che ha sostituito Donald Rumsfeld dopo la sconfitta repubblicana alle elezioni del novembre 2006, conferma così che il cambiamento non riguarda soltanto l'uomo che dirige le forze militari degli Stati Uniti: ormai si riconosce anche apertamente che l'intervento in Iraq ha condotto al fallimento e si cerca di capire come fare per uscire da tale situazione.

IL FIASCO IRACHENO

Infatti, a più di tre anni e mezzo dall'inizio della guerra, nel marzo 2003, il fiasco ormai è troppo evidente per essere negato. E certamente non è l'esecuzione dell'ex dittatore Saddam Hussein, il 30 dicembre, a poterlo nascondere, tanto più che quest'ultima sembra abbia provocato piuttosto una radicalizzazione dell'opposizione tra sunniti e sciiti.

Ogni giorno porta con sé una serie di attentati micidiali, di scontri tra milizie ostili, di attacchi contro le truppe di occupazione. I morti iracheni si contano a decine ogni giorno, e qualche volta superano il centinaio. Tali attentati quotidiani mirano a terrorizzare sia coloro che fanno la coda per un posto nell'esercito o la polizia, sia semplicemente le persone che accettano di lavorare per ditte straniere; o semplicemente colpiscono alla cieca la folla di un mercato in un quartiere sciita o, in modo analogo, una folla simile in un quartiere sunnita. Si insedia la divisione tra quartieri sunniti e sciiti o con le regioni curde, e tra gli uni e gli altri, ormai, è guerra.

Nessuno controlla più davvero la situazione nel paese. Le truppe d'occupazione, ormai, limitano le uscite dalle loro basi a ciò che è strettamente necessario. Certo, ci sono state elezioni e un governo iracheno è stato insediato, in modo da accreditare l'idea che l'intervento americano ha portato al popolo iracheno un sistema politico democratico. Ma questo governo è esso stesso dominato dai partiti islamisti e non fa altro che cercare compromessi con le principali milizie sciite. L'esercito e la polizia che questo governo tenta di costituire e che dovrebbero sostituire le truppe d'occupazione per restaurare l'ordine e la stabilità, seguono quindi una logica di guerra confessionale che ormai attraversa tutto il paese e risultano come degli ausiliari delle milizie sciite, che, da parte loro, sono incontrollabili.

E infatti i quartieri, le città, le regioni, sono ormai dominate da milizie concorrenti, capeggiate da veri e propri "signori della guerra" che ubbidiscono solo a sé stessi. Le milizie possono assassinare per un nonnulla o semplicemente per il fatto di avere sulla carta d'identità un cognome tipicamente sciita o tipicamente sunnita. La delinquenza da molto tempo ha divampato su larga scala, in particolare i rapimenti contro riscatto.

Questa situazione drammatica, e sempre peggiore, rende impossibile ai dirigenti americani sostenere ulteriormente la menzogna ufficiale secondo la quale, anche se le cose stanno durando un po' più del previsto, l'invasione dell'Iraq sarebbe sul punto di portare all'instaurazione nel paese di un governo democratico e stabile. Tanto più che il prolungamento di questa situazione provoca conseguenze politiche negli stessi Stati Uniti.

In effetti il numero di soldati americani uccisi in Iraq dall'inizio della guerra ha ormai oltrepassato quota 3000, superando anche quello dei morti americani degli attentati dell'11 settembre 2001, che era di 2973. Quanto al numero di feriti tra i soldati americani, questo potrebbe essere anche dieci volte superiore. E' chiaro che, a novembre, nelle elezioni di mezzo termine al Congresso degli Stati Uniti, che si è tradotto in una vittoria dei Democratici e in uno schiaffo al presidente Bush, l'impantanamento americano in Iraq ha avuto un ruolo considerevole. Gran parte dell'opinione americana è ormai convinta dell'inutilità di tutti questi morti, dell'inutilità delle enormi spese di guerra inghiottite in Iraq, e si chiede cosa è andato a fare lì l'esercito americano. E il partito democratico, nonostante non abbia veramente da proporre una politica diversa da quella di Bush, cerca di stare in sintonia con questa opinione, opponendosi a parole all'invio di truppe supplementari.

