La crisi del settore automobile : i padroni salvano prima i profitti (da “Lutte de Classe” n° 121 – Luglio 2009)

Εκτύπωση
La crisi del settore automobile : i padroni salvano prima i profitti
25 giugno 2009

I padroni dell'automobile non hanno neppure aspettato lo scoppio della crisi finanziaria nel settembre del 2008 per moltiplicare le previsioni allarmistiche. Mentre all'inizio dell'anno 2008 avevano affermato che sarebbe stato un anno di crescita record in materia di produzione automobile, li si è visti prendere una svolta repentina decidendo nuovi piani di riduzione d'organico destinati secondo loro a far fronte alle difficoltà del mercato. Nel luglio 2008 il direttore della Renault Carlos Ghosn lanciò il piano che avrebbe portato il suo nome, il "piano Ghosn" mirando a ridurre l'organico dell'azienda di 6000 persone grazie a "partenze volontarie" o comunque così chiamate. Il cosiddetto personale "di struttura'", cioè i tecnici, ingegneri e dirigenti, era particolarmente incitato ad essere volontario per partire.

Ma la crisi finanziaria era appena in corso che già i padroni dell'automobile decidevano il licenziamento di quasi tutti i lavoratori interinali, o almeno di quelli che impiegavano ancora poiché nei mesi precedenti ne avevano già ridotto di molto il numero. Per il padronato dell'automobile si trattava solo di "missioni finite" ma erano effettivamente migliaia e migliaia di licenziamenti e altrettanti disoccupati supplementari. Infatti i lavoratori interinali, col passare degli anni, hanno costituito una parte sempre più importante dell'organico dei lavoratori di produzione.

Questo si è anche tradotto con l'interruzione, dall'oggi al domani, per esempio negli uffici di ricerche, delle missioni degli appaltatori di servizi. Anche lì si tratta di lavoratori il cui numero è cresciuto col passare degli anni, col ricorso sempre più importante dei costruttori ad aziende appaltatrici, in particolare di servizi informatici, per effettuare una ricerca o stabilire un progetto in un campo particolare. Si trattava quindi di lavoratori che da anni affiancavano i loro colleghi assunti in proprio spesso senza neppure sapere che questi, almeno dal punto di vista padronale, non facevano parte dell'organico dell'impresa. Anche lì si trattava effettivamente di licenziamenti anche se lo statuto particolare dei lavoratori in appalto così come quello dei lavoratori interinali permetteva di camuffarli dietro "missioni finite" o "contratti finiti". E molti di questi lavoratori sono andati ad accrescere le file dei disoccupati.

Le diminuzioni di produzione di macchine hanno avuto ovviamente anche ripercussioni immediate e molto visibili su tutta la componentistica e i fornitori vari, e questo tanto più che da anni costruttori come la Renault o la PSA avevano, secondo il loro linguaggio, "esternalizzato" sempre di più la produzione di elementi o addirittura di parti intere delle macchine. Questa evoluzione è stata tale che i rappresentanti della componentistica affermano oggi di realizzare il 75% del prezzo di costo di un veicolo, in quanto le fabbriche automobilistiche si limitano sempre di più al montaggio e all'assemblaggio dei componenti che gli vengono consegnati.

Così, pur avendo effettuato pochi licenziamenti diretti di lavoratori a tempo indeterminato, i costruttori di automobili ne hanno certamente provocato decine di migliaia senza che si possa dire esattamente quanti. Dagli interinali ai lavoratori in appalto o delle aziende di servizi rappresentano tanti casi differenti per le statistiche mentre questi lavoratori facevano effettivamente parte integrante del personale delle imprese coinvolte.

I padroni dell'automobile di fronte alla crisi

Nell'aprile e nel maggio 2009, il periodo tradizionalmente dedicato alla pubblicazione del bilancio delle imprese per l'anno precedente è stato una nuova occasione per i costruttori di lamentarsi dei risultati dell'anno 2008 e di predire un anno 2009 ancora peggiore. Essi accusano ovviamente "la crisi" presentandola in qualche mondo come una catastrofe naturale contro la quale non possono far niente.

