L'Egitto dopo le dimissioni di Mubarak

Εκτύπωση
18 febbraio 2011

La realtà della "transizione democratica": l'esercito al potere

(Da "Lutte Ouvrière - 18 febbraio 2011)

Certamente si può solo provare piacere alla notizia della caduta di un dittatore che è stato per 30 anni l'oppressore del suo popolo. Ma limitarsi a questo sarebbe dare prova di una grettezza sociale tipica del liberalismo piccolo borghese, la grettezza di chi si accontenta della promessa - e solo della promessa- di un regime vagamente parlamentare per parlare di democrazia.

Naturalmente si può capire che tutti quelli che sono rimasti a fare manifestazioni in piazza Tahrir per 18 giorni, dopo decenni di oppressione, di assenza di libertà, quelli che hanno cercato la loro strada a tentoni nella lotta, e nel farlo hanno rischiato la pelle, tutti questi possono essere portati a ingannarsi sulla portata reale del cambiamento seguito alla caduta di Mubarak. Questo si può capire ancora di più da parte dei diseredati che hanno raggiunto la lotta. Invece è imperdonabile da parte di chi commenta da lontano l'evolversi della situazione in Egitto, specialmente se si tratta di militanti che pretendono di essere d'estrema sinistra o addirittura rivoluzionari.

Partito Mubarak, che spera di potere godersi tranquillamente i 40 o 70 miliardi di dollari rubati al suo popolo, rimangono la gerarchia militare e l'esercito di cui era il rappresentante, che erano lo zoccolo del suo regime.

Neppure due giorni dopo le dimissioni di Mubarak, il suo successore Tantaui, dal 1991 ministro della difesa dell'ex dittatore, ha dato un assaggio della sua concezione della libertà denunciando gli scioperi e preparandosi a vietare le riunioni sindacali e corporative. Il che significa chiaramente che le masse sfruttate, i poveri di questo paese, gli operai, i contadini poveri, i disoccupati e l'innumerevole popolo che vive con meno di un euro al giorno non possono sperare alcun cambiamento della loro sorte con il nuovo regime, e neanche di potere usufruire dei diritti e libertà elementari di cui forse approfitteranno -e non è neanche sicuro !- i piccoli borghesi, gli studenti, gli intellettuali, i laureati rimasti disoccupati che hanno costituito la maggior parte delle truppe della piazza Tahrir.

Si vedrà, tra le altre cose, quanti si preoccuperanno, tra quelli che hanno ballato e cantato su questa piazza, dopo la fuga di Mubarak, quanti si del destino dei lavoratori che, forse spinti dal loro esempio, cominceranno a difendere il loro diritto all'esistenza, anche solo con la richiesta di un aumento del loro potere d'acquisto e migliori condizioni di lavoro.

Mubarak verso l'uscita di scena

Ancora giovedì 10 febbraio Mubarak si aggrappava al suo posto pronunciando un discorso di un paternalismo surreale rivolgendosi alla gioventù in rivolta come "un padre ai suoi figli". Eppure c'erano voci che lo davano già in procinto di lasciare il potere, voci confermate non solo dalle dichiarazioni di alcuni ufficiali ma anche dallo stesso direttore della C.I.A. . Mubarak pensava ancora di avere con sé i vertici della gerarchia militare, i collaboratori, gli uomini che lui stesso aveva messo al comando e che certamente hanno partecipato con lui al saccheggio delle casse dello Stato.

Le sue parole disperate, giurando che non avrebbe ubbidito "ai diktat dell'estero, qualunque fossero" permettendosi di brontolare contro i dirigenti degli Stati Uniti che non lo sostenevano più, ovviamente non potevano convincere i manifestanti della piazza Tahrir, e neanche se si rivolgevano ai capi del suo esercito. Anche se erano stati nominati da lui, ubbidivano più allo stato maggiore americano che non a lui stesso.

Cosa c'era dietro il cambiamento intervenuto nella notte dal giovedì 10 al venerdì 11 febbraio, tra il discorso di Mubarak e quello del suo effimero vice presidente Suleiman, che annunciava che "il presidente Mubarak ha deciso di abbandonare il posto di presidente della Repubblica e incaricato il consiglio supremo delle forze armate di gestire gli affari del paese"? Era la constatazione che i suoi ultimi fedeli alla testa dell'esercito avevano abbandonato Mubarak ? O forse, in un momento di responsabilità nei confronti della gerarchia dell'esercito, non voleva correre il rischio che quest'ultima si fosse divisa?

Comunque non importa, perché Mubarak era già morto politicamente. Ha avuto la fine di tutti i dittatori, quando l'odio che provocano ha la meglio sul timore che destano. Quindi, via Mubarak e largo a Tantaui, circondato dal consiglio militare supremo!

Forse non è la fine dell'evoluzione al vertice dell'esercito stesso, perché sarebbe strano che all'ombra dei vecchi generali sostenitori di Mubarak non siano cresciuti alcuni generali più giovani, o colonnelli assettati di posizioni e impazienti di avere accesso alla mangiatoia.