Infatti, nonostante ciò che Bush stesso può ancora proclamare nei suoi discorsi, adesso i dirigenti dell'imperialismo americano vogliono trovare il modo di ritirare l'esercito dal pantano in cui sta sprofondando e di porre fine a questa operazione irachena che dimostra non essere stata nient'altro che una disastrosa avventura militare. Però un ritiro puro e semplice dell'esercito americano sarebbe il riconoscimento aperto della sconfitta, e questo non in un piccolo paese senza importanza bensì in un gran paese situato nel cuore di una regione strategica e dalle ricchezze petrolifere determinanti. E riconoscere la sconfitta, in questa regione cruciale del Medioriente che gli Stati Uniti vogliono mantenere sotto loro controllo, potrebbe portare a delle reazioni a catena ed avere gravi conseguenze.

Come riuscire a ritirarsi dall'Iraq senza che questo possa somigliare ad una sconfitta: in effetti è questa la difficile equazione che i dirigenti americani tentano adesso di risolvere.

IL RAPPORTO BAKER

Il rapporto consegnato al presidente il 6 dicembre scorso dalla commissione di studio sull'Iraq, chiamata dalla stampa la commissione Baker, non fa che esplicitare le preoccupazioni dei dirigenti americani.

Designata dal Congresso, composta da cinque repubblicani e cinque democratici, presidiata dall'ex segretario di Stato repubblicano James Baker e dall'ex presidente della Commissioni degli affari esteri della Camera dei rappresentanti Lee Hamilton, questa commissione raccomanda l'adozione da parte dei dirigenti americani di un "approccio bipartisan" in grado di "porre fine in modo ragionevole a ciò che è diventato una guerra lunga e costosa".

All'approssimarsi, nel gennaio 2007, del nuovo Congresso degli Stati Uniti ormai dominato nelle due camere dal Partito Democratico, la commissione Baker rispondeva ovviamente a questo bisogno di consenso "bipartisan" sulla politica da condurre in Iraq. Anche se il Partito Democratico non ha definito una politica diversa da quella dei repubblicani, il suo successo elettorale è dovuto al rifiuto, da parte dell'opinione pubblica, alla politica dell'amministrazione Bush in Iraq. La commissione doveva tenerne conto almeno formalmente, sia prendendo le distanze rispetto alla politica precedente sia provando a definire una approccio "nuovo".

Ma le conclusioni della commissione vanno al di là di queste necessità di circostanza. Lo stesso James Baker è vicino al presidente Bush, e il suo rapporto è anche, probabilmente, un modo per abituare gli animi, prima a questa presa d'atto, e successivamente ad un'inversione di rotta.

Così il rapporto prende atto che, al momento, "nessuno può garantire che una serie qualsiasi di provvedimenti fermerà gli scontri confessionali, la crescente violenza o uno slittamento nel caos." Aggiunge, con l'evocare i pericoli della situazione: "se proseguirà il peggioramento della situazione, le conseguenze potranno essere gravissime (...) Un crollo dell'economia e del governo iracheno potrebbe paralizzare ancora di più un paese già incapace di provvedere ai bisogni della sua popolazione. Le forze di sicurezza potrebbero scoppiare seguendo le incrinature confessionali". L'aumento del numero dei profughi potrebbe allora portare ad "una catastrofe umanitaria". D'altra parte "la pulizia etnica potrebbe imperversare su larga scala. Il popolo iracheno potrebbe essere sottomesso ad un nuovo uomo forte che impiegherebbe mezzi politici e militari autoritari per far prevalere l'ordine sull'anarchia. Le libertà verrebbero ridotte o perse". E poi, "un Iraq sprofondato nel caos potrebbe portare (i paesi vicini) ad intervenire allo scopo di proteggere i loro interessi, rischiando così di scatenare una guerra regionale generalizzata". Allora si potrebbe temere "l'eventualità di scontri fra sciiti e sunniti che attraversano il mondo islamico" e "il terrorismo potrebbe allargarsi".

Tutto questo non è altro che il riconoscimento, ormai ufficiale, della gravità della situazione a cui ha portato l'ultimo intervento in Iraq. E in realtà bisognerebbe anche aggiungervi gli interventi precedenti, dal sostegno dato al regime di Saddam Hussein contro l'Iran durante la guerra del 1980-1988, alla prima guerra del Golfo nel 1991, seguita da 15 anni di un embargo che ha portato ad un terribile degrado della situazione materiale della popolazione irachena.

