Libano : un paese nel cuore delle crisi del Medio Oriente (da "Lutte de classe" n 88 - aprile 2005)

Εκτύπωση
Libano : un paese nel cuore delle crisi del Medio Oriente
aprile 2005

L'esplosione che si è prodotta il 14 febbraio scorso sul lungomare di Beirut non si è limitata a far saltare l'auto nella quale circolava l'ex primo ministro Rafic Hariri, uccidendolo con diversi dei suoi accompagnatori. Ha fatto saltare anche il precario equilibrio politico che prevaleva nel paese dalla fine della guerra civile del 1975-1990. Una gran parte dei problemi che avevano causato lo scoppio della guerra civile, e che questa non aveva risolto, sono riapparsi alla luce del giorno, ma in un contesto modificato: quello di un Vicino e Medio Oriente fortemente scossi dagli interventi americani e dalle reazioni che questi hanno provocato, come anche dalla persistenza del conflitto israelo-palestinese.

Le caratteristiche del paese, la sua storia, fanno sì che la crisi libanese offre a modo suo un concentrato delle crisi che dilagano in un Vicino e Medio Oriente divisi, lacerati, i cui equilibri instabili minacciano di rompersi ad ogni istante.

Divisioni comunitarie rafforzate dal colonialismo francese

Se il conflitto israelo-arabo è in gran parte un'eredità della politica coloniale della Gran Bretagna che, per controllare la parte del vecchio impero ottomano che si era attribuita all'indomani della Prima Guerra mondiale, decise di favorire l'immigrazione ebrea contro le popolazioni arabe, le divisioni comunitarie del Libano e la sua stessa esistenza in quanto Stato separato dalla vicina Siria, sono l'eredità diretta della politica coloniale francese.

Dopo essersi spartite il Medio Oriente in zone d'influenza con gli accordi Sykes-Picot del 1916, Francia e Gran Bretagna decisero, nelle loro zone rispettive, di dividere per imperare. Dopo il crollo effettivo dell'impero ottomano alla fine della Prima Guerra mondiale, la Gran Bretagna lo fece nella sua zona d'influenza, corrispondente ai territori attuali dell'Iraq, della Giordania, della Palestina e d'Israele, e la Francia sui territori corrispondenti attualmente alla Siria e al Libano.

La Francia da molto tempo si era proclamata protettrice della comunità cristiana maronita del Monte Libano, la zona montagnosa situata all'est ed al nord-est di Beirut, conducendovi fin dal 1860 un intervento militare. Dopo la Prima Guerra mondiale, non contenta di ritagliare in modo arbitrario con la sua complice britannica quello che fino ad allora era un solo territorio di popolazione araba, divise ulteriormente la parte di tale territorio che le toccò. Così, il Libano fu creato di sana pianta in quanto Stato indipendente dalla Siria. Per farlo, l'autorità coloniale aggiunse al Monte Libano cristiano lo sbocco marittimo di Beirut, come anche altri territori calcolati in modo tale che nell'insieme i cristiani restino malgrado tutto maggioritari. Creo' in questo modo, intorno a Beirut ed al Monte Libano, il più grande paese possibile a maggioranza cristiana, scontando che nel caso in cui tale paese accedesse all'indipendenza, questa situazione ne avrrebbe fatto necessariamente un alleato dei paesi occidentali, ed in particolare di colui che si era proclamato il suo "protettore storico": la Francia.

Per far ciò, bisognava assicurarsi che il criterio di appartenenza religiosa continui ad essere un dato fondamentale della vita politica libanese. Ciò fu fatto dotando il Libano di istituzioni basate sulla comunità religiosa, prolungando semplicemente il vecchio sistema dei "millet" in vigore nell'impero ottomano e che definiva il cittadino in funzione della sua appartenenza all'una di queste comunità. Nel momento in cui in Turchia la rivoluzione kemalista faceva di questo paese uno Stato laico e dei suoi abitanti cittadini uguali di fronte alla legge, almeno in principio, la Francia imperialista non trovava niente di meglio, in questo pezzo del vecchio impero ottomano qual'era il Libano, che ridar vigore a strutture feudali sorpassate dalla storia. Le diciassette comunità religiose libanesi furono così istituzionalizzate, il che finiva col dare il potere, in seno ad ogni comunità, a qualche grande feudale o ricca famiglia che traevano l'influenza dalle loro fortune. Al livello nazionale - per così dire - l'equilibrio politico riposava su un compromesso tra queste diverse comunità, o piuttosto tra i capi di clan che le dominavano.

