La Turchia e l'Unione europea (da "Lutte de classe" n 87 - marzo 2005)

Εκτύπωση
La Turchia e l'Unione europea
17 febbraio 2005

La questione dell'entrata della Turchia nell'Unione europea ha offerto ai politici francesi l'occasione di lanciarsi in una di quelle polemiche di basso livello di cui hanno il segreto e la cui vera posta in gioco ha poco a che vedere col quesito. Bisogna ammettere o no nell'Unione un paese a maggioranza musulmana popolata da settanta milioni di abitanti, che per la maggior parte, secondo criteri geografici arbitrari, si trova in Asia ? E' l'occasione, per una parte di questi politici, per cercare di sfruttare a loro profitto i pregiudizi reali o supposti di una frazione dell'opinione pubblica.

Così, per gli uni, ammettere nell'Unione questo paese musulmano vorrebbe dire negare i "valori cristiani" comuni all'Europa. Per altri o per gli stessi, a causa della sua posizione geografica e della sua storia, la Turchia decisamente non sarebbe "europea" e non potrebbe dunque sinceramente condividere gli stessi "valori" e preoccupazioni degli altri paesi dell'Unione. Alcuni invocano anche i diritti dell'uomo poco rispettati in questo paese, il genocidio armeno del 1915 e la repressione delle aspirazioni nazionali della minoranza curda; preoccupazioni lodevoli se fossero sincere e se non fossero malvenute da parte di rappresentanti di uno Stato come la Francia, responsabile di numerose guerre coloniali come in Algeria, che hanno fatto almeno qualche milione di morti.

In questo dibattito politico la vera posta non è la Turchia e la sua eventuale adesione all'Unione europea, che è solo un pretesto. Lo scopo è unicamente tentare di sedurre la parte dell'elettorato che si suppone inquieta all'idea della venuta in Francia di numerosi immigranti turchi, più o meno sospetti di integralismo islamico, in seno ai quali potrebbero anche reclutarsi dei "terroristi" che potrebbero rappresentare un pericolo per la popolazione francese, ecc. Si tratta anche semplicemente di tentare di appoggiarsi su un vecchio fondo di sentimenti nazionalisti, di ostilità al mondo musulmano, allo straniero in generale, all'Europa accusata di portare solo mondializzazione dell'economia e delocalizzazioni, concorrenza esacerbata di paesi a basso costo di manodopera, crisi economica e disoccupazione.

Che importa allora agli uni e agli altri se questo falso dibattito comporta qualche contraddizione? Si vede Chirac pronunciarsi per l'entrata della Turchia nell'Unione mentre il suo proprio partito, l'UMP si pronuncia contro, cercando di far concorrenza sul loro proprio terreno a demagoghi di estrema destra come Philippe de Villiers o Le Pen. Nell'opposizione si vede un Fabius pronunciarsi contro l'entrata della Turchia nell'Unione mentre i dirigenti maggioritari del partito socialista sono a favore. L'importante per questi signori è di tentare di appoggiarsi sul flusso dei pregiudizi reazionari che stimano essere di moda ; dicendosi che magari sarà sempre tempo di riorientarsi se, un domani, diventerà necessario prendere la responsabilità politica di una decisione che queste polemiche di basso livello avranno contribuito a rendere più difficile.

Tutto ciò è solo lo spettacolo, tristemente banale, di una classe politica pronta a brandire argomenti e gettarsi nelle polemiche con tanto più vigore quanto più sono fittizi, e da cui sarebbe vano attendersi il minimo chiarimento sul vero oggetto della discussione.

Più di quarant'anni di negoziati

I politici alla Sarkozy che respingono l'adesione della Turchia all'Unione europea proponendole una "collaborazione privilegiata", sembrano ignorare che ciò è quanto esiste da più di quarant'anni.

In effetti è dal 1959, due anni dopo il trattato di Roma che istituiva la Comunità economica europea, che la Turchia chiese di esservi associata. Nel 1963 era firmato tra la Turchia e la CEE un trattato d'associazione, detto accordo di Ankara, che avrebbe dovuto permettere ulteriormente una prospettiva di adesione. Nel 1973 fu firmato un protocollo aggiuntivo che indicava gli obiettivi di un periodo di transizione. In particolare, prevedeva l'abbassamento progressivo delle barriere doganali entro un periodo compreso tra 12 e 22 anni.