Questa constatazione parte ovviamente non dal punto di vista dei popoli della regione, bensì da quello dell'imperialismo americano e dei suoi interessi generali. Così col constatare che "l'Iraq è una prova e un fardello per le capacità militari, diplomatiche e finanziarie degli Stati Uniti", i membri della commissione suonano l'allarme nel seguente modo: "se l'America dovesse dare l'impressione di avere fallito laggiù, tutta la sua credibilità e la sua influenza ne verrebbero compromesse per un lungo periodo nel cuore del mondo islamico, in una regione essenziale all'approvvigionamento energetico mondiale. In più questo danneggerebbe l'influenza degli Stati Uniti nel mondo".

Allora cosa fare? Nel suo rapporto la commissione Baker ha innanzitutto scartato differenti opzioni: secondo essa il ritiro precipitoso delle truppe americane dall'Iraq sarebbe "un errore". D'altra parte "il mantenimento dell'attuale politica non potrebbe che rimandare a più tardi il momento del bilancio definitivo che, in questo caso, sarebbe solo ancora più pesante". Alla fine dice: "l'aumento sostenuto del numero dei soldati americani in Iraq non riuscirebbe a risolvere la causa essenziale delle violenze in Iraq: l'assenza di riconciliazione nazionale". Rimane quindi solo da trovare "un approccio nuovo", e prova a definirlo.

QUALE "APPROCCIO NUOVO" ?

La commissione Baker ha espresso una serie di raccomandazioni, molte delle quali, in realtà, non hanno niente di nuovo. Così gli Stati Uniti dovrebbero innanzitutto "aumentare in modo significativo il numero del personale militare, comprese le truppe di combattimento, in appoggio alle unità dell'esercito iracheno o integrato".

Le misure annunciate il 10 gennaio da Bush corrispondono esattamente a queste raccomandazioni della commissione, con l'invio di 21 500 soldati americani supplementari in Iraq. L'obiettivo sarebbe di rafforzare l'esercito e lo Stato iracheni, in modo che alla fine possano governare il paese, e in particolare affrontare i vari gruppi armati, senza che l'esercito d'occupazione americano sia in prima linea. Così, dice la commissione, "Man mano che tale processo si svolgerà, le forze di combattimento americane potranno cominciare a ritirarsi dall'Iraq" e "al primo trimestre del 2008, (...) le brigate di combattimento non necessarie alla protezione militare potranno essere evacuate dall'Iraq. A quel momento le forze di combattimento americane in Iraq non potrebbero essere dispiegate che in unità integrate alle forze irachene, squadre di reazione rapida o di operazioni speciali, ed anche per l'addestramento, l'equipaggiamento, il consiglio e la protezione militare" (...)

Tutto questo, in realtà, coincide con la politica condotta finora dalla squadra di Bush, che pretendeva di affidare poco a poco l'Iraq ad un governo e a forze armate irachene. Ora bisogna constatare che questa politica è fallita. Tutt'al più i dirigenti americani sperano che l'invio di 21 500 uomini supplementari -mentre l'organico attuale è di 132 000 uomini- permetta di "sicurizzare" un po' alcune zone, e in particolare di controllare almeno un po' la capitale Bagdad. Questo potrebbe fare sì che il loro fallimento sia un po' meno palese, in modo che, alla fine, la partenza delle loro truppe abbia luogo in condizioni un po' migliori. Invece, è evidente che per riuscire a sconfiggere i gruppi armati, per ristabilire un'ordine sotto il dominio americano in un paese come l'Iraq, bisognerebbe mandarvi in modo prolungato un contingente ben superiore, di parecchie centinaia di migliaia, e forse di più di un milione, di uomini. Questo implicherebbe anche un nuovo e molto importante aumento delle spese di guerra.

Questo è proprio ciò che i dirigenti americani non vogliono fare: l'annuncio dell'invio di due decine di migliaia di uomini è, da questo punto di vista, una confessione. Peraltro non avrebbero i mezzi politici per farlo oggi, con l'opposizione espressa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti. Quindi non è tanto per l'aspetto militare quanto per l'aspetto politico che la condotta dei dirigenti americani nei confronti dell'Iraq potrebbe cambiare.

Da un lato vorrebbero valorizzare quello che chiamano la "riconciliazione nazionale" in Iraq appoggiandosi su una parte dei quadri del partito Baath cacciati dai loro posti di responsabilità dopo la caduta di Saddam Hussein. Sperano senz'altro che l'esecuzione di questi renderà la cosa più facile. Il rapporto Baker raccomanda tra le altre cose "il reinserimento dei nazionalisti arabi nella vita della nazione, tranne i maggiori esponenti del regime di Saddam Hussein". Sarebbe un tentativo di riequilibrare la politica americana riconquistando un consenso dei sunniti, che fornivano l'essenziale dei quadri del vecchio potere e ne erano stati cacciati a vantaggio degli sciiti. Però la guerra tra le comunità ha raggiunto un punto tale che risulta difficile immaginare che i partiti sciiti, finora favoriti, accettino senza resistenze di cedere a questi vecchi quadri sunniti i posti che nel frattempo hanno occupato.