In Siria, un tentativo analogo di dividere il paese secondo le linee di forza delle comunità religiose fallì. In cambio, quando il Libano divenne indipendente nel 1943, lo fece sulla base di tale sistema politico multi-confessionale. Un "patto nazionale" non scritto stabiliva la divisione del potere tra le differenti frazioni della borghesia: la presidenza della Repubblica toccava ad un cristiano maronita, il posto di Primo ministro ad un musulmano sunnita e quello di presidente dell'Assemblea nazionale ad un musulmano sciita. Un "equilibrio" doveva prevalere ugualmente nella ripartizione dei posti pubblici e nella composizione dei ministeri, vale a dire che il paese e lo Stato erano divisi tra le clientele dei diversi clan stabiliti sulla base di comunità religiose.

Un tale sistema a termine non poteva che sfaldarsi, come accadde. Ciononostante, nell'immediato, assicurava nel paese il dominio degli strati privilegiati, in particolare della borghesia cristiana maronita, e la loro alleanza con l'imperialismo, in particolare l'imperialismo francese. La situazione di Beirut, separata dagli altri paesi arabi ed in particolare dalla Siria agitata da tensioni nazionalistiche, permise di farne una piazza finanziaria che controllava una gran parte degli scambi commerciali e finanziari tra la regione mediorientale ed i paesi occidentali; tutto ciò al profitto di banche francesi che si erano assicurate il primo posto nel settore bancario libanese, da sole o associandosi con ricche famiglie locali.

1975, lo scoppio della guerra civile

Malgrado tutto, il Libano non restò al margine delle correnti che avrebbero attraversato il mondo arabo negli anni cinquanta e sessanta, contestando la presenza imperialista ed il sistema di dominio messi in piedi dalle due vecchie potenze coloniali, sistema che perdurava anche se le due potenze erano ormai sempre più soppiantate, sul posto, dall'imperialismo americano. L'ascesa del malcontento sociale si coniugava a quella del nazionalismo arabo ed alle speranze, alla solidarietà e all'entusiasmo risvegliati dalla lotta dei Palestinesi, in particolare nel Libano dove centinaia di migliaia di palestinesi dei campi di profughi, organizzati politicamente e militarmente, erano in contatto diretto con la popolazione povera delle periferie di Beirut.

Le vicende del marzo 1975 nella città di Saïda testimoniarono del grado raggiunto dalla tensione sociale e politica. La repressione da parte dell'esercito libanese di una manifestazione di pescatori, con l'assassinio del deputato nasseriano Maarouf Saad, scatenò in reazione una vera e propria rivolta. Fu di fronte a questa situazione esplosiva che il partito di estrema destra dei "Falangisti" (i Kataëb) decise di prendere l'iniziativa. La sparatoria del 13 aprile 1975, nel corso della quale i suoi miliziani assassinarono freddamente ventisette Palestinesi di ritorno da un meeting, scatenò la guerra civile.

Rapidamente, il Libano si divise in due campi. Di fronte alle milizie di estrema destra che regnavano sui quartieri ricchi - spesso a maggioranza cristiana - un campo detto "palestino-progressista" si delineò. Le milizie dei partiti di sinistra libanesi, appoggiati su una vera mobilitazione popolare, tenevano i quartieri poveri, alleati alle milizie dei Palestinesi. Una nuova solidarietà si cristallizzò tra loro e la popolazione libanese povera. Sulla base di tale mobilitazione delle masse povere libanesi e palestinesi, si apriva la possibilità di uno sconvolgimento rivoluzionario. Il movimento forse poteva far saltare le vecchie divisioni comunitarie, trovare la solidarietà delle masse popolari dei paesi vicini per condurre insieme la lotta contro i regimi, quelli del Libano e di Israele certo, ma anche quelli degli altri Stati arabi, a cominciare dalla dittatura di Hafez Al Assad in Siria. Ma le diverse forze che avevano interesse al mantenimento dello status quo coniugarono i loro sforzi per impedirlo.