Ora i padroni dell'automobile portano ovviamente anche loro una parte di responsabilità in questa crisi, tanto più grande in quanto l'automobile è un settore industriale determinante. I padroni capitalisti dell'automobile in Francia come negli altri paesi sono stati partecipi di questa evoluzione del capitalismo che ha dato un peso sempre maggiore al settore finanziario. Il settore finanziario delle imprese di automobili è cresciuto al punto che in certi anni la Renault ha potuto fare più profitto nella speculazione che non nella fabbricazione di veicoli. Il peso del settore finanziario, l'imperativo della redditività immediata del capitale per soddisfare la Borsa e gli azionisti, hanno avuto la loro parte in un'evoluzione in cui uno dei primi obiettivi per i costruttori è consistito nel diminuire il numero di operai e il loro salario comprimendo il più possibile la massa salariale per poter annunciare risultati finanziari vantaggiosi.

In fondo è questa contraddizione tra la ricerca di profitti sempre più alti e la restrizione parallela del mercato solvibile che è scoppiata nella crisi finanziaria e nella recessione generale dell'economia. Ovviamente non si può accusare i soli capitalisti dell'automobile di essere responsabili di questa crisi. Forse si sarebbero augurati che, mentre riducevano i salari e gli organici, gli altri capitalisti li avessero aumentati in modo da alimentare il potere d'acquisto dei potenziali acquirenti di macchine. Ma i capitalisti ovviamente si sono comportati tutti nello stesso mondo: il risultato oggi è la crisi, e i capitalisti dell'automobile ne hanno avuto la loro parte.

Si può aggiungere che, con l'anticipare in gran parte le conseguenze della crisi, i capitalisti hanno anche deliberatamente concorso al suo aggravamento quando hanno deciso immediatamente ribassi brutali della produzione. Già dall'inizio dell'autunno 2008 gli annunci di giornate o di settimane di cassa integrazione si sono succeduti nelle fabbriche del gruppo PSA come in quelle del gruppo Renault e della maggior parte dei costruttori europei.

Le ragioni avanzate per giustificare queste misure di cassa integrazione sono state varie. Nella fabbrica Renault di Sandouville si trattava del fallimento di un nuovo modello Laguna. Nella fabbrica Renault di Douai, ci sono stati ottanta giorni di fermo della produzione nel 2008 a causa, secondo la direzione, del ribasso delle vendite del vecchio modello Scenic. Ma per il 2009, anno del lancio di un nuovo veicolo, cinquanta giorni di cassa integrazione venivano annunciati anche prima che si sapesse se il modello avrebbe avuto successo.

I padroni dell'automobile hanno invocato in generale la necessità di abbassare gli stock, considerando che questi rappresentano dei quantitativi immobilizzati inutilmente. È da venti anni che i lavoratori di tutte le fabbriche di automobili sentono i costruttori dichiarare che bisogna ridurre gli stock di veicoli prodotti. Così si è instaurata la cosiddetta produzione "just in time" a "stock zero", permettendo alle macchine di uscire dalle catene seguendo rigorosamente l'evoluzione delle ordinazioni.

Una gestione orientata sul profitto immediato

All'epoca si trattava di far accettare ai lavoratori l'introduzione della variabilità e della flessibilità degli orari di lavoro. Per giustificare la cosiddetta necessità di lavorare dopo l'orario, di venire il sabato o addirittura la domenica, le direzioni dei vari stabilimenti invocavano la necessità di accontentare il "cliente re". Si trattava secondo loro di far fronte alla concorrenza fornendo al cliente la macchina che voleva al momento in cui la voleva. Ma in realtà l'obiettivo principale era di aumentare la redditività del capitale investito riducendo al massimo le somme immobilizzate negli stock, si tratti degli stock di veicoli prodotti o in attesa di essere venduti oppure degli stock di pezzi o di materie prime consegnati a monte della produzione. Più che di "clienti re", si sarebbe trattato di "azionisti re" che richiedevano l'imposizione della legge del massimo profitto a detrimento degli orari di lavoro e in fin dei conti dell'insieme delle condizioni di vita dei lavoratori dell'automobile.