Ma d'altra parte, ed è probabilmente questo il punto essenziale, i dirigenti americani vorrebbero orientarsi verso una collaborazione con i regimi vicini all'Iraq. Ciò che Bush rifiuta ancora di riconoscere ufficialmente è invece presente nelle proposte del rapporto Baker. Così, constatando "la capacità della Siria e dell'Iran di pesare sul corso degli avvenimenti all'interno dell'Iraq", esso propone che "gli Stati Uniti provino ad impegnare un dialogo costruttivo con questi due paesi".

I due Stati che Bush accusa regolarmente di complicità col terrorismo internazionale sarebbero quindi chiamati a diventare i garanti della stabilità dell'Iraq... E la commissione va anche oltre, affermando che "gli Stati Uniti non potranno raggiungere i loro obiettivi nel Medioriente se non trattano il problema del conflitto israelo-palestinese e quello dell'instabilità regionale" e che devono "impegnarsi di nuovo e con fermezza sulla strada di una pace tra Arabi e Israeliani su tutti i fronti : Libano, Siria e, per quanto riguarda Israele e Palestina (...), a favore della soluzione dei due Stati".

NEGOZIARE CON LA SIRIA E L'IRAN?

Proporre questa negoziazione su tutti i fronti, allo scopo di arrivare ad una collaborazione da parte della Siria e dell'Iran al mantenimento della stabilità regionale, è ciò che sembra più contrario alla politica condotta dall'amministrazione Bush, una politica che finora si è caratterizzata per lo stigmatizzare questi due paesi come responsabili dei conflitti del Medioriente, minacciandoli periodicamente di un intervento militare.

Se questo possa portare ad un risultato, e in particolare ad un risultato rapido, è certamente un'altra questione. Molti commenti, facendo seguito alla pubblicazione del rapporto Baker, hanno sottolineato gli ostacoli presenti su questa strada, tra i quali la difficoltà per l'amministrazione Bush di rinnegare sé stessa non è quello più piccolo, e in particolare che questo sia visibile. Ma la commissione Baker, in fondo, le rende un servizio, portando avanti un'opzione che difficilmente il presidente stesso potrebbe formulare, ma di cui tutti i dirigenti dell'imperialismo americano si rendono benissimo conto.

Almeno dall'indomani della seconda guerra mondiale e dalla fine dei mandati coloniali, l'ordine imperialista nel Medioriente poggia su una collaborazione con i vari regimi della regione, per quanto indipendenti appaiano o provino ad apparire. Questo è evidente per il regime israeliano, che si comporta come l'agente diretto degli Stati Uniti, ma è anche vero per l'Arabia Saudita, gli Emirati, la Giordania, il Libano, anche loro molto direttamente legati all'imperialismo, ai quali bisogna aggiungere, ai margini della regione, la Turchia. Ma questo è anche vero per l'Egitto, l'Iran, l'Iraq e la Siria, anche se nel caso di questi quattro ultimi paesi tale collaborazione è stata e rimane più contraddittoria in funzione dei loro sobbalzi politici.

Dopo aver dimostrato, nel periodo nasseriano, delle velleità d'indipendenza nei confronti dell'imperialismo, l'Egitto di Sadat, poi di Mubarak, da molto tempo è tornata ad essere un interlocutore docile. E' stato anche, per un lungo periodo, il caso dell'Iraq di Saddam Hussein, che fu l'esecutore dei compiti più bassi dell'imperialismo, prima di essere indicato dai dirigenti americani come il nemico da abbattere. Per quanto riguarda la Siria, la collaborazione col suo regime è stata sempre più nascosta, ma nondimeno reale, come quando il regime di Hafez Al Assad fece intervenire il suo esercito nel Libano nel 1976 per fare da arbitro nella guerra civile che si svolgeva nel paese. Si trattava allora di impedire una vittoria delle milizie della sinistra libanese, alleate con le milizie palestinesi, contro quelle della destra cristiana: questo intervento siriano si svolse con l'approvazione dei dirigenti delle grandi potenze che considerarono allora, e fino a poco tempo fa, la Siria come il guardiano riconosciuto dell'ordine e della stabilità del Libano.