Il colpo di Stato del 12 settembre 1980, che portò al potere un regime militare, spinse la comunità europea a decidere un "gelo" dell'accordo di associazione con la Turchia ed una sospensione delle sue relazioni con Ankara. Ciononostante, queste ripresero ufficialmente non appena il regime turco, a partire dal 1983, cominciò di nuovo a dotarsi di parvenze parlamentari. Nel 1987 la Turchia presentò di nuovo la sua candidatura per l'adesione all'Unione. La sua domanda fu respinta nel 1989 dalla commissione europea che invocò "problemi economici e politici".

Di fatto, l'applicazione delle misure dell'accordo di Ankara e del suo protocollo aggiuntivo continuavano, con l'abbassamento progressivo delle barriere doganali tra la Turchia e l'Unione. Ciò permise la firma, nel marzo 1995, di un accordo di unione doganale tra di loro.

L'accordo applicato a partire dal primo gennaio 1996, comportava la soppressione effettiva delle tasse doganali sulle importazioni e le esportazioni della Turchia, in provenienza o a destinazione dell'Unione, per tutti i prodotti industriali. Per i prodotti agricoli o provenienti dall'agricoltura, una valutazione doveva essere fatta per stabilire la "parte industriale" contenuta nei prodotti al fine di sottrarla alle tasse doganali.

Dall'accordo di Ankara del 1963, la soppressione delle barriere doganali era una condizione preliminare posta dai dirigenti europei ad ogni apertura di discussioni per un'adesione della Turchia. Agli occhi degli industriali europei, il principale interesse di questo paese era di essere un mercato per i loro prodotti, e prima ancora di discutere seriamente per farne un partner a pieno titolo dell'Unione, esigevano da lui segni di buona volontà aprendo le sue frontiere alle loro merci.

Nella stessa Turchia, l'accordo di Unione doganale suscitò divisioni, in particolare tra i rappresentanti di industrie che temevano di non poter far fronte alla concorrenza del mercato europeo e quelli che stimavano, al contrario, poter guadagnarci dalla sua apertura. Ciononostante, da molto tempo, il padronato turco rappresentato dalla confederazione padronale Tüsiad aveva fatto la sua scelta, e faceva pressione sui rappresentanti dello Stato e delle diverse forze politiche affinché la Turchia accetti le condizioni poste per la sua entrata nell'Unione, anche se ciò doveva ledere alcuni interessi.

Il primo effetto dell'unione doganale fu l'ulteriore aumento del deficit degli scambi esistente tra l'Unione europea e la Turchia, a scapito di quest'ultima. La bilancia commerciale della Turchia nei confronti dell'Unione, già deficitaria di 2 miliardi di dollari nel 1994 e di 5,78 miliardi di dollari nel 1995, divenne deficitaria di 11,59 miliardi di dollari fin dal 1996; questo deficit resto' ben di sopra dei dieci miliardi di dollari tutti gli anni successivi, ad eccezione del 1999 e del 2001. Le compere del paese in attrezzature, materiale di trasporto, prodotti semifiniti, non sono assolutamente compensate dalle vendite di prodotti agricoli, di qualche prodotto industriale, apparecchi elettrodomestici per esempio.

Un buon affare per il padronato europeo... e turco

Per gli industriali europei, l'entrata della Turchia nell'Unione non si presenta dunque per niente come un pericolo, ma come un buon affare. E globalmente, è un buon affare per gli stessi industriali turchi.

In ogni modo, questi non vogliono certo, e la borghesia turca non l'ha mai veramente auspicato nel passato, creare con le loro proprie forze un'industria nazionale in concorrenza con i grandi gruppi dei paesi imperialisti. Gli industriali turchi lavorano da molto tempo nel quadro di associazioni con gruppi europei e americani, da cui dipendono e ai quali devono dunque abbandonare una parte dei loro benefici. Ma questi benefici aumentano comunque, almeno grazie all'aumento del volume degli scambi. I gruppi turchi ci trovano il loro conto, certamente più di quanto lo troverebbero in un tentativo ipotetico di costruire un'industria indipendente al riparo di frontiere protette da barriere doganali.