Innanzitutto, in seno allo stesso campo detto "palestino-progressista", non esisteva una direzione rivoluzionaria conseguente, decisa a condurre una tale politica. Le direzioni tradizionali poterono riprendere rapidamente il controllo della situazione. I dirigenti palestinesi, ed in primo luogo Arafat, proclamarono che il movimento palestinese doveva preoccuparsi solo della Palestina ed in nessun caso immischiarsi nei conflitti interni del Libano. I partiti della sinistra e quelli della borghesia musulmana libanese si incaricarono di limitare gli obiettivi del movimento ad una vaga riforma del sistema politico.

Nei due campi, ognuno contribuì a trasformare il carattere dello scontro. Da conflitto sociale e politico tra "Palestino-progressisti" ed estrema destra, questo assunse sempre più i contorni di una guerra tra un campo musulmano ed un campo cristiano. Qualche massacro indiscriminato di musulmani o di cristiani - la confessione era iscritta sulla carta d'identità - si incaricò di attizzare l'odio e di rigettare dietro i loro dirigenti "comunitari" quanti non si erano schierati in funzione di tale appartenenza; in particolare i numerosi cristiani che si trovavano dal lato "palestino-progressista".

Ciononostante, dopo un anno di guerra civile, l'estrema destra cristiana ed i suoi protettori imperialisti avevano fondati motivi di essere inquieti. Il loro campo indietreggiava su tutti i fronti di fronte ad un campo "palestino-progressista" che stava per sopraffarli militarmente. Fu allora che ricevettero un rinforzo inatteso: quello della Siria.

L'intervento siriano

In effetti nella primavera 1976 l'esercito siriano entrò in Libano per salvare l'estrema destra respingendo le milizie "palestino-progressiste". Il campo palestinese di Tell Al Zaatar, isolato al centro del campo cristiano, fu così consegnato ai "Kataëb" che procedettero ad un autentico massacro. Il territorio libanese fu da allora diviso in vari settori, controllati dalle diverse milizie sotto la sorveglianza dell'esercito di Damasco. Il regime siriano di Hafez Al Assad si imponeva in quanto potenza capace di garantire in Libano un equilibrio delle forze che rispettava il potere tradizionale della borghesia cristiana e la suddivisione effettuata dall'imperialismo. Lo faceva in connivenza con i dirigenti cristiani libanesi ed i loro protettori occidentali, con Israele, ed anche con i dirigenti arabi, poco interessati a vedere il paesaggio politico della regione sconvolto dall'emergenza di un potere "progressista" a Beirut.

La guerra civile durò ciononostante fino al 1990, marcata da numerosi episodi. Nel 1978, Israele invase il sud del Libano per installarci in modo durabile una zona-tampone controllata da una milizia libanese armata e finanziata da lui. Nel 1982, agli ordini di Sharon, l'esercito israeliano si spinse questa volta fino a Beirut per tentare di scacciarne tutte le milizie palestinesi e di installarci un potere alleato di Israele sotto la presidenza del capo dei Kataëb, Bechir Gemayel. La morte di Bechir Gemayel qualche tempo dopo in un attentato, ordinato senza dubbio dalla Siria, portò al potere suo fratello Amine Gemayel, più propenso ai compromessi con Damasco. Ciononostante le milizie di estrema destra si vendicarono sui Palestinesi, perpetrando il massacro dei campi palestinesi di Sabra e Chatila nel settembre 1982. Poi ci fu l'episodio dell'intervento di una "forza multinazionale" (americano-franco-italo-britannica), che finalmente abbandonò Beirut nel 1984 in seguito a due attentati particolarmente micidiali contro una caserma americana ed una caserma francese.

Al contempo dei differenti interventi stranieri, gli scontri continuavano tra le diverse milizie libanesi e palestinesi: ci fu, nel 1982, la battaglia di Tripoli tra la Siria e le milizie sunnite; nel 1983, la battaglia del Chuf con la quale le milizie druse di Walid Jumblatt presero il controllo di questa regione. Dal 1985 al 1988, ci fu la guerra dei campi scatenata dalla milizia sciita Amal - sostenuta dalla Siria - contro i campi palestinesi. Nel 1988-1989, fu la volta della pretesa "guerra di liberazione" condotta dal generale cristiano Michel Aoun contro la Siria, col sostegno della Francia. Ciononostante, nel Sud, beneficiando del sostegno dell'Iran, si costituivano le milizie dello Hezbollah ("partito di Dio"), che controllavano sempre più questa regione a maggioranza sciita e conducevano azioni militari contro Israele.

