Comunismo e comunitarismo

Εκτύπωση
Luglio 2005

(da "Lutte de Classe n 89 - estate 2005)

Si sente parlare spesso di "comunità". Quando si tratta della "comunità cinese", della "comunità magrebina", ecc., ciò designa almeno un'origine geografica comune. Quando si parla di "comunità ebrea" o di "comunità musulmana" ciò è tanto più discutibile che queste etichette religiose sono apposte a persone raggruppate in funzione della religione che le si presta (poiché inglobano generosamente i non praticanti e gli atei), e non corrisponde a gruppi socialmente omogenei. E dietro al termine "comunità" si nascondono problemi molto diversi.

La forma di spirito "comunitaria" che conduce spesso, in un primo tempo, popolazioni immigrate da poco a raggrupparsi, anche solo in ragione della comunità di lingua, e ad aiutarsi tra di loro di fronte ad un contesto ostile, è assolutamente naturale e comprensibile. Tutte le immigrazioni, anche le più anziane, quelle che portavano verso la città contadini venuti da regioni rurali del paese, hanno conosciuto ciò. In modo naturale, è intorno ai primi arrivati che hanno trovato un lavoro che si raggruppano quelli che a loro volta prendono la strada dell'immigrazione.

Ma pur essendo inevitabile in un primo tempo, questo spezzettamento della classe operaia in funzione dell'origine geografica dei suoi membri ha portato il movimento socialista fin dalle sue origini a far di tutto per sormontare tali barriere, convinto che fosse compito del movimento operaio accogliere i fratelli e le sorelle di classe d'ovunque vengano, integrarli nelle sue organizzazioni di difesa e di lotta, a prescindere dalle differenze di nazionalità, di sesso, di credenze religiose e che vi trovano posto in modo naturale.

La classe operaia si è costituita a partire da una massa di lavoratori estremamente diversificata, drenata e riunita dal capitalismo industriale a partire dalle campagne, poi a partire dai paesi vicini e poi sempre più lontani. Unificare questa classe presentava molte difficoltà, e la principale risedeva nel fatto che la formazione stessa del proletariato, sotto l'egida del capitalismo, si era fatta nella concorrenza.

La rivoluzione industriale in effetti ha imposto la concorrenza generalizzata tra gli individui, la guerra di tutti contro tutti, poiché il padronato vuole di fronte a lui una massa spezzettata di lavoratori sul mercato del lavoro. Fin dalle origini si tratta di una politica legata allo sfruttamento capitalistico. Già nel 1844-45, Engels spiegava che "il dominio della borghesia è fondato solo sulla concorrenza degli operai tra di loro, vale a dire su una divisione all'infinito del proletariato, sulla possibilità di opporre tra loro le diverse categorie di operai". Il Manifesto del Partito comunista (1848) constatava ugualmente che "l'organizzazione del proletariato in classe è distrutta continuamente dalla concorrenza che gli operai si fanno tra di loro".

Ed è proprio di fronte a questa situazione che il movimento rivoluzionario ha costituito il suo programma, che sottolinea quanto tutti i lavoratori hanno in comune, il valore della loro unità di classe in vista del ruolo che sono suscettibili di giocare per l'avvenire dell'umanità: ed è la ragione stessa della fondazione dell'Associazione internazionale dei lavoratori nel 1864.

E' in questo modo che è nato un movimento politico operaio che si rifa' al marxismo e si pone il compito di rappresentare l'avvenire dell'insieme del mondo operaio, e, di conseguenza, che opera per l'integrazione di tutte le componenti immigrate del mondo del lavoro in seno alla medesima classe operaia.

Questa integrazione di cui siamo fautori è altra cosa dell'integrazione di cui parlano gli ambiti ufficiali. Non si tratta di integrare i lavoratori immigrati alla "nazione francese", storicamente già superata. Non si tratta di farli rinunciare a tutti gli elementi della loro cultura d'origine, di chiedere per esempio agli operai venuti dall'Africa di rinunciare al senso della solidarietà che li ha spesso spinti ad emigrare, per adottare l'individualismo così largamente diffuso nella società francese. Si tratta della loro integrazione nella classe dei lavoratori. Nella sola classe capace di aprire all'umanità la prospettiva di una cultura socialista, ben superiore a tutte le culture nazionali, che sia capace di arricchirsi dal meglio di ognuna di esse.