D'altra parte, i gruppi capitalisti turchi stessi esportano ormai la loro produzione verso un certo numero di paesi dell'Asia centrale il cui mercato è stato aperto dal crollo dell'Urss. La Turchia è considerata dai gruppi europei come un paese intermediario che può servire da piattaforma per le esportazioni verso altri paesi. L'esistenza di una manodopera qualificata, abbondante e a buon mercato, nel quadro di un regime abbastanza autoritario per garantire la pace sociale, ne fa un luogo favorevole per impiantare filiali o " joint-ventures" che, a loro volta, possono esportare verso i paesi dell'Asia centrale e del medio oriente.

E' l'attrazione di questi mercati, oltre a quello turco stesso, che spiega gli investimenti verso la Turchia. Per i trusts europei, conquistare posizioni in questo paese poteva diventare una posta strategica nella competizione con gli Stati Uniti. La Francia, in particolare, è diventata il primo investitore estero, dopo aver preso coscienza sotto Mitterrand, negli anni '80, delle prospettive limitate offerte dalla sua preferenza per la Grecia. Lo "stock accumulato di investimenti diretti stranieri" attribuito alla Francia in Turchia è oggigiorno al primo posto, raggiungendo 5,7 miliardi di dollari.

I capitali francesi sono presenti in particolare nel settore tessile e della distribuzione (gruppo Carrefour), e nell'automobile per esempio con Renault e la fabbrica Oyak-Renault di Bursa, una "joint-venture" conclusa tra il costruttore francese ed il gruppo di investimenti Oyak, conglomerato dipendente dall'esercito e costituito intorno ai suoi fondi di previdenza sociale e di pensioni. La produzione di Oyak-Renault si sviluppa a destinazione del mercato turco e dei mercati vicini. Oyak, che si è ugualmente associato al gruppo di assicurazioni Axa, è diventato uno dei più importanti gruppi capitalisti turchi, associato a capitalisti europei.

A fianco di Renault, anche Peugeot è presente tramite il costruttore Karsan, così come la Fiat che produce automobili con la marca Tofas associata al gruppo capitalista turco Koç, e le principali firme di subappalto dei costruttori europei, per esempio Valeo.

Gli affari di tutti questi gruppi, tanto turchi che europei, sono fiorenti. In cambio, il deficit commerciale della Turchia con l'Unione si traduce in una crescita del debito estero, inflazione, ed anche crisi finanziarie croniche accompagnate da fughe di capitali, il cui peso principale ricade sulle classi popolari.

Un duro mercanteggiamento

In fondo, i dirigenti dell'Unione europea potrebbero soddisfarsi tranquillamente di quest'unione doganale così come è stata accettata dalla Turchia, unione in cui gli industriali e i finanzieri francesi, tedeschi, italiani, britannici, sono largamente avvantaggiati. Ma la borghesia turca, dal canto suo, non se ne accontenta. Ha accettato l'apertura del mercato nel quadro di un processo che conduce, in via di principio, all'ammissione della Turchia come membro a pieno titolo dell'Unione europea.

Tale riconoscenza significherebbe, per lei, un certo numero di contropartite. Anziché dover accettare le decisioni dell'Unione europea senza poterle contestare, il fatto di essere paese membro vorrebbe dire come minimo che i rappresentanti della borghesia turca alla commissione europea avrebbero un po' di voce in capitolo, che i suoi deputati al parlamento europeo potrebbero intervenire, che una parte dei fondi europei destinati a colmare i disequilibri tra paesi membri potrebbe andare alla Turchia.