In realtà gli stock devono essere mantenuti nonostante tutto ad un certo livello, un livello al di là del quale è in realtà difficile approvvigionare normalmente le concessionarie. E la decisione di ridurli ancora col pretesto della crisi è una decisione di gestione, presa dalle direzioni aziendali anticipando un'evoluzione del mercato anche prima di averla constatata. Il motivo di questa decisione è abbastanza chiaro: anche lì si trattava di diminuire immediatamente i quantitativi immobilizzati e di permettere che il risultato delle imprese apparisse ad ogni costo positivo, permettendo di superare il giudizio della Borsa e rendendo possibile il versamento di dividendi agli azionisti.

La crisi è sicuramente una realtà. La diminuzione delle vendite di automobili, in paesi come la Francia e in generale i paesi sviluppati dove le auto sono divenute un bene di consumo corrente, risulta ovviamente in gran parte dall'evoluzione del potere d'acquisto della popolazione.

Non vogliamo discutere qui della razionalità o meno dell'utilizzo della vettura individuale, tema di un dibattito che la moda ecologista rende ricorrente e che permette a molti politici e giornalisti di accusare la popolazione e il suo gusto per la macchina di essere responsabili dell'inquinamento e del riscaldamento del pianeta. Fatto sta che la società attuale è stata organizzata in gran parte, appunto, dalle scelte del padronato dell'automobile e delle società petrolifere, e se le conseguenze di queste scelte possono essere drammatiche per il pianeta, la responsabilità è dell' organizzazione capitalista della società, in cui gli imperativi del profitto passano prima di ogni altra considerazione.

È nell'ambito di questa società, ad esempio, che si sono costruite più facilmente autostrade che non ferrovie e che l'auto individuale è divenuta un bene indispensabile per gran parte della popolazione. Le persone, spinte ad andare ad abitare in case sempre più lontane dal luogo di lavoro e spesso senza un altro mezzo di trasporto che consenta loro di recarcisi comodamente, sono divenute clienti prigionieri della produzione di automobili, non per il gusto dell'inquinamento ma perché non hanno altra scelta in una società così organizzata... per il migliore profitto dei padroni.

Eppure anche se l'organizzazione della società rende spesso indispensabile il possesso di un veicolo, in particolare nei ceti popolari, l'acquisto di una nuova macchina è anche una delle prime decisioni che si possono rimandare in caso di incertezza economica. Il ribasso del potere d'acquisto dei ceti popolari, il timore della disoccupazione e quindi dell'aggravamento di questo ribasso non possono non avere conseguenze sull'evoluzione del mercato delle macchine individuali. Rimane il fatto che per mantenere le loro vendite i costruttori avrebbero potuto, tutto sommato, fare la scelta di abbassare i prezzi e di diminuire i loro margini di profitto. Ma non lo hanno fatto perché preferiscono vendere meno, ma con un margine identico o addirittura maggiore.

D'altra parte, il mercato delle automobili individuali non è sempre quello delle auto comprate dai singoli. In Francia, ad esempio, su 100 immatricolazioni di veicoli nuovi, 58 sono effettivamente di acquirenti individuali, mentre 42 riguardano veicoli di amministrazioni, di dimostrazione, di servizio o destinati ad imprese di noleggio o altre. Questa parte infatti non smette di aumentare, nascondendo il fatto che spesso i singoli hanno sempre meno i mezzi di acquistare.

Da questo punto di vista, ben prima della crisi attuale, alcune diminuzioni di vendite risultavano da una politica deliberata dei costruttori francesi, dal momento che costoro parlavano di "politica selettiva delle vendite". Infatti da qualche anno essi consideravano che le vendite di auto ai grandi clienti quali le imprese di noleggio, le amministrazioni, le grandi imprese, non gli assicuravano profitti sufficienti a causa dei grossi sconti che dovevano essere concessi a questi importanti acquirenti che erano in posizione di forza per negoziare i prezzi. E molto spesso avevano preferito non concedere questi sconti anche a costo di diminuire le loro parti di mercato, per poi osare lamentarsene.

Ovviamente non è solo in Francia che la produzione del settore diminuisce poiché la produzione automobile mondiale è indietreggiata nel 2008 rispetto al 2007. Ma se si considera l'evoluzione su un periodo un po' più lungo, si constata che tale ribasso rimane molto relativo.