Fu solo alla fine del 1989, in seguito agli accordi conclusi nella città di Taëf, in Arabia Saudita, che la guerra civile verso' al termine. Questo incredibile succedersi di scontri e di massacri, di interventi stranieri e di manipolazioni, di tradimenti e di inversioni di alleanze, le creazioni successive di milizie che coprivano l'azione di tale o tale altra potenza, senza parlare del terribile bilancio di quindici anni in termini di sofferenze umane e di distruzioni materiali, sboccarono su un vago compromesso politico che non modificava niente di essenziale.

Di fronte ai tentativi di fare del Libano una testa di ponte delle potenze occidentali simile ad Israele, fu precisato che il Libano era "arabo, di appartenenza e di identità". Le differenti comunità religiose dovevano essere rappresentate in modo più equo al vertice dello Stato, prima tappa in principio prima del "l'abolizione del confessionalismo politico". Infine, l'accordo di Taëf prevedeva il disarmo delle milizie ed il raggruppamento delle forze siriane nella valle della Bekaa, limitrofa della Siria, prima del loro ritiro totale parallelamente a quello delle forze israeliane.

Di fatto, i tentativi delle diverse potenze e, all'interno, quelli delle differenti comunità per modificare i rapporti di forza in loro favore, sboccarono solo sull'esaurimento reciproco dei protagonisti. Al termine di un gioco sottile, la Siria era ancora riconosciuta come arbitro della situazione libanese, garante del mantenimento di un equilibrio tra le diverse comunità. Per ciò aveva l'appoggio degli altri paesi arabi, ed anche di fatto quella delle potenze imperialiste e l'accettazione tacita di Israele. Il tutto coronato, nel 1991, dalla firma di un "trattato di fraternità e di cooperazione" tra la Siria ed il Libano.

La "ricostruzione"

Primo ministro dal 1992 al 1998, poi dal 2000 al 2004, Rafic Hariri è stato presentato come l'uomo della "ricostruzione". Alla testa del Libano, benché originario di una famiglia povera, dopo aver fatto fortuna nella costruzione edile in Arabia Saudita, musulmano sunnita, questo affarista si impegnò effettivamente a "ricostruire" un certo Libano: quello degli strati sociali privilegiati. Distrutta dalla guerra civile, la città di Beirut fu dotata di qualche quartiere ultramoderno, di immobili lussuosi e palazzi d'affari, arricchendo al contempo la famiglia Hariri, le sue società di costruzioni ed il suo patrimonio immobiliare, a tal punto che si dice di questo clan miliardario che possiede la metà del paese. Lo Stato libanese, quanto a lui, vedeva il suo debito crescere in modo vertiginoso per finanziare i lavori faraonici di Hariri, moltiplicando in qualche anno il debito pubblico, che avvicina oggigiorno i 40 miliardi di dollari per un paese di meno di 4 milioni di abitanti. Per finire, il Libano degli strati più poveri, devastato dalla guerra, era lasciato a sé stesso ed alla sua miseria.

Hariri aveva, oltre alla sua fortuna, soprattutto una qualità politica: quella di saper gestire i rapporti con tutti gli alleati. Durante la guerra civile, seppe distribuire i suoi finanziamenti tra tutte le milizie. Disponendo presso la famiglia regnante in Arabia Saudita di appoggi, se ne assicurò anche negli altri paesi arabi, negli Stati uniti, così come dal lato del presidente francese Chirac di cui divenne anche, si dice, uno dei finanziatori. In Libano, fu abbastanza prudente nella distribuzione degli affari, e nel permettere agli altri clan della borghesia libanese di arricchirsi insieme a lui. Per finire, seppe mantenere relazioni di collaborazione con la Siria e col regime di Hafez Al Assad, poi con suo figlio Bachar, garantendo nello stesso tempo alla borghesia libanese la possibilità di condurre il proprio gioco.

Così, dopo l'interruzione dovuta alla guerra civile, Beirut e le banche libanesi ritrovarono a poco a poco il loro ruolo di crocevia finanziario della regione mediorientale. Mentre una parte della popolazione sprofondava nella miseria, la borghesia e una parte della piccola borghesia libanese ritrovarono il loro ruolo di intermediari commerciali e finanziari privilegiati dell'imperialismo nella regione, con la ricchezza e il lusso svergognato che l'accompagnavano.