Ed è precisamente quello che i dirigenti europei accettano con reticenza. Dal lato turco, ci si lamenta già del fatto che una parte solamente delle compensazioni finanziarie previste dall'accordo di unione doganale sono state versate. D'altra parte, il vertice europeo di Helsinki ha riconosciuto alla Turchia lo statuto di paese candidato all'adesione solo nel 1999, tre anni dopo l'entrata in vigore dell'unione doganale. E finalmente è solo nel dicembre 2004 che il vertice dell'Unione europea, allargata a 25 paesi nel frattempo, la cui maggior parte dei nuovi venuti erano candidati da meno tempo di Ankara, ha deciso che dei negoziati potevano aprirsi con la Turchia nel 2005, in vista di un'adesione che non potrebbe diventare effettiva prima del 2015.

I negoziati si annunciano dunque lunghi e probabilmente difficili per i dirigenti turchi, coscienti fin d'adesso che dovranno essere pronti a fare molte concessioni. Il fatto è che, per i dirigenti europei, l'adesione di un paese come la Turchia pone problemi di un altro ordine di quelli posti dall'adesione di un certo numero di piccoli paesi dell'Europa centrale, con un peso umano e politico limitato. Come evitare di riconoscere a questo paese una rappresentanza nelle istituzioni comunitarie corrispondente al suo peso demografico, comparabile a quello della Germania? Come fare allora affinché quest'adesione non rimetta in discussione il monopolio che i paesi più ricchi dell'Europa occidentale - Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia - si sono arrogati sulle principali decisioni dell'Unione?

I dirigenti europei pongono fin d'adesso numerose condizioni alla Turchia. In materia economica, vogliono verificare che la produzione turca si sottometterà ad un certo numero di norme europee, che lo Stato procederà alla privatizzazione di un certo numero di settori ancora sotto il suo controllo, che il deficit delle finanze pubbliche sarà ridotto, l'inflazione contenuta, la corruzione limitata, ecc.

A ciò si aggiungono condizioni politiche. Fra queste il problema di Cipro. Mentre la maggioranza della popolazione della parte turca dell'isola ha approvato il piano di riunificazione proposto dall'Onu, e la maggioranza della popolazione della parte greca l'ha respinto, solo la parte greca di Cipro è stata ammessa come membro a pieno titolo dell'Unione europea. Ora l'unione doganale, accettata nel 1995 con l'Unione europea di allora, dev'essere estesa ai nuovi membri di quest'ultima, tra cui Cipro, il che equivale da parte della Turchia al riconoscimento di fatto di uno Stato col quale, dal 1974 e dalla partizione dell'isola, aveva rotto ogni relazione.

L'entrata nell'Unione attribuisce così alla Turchia l'intera responsabilità della normalizzazione della situazione di Cipro, e in particolare l'abbandono dei suoi protetti della "Repubblica turca di Cipro del Nord" stabilita sotto il controllo dell'esercito di Ankara e che è la sola a riconoscere. È un prezzo politico duro da pagare per un governo turco, allorché la questione di Cipro è pretesto di scalate demagogiche nazionaliste da parte dell'estrema destra o di elementi dell'esercito che si vogliono i guardiani dell'integrità della nazione.

Più generalmente, i dirigenti europei diffidano della Turchia, non a causa della sua maggioranza musulmana o dei suoi "valori" che non sarebbero "europei", ma a causa della sua instabilità politica e sociale in un passato recente. Il paese ha conosciuto tre colpi di Stato militare successivi nel 1960, 1971, 1980. L'esercito turco, se ufficialmente si è ritirato dal potere, vi esercita ancora un'influenza. Interviene a Cipro dal 1974. Ha condotto la guerra interna durata quindici anni, dal 1984 al 1999, contro la guerriglia autonomista del PKK nel Kurdistan. Lo Stato turco è rimasto profondamente corrotto, diviso tra diverse mafie che si appropriano una parte dei suoi redditi. Dopo la fine della dittatura militare instaurata dai militari nel 1980, gli anni 1990 sono stati segnati da una successione di scandali e di crisi politiche e finanziarie nelle quali i diversi partiti si discreditavano gli uni dopo gli altri, altrettanto rapidamente.