Nella sua lotta per sviluppare una coscienza di classe, il movimento socialista ha dovuto combattere, anche nel suo seno, molti pregiudizi : i pregiudizi contro le donne, i pregiudizi razzisti, frutti del colonialismo e dell'imperialismo e che servivano a giustificare il dominio delle grandi potenze europee. Non è necessario andare a cercare al di là del Reno esempi di disprezzo per i "sotto uomini" dei paesi coloniali. Basta aprire i libri con i quali si insegnava la storia e la geografia ai bambini della scuola "laica" francese un po' più di mezzo secolo fa, per vedere in quali termini parlavano dei popoli d'Africa, d'Asia o d'Oceania. Basta ricordarsi dell' "esposizione coloniale" del 1931, dove furono esibiti come bestie curiose, ammassati in recinti, un centinaio di Canachi, importati senza riguardo dalla Nuova Caledonia. I più arretrati dei poveri delle metropoli imperialiste potevano così consolarsi della loro miseria rallegrandosi di appartenere ad una "razza superiore".

A questa responsabilità delle classi dominanti si aggiunge sfortunatamente quella dei grandi partiti operai che si misero al loro servizio. Il "Fronte popolare" non mise in discussione neanche un attimo la legittimità del "l'impero coloniale francese". All'indomani della Seconda Guerra mondiale, il Partito socialista ed il Partito comunista francese parteciparono ai governi responsabili dei massacri del 1945 di Setif e Ghelma in Algeria, della repressione che insanguinò il Madagascar nel marzo 1947, dell'inizio della guerra d'Indocina. Peggio ancora, il Partito socialista, nella persona di Guy Mollet porta la responsabilità della guerra d'Algeria, dei "pieni poteri" dati all'esercito, dell'uso generalizzato della tortura. E questa repressione cominciò con la complicità di fatto del PCF, che aveva votato i "poteri speciali" a Guy Mollet.

Tutto questo passato pesa molto, ed evidentemente non facilita il compito di quelli che militano per convincere i lavoratori che, qualunque siano le loro origini, francesi o immigrate, appartengono tutti ad una stessa classe sociale ed hanno tutti gli stessi interessi.

Di più, questa lotta si fa con difficoltà proprie alla nostra epoca. Non solo a causa di una situazione economica marcata dal fatto che i giovani lavoratori, che vengano dei paesi ex coloniali, o più generalmente dai paesi economicamente sottosviluppati, o che discendano da lavoratori installati in Francia da più tempo, si ritrovano numerosi nella situazione di proletari senza lavoro o con lavori precari sottopagati. Ma anche a causa dell'arretramento del movimento operaio. L'adesione del PS, poi del PCF, all'ordine capitalistico non aveva impedito la presenza, nelle imprese e nei quartieri, di migliaia di militanti attivi, capaci di difendere di fronte ai loro fratelli di classe la prospettiva dell'emancipazione sociale. Ma da trent'anni, demoralizzati dalla crisi, dalla politica della sinistra al potere e dalla scomparsa dell'URSS, tali militanti si sono fatti sempre più rari. Dal 1981 in effetti, i governi "di sinistra" si sono mostrati interamente al servizio degli interessi padronali, dunque incapaci di fermare la disoccupazione e l'estensione della povertà. Una situazione di fronte alla quale, se l'insieme della destra ha praticamente inforcato il cavallo di battaglia di Le Pen col suo olezzo razzista, i partiti di sinistra, PCF compreso, hanno distrutto l'idea stessa della possibilità di un'altra politica, in favore dei lavoratori. Sulla questione dell'immigrazione, oltre a non avere nessuna politica indipendente, i governi socialisti si sono finanche dati ad una corsa al rialzo sulle misure repressive, al punto di vantarsi di aver effettuato più riconduzioni alla frontiera ed espulsioni con voli charter della destra... L'esponente del PS Julien Dray perora ancor'oggi una politica dell'immigrazione apertamente discriminatoria con quote per paesi...