Bisogna notare ciononostante una differenza con la situazione che regnava prima della guerra civile. Adesso, al fianco dei clan della borghesia cristiana maronita, si vedono dei clan della borghesia musulmana sunnita - di cui Hariri era il simbolo - ed anche musulmana sciita, ostentare una ricchezza equivalente. Anche in questo caso, se il regime di Hariri ha arricchito innanzitutto sé stesso, ha saputo permetterlo anche ai suoi simili degli altri clan sunniti, sciiti, drusi o cristiani. È solamente in questo senso - dal punto di vista della ripartizione dell'arricchimento tra i diversi clan - che forse si è stabilito un "miglior" equilibrio tra le comunità, o più esattamente tra le ricchissime famiglie che le dominano. Si capisce perché, dopo la sua morte, si sentano obbligati nei confronti di Hariri.

La rottura di un equilibrio precario

Ciononostante, il nuovo equilibrio del Libano ritrovato dopo il 1990 restava tutto sommato altrettanto instabile di quello prevalente prima del 1975. Al suo interno rimanevano i rapporti di forza tra le diverse comunità confessionali, per nulla abolite dall'accordo di Taëf. D'altronde, il paese era al centro di influenze esterne divergenti che andavano da Riad a Damasco ed al Cairo, e da Parigi a Washington; bastava una piccola variazione dell'una di queste forze per rompere l'equilibrio.

Ora, l' intervento americano in Iraq nel 2003 ha avuto evidentemente delle conseguenze in tutto il mondo arabo. Dopo la vittoria sul regime di Saddam Hussein, l'imperialismo americano ha alzato il tono e le esigenze nei confronti della Siria. Ritrovando uno dei loro argomenti favoriti, i dirigenti americani hanno denunciato il dominio siriano sul Libano. I dirigenti francesi, che non intendevano restare indietro su una questione relativa ad una delle loro tradizionali zone d'influenza come il Libano, hanno seguito le orme degli Stati Uniti, contrariamente a quanto avevano fatto sulla questione irachena. Ciò ha portato nel settembre 2004 al voto della risoluzione 1559 del Consiglio di sicurezza. Questa reclamava la restaurazione del "l'autorità unica ed esclusiva" del governo di Beirut ed il ritiro di "tutte le forze estere ancora presenti", vale a dire essenzialmente, dopo l'evacuazione delle forze israeliane del sud del Libano nel 2000, delle forze siriane.

Questa nuova situazione internazionale, a sua volta, ha incoraggiato le forze che, in Libano, speravano di alleggerire la tutela siriana. Il fragile consenso esistente nella borghesia libanese per accettare, in mancanza di meglio, una collaborazione discreta con Damasco si è rotto. Hariri, ritornato all'opposizione dall'autunno 2004 dopo aver lasciato il posto di primo ministro al pro-siriano Omar Karamé, scontava visibilmente ritornare con forza dopo le elezioni legislative previste per la primavera 2005. È in questo contesto che è stato assassinato, cosa che ha precipitato l'attuale crisi.

Da allora, la situazione creata dall'attentato contro Rafic Hariri, il sostegno degli Stati uniti e della Francia, hanno incoraggiato tutti quelli che, nel nome dell'indipendenza del Libano, reclamavano un ritiro delle truppe siriane presenti nel paese, accusando il regime di Damasco di aver ordinato l'assassinio.

Certo, le condizioni nelle quali l'attentato è stato preparato indicano che i suoi autori disponevano di importanti mezzi e di larghe complicità, senza dubbio ad un livello elevato, presso diverse autorità. Ciò permetteva di additare i servizi segreti libanesi e siriani, e al di là il regime di Damasco ed il governo libanese pro siriano di Omar Karamé e del presidente Emile Lahud.

Anche se i servizi segreti siriani sembrano in effetti abituati a questo tipo di operazione, nella regione non sono i soli, né i soli presenti in Libano. E poi, anche se si ritiene l'ipotesi di un'azione dei servizi di Damasco, ci si può chiedere se hanno agito veramente su decisione del loro governo. E' possibile che alcuni di tali servizi obbediscano ai calcoli di un clan del regime contro un altro, oppure a diversi accomandanti. In ogni caso, non si capisce che interesse il regime di Bachar Al Assad avrebbe avuto ad ordinare l'omicidio di Hariri che, anche nell'opposizione al governo detto "pro-siriano" di Karamé, affermava la sua volontà di dialogare con la Siria per alleggerire la sua tutela. Al contrario, l'attentato ha cimentato l'unità contro la presenza siriana, col sostegno degli Stati uniti e della Francia.