Infine l'Iran è stato esso stesso a lungo, sotto il regime dello scià, uno dei principali guardiani dell'ordine della regione, in collaborazione diretta coll'imperialismo americano. Furono gli Stati Uniti, dopo la caduta dello scià e la rivoluzione iraniana del 1979, a rompere col nuovo regime. Provarono a rovesciare il regime della Repubblica islamica stabilito da Khomeiny, o almeno ad indebolirlo, sostenendo la guerra scatenata contro di lui dall'Iraq di Saddam Hussein. I dirigenti dell'imperialismo scartavano allora l'eventualità di collaborare con questo regime, mentre i nuovi dirigenti iraniani si mostravano pronti a farlo anche se questo sarebbe avvenuto necessariamente su basi differenti rispetto a quelle in vigore sotto lo scià.

I dirigenti delle grandi potenze sono quindi i primi a sapere che è possibile una collaborazione con i vari regimi, per quanto opposti possano apparire. Questi, in effetti, non cercano affatto di porre fine al dominio dell'imperialismo sulla regione. Tentano soltanto di ottenere qualche margine di indipendenza che dia alla loro borghesia una posizione migliore nello sfruttamento delle ricchezze del loro paese e del loro popolo.

Ma è proprio ciò che i dirigenti dell'imperialismo non vogliono accettare, o vogliono tollerare solo entro stretti limiti e soltanto se ci sono costretti. Uno dei mezzi per assicurare il loro dominio è, tra l'altro, quello di utilizzare o di suscitare le opposizioni tra i vari paesi. Così hanno potuto utilizzare, all'epoca dello scià, l'Iran contro l'Iraq quando questo mostrava troppe velleità d'indipendenza. Nel periodo più recente invece, nel 1980-1988, l'Iraq, gli Emirati e l'Arabia Saudita furono utilizzati contro l'Iran khomeinista durante la guerra Iraq-Iran. Poi la stessa Arabia Saudita, gli Emirati e l'Egitto furono utilizzati contro l'Iraq nelle due guerre del Golfo. Infine, in modo pressoché permanente, Israele veniva utilizzato contro tutti: il conflitto israelo-palestinese, mantenendo una tensione continua, consentiva ai dirigenti israeliani di mantenere nella loro propria popolazione la mentalità di un popolo assediato, e quindi pronto a fare una guerra quasi permanente ai suoi vicini arabi.

Quindi, ogni volta, per necessità di politica interna, fosse solo per dare una parvenza di giustificazione ai loro attacchi, i dirigenti imperialisti sono portati a demonizzare, uno dopo l'altro, ognuno di questi regimi nel momento in cui lo combattono. L'epiteto di dittatore è stato distribuito successivamente, in funzione della loro politica del momento, a Nasser, ai dirigenti siriani e ai dirigenti iraniani. I dirigenti americani, in modo grossolano e semplicistico, hanno anche inventato "l'asse del male" contro cui loro stessi rappresenterebbero "il bene", o semplicemente etichettano come stati "terroristi" i regimi ai quali si oppongono in un dato momento.

Bisogna osservare che mai questi epiteti sono stati applicati ai dirigenti israeliani, quando praticavano un autentico terrorismo di Stato contro il popolo palestinese. Non sono neanche mai stati applicati ai principi sauditi nonostante dirigano uno dei peggiori regimi, reazionario e feudale, del pianeta. Le qualifiche di "dittatura", di "democrazia" o di "terrorista", per i dirigenti imperialisti, hanno chiaramente un senso variabile a secondo della loro alleanza o della loro ostilità del momento nei confronti del regime che qualificano. Da quel punto di vista, e a differenza di molti altri, Israele, l'Arabia saudita e la Giordania si sono sottratte a questa stigmatizzazione grazie alla stabilità dei loro legami con l'imperialismo.

Comunque, l'esempio recente dell'evoluzione della Libia di Gheddafi, ha dimostrato come un regime ancora poco fa chiamato "terrorista", che fu anche per un lungo periodo sotto la mira di attacchi militari americani, possa rapidamente rientrare nei favori dell'imperialismo dopo il superamento di un certo numero di motivi di conflitto. Questi certamente erano meno difficili da saldare di quelli esistenti nel Medioriente, ma l'accordo raggiunto dimostra, comunque, che ciò che lo impediva non era sicuramente la natura del regime di Gheddafi, qualunque fossero le qualifiche che gli avevano riservato in passato i dirigenti americani.