Nel rapporto annuale dell'anno 2007 del Comitato dei costruttori automobili francesi, un'emanazione diretta per l'essenziale dai gruppi Renault e PSA, si può peraltro leggere la constatazione seguente : "nel 2007 la produzione mondiale era di 73 milioni di veicoli (più 6% rispetto al 2006). Tra il 2000 e il 2007 la produzione mondiale di veicoli è cresciuta di 15 milioni di unità, il che costituisce un ritmo eccezionale." E il redattore del rapporto aggiungeva più precisamente a proposito dei costruttori francesi: "dopo la flessione del 2006 conseguente a nove anni di crescita, la produzione dei costruttori francesi è aumentata di nuovo nel 2007 del 4,6%. In dieci anni l'aumento di questa produzione ha raggiunto il 53%."

Se c'è stato un ribasso nel 2008, e anche se ammettiamo che non sia stato ingigantito per decisione dei padroni stessi, esso rimane quindi molto relativo, dopo anni di forte aumento della produzione. Nell'ottica di una gestione a lungo o medio termine, questo potrebbe semplicemente far parte dei sobbalzi di un'industria nel suo adattamento ai bisogni della società. Ma l'ottica dei costruttori automobili non è, appunto, quella di ammortizzare minimamente tali sobbalzi, soprattutto se questo deve costare loro qualche euro e intaccare un po' lo stock dei profitti accumulati nel corso degli anni precedenti. Si tratta prima di assicurare la redditività del capitale, non su alcuni anni ma a molto breve termine, con gli occhi sul corso della Borsa e davanti alle sopracciglia aggrottate degli azionisti.

Abbassare la massa salariale

Non si vuole, appunto, chiedere a questi azionisti di mettere mano al portafoglio e neanche di accettare una diminuzione sostanziale dei dividendi. I padroni dell'automobile hanno una sola ossessione: recuperare liquidità. E se uno dei mezzi è quello di diminuire gli stock a tutti i livelli, un altro è di abbassare la massa salariale al più presto, in altri termini di far pagare ai lavoratori dell'automobile i costi della situazione.

I risparmi sono stati immediati col licenziamento degli interinali e degli appaltatori, ma questo non basta ai costruttori. L'obiettivo che si è dato l'amministratore delegato della Renault è semplicemente, secondo le sue stesse parole "una diminuzione del 20% della massa salariale del 2009 rispetto a quella del 2007".

Negli anni precedenti e ancora nel 2008, la direzione programmava giornate non lavorate usando i congedi del personale, il "capitale tempo collettivo" secondo il linguaggio in corso per esempio alla Renault. Ma il procedimento ha dei limiti e dal 2009 questo costruttore ricorre ormai alla "disoccupazione parziale" (che corrisponde in Francia alla cassa integrazione italiana - NdT). Così la direzione ha previsto, nel corso del secondo semestre del 2009, cinquanta giorni di questa forma di cassa integrazione per i siti di produzione e altri venti per i siti di ricerche, studi e gestione.

L'interesse al ricorso alla "disoccupazione parziale" è dovuto al fatto che procura un finanziamento dello Stato. Per mettere i lavoratori in inattività usando i loro congedi i padroni devono sborsare molto di più di quando versano un indennizzo per la disoccupazione. Infatti, in quest'ultimo caso, non solo lo Stato versa una partecipazione, ma i datori di lavoro non versano praticamente nessun contributo sociale, a parte la cosiddetta "CSG/RDS" ridotta (un contributo versato alle casse di previdenza sociale - NdT).

Poi, ciò che è una novità, nel 2009 anche gli ingegneri della Renault saranno interessati da questa forma di cassa integrazione, poiché questa azienda ha ottenuto dallo Stato lo stesso indennizzo percepito per gli altri salariati e soprattutto lo sgravio di tutti gli oneri sociali per l'intero ammontare del loro salario. Ora, per mettere in congedo un ingegnere che guadagna 185 euro di salario netto al giorno, bisogna che il datore di lavoro paghi complessivamente 360 euro, tenuto conto dei vari contributi. Invece, perché lo stesso ingegnere percepisca ugualmente 185 euro di salario netto netto per una giornata di cassa integrazione, il costo per la Renault è solo di 142 euro grazie all'ultimo sistema di indennizzo.

Nel 2009 è stata firmata una convenzione con lo Stato per l'indennizzo della disoccupazione parziale, dunque bisogna approfittarne rapidamente prima della fine dell'anno. Nei centri di studi e di ricerche la direzione ha quindi già programmato di indennizzare con la cassa integrazione periodi che tradizionalmente erano coperti da congedi pagati, come quelli di Ognissanti o della fine dell'anno.