Se dunque il ventaglio dei possibili autori dell'attentato è largo, quello degli accomandanti possibili lo è ancor di più, e li si può cercare anche dal lato di Israele o dei servizi occidentali che avrebbero potuto voler mettere in difficoltà il regime siriano, giustamente nel momento in cui il presidente americano Bush additava la Siria e l'Iran e ostentava il suo riavvicinamento con la Francia sulle questioni del Vicino e Medio Oriente.

I campi prendono forma

Nelle manifestazioni che si sono succedute a Beirut dalla morte di Rafic Hariri si è delineato un fronte anti-siriano che raggruppa i partiti tradizionali della destra e dell'estrema destra cristiana, ma anche quello del dirigente druso Jumblatt, il leader del preteso "partito socialista progressista" membro della II internazionale ed in realtà barone medievale della sua regione del Chouf. L'indignazione di una parte della popolazione dopo l'assassinio, la stanchezza nei confronti del sistema poliziesco instaurato dai servizi segreti libanesi e siriani, creavano un terreno favorevole per le manifestazioni contro la presenza siriana e contro il regime libanese di collaborazione con la Siria, nel nome del "l'indipendenza" del Libano.

Si possono capire in parte i sentimenti di quelli che hanno manifestato così dopo la morte di Hariri. Ma lo slogan del "l'indipendenza" di una parte della borghesia libanese nei confronti della Siria ricopre un'aspirazione tradizionale della borghesia cristiana, che apparentemente oggi non è più suo monopolio esclusivo. Questa può sperare di averci più da guadagnare separandosi dalla Siria e dal resto del mondo arabo per salvaguardare al Libano il suo ruolo di crocevia finanziario e di rifugio dei capitali. Può anche immaginare di fare del paese una specie di secondo Israele arabo e cristiano o druso. Le dichiarazioni di Bush e di Chirac e le dimostrazioni di forza di Israele incoraggiano periodicamente questo tipo di tendenza, come si è visto nel corso della guerra civile.

D'altronde il fatto che tale movimento abbia fatto dell'affarista Hariri il suo eroe la dice lunga. L'ex primo ministro, che è presentato dopo la sua morte come un combattente della "ricostruzione" del Libano ed un modernizzatore del paese che ha saputo aiutare i poveri e i deboli, è stato soprattutto l'autore di un mercantilismo sfrenato, dell'indebitamento dello Stato, delle privatizzazioni al profitto di qualche famiglia, della ricchezza provocante di una minoranza, lasciando i più poveri nella loro miseria. Né il suo governo ha esitato di fronte alla repressione contro quelli che lo contestavano. Così, il 27 maggio 2004, è sotto il governo di Rafic Hariri che l'esercito libanese ha sparato sui manifestanti che protestavano contro il carovita nel corso della giornata di sciopero generale dalla CGTL.

Allora, certo, il suo assassinio ed il clima poliziesco e di complotto che conosce il Libano, sollevano senza dubbio presso alcuni un'indignazione sincera. Ma le organizzazioni politiche - seguite anche da una frazione del Partito Comunista - che incensano la persona di Hariri e brandiscono il suo ritratto nelle manifestazioni, abbracciano nello stesso tempo il programma politico di tale "indipendentismo" libanese. E non si tratta di un indipendentismo nei confronti dell'imperialismo, ma dell'aspirazione a farsene ancora più apertamente i rappresentanti, alla maniera dell'esempio di Hariri.

Uno degli aspetti più odiosi di questa politica è l'ondata di xenofobia anti-siriana sviluppata volontariamente dalle principali organizzazioni del "fronte libanese". Da tempo, si appoggia sull'esistenza di reali esazioni dei servizi segreti siriani nel Libano per sostenere l'idea che ogni siriano presente nel paese è un agente del regime di Damasco e per farne un capro espiatorio. Gli operai siriani immigrati in Libano, dove per salari di miseria fanno i lavori più faticosi, spesso nell'agricoltura e nell'edilizia, sono stati le prime vittime di questa ondata di disprezzo, alimentata dalla borghesia e dalla piccola borghesia libanese, dove l'odio xenofobo si mischia all'odio di classe. Dopo l'assassinio di Rafic Hariri, si è sviluppata una vera e propria ondata di aggressioni e di assassini di operai siriani, facendo in due mesi non meno di 60 morti, rapiti, battuti a morte, a volte bruciati nelle tende dei loro accampamenti di fortuna. Al punto che oggi una grande parte di questi lavoratori siriani sono scappati dal Libano.