Sarebbe inesatto dire che l'esercito, cioè la gerarchia militare, ha preso il potere: non lo ha mai lasciato. I vertici dell'esercito, dai tempi di Nasser, hanno sempre scelto tra di loro chi doveva occupare il posto supremo. La differenza principale è che questa volta l'esercito, questo pilastro del potere di Mubarak, questo centro di corruzione grazie al controllo di una parte importante dell'economia, si è fatta applaudire come lo strumento della "transizione democratica". Anche il giornale "Le Monde", poco sospetto di simpatie d'estrema sinistra, constata : "per ottenere la soddisfazione delle sue rivendicazioni l'opposizione non dispone di alcuna garanzia, tranne quella che poggia sull'azzardato postulato per cui l'esercito abbia come obiettivo prioritario il trionfo della democrazia in Egitto". Queste cose sono dette con un bel senso dell'eufemismo! E il giornale ricorda non solo il passato di questo esercito, i suoi interventi sanguinosi, ma anche il fatto che "l'esercito ha importanti interessi economici da proteggere. I generali sono grandi proprietari fondiari e immobiliari". Quindi non bisogna essere un indovino per affermare che non abbandoneranno i loro privilegi, anche se sono stati proclamati i custodi della democrazia dai più creduloni degli occupanti della piazza Tahrir. Questi ultimi sono stati sgomberati manu militari dalla suddetta piazza mentre i loro accampamenti di fortuna erano smontati.

Certamente il problema non è di aggrapparsi ad ogni costo ad un angolo della piazza Tahrir mentre la vita economica riprende il suo solito corso nelle vie del Cairo e mentre, nelle fabbriche in sciopero, l'esercito chiuderà i cancelli, butterà sul lastrico i lavoratori resistenti, ammesso che non spari subito su di loro per timore di una reazione violenta.

Scioperi : l'inizio delle lotte operaie ?

Al contrario di quanto speravano i generali e i loro protettori delle grandi potenze, forse non tutto è finito in Egitto. Gli scioperi che sono cominciati forse sono l'inizio di un potente movimento sociale, venuto questa volta dalla classe operaia e dalle masse povere.

Piuttosto che di agitare il fazzoletto e lanciare acclamazioni alla caduta di Mubarak, ciò che ogni rivoluzionario si può augurare, anche da lontano, è che la classe operaia che ha saputo combattere per le sue rivendicazioni materiali anche sotto la dittatura, non si lascerà intimidire dall'appello del consiglio militare supremo al suo senso di responsabilità per porre fine a questi scioperi. Trattandosi della popolazione operaia, i militari non fanno grandi sforzi per nascondere che, dietro questi appelli alla responsabilità, ci sono i manganelli al meglio e le mitragliatrici al peggio. E già si moltiplicano gli avvertimenti venuti dagli ambienti che salutano le dimissioni di Mubarak ma affermano che la "rivoluzione" non deve andare più avanti, che non si può "avere tutto". Ma per ora le masse sfruttate non hanno niente!

Alle domande stupide di giornalisti che davanti alle telecamere chiedono ai boat people di Tunisia che affluiscono in Italia: "come mai state lasciando il vostro paese, proprio nel momento in cui la rivoluzione ha trionfato e il dittatore è andato via?", alcuni rispondono semplicemente: "non per questo ho un lavoro, e non per questo posso dare da mangiare alla famiglia!"

Né in Tunisia, né in Egitto, il nuovo regime risponde e risponderà in futuro alla domanda: come assicurare il pane ai più poveri? Ma non gli assicurerà neanche le libertà e diritti democratici. Nelle libertà concesse forse ci sarà quella di eleggere un Parlamento che darà una parvenza di democrazia per nascondere il fatto che le classi sfruttate saranno ancora lasciate in balìa dei poliziotti -gli stessi di prima-, dei militari -gli stessi di prima-, e delle autorità locali -le stesse di prima. L'intellighenzia potrà forse leggere, e tanto meglio, alcuni libri di Mahfuz che fino a questa parte era vietato pubblicare. Ma cosa significherà questa libertà per la maggioranza degli sfruttati il cui problema è il pane quotidiano e di cui molti, tra l'altro, non sanno leggere?

Anche per avere diritto ad un minimo di libertà, le classi sfruttate lo devono imporre e devono darsi i mezzi per questo.

Non sappiamo qual'è l'estensione della rivolta sociale e la determinazione degli operai che scioperano, né quella dei contadini poveri di cui alcune informazioni danno notizia della rivolta. Forse hanno abbastanza energia per continuare la lotta, anche adesso che la piccola borghesia anti-Mubarak si tira indietro? Forse ci saranno, anche in seno a quest'ultima, donne e uomini che non si accontenteranno delle dimissioni del dittatore per gridare "abbiamo vinto!", ma faranno lo sforzo di riflettere; e forse di capire che lo sfruttamento spinto all'estremo, che l'oppressione sociale a vantaggio sia della borghesia locale che dei profittatori ammucchiati intorno all'esercito e alla borghesia imperialista, lasciano poco spazio alle libertà democratiche, anche per loro.

Questa "transizione democratica" salutata sia dai piccolo borghesi liberali di ogni genere che, certo in modo ipocrita, dalle teste pensanti dell'imperialismo, è destinata solo a stabilizzare la situazione politica, a zittire la contestazione politica prima che le masse sfruttate vi siano trascinate massicciamente, prima che comincino a combattere per i loro interessi di classe.

Ma sappiamo che, dopo essere entrati nella lotta, gli sfruttati che combattono per i propri interessi possono imparare, e imparare molto rapidamente. Allora si potrà parlare di speranza e felicitarsi senza riserve per la rivoluzione egiziana in marcia!

18 febbraio 2011