Se i padroni si attaccano a categorie come gli ingegneri, fino ad oggi un po' più privilegiati degli altri, è semplicemente di nuovo per una questione di soldi. Oggi nel gruppo Renault, col ricorso generalizzato al lavoro interinale nei settori di produzione, gli operai non rappresentano più che il 35% dell'organico e soprattutto solo il 22% della massa salariale del gruppo. Gli ingegneri, da soli, rappresentano il 44%, ossia il doppio!

Già per questo motivo il cosiddetto piano Ghosn di "partenze volontarie" mirava innanzitutto a ciò che la direzione chiama "personale di struttura": ingegneri, tecnici, capi. È per questo che oggi essa vuole mettere queste categorie in cassa integrazione, anche se in questo modo forse va contro il suo proprio interesse per il futuro. Meglio i guadagni immediati che scommettere sui guadagni ipotetici nel futuro!

Così, dopo avere per anni esercitato una forte pressione su tutto il personale per fargli progettare in un tempo da record tutta una serie di nuovi veicoli che dovevano permettere di far fronte alla concorrenza mondiale, la direzione della Renault ha cambiato completamente orientamento. Essa è stata così precipitosa da buttare fuori dall'oggi al al domani gli appaltatori incaricati di preziosi studi, apparentemente poco preoccupata che di colpo i progetti finiscano negli scatoloni. Tanto più che alcuni appaltatori, così scortesemente ringraziati, hanno di colpo "dimenticato" di consegnare i progetti, e quindi lo stato degli studi in corso per la Renault!

Lo Stato chiamato a contribuire

L'industria dell'automobile gode dell'attenzione dello Stato, non solo perché si tratta di un settore importante dell'economia ma anche perché i padroni non si dimenticano mai di esercitare pressioni dirette sulle autorità politiche con cui hanno strette relazioni e che non gli possono rifiutare niente. Ovviamente non hanno fatto a meno di sbandierare lo spettro della crisi per esercitare di nuovo il loro ricatto e ottenere nuovi aiuti attinti ai fondi dello Stato.

Gli aiuti dello Stato all'industria dell'automobile sono molteplici e permanenti, anche a prescindere dai cosiddetti periodi di crisi. Questa industria gode come le altre di aiuti alla ricerca e, nel suo caso in particolare, di aiuti per la progettazione di veicoli più "ecologici". Le imprese di automobili godono come le altre degli aiuti finanziari istituiti col pretesto di aiutare il padronato a sopportare il costo supplementare causato dal passaggio alle 35 ore, anche se questo passaggio, in particolare nel caso dell'automobile, è stato l'occasione di istituire la flessibilità e la variabilità degli orari e in effetti di aumentare la produttività a detrimento dei lavoratori... e a profitto dei costruttori.

D'altra parte, questi ultimi hanno ottenuto in parecchie occasioni il finanziamento, da parte dello Stato e delle casse di disoccupazione, di piani di pensionamento di molti lavoratori ritenuti ormai troppo vecchi per essere sufficientemente produttivi. E questo anche se i pensionamenti non erano affatto compensati da nuove assunzioni. I costruttori ne hanno approfittato per rinnovare le loro maestranze in gran parte col ricorso al lavoro interinale, e quindi ad un personale meno pagato e sottomesso alla minaccia permanente del licenziamento.

Ma lo scoppio della crisi finanziaria e le misure di cassa integrazione decise immediatamente dai costruttori nell'autunno del 2008 sono stati l'occasione di un vero e proprio ricatto per ottenere nuovi aiuti finanziari. Uno di questi è stato ottenuto rapidamente con l'istituzione di un incentivo alla rottamazione, un provvedimento già preso in parecchie occasioni. Col pretesto della lotta all'inquinamento si incoraggiano gli utenti a cambiare veicolo e a comprare i nuovi modelli ritenuti più conformi ai dettami dell'ecologia.