E' questa la situazione che i dirigenti europei hanno in vista quando invocano il rispetto dei diritti dell'uomo o la necessità del rispetto della democrazia in Turchia. La loro preoccupazione di tutta evidenza non è il rispetto dei diritti politici e sociali della popolazione, di cui se ne infischiano. Invece, si preoccupano del fatto che lo Stato turco sia veramente controllabile, vale a dire che possa obbedire senza discutere agli interessi della borghesia, turca ed europea, piuttosto che alle pressioni imprevedibili di gruppi di pressione o di mafie, oppure di frazioni dell'esercito fissati nella loro visione di una missione di difesa dei valori e della grandezza della Turchia. Su questo piano, raggiungono le preoccupazioni del grande padronato turco e della confederazione padronale Tüsiad. Questi difendono la causa di quello che chiamano una modernizzazione della Turchia secondo le norme europee. Vedrebbero di buon occhio il ritiro dell'esercito turco da Cipro del nord, la cui occupazione costituisce per loro inutili spese. Allo stesso modo e per le stesse ragioni, alcuni difendono una soluzione politica nel Kurdistan che comporti il riconoscimento dei diritti della minoranza curda che eviti nel futuro nuovi e inutili scontri e soprattutto, dal punto di vista della borghesia turca, inutilmente costosi.

Quanto alla critica della corruzione degli uomini politici turchi, allo stesso modo, non ha niente a che vedere con preoccupazioni morali ma piuttosto con un problema di spese. I dirigenti europei non vogliono che una parte dei fondi comunitari ne sia inghiottita, allorché hanno tanto da fare con i loro propri borghesi. Quanto al padronato turco, quando critica la corruzione dello Stato, non è la corruzione in generale che lo preoccupa ma il fatto che i politici turchi, mostrandosi troppo golosi per se stessi, limitano di altrettanto i fondi che potrebbero arrivare direttamente o indirettamente nelle proprie tasche.

Sono questi i reali "problemi economici e politici" di cui si preoccupano i dirigenti europei quando abbordano i negoziati con la Turchia in vista della sua adesione all'Unione. Per loro non si tratta di "valori", cristiani o no, ma di valori finanziari e di mercanteggiamenti concreti sui costi che comporterà l'operazione per gli uni e gli altri, come anche di verifiche ben concrete sull'affidabilità dei loro interlocutori.

Il governo Erdogan.

Dal lato turco, sul piano politico prevale una situazione relativamente nuova dall'arrivo al potere dell'AKP nel novembre 2002, partito detto "islamico moderato".

L'AKP, diretto da Recep Tayyip Erdo an, ha beneficiato dell'enorme discredito dei suoi predecessori. Il DSP, "partito della sinistra democratica" di Ecevit, arrivato al potere del 1999 con più del 21% dei voti, non ne aveva più che l'1,23% nel 2002, dopo aver governato il paese durante quattro anni al fianco del partito d'estrema destra MHP, che scendeva quanto a lui al di sotto della barra del 10% necessario per beneficiare di deputati al Parlamento. La demagogia nazionalista, punto di convergenza tra l'MHP e il DSP, decisamente non faceva furore presso l'elettorato. Mentre il periodo di governo DSP-MHP era stato segnato nel febbraio 2001 dallo scoppio di un enorme crisi finanziaria di cui aveva fatto le spese tutta la popolazione, gli elettori turchi sembravano soprattutto alla ricerca di dirigenti politici un po' più affidabili, meno sospetti di compiacenze verso la corruzione e suscettibili di preoccuparsi almeno un po' degli interessi della popolazione.

L'AKP (Partito della giustizia e dello sviluppo), è stato formato da giovani quadri del vecchio partito islamico avidi di arrivare al potere. Beneficiando del sostegno e dei finanziamenti di una parte del padronato, avendo attirato fuoriusciti di partiti di destra come l'ANAP o il DYP e grazie al sistema elettorale maggioritario, ha ottenuto la maggioranza assoluta al parlamento col 34,26% dei voti. Dopo la serie ininterrotta di scandali che aveva marcato i governi precedenti, non era tanto difficile per l'AKP apparire come una forza nuova dalle mani pulite. Erdogan, esso stesso originario di quartieri popolari di Istanbul, poteva presentarsi come un uomo nuovo, onesto e semplice, preoccupato innanzitutto dell'interesse dei suoi concittadini. Si guardava bene dall'ostentare una qualunque forma di integralismo islamico, preferendo un legame discreto e di buon gusto con l'Islam, atto a sedurre una parte della popolazione che, anche negli strati popolari, può vedere nella religione un fattore d'ordine, di equilibrio sociale e di onestà, ma diffida di ogni estremismo.