Quindi, tra i dirigenti americani, in realtà, ognuno sa che una negoziazione con l'Iran e la Siria è un'opzione esistente. Oggi, risponderebbe meglio agli interessi, ben compresi, dell'imperialismo americano che lasciando il proprio esercito a impantanarsi ancora di più nell'occupazione militare dell'Iraq... a condizione però che l'opzione risulti praticabile.

LE CONDIZIONI DI UNA NEGOZIAZIONE

I dirigenti americani sanno benissimo che i dirigenti siriani o i dirigenti iraniani sono pronti a cercare un'intesa. Ma sanno anche che le condizioni concrete che verranno poste da questi dirigenti nella discussione creeranno loro qualche difficoltà.

Alcune derivano dalla politica degli stessi dirigenti americani, che consiste nel suscitare e nell'utilizzare le rivalità tra i vari Stati della regione per dominarla. Inoltre, sempre di più, queste rivalità tra Stati o gruppi di Stati si complicano con rivalità comunitarie, in particolare tra sunniti e sciiti. E' il caso dell'Iraq ed anche del Libano dove altre componenti, tra le quali quelle cristiane e drusa, si aggiungono ai sunniti e agli sciiti.

In tali condizioni, fare del nemico di ieri un amico di oggi non può che creare difficoltà con quelli che invece erano gli amici di ieri. Così, ristabilire relazioni normali con l'Iran e la Siria non potrebbe che creare difficoltà con Israele, ma anche con l'Arabia Saudita e l'Egitto, in concorrenza con l'Iran per il ruolo di prima potenza regionale.

Ma di più, all'origine di queste rivalità ci sono motivi reali di conflitto ai quali bisognerebbe trovare delle soluzioni, perché la Siria e l'Iran possono accettare di collaborare apertamente con gli Stati Uniti solo se questi, in cambio, rispondono almeno ad alcune delle loro rivendicazioni.

Così il regime siriano rivendica la restituzione dell'altopiano del Golan, territorio siriano occupato nel 1967 da Israele e che questo non vuole restituire malgrado le risoluzioni Onu ne diano l'ordine. Con la speranza di ottenere in cambio almeno questa concessione, la Siria ha moltiplicato le dimostrazioni di buona volontà nei confronti dell'imperialismo. Ma fino ad oggi i dirigenti imperialisti hanno preferito non rispondere alle mosse siriane, tra le altre cose perché non vogliono scontentare Israele, né fare pressione su di esso perché restituisca il Golan alla Siria.

Allo stesso tempo, cambiare tono verso il regime siriano porrebbe ai dirigenti imperialisti americani, ed anche francesi, qualche problema rispetto ai loro alleati libanesi. In effetti dal 2004 i dirigenti americani e francesi hanno spinto i dirigenti libanesi a tagliare i ponti con la Siria, ottenendo il ritiro dal Libano delle truppe del regime di Bashar Al Assad. Oggi questo conduce allo scontro aperto tra i partiti alleati della Siria e dell'Iran, Hezbollah e Amal, sciiti ma alleati a certi partiti cristiani, e i partiti sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Francia, sunniti, cristiani e drusi. Un cambio d'atteggiamento implicherebbe almeno che i dirigenti occidentali spingessero i loro attuali alleati ad accettare un compromesso che oggi rifiutano.

Quanto ad un'eventuale negoziazione con l'Iran, per ora questo paese è messo all'indice dalle grandi potenze perché vuole acquisire un'industria di arricchimento nucleare, e viene accusato, nonostante lo neghi, di non volere in realtà accontentarsi del nucleare civile. Ora, nonostante il trattato di non proliferazione nucleare, ognuno sa che potenze come l'India, il Pakistan o Israele dispongono dell'arma atomica. E' evidente che l'Iran avrebbe beneficiato della stessa benevolenza se si trattasse ancora dell'Iran dello scià, che aveva dato molte prove dell'affidabilità della sua alleanza con l'imperialismo. Ma oggi le pressioni esercitate sull'Iran nella questione nucleare possono essere un modo per ottenere dal regime della Repubblica islamica delle prove della sua affidabilità, per esempio impegnandosi a giocare un ruolo stabilizzatore in Iraq e in Libano.