Ciononostante il programma del "indipendentismo" libanese non raccoglie l'unanimità. Lo si è visto l'8 marzo quando, in risposta alle manifestazioni del fronte anti-siriano, l'Hezbollah è riuscito ad organizzare una manifestazione altrettanto imponente, riunendo centinaia di migliaia di persone venute essenzialmente dalle regioni sciite del sud. Beneficiando del sostegno siriano ed iraniano, impiantati nelle regioni e tra la popolazione più povera, con l'aureola dell'immagine di resistenti contro Israele che l'hanno obbligato a ritirare le sue truppe dal Sud del Libano, i dirigenti dell'Hezbollah per il momento non hanno niente da guadagnare dall'"indipendentismo" pro-imperialista, addirittura pro-israeliano, del fronte libanese di cui d'altronde potrebbero diventare un bersaglio.

Così, in qualche settimana, le manovre degli uni e degli altri hanno fatto risorgere opposizioni che, benché immobilizzate alla fine della guerra civile, non erano certamente scomparse. È chiaro che basterebbe un niente per farle sboccare in un nuovo conflitto aperto. Nella popolazione libanese, apparentemente, non esiste un vero odio tra comunità. Se tali sentimenti sono stati attizzati nel corso della guerra civile, da allora si sono smorzati. Ma, come lo si è visto in altre situazioni, il semplice fatto che le forze politiche si organizzino intorno a tali linee di divisione, che rappresenta per loro un mezzo di esistenza e di influenza, l'assenza di forze politiche decise realmente a lottare per obiettivi che oltrepassino le barriere delle diverse comunità, possono rapidamente ridare alla crisi politica il carattere di uno scontro tra comunità.

Il puzzle del Medioriente

Nello stesso tempo, di fronte alla situazione creata dall'assassinio di Hariri ed alle pressioni occidentali, il regime di Damasco ha deciso un'evacuazione rapida delle sue truppe dal Libano. Prevista dagli accordi di Taëf e richiesta con insistenza dalla risoluzione 1559 dell'Onu, tale decisione nasconde senza dubbio un calcolo: dimostrare che, senza la presenza del "protettore" siriano, la guerra civile presto o tardi non può che riaccendersi. Il fronte costituito tra Jumblatt ed i partiti cristiani per chiedere lo sgombero delle truppe siriane potrebbe rapidamente dividersi una volta queste partite. Se lo scontro che si delinea dovesse acuirsi, alcuni di quelli che oggi protestano fermamente contro la presenza della Siria, potrebbero rapidamente richiamarla in aiuto oppure accettare che si imponga come arbitro, così come l' avevano fatto nel 1976.

E' possibile che l'evacuazione rapida delle truppe di Damasco nasconda uno scambio globale e segreto con i dirigenti imperialisti, non solo sulla presenza della Siria in Libano ma sul suo ruolo nel sostegno alla guerriglia sunnita in Iraq e sulla questione del Golan siriano occupato da Israele.

Vedremo in seguito come stanno le cose con la diplomazia segreta dei dirigenti imperialisti, senza parlare dell'intervento più o meno controllato dei loro diversi servizi segreti. Ma si può constatare che uno degli effetti dell'intervento americano in Iraq si fa già sentire. Dopo aver battuto il regime di Saddam Hussein, le forze d'occupazione hanno cercato appoggi nelle strutture tradizionali, ed in primo luogo presso i diversi notabili delle autorità religiose. Il risultato, al di là dell'autorità di facciata che rappresenta il governo messo in piedi dagli Stati Uniti, è una partizione di fatto dell'Iraq tra le zone curde, musulmane sciite e musulmane sunnite, vale a dire una divisione comunitaria, senza parlare delle divisioni in seno alle stesse comunità. A loro volta, i capi delle comunità cercano e trovano sostegno dal lato dei diversi servizi e degli Stati vicini, la Siria per i sunniti e l'Iran per gli sciiti.