Disponendo di una base nelle associazioni religiose, spesso fortemente presenti nei quartieri e efficaci nel sostegno e nell'aiuto ai più poveri, avendo provato in un certo numero di comuni che i partiti islamici erano capaci di una gestione più efficace e comunque relativamente più onesta dei loro predecessori, questa nuova generazione politica di "islamici moderati" beneficiava di un pregiudizio favorevole. Poteva dire, a quanti erano disposti ad ascoltarla, che voleva costituire una specie di versione islamica della democrazia cristiana di alcuni paesi occidentali, cercando di gestire il paese secondo valori conservatori ma senza eccessi estremisti, cercando di assicurare un certo equilibrio sociale grazie al buon funzionamento degli affari e senza dimenticare completamente i più poveri.

Ci si può chiedere per quanto tempo questo tipo di discorso può rimanere credibile di fronte alla realtà. Il fatto è che, per il momento, il governo di Erdogan si è discreditato meno rapidamente dei suoi predecessori. Oltre al fatto di apparire -fino ad ora- come meno corrotto, beneficia anche di una congiuntura economica relativamente favorevole per la Turchia e di un rallentamento dell'inflazione caduta da un ritmo del 100 % annuo al 20% circa.

Aggiungiamo che nel 2003, allo scoppio della guerra d'Iraq, rompendo con la solita sottomissione dei governi turchi ai desideri degli Stati Uniti, il governo "islamico moderato" ha rifiutato il passaggio sul suo suolo alle truppe americane che dovevano aprire un secondo fronte a partire dalla frontiera turca. In fondo era una scelta politica relativamente facile, nella misura in cui una parte delle potenze europee stesse si opponevano almeno a parole all'avventura militare americana, ma corrispondeva in ogni caso a quanto pensava la quasi totalità dell'opinione turca. Era anche un'occasione per affermare la sua vocazione europea, apparendo a buon conto come in rottura col tradizionale, e impopolare, orientamento pro-americano.

Oggi, dopo aver ottenuto che l'Unione europea cominci nel 2005 le discussioni con la Turchia, Erdogan può presentarsi come colui che ha fatto avanzare di un buon passo la causa dell'adesione all'Europa, che presenta come una garanzia di pace, di stabilità e di progresso per il paese. Su questo punto è in risonanza con la maggioranza dell'opinione turca, i cui sondaggi indicano che sarebbe favorevole al 70 o 80% all'adesione. Ciò si spiega con ragioni di vicinanza e col fatto che ogni famiglia ha uno o più dei suoi membri immigrati in Germania, in Inghilterra o in Francia. Ma soprattutto, l'opinione turca è in gran parte convinta che l'adesione comporterà necessariamente un miglioramento economico per tutta la popolazione.

Ciononostante, le difficoltà rischiano di cominciare più tardi. Innanzitutto, le abituali tare della politica e dell'economia turche non sono sparite come per incanto grazie alla vittoria degli "islamici moderati". L'inflazione, la cattiva gestione e la corruzione, i misfatti delle mafie dell'economia e dello Stato, respinte per un po' in secondo piano dalla congiuntura, possono ritornare a galla. Il sostegno all'orientamento europeo di Erdogan può diminuire nella misura in cui, nel corso dei negoziati, l'Unione europea porrà le sue condizioni e che Erdogan presenterà alle classi popolari la fattura da pagare per l'entrata in Europa. La demagogia nazionalista dell'estrema destra o le manovre politiche di frazioni dell'esercito possono trovare di nuovo un terreno favorevole. L'instabilità politica, innestata su una nuova crisi economica e finanziaria, può riprendere i suoi diritti. Una degradazione della situazione alle frontiere, in Iraq o a Cipro, può offrire un terreno a nuove scalate e ad una destabilizzazione del potere politico.