Bisogna notare, inoltre, che da più di sei mesi il governo Bush ha ammorbidito la sua posizione nei confronti dell'Iran sulla questione nucleare, dichiarando che riconosce a questo paese il diritto alla tecnologia nucleare e facendo capire che potrebbe anche annullare le sanzioni decise contro di esso. Da parte dell'amministrazione Bush, si tratta di un'apertura, alla quale l'Iran, chiaramente, è chiamato a rispondere con alcune contropartite.

In Iraq il regime iraniano appare in effetti come il principale alleato delle milizie sciite. Nel Libano, appare il principale sostegno di Hezbollah. D'altra parte i rilanci del presidente iraniano Ahmadinejad contro Israele, compreso la dimostrazione di un antisemitismo di basso livello, appaiono come un tentativo di imporsi come il dirigente incontestato degli sciiti, anche fuori dell'Iran. Questa influenza potrebbe essere per il regime iraniano una moneta di scambio nell'ambito di un negoziato con l'imperialismo che ne farebbe di nuovo uno dei suoi interlocutori.

Anche in questo caso, un eventuale accordo con l'Iran avrebbe per gli Stati Uniti l'inconveniente di scontentare Israele. Ma non bisogna dimenticare che Israele e l'Iran hanno collaborato a più riprese, apertamente, all'epoca dello scià e più discretamente all'epoca della guerra Iraq-Iran. Israele era allora uno dei canali attraverso cui le forniture d'armamento transitavano verso l'Iran, perché non volevano che l'Iraq uscisse rafforzato dal conflitto. I dirigenti israeliani sanno che i proclami di solidarietà con i palestinesi oppressi, da parte del dirigenti iraniani, sono solo retorici. Lo sono anche molto di più che da parte dei dirigenti dei paesi arabi che, per lo più, per la loro prossimità con Israele, hanno con questo anche propri motivi di conflitto che l'Iran non ha.

Ma le dichiarazioni di solidarietà con i palestinesi, anche quando provengono dalla Siria o dagli altri Stati arabi, o anche dal libanese Hezbollah, non sono comunque altro che rilanci retorici che potrebbero svanire in un negoziato, in funzione delle concessioni che gli uni o gli altri potranno ottenere.

I palestinesi quindi potrebbero ancora una volta essere dimenticati nell'eventuale soluzione che la commissione Baker raccomanda per tutto il Medioriente, nonostante la sua indicazione di arrivare ad una pace globale tra israeliani e arabi. Il far balenare la possibilità di un "processo di pace" israelo-arabo è stato da tempo un procedimento per tentare di rafforzare i dirigenti palestinesi più moderati senza concedere niente. Il rapporto della commissione Baker rimproverava innanzitutto all'amministrazione Bush di non avere fatto niente per mantenere la credibilità di tale "processo". Sembra che la segretaria di Stato, Condoleezza Rice, sia stata incaricata da Bush di recarsi ancora una volta nella regione per tentare di convincere le varie parti in causa a farne rinascere almeno il miraggio. Ma i palestinesi, a differenza dell'Iran e della Siria, ad oggi non hanno alcuna carta vincente nelle mani per far valere i loro diritti.

VERSO RILANCI RECIPROCI?

Da parecchi anni, in particolare sotto la direzione di Bush, abbiamo visto i dirigenti dell'imperialismo americano adottare atteggiamenti radicali, ed anche passare all'azione e lanciarsi in Iraq in un'avventura di guerra. Nei loro discorsi, Bush e i suoi compari, hanno affermato che avrebbero rimodellato il Medioriente, fatto dell'Iraq uno Stato modello importandovi la "democrazia" e avrebbero poi ridisegnato la pianta della regione intorno ad esso dopo averla liberata dai regimi "terroristi", quali Siria ed Iran.

Ma ormai devono rivedere le loro ambizioni al ribasso. Più dei tentativi di Bush per non dare l'impressione di rinnegare sé stesso, è il rapporto Baker a fornire una bozza della politica a cui pensano i dirigenti degli Stati Uniti nel tentativo di uscire dalla situazione irachena, prima che l'insuccesso si trasformi in una catastrofe ed in una dimostrazione d'impotenza dell'imperialismo americano.

Anche se l'idea di un'intesa con la Siria e l'Iran è solo una prospettiva, l'impegnarsi sin da oggi in un negoziato aperto con questi due regimi avrebbe per l'imperialismo americano un inconveniente importante: il suo impantanamento in Iraq lo mette in una situazione di debolezza. Parallelamente, l'insuccesso della guerra condotta quest'estate da Israele nel Libano ha indebolito il suo alleato israeliano e rafforzato il partito libanese Hezbollah, alleato dell'Iran. I dirigenti siriani ed iraniani lo sanno, e quindi approderebbero al negoziato in posizione di forza relativa.