Peraltro, già dalla fine del 2008 il governo aveva deciso che le giornate di cassa integrazione sarebbero state indennizzate al 60% del salario lordo a partire dal 1° gennaio 2009, invece del 50%, portando l'indennizzo orario minimo da 4,42 a 6,84 euro, l'equivalente del salario minimo netto. A partire dal 1° maggio 2009, questa percentuale è stata portata al 75% per le imprese che hanno firmato una cosiddetta convenzione d'attività parziale.

Queste misure, apparentemente decise a favore dei lavoratori, sono innanzi tutto un aiuto dello Stato -o all'occorrenza delle casse di disoccupazione- alle casse delle imprese. In effetti, se si sommano l'allocazione specifica di disoccupazione parziale versata ai datori di lavoro e l'allocazione complementare di 1,90 euro per ora versata a quelli firmatari di una convenzione, le imprese di più di 250 salariati percepiranno ormai un'allocazione di 5,23 euro per ora per le prime 50 ore di disoccupazione parziale e di 7,23 euro oltre quella soglia. Le allocazioni sono rispettivamente di 5,74 euro e di 7,74 euro per le imprese di meno di 250 salariati, come molto spesso quelle della componentistica. Questo significa che il padronato dell'automobile trova in queste misure un potente incoraggiamento a mettere il suo personale in cassa integrazione ("disoccupazione parziale") salvo fargli fare per il resto del tempo la produzione mancante. Si è già detto di come la Renault, per esempio, progetti di ricorrere pienamente a questo procedimento.

Ma la crisi e le difficoltà del settore bancario hanno anche permesso ai costruttori, col pretesto del rischio di asfissia finanziaria del settore, di ottenere un prestito eccezionale dello Stato per un ammontare di otto miliardi di euro, di cui sei per i costruttori e due per la componentistica automobilistica. In cambio di questo prestito dello Stato i costruttori si sono impegnati a mantenere i posti di lavoro fino alla fine del 2009. Ma il rimborso del prestito, ammesso che possa avvenire un giorno, certamente non sarà effettivo il 31 dicembre 2009. Ci si può aspettare invece che le soppressioni di posti di lavoro non aspettino. E comunque i padroni dell'automobile hanno già preso un anticipo con i loro piani di partenze "volontarie", che secondo loro non sono licenziamenti poiché si tratta di partenze con l'accordo degli "interessati"... spesso sottoposti a forti pressioni per accettarli.

Renault per esempio, che aveva annunciato già dal luglio 2008 il piano Ghosn di partenze volontarie per 6000 lavoratori, ha potuto percepire questo prestito, così come la PSA che aveva già cominciato più discretamente il suo. Queste misure che erano state annunciate prima della negoziazione del prestito non contrastavano formalmente con l'impegno di mantenimento dei posti di lavoro.

Un aggravamento dello sfruttamento

Anche se ogni giorno dei cosiddetti esperti in economia annunciano che il peggio ormai è passato, il futuro della crisi capitalista attuale non è scritto ed essa potrebbe andare incontro ad un nuovo aggravamento. Comunque i costruttori di automobili chiaramente non si fidano affatto di questi annunci e reagiscono alla crisi in funzione di calcoli a brevissimo termine e non di previsioni a più o meno lungo termine. E in questi calcoli l'imperativo consiste nel salvare innanzi tutto il profitto, e nell'utilizzare giorno per giorno tutte le opportunità.

La crisi è avvenuta quando già da anni i costruttori avevano perfezionato e imposto un metodo di gestione che fa pesare sul personale tutte le conseguenze delle variazioni del mercato. Flessibilità e variabilità degli orari, lavoro interinale e appalti generalizzati, esternalizzazione e produzione "just in time", investimenti ridotti al minimo necessario, disoccupazione parziale finanziata dallo Stato: tutto questo ha dato loro i mezzi per aumentare la redditività del capitale e sgravarsi di tutti i rischi trasferendoli sugli altri, cioè sul loro personale e sulla collettività in generale.

Nella crisi tutti questi mezzi sono stati utilizzati in pieno e fino all'assurdo. Gli esempi del cinismo che tale modo di gestione implica nei confronti del personale sono quotidiani. Si è potuto vedere la direzione della Renault permettersi di programmare un sabato di lavoro obbligatorio, oppure di fare lavorare un'ora di più alla sera col pretesto di un guasto che avrebbe fatto perdere una cinquantina di macchine, mentre la produzione era appena ricominciata dopo una quarantina di giorni di disoccupazione parziale. Si vedono stabilimenti come la fabbrica Citroën di Rennes in cassa integrazione mentre al tempo stesso gli operai della fabbrica Citroën di Aulnay sono costretti a fare sabati di lavoro supplementare!