Malgrado qualche sceneggiata spettacolare o la sponsorizzazione dell'associazione "S.O.S. razzismo", niente di concreto è venuto a cambiare la vita nelle città dormitorio e nei quartieri dove una grande proporzione di famiglie di origine immigrata vive nella disoccupazione e nella miseria.

L'indebolimento della sensazione di appartenere ad una stessa classe sociale - dovuto all'indebolimento delle organizzazioni sindacali e politiche che militavano per mantenerlo e consolidarlo passo a passo, anche al di fuori delle lotte - ha lasciato il campo libero ad ogni specie di ripiegamento di tipo comunitario, come anche alla demagogia di propagandisti apertamente reazionari, che fanno spesso delle religioni, e delle loro interpretazioni integraliste, la loro arma di lotta. I militanti dell'Islam integralista hanno riempito poco a poco il vuoto lasciato dalla scomparsa delle strutture collettive di tipo politico o sindacale, che potevano esistere prima nelle città e nelle periferie. E lo smarrimento, la delusione, il risentimento e la rabbia hanno progressivamente trovato modo di esprimersi in strutture comunitarie.

Questa ascesa del comunitarismo si iscrive in un periodo che vede la crescita, in tutti gli ambiti, delle idee religiose, delle idee di destra.

In Francia oggigiorno, con l'abbigliamento, con il porto della kippa ebraica, della barba e del velo islamico. E ciò tocca tanto la gioventù di origine ebrea che la gioventù di origine magrebina o africana.

I temi di natura "comunitaristi", forniscono un fondo di commercio bell'e pronto a demagoghi come il predicatore musulmano Tariq Ramadan, uomo che ha in realtà obiettivi politici. Per gente come lui, la gioventù che cerca di reclutare sotto la bandiera dell'Islam è solo una base, un trampolino.

Cercando di differenziare questi giovani in modo visibile dall'insieme della società con campagne ostentate come per esempio quella per il porto del velo islamico per le giovani e le donne, persegue un controllo stretto della vita di tutte, comprese le "renitenti", e di tutti, poiché trasforma i ragazzi in guardie carcerarie.

Bisogna riconoscere che questa gente può trovare facilmente nell'attuale società francese di che alimentare i loro argomenti. Come, per esempio, tutta l'eredità del passato schiavistico e coloniale della borghesia.

L' "Appello degli Indigeni della Repubblica", lanciato all'iniziativa di organizzazioni musulmane (in particolare, raggruppamenti vicini a Tariq Ramadan) e di persone della tendenza altermondialista, può valersi di constatazioni incontestabili quando denuncia, nel nome dei giovani originari delle ex colonie francesi e delle province e territori d'oltremare, le discriminazioni di cui sono vittime: "discriminati di fronte alle assunzioni, alla ricerca di un alloggio, alla salute, alla scuola e nel tempo libero, le persone originarie delle colonie, passate o presenti, e dell'immigrazione postcoloniale sono le prime vittime dell'esclusione sociale e della precarizzazione". Anche se bisognerebbe fare la stessa constatazione di discriminazione a proposito dei giovani turchi, o dei giovani venuti dall'Europa dell'est, benché i loro paesi d'origine non siamo mai stati colonie francesi! Poiché non è tanto il defunto colonialismo francese quanto il ben presente capitalismo francese ad esser responsabile della loro situazione.

Vero è che "l'ideologia coloniale persiste". Lo si è potuto constatare ancora ultimamente col voto della legge del 23 febbraio 2005 che chiede che i programmi di ricerca universitaria così come i programmi scolastici "riconoscano in particolare il ruolo positivo della presenza francese oltremare, segnatamente in Africa del Nord (...)".

Si può notare per inciso che le manovre di riabilitazione degli imperi coloniali sono di moda anche in Gran Bretagna, veicolate per esempio da Gordon Brown, ministro delle finanze, più o meno considerato come l'erede di Tony Blair, per il quale "l'epoca in cui la Gran Bretagna doveva presentare le proprie scuse per la sua storia coloniale è passata" ( Daily Mail, 5 gennaio 2005).

Ma nonostante la giustezza di una parte delle sue constatazioni, l' "Appello degli Indigeni della Repubblica" non si colloca sul terreno della liberazione degli oppressi, al contrario.