Anche se ci sono già stati sicuramente dei contatti discreti, tramite vari intermediari, i dirigenti americani preferiscono non impegnarsi troppo rapidamente in vere negoziazioni con questi due regimi. Al contrario, è anche possibile che nell'immediato, oltre il rafforzamento degli effettivi militari presenti in Iraq, si impegnino in nuove prove di forza sia sullo stesso terreno iracheno che oltre esso. Azioni militari, provocazioni nei confronti della Siria e dell'Iran potrebbero far parte di tale strategia, sia direttamente da parte dagli Stati Uniti, sia tramite Israele. Da parte dei dirigenti americani, questo non sarebbe in contraddizione con la ricerca del "regolamento globale" di cui parla la commissione Baker.

Bisogna ricordare, ad esempio, che durante la guerra del Vietnam, fu nel momento stesso in cui erano impegnati in negoziati con l'avversario che i dirigenti americani procedettero ai bombardamenti più massicci sul Nord del paese. La potenza di fuoco dell'esercito americano era così utilizzata direttamente come "argomento" nelle negoziazioni. Potrebbe succedere la stessa cosa nel Medioriente.

IL MEDIORIENTE FRA GUERRA LARVATA E GUERRA PERMANENTE

Per il momento, quindi, la nuova strategia annunciata da Bush consisterà innanzitutto in un'intensificazione delle operazioni militari in Iraq. È ben poco probabile che questo possa arrestare il degrado della situazione, ma questo può far parte di questa diplomazia armata a cui i dirigenti imperialisti sono affezionati, anche se hanno in vista, a più o meno breve termine, un negoziato con la Siria e l'Iran.

Quanto a sapere se un accordo con questi due regimi permetterebbe veramente di stabilizzare la situazione in Iraq e anche fuori di esso, questa è un'altra questione. L'influenza dell'Iran sulle milizie sciite irachene, o anche su Hezbollah in Libano, è certamente reale. Anche i mezzi di pressione della Siria sugli insorti sunniti iracheni lo sono, certamente. Non risulta pertanto che un accordo con la Siria e l'Iran, anche se fosse raggiunto, possa bastare per ristabilire la situazione in Iraq e per far cessare ciò che appare adesso come una vera guerra civile. I "signori della guerra" rivali, che si contendono dei territori, non possono abbandonare facilmente il pezzo di potere che hanno conquistato. E le varie milizie sciite e sunnite, senza dimenticare le milizie curde, se fossero abbandonate da uno dei loro protettori esterni, ne possono trovare altri: ci sono abbastanza rivalità nel Medioriente per trovare uno Stato della regione, o anche di un'altra, che vi trovi un qualche interesse.

È vero che i dirigenti degli Stati Uniti non fanno altro che cercare di uscire dalla brutta situazione in cui sono sprofondati in Iraq, e di uscirne nel modo meno pietoso possibile. D'altra parte, anche se sono in una situazione difficile, questa non è tale da costringerli a trovare molto rapidamente una via d'uscita: possono aspettare, e probabilmente aspetteranno il tempo necessario, qualunque sia il costo in vite umane e in sofferenze per il popolo iracheno e per i propri soldati. Tanto più che sono i primi a sapere che ad ogni modo, anche se trovassero un esito negoziato all'attuale conflitto, questo non potrà essere che sulla base di un equilibrio precario, per sua natura destinato ad essere rapidamente rimesso in discussione.

Da questo punto di vista, il "regolamento globale" della situazione in Medioriente, dilaniato com'è da rivalità alle quali hanno contribuito i successivi interventi imperialisti, è solo un'astrazione. Un negoziato che portasse ad un eventuale regolamento in Iraq sarebbe solo una tappa, forse neanche veramente una tregua, nella guerra permanente che conosce il Medioriente, con il suo inestricabile accumularsi di conflitti innescati dagli interventi imperialisti.

Così, da anni, il sistema imperialista fa vivere regioni intere del mondo sull'orlo dell'abisso, e qualche volta le fa sprofondare. E' il caso del Medioriente, e purtroppo in questo caso sono i popoli della regione, particolarmente il popolo iracheno ma anche palestinese, libanese, israeliano, che ne pagano il prezzo e rischiano di continuare a pagarlo.