Nello stesso modo il lancio di un nuovo modello alla Peugeot di Sochaux ha portato la direzione a programmare nuovi sabati lavorativi, ma lavorati gratuitamente perché si tratta di recupero di giorni di disoccupazione imposti precedentemente. Sempre alla Peugeot di Sochaux, dal 25 maggio bisogna lavorare un'ora di più al giorno durante quattro giorni alla settimana, ma questa volta pagati come straordinari. Nel contempo, da febbraio, la direzione ha soppresso il turno di notte.

Si vedono, nella stessa fabbrica, diminuzioni dei ritmi, con ovviamente una diminuzione proporzionale degli organici, seguiti da periodi di cassa integrazione alternati con periodi di lavoro con ritmi nuovamente aumentati. Ma in questo caso, se il numero di macchine prodotte all'ora è effettivamente maggiore, il numero di lavoratori non è mai risalito in proporzione all'aumento dei ritmi.

Così, nel reparto di montaggio della 206 alla Peugeot di Mulhouse, per una produzione sempre identica di 303 veicoli per turno, il numero di posti di lavoro è passato da 215 a 188 in un anno, ossia per la stessa produzione il 13% di posti in meno. Poi, in occasione di un aumento dei ritmi per permettere la produzione di 91 macchine supplementari per turno, la direzione ha ricreato solo dieci posti di lavoro supplementari. Il bilancio in quindici mesi è del 30% di produzione in più per l'8% di posti in meno. E non sorprenderebbe se ciò finisse con nuove giornate di disoccupazione indennizzate dallo Stato, sgravando così il padrone dal pagamento di una parte dei salari mentre la produzione aumenterebbe o comunque non diminuìrebbe nelle stesse proporzioni.

Ma bisogna anche parlare dei profitti. I padroni dell'automobile tendono ad essere molto discreti sugli anni di utili record mentre largheggiano in lamentele sulla diminuzione di utili nel 2008, come per esempio la Renault, che lamenta di avere fatto "solo" 600 milioni di euro nel 2008 e si dimentica i 17 miliardi accumulati nei soli sette anni precedenti.

In tutto questo periodo i padroni dell'automobile sono riusciti a spezzettare la produzione in modo tale da dividere la manodopera per averla un po' di più a disposizione. Questo ha consentito loro di incassare il massimo di profitto, indebolendo per di più la forza collettiva che i lavoratori dell'automobile possono avere per il loro numero data l'importanza di questa industria. La crisi interviene in questo contesto, e questo non fa altro che accentuare ancora di più questa politica di padroni che non sono affatto allo stremo. Anche se essi hanno confortevoli riserve, approfittano della situazione per chiedere ancora nuovi aiuti ai poteri pubblici e per provare a far accettare ai lavoratori un nuovo aggravamento delle loro condizioni di vita, sia per l'aumento dei ritmi che per l'abbassamento dei salari, quando non li buttano sul lastrico.

I lavoratori avrebbero ben torto a lasciarsi intossicare dalla campagna padronale che vorrebbe fargli accettare tutto in nome del salvataggio dell'industria automobilistica. La crisi è un comodo pretesto, e i lavoratori l'hanno già pagata in anticipo mediante l'aggravamento delle condizioni di vita col passare degli anni. Non si può trattare per loro di pagarla una seconda volta.

Interinali o lavoratori assunti a tempo indeterminato, salariati dei costruttori o delle ditte d'appalto o di servizi, tutti sono di fronte alla stessa offensiva padronale, contro cui, tra l'altro, le reazioni non sono mancate, sia nelle fabbriche dei costruttori che in quelle della componentistica e delle ditte d'appalto, contro i licenziamenti, contro la cassa integrazione, contro il ribasso dei salari. Ma di fronte a questa offensiva generale è indispensabile una reazione operaia altrettanto generale, che dovrà riunificare nella lotta tutti i lavoratori coinvolti per fare pagare ai grandi trusts dell'automobile le spese della crisi che hanno contribuito a provocare.