Ci si può chiedere d'altronde perché incrimini con tanta insistenza la "Repubblica" - come se le monarchie e gli imperi che si sono succeduti nel XIX secolo non avessero giocato un ruolo di primo piano nell'espansione coloniale della Francia. A meno che sia per evitare di dover utilizzare le parole borghesia, capitalismo e imperialismo ! Infatti questo testo mette tutti "i Francesi" nello stesso sacco, occultando le opposizioni di classe. Eppure è facile vedere che Neri e Arabi non sono le sole vittime della disoccupazione.

Il fatto di non dire che lo sfruttamento capitalistico è, all'origine, responsabile di questa situazione e delle oppressioni di tipo razziale che si integrano, cercare di dare una colorazione etnico-comunitarista alla questione, che è sociale, vuol dire indebolire la coscienza di coloro che sono, tutti, vittime dello sfruttamento capitalistico ; significa ostacolare la presa di coscienza della necessità di una lotta di classe solidale e fraterna da parte degli sfruttati e degli oppressi.

Il testo non mostra solo la punta del naso della natura dei loro ispiratori: "discriminatoria, sessista, razzista, la legge contro il velo è una legge d'eccezione dalla puzza coloniale"... "sotto il termine mai definito di "integralismo", le popolazioni di origine africana, magrebina o musulmana sono ormai identificate come la quinta colonna di una nuova barbarie che minaccerebbe l'Occidente ed i suoi "valori". Falsamente camuffata dietro la bandiera della laicità, della cittadinanza, e del femminismo, questa offensiva reazionaria conquista i cervelli e riconfigura la scena politica".

Queste affermazioni esprimono in modo evidente un'incredibile sfacciataggine : è "sessista", la legge contro il velo islamico ? Questa legge ha certo dei limiti - e la causa delle donne sarebbe stata meglio difesa se fosse stata fatta nel nome dell'uguaglianza dei sessi piuttosto che dietro ambigui pretesti di "laicità" - ma si può definirla "sessista", "razzista"? Con questi termini si mira un pubblico ben preciso, quello che ha paura di farsi trattare di "razzista" da questi truffaldini politici. Lo stesso vale quando sono pronunciate accuse di nostalgia coloniale, quando si parla di un "razzismo post coloniale" a proposito di quelli che si rifiutano di fare da marciapiede a militanti islamisti come Tariq Ramadan.

Brandire l'anti-imperialismo, l'anticolonialismo, l'antirazzismo, è un'arma nelle mani degli integralisti islamici a destinazione degli ambiti " di sinistra" o "progressisti" a scopo di ricatto e di intimidazione. Ciò incontra un certo eco, in particolare in seno alla tendenza altermondialista, che ha offerto a Tariq Ramadan delle tribune in occasione di forum altermondialisti come quello di Saint-Denis o quello del Forum sociale europeo di Londra nell'ottobre 2004 e che ha sostenuto le manifestazioni a favore del velo nelle scuole oppure gli appelli degli "indigeni della Repubblica" e per un "convegno dell'anticolonialismo postcoloniale" a maggio.

Questa tendenza altermondialista è talmente eterogenea, diffusa e senza principi che può addirittura esibire il film "una razzismo appena velato", militando con odio contro gli oppositori al velo islamico, in alcuni "forum sociali" nel paese.

In un articolo molto critico contro " questi altermondialisti disorientati" (apparso sulla rivista Politis del 20 gennaio 2005), Bernard Cassen sottolinea, a proposito di ATTAC di cui è peraltro presidente d'onore, un punto significativo: l'ascolto di Tariq Ramadan presso una parte della gioventù musulmana "costituisce la migliore delle sue lettere di credito presso una frazione della tendenza altermondialista che crede di aver trovato in questo modo la porta d'entrata verso categorie popolari che non riesce peraltro ad attirare". Bernard Cassen conosce bene questo ceto, e ciò che descrive è né più né meno un'atteggiamento demagogico.