I giornalisti occidentali discorrono sulla "democratizzazione" che, grazie all'intervento americano, starebbe conquistando l'insieme del mondo arabo, e di cui gli eventi libanesi sarebbero la testimonianza, cosi' come le elezioni irachene e palestinesi. Non ci si può attendere altro da gente abituata a giudicare gli eventi dalla loro apparenza e sulla base delle dichiarazioni dei dirigenti ufficiali. Ma la realtà è diversa. Le divisioni comunitarie esistenti da lunga data in Libano si inseriscono adesso in un gioco più vasto, come se il puzzle degli Stati messi in piedi in Medioriente dalle potenze coloniali si stesse decomponendo secondo nuove linee.

I dirigenti imperialisti, Israele, le potenze regionali come la Siria, l'Iran, o anche la Turchia, conducono ognuno il suo gioco in ciò che sembra l'inizio di una vera "libanizzazione" di tutta la regione, una ripartizione secondo divisioni comunitarie e confessionali, tra diverse zone controllate dalle milizie di diversa obbedienza. Ed anche se la popolazione libanese, che ha vissuto quindici anni di una guerra civile atroce, farebbe volentieri a meno di una ripresa degli scontri, non è certo che possa sottrarsi a questa logica che si afferma adesso su una scala ben più vasta di quella del Libano e che tende ad inglobarlo.

Il carcano comunitario

La situazione è difficile, in Libano come in tutto il Medioriente, per tutti quelli che si pongono dal punto di vista degli interessi e del futuro della classe operaia e delle masse sfruttate e che vorrebbero offrirgli una prospettiva.

In Libano in particolare, esisteva un partito comunista relativamente influente che era di fatto la sola organizzazione realmente intercomunitaria. La guerra civile e gli anni che l'hanno seguita hanno visto il suo progressivo indebolimento. Ciò in parte come conseguenza della repressione: anche le milizie comunitarie druse "socialiste "si erano mostrate capaci di assassinare dei comunisti cristiani, finanche quando combattevano al loro fianco. Nelle regioni tenute dagli Hezbollah, questo tende ad esercitare un potere oscurantista simile a quello iraniano e ad eliminare tutto quanto potrebbe contestarlo da sinistra. Così, nel 1987, insieme ad altri gruppi integralisti perpetrò una serie di attentati contro militanti ed in particolare intellettuali comunisti.

Ma ancor più della repressione, sono le capitolazioni politiche del PC di fronte ai diversi dirigenti nazionalisti arabi, da Arafat a Hafez Al Assad, la sua incapacità a proporre alle masse una politica indipendente dai dirigenti nazionalisti borghesi, dall'Hezbollah integralista, che spiegano il suo indebolimento.

Pertanto, sarebbe indispensabile aprire una tale prospettiva. In un contesto di crisi sociale ed economica, il fossato tra il Libano degli affaristi e le masse più diseredate si è ancora approfondito. Agli strati libanesi poveri, spesso musulmani sciiti, ma non solo, si aggiungono i palestinesi relegati nei campi profughi senza speranza di uscirne, tra il disprezzo generale. Peraltro, la classe operaia comprende adesso lavoratori siriani immigrati che, in più delle loro miserabili condizioni di lavoro hanno dovuto subire le aggressioni e gli omicidi commessi da una piccola borghesia libanese che li prende di mira rendendoli responsabili della politica di Damasco.

D'altra parte, tutti i cristiani non sono ricchissimi miliardari, allo stesso modo che tutti gli sciiti non sono poveri diseredati. Allora, difendere gli interessi dei lavoratori e delle masse povere impone di oltrepassare il quadro confessionale imposto dai partiti cristiani, drusi, musulmani sciiti o sunniti, ed anche il quadro strettamente libanese, per mettere in primo piano i loro obiettivi di classe indipendentemente dalla loro appartenenza comunitaria o nazionale.

Difendere una tale politica proletaria, comunista rivoluzionaria e internazionalista, è una strada difficile, ma è la sola capace di unire i lavoratori libanesi, siriani, palestinesi e le masse povere dei due paesi, e forse al di là, intorno alle loro rivendicazioni sociali e politiche. Ed è la sola che possa un giorno far saltare il carcano costituito dalle divisioni artificiali ereditate dal colonialismo e gli intrighi delle diverse potenze che si disputano l'influenza in tutta la regione.