La demagogia filo-islamista raggiunge l'apice con il sindaco di Londra, Ken Livingston, detto in passato in modo abusivo "Ken il Rosso", che non ha avuto paura, alla vigilia del Forum sociale di Londra del 2004, di accogliere nel comune un gran congresso dell'organizzazione "pro-hidjab" destinata a "far pressione sui parlamentari europei" in favore del velo, né di farsi fotografare in quest'occasione mentre si abbracciava con il teologo dei Fratelli Musulmani Yusssef Al-Quaradhawi, a fianco di Ramadan che è uno dei suoi discepoli.

Un recente aneddoto mostra che anche in Francia c'è gente dello stesso tipo, quando si tratta di far clientelismo in direzione dei musulmani comunitaristi locali. A Mantes-la-Ville (dipartimento delle Yvelines), il 12 marzo (secondo un testo che rendeva conto di tale serata e che è apparso sul sito Internet del "l'Osservatorio del comunitarismo a Mantes-la-Jolie", ed è stato pubblicato nella rivista ProChoix del marzo 2005), circa quattrocento persone hanno assistito ad una predica di Tariq Ramadan, organizzata dal "Collettivo dei musulmani del Mantese", con l'approvazione dei rappresentanti della sinistra presenti: un Verde, rappresentante di "Una Scuola per tutti-tutte", un consigliere municipale PCF. Il consigliere municipale di sinistra Joël Mariojouls (associazione Decil, Democrazia e cittadinanza locale) avrebbe finanche sottolineato la capacità di Ramadan di riempire le sale, commentando: "i partiti politici ed i sindacati oggi ne sono incapaci. Signor Ramadan, ve lo chiedo, fate del proselitismo!"

Ciononostante, tra le differenti manifestazioni di compiacenza verso le pressioni del comunitarismo islamico, bisogna riservare un posto a parte alle correnti che si dicono comuniste -cosa che dovrebbe a priori spingerle almeno ad essere lucide sui pericoli che questo genere di idee comporta.

E' così che - senza voler risalire ai dibattiti sulla questione del velo islamico, o alla giornata internazionale delle donne dell'8 marzo, quando si è potuta vedere la JCR (organizzazione giovanile della LCR - ndt) sfilare al fianco di militanti islamiste velate - l'appello per il "convegno dell'anticolonialismo postcoloniale" porta firme di persone che si identificano come militanti della LCR, della JCR, oppure delle due organizzazioni.

Rouge (7 e 14 aprile) ha evocato i dibattiti svoltisi in seno alla direzione della LCR circa la partecipazione a questo convegno, che la maggioranza della direzione nazionale ha rifiutato. Così, col titolo "la LCR deve partecipare al convegno" e sotto la firma di diversi dirigenti come Léonce Aguirre, Sandra Damarcq o Catherine Samary, si è potuta leggere una giustificazione di formulazioni dell'appello che sfiora l'ingenuità politica... o piuttosto la malafede.

Così, quando l'appello afferma che "un'offensiva reazionaria" (che mira, se si capisce bene, a denunciare l'integralismo) si nasconderebbe "fraudolentemente ... dietro la bandiera della laicità, della cittadinanza e del femminismo", ebbene, secondo questi militanti della LCR, ciò "non vuol dire accusare i valori di sinistra. Al contrario, significa rivendicarsene e denunciare la loro strumentalizzazione ad altri fini"; oppure, a proposito della legge contro il porto del velo: "la legge colpisce principalmente le ragazze musulmane, ha liberato il razzismo anti musulmano. Non è quello che deve prevalere nel nostro giudizio, invece di essere scioccati da formule del testo che denuncia la legge come sessista e razzista ?".

Queste formulazioni certo non esprimono una "mancanza di accortezza": sarebbe ingenuo e sprezzante crederlo !

Non si può negare una certa coerenza delle abitudini di sottomissione politica delle correnti di estrema sinistra in Francia, in particolare nei confronti dei movimenti nazionalisti, che sono altre forme di movimenti comunitaristi.

I grandi movimenti di emancipazione nazionale che hanno attraversato il terzo mondo dagli anni cinquanta agli anni settanta hanno suscitato un'onda di infatuazione "terzomondista" in una parte dell'intellighenzia occidentale. La solidarietà dei comunisti rivoluzionari nei confronti di questi movimenti, benché siano stati tutti sotto direzioni nazionaliste, era ovvia. Quello che non era scontato, era il fatto di presentare tali direzioni nazionaliste come "socialiste" - cosa che ha fatto una buona parte dell'estrema sinistra, contro ogni evidenza.

Con qualche cambiamento, queste stesse correnti di estrema sinistra, compresa la LCR, hanno avuto un atteggiamento analogo per quanto riguarda i "nazionalismi regionali", molto di moda nel decennio successivo al Maggio 68. E questa volta non si trattava più di fascino di fronte a potenti movimenti di massa, al punto di perdere ogni atteggiamento critico rispetto all'orientamento politico delle loro direzioni. Si trattava piuttosto di micro-nazionalismi - corso, basco francese, bretone - difesi, non senza ambiguità, da alcuni ceti della piccola borghesia, e che evidentemente non avevano affatto la legittimità dei sollevamenti di massa del terzo mondo.

Ciononostante, una gran parte dell'estrema sinistra delirò in modo notevole circa questi micro-nazionalismi e si allineo' sulle tesi alla moda nei loro ambiti. Nonostante i problemi di queste regioni apparissero, in fondo, come problemi generali della società francese con le sue disuguaglianze di ogni genere, i regionalisti, e dietro di loro molti militanti dell'estrema sinistra, invece di cercare i fattori unificanti con l'insieme dei lavoratori del paese, si impegnarono al contrario ad ingrandire le particolarità locali, le "specificità" degli uni e degli altri, a ricercarle sistematicamente. E ciò costituisce precisamente una pratica "comunitarista".

All'estrema sinistra, alcuni giustificano la loro compiacenza nei confronti dei rappresentanti dell'islamismo invocando gli imperativi dell'antimperialismo, dell'anticolonialismo e dell'antirazzismo. A questo titolo, bisognerebbe riesaminare ogni analisi critica dell'integralismo musulmano, perché ciò costituirebbe una "stigmatizzazione" della gioventù magrebina... La trappola è grossolana ma apparentemente funziona - anche al prezzo di sacrificare i principi della lotta comunista e nello stesso tempo della lotta delle donne.

Un'altra preoccupazione appare nella tribuna di Rouge a proposito del "l'Appello degli indigeni della Repubblica" già citato. Secondo i firmatari, che propongono di allinearvisi, "il più grave è la diffidenza che rischiamo di suscitare presso militanti (...) amici, alleati da sempre nella lotta per l'uguaglianza e contro il razzismo", senza precisare d'altronde di chi si tratta. Si ritrova la stesso timore in un testo del "Segretariato antirazzista della LCR" ( ci si può chiedere d'altronde a cosa corrisponde la sua esistenza ! ) per quanto riguarda la manifestazione degli "indigeni della Repubblica", di essere "considerati come parzialmente responsabili di un possibile fallimento". Tutto ciò indica una stessa preoccupazione: farsi accettare e, chissà, conquistare la fiducia. Ma questa compiacenza approfitta in primo luogo ai Tariq Ramadan, agli altri reazionari ed ai loro militanti, poiché li legittima.

Si può già immaginare a cosa porta tutto ciò, anche in seno alla sinistra ed all'estrema sinistra, quando ogni critica contro un simbolo dell'oppressione come il velo delle donne è assimilata... al razzismo; ogni critica alla politica dello Stato di Israele o dell'ideologia nazionalista del sionismo si ritrova assimilata... a dell'antisemitismo! O ancora quando si vedono gli islamisti ed i loro amici istruire un processo per tradimento contro le dirigenti del movimento "Né puttane né sottomesse" perché, denunciando gli "stupri collettivi", "stigmatizzerebbero" i ragazzi musulmani delle periferie - vale a dire che rompono il consenso comunitarista che gli islammisti cercano di costruire.

Corteggiare un Tariq Ramadan, fare di uno dei peggiori nemici della classe operaia un'alleato da corteggiare, è un naufragio politico. Il primo dovere dei militanti comunisti, qualunque siano le difficoltà del periodo, è di restare fedeli al loro programma, e non certo gettarlo alle ortiche per aggrapparsi alle scarpe di demagoghi reazionari. Poiché solo il programma comunista è portatore di un futuro degno di questo nome per l'umanità.

15 giugno 2005