La borghesia e l'unificazione

La questione dell'adesione della Turchia dunque non ha finito di suscitare discussioni e polemiche, nel paese stesso o nei paesi dell'attuale Unione europea. Ma in fondo, ed anche se il caso turco comporta qualche particolarità, si pone nello stesso modo che per gli altri paesi che hanno raggiunto recentemente l'Unione.

Le grandi imprese, i mercati, la valorizzazione delle ricchezze, la produzione, attualmente esistono su scala continentale e di fatto anche su scala planetaria. L'economia ormai è un insieme, su scala mondiale, e le frontiere nazionali costituite dalla borghesia nel corso della sua storia sono da molto tempo un freno al funzionamento ed allo sviluppo delle forze produttive.

Le classi dominanti, nel mentre cercano di salvaguardare frontiere che le garantiscono tante prerogative, cominciando dal potere politico, sono esse stesse costrette a ridimensionarne il ruolo, e a cercare di costituire insiemi economici più vasti. La creazione dell'Unione Europea, il suo allargamento, il fatto che paesi come la Turchia o altri chiedano di aderirvi, sono un'espressione di tendenze internazionali dell'economia di cui le classi dominanti devono necessariamente tener conto .

L'Unione è stata costituita in questo modo, con più o meno buona grazia, dalle borghesi e dai diversi Stati, in modo esitante e laborioso, in un processo contraddittorio pieno di arretramenti. Ogni tappa ha necessitato un arbitraggio arduo tra il bisogno di creare un insieme economico sufficientemente vasto e il desiderio di ogni Stato e delle sue classi dominanti di salvare le loro prerogative nazionali.

Vero è che la Turchia, come la maggior parte dei paesi dell'est europeo che hanno appena integrato l'Unione, appartiene alla parte sottosviluppata dell'Europa, piazzata da molto tempo in una situazione di dipendenza nei confronti dei grandi stati imperialisti d'Europa dell'ovest ai quali serve da serbatoio agricolo e di manodopera, da mercato e terreno d'investimenti. Tale rapporto di forze economico si traduce nei negoziati d'adesione, in cui i grandi Stati dominanti dell'Unione sono in posizione di dettare le loro condizioni alla Turchia e non esitano a farlo, come d'altronde hanno fatto con i recenti aderenti.

Questa situazione fornisce argomenti a quanti, in Turchia, si oppongono all'adesione all'Unione Europea in nome di argomenti nazionalisti. È il caso dell'estrema destra e di una parte dell'esercito. Ed anche una parte della sinistra, dei sindacati e dell'estrema sinistra denunciano l'adesione all'Unione come una sottomissione all'imperialismo della Germania, della Francia e dei loro accoliti.

Ma la dipendenza dell'economia turca di fronte all'imperialismo -europeo e americano- è un dato di fatto, indipendentemente dall'esistenza o no dell'Unione europea e dall'adesione o no della Turchia a quest'ultima. Le tendenze che, in seno alla borghesia turca, si oppongono a quest'adesione, non propongono nessuna pista per uscire da tale dipendenza. Lo fanno o per tentare di salvaguardare interessi particolari che stimano minacciati dall'adesione, o nel nome di una scelta pro-americana opposta alla scelta pro-europea. Quanto all'ideologia detta pan-turanica, basata sull'idea di una Turchia che, grazie ai suoi soli sforzi nazionali, costituirebbe un'economia forte che le permetterebbe di dominare e di unificare sotto la sua autorità l'insieme delle zone turcofone dell'Asia centrale fino alle frontiere della Cina, ciò si è rivelato essere un'utopia che la stessa estrema destra fascistizzante non osa più mettere in primo piano. Non è certamente compito dei militanti operai di sinistra o d'estrema sinistra di risuscitarla, fosse anche sotto un'altra forma.

L'avvenire è la soppressione delle frontiere

Per chi vuol difendere un punto di vista rivoluzionario proletario, l'avvenire appartiene all'unificazione completa dell'Europa ed alla soppressione di tutte le frontiere, ben al di là dei limiti attuali dell'Unione europea. Dunque bisogna considerare come positivo tutto ciò che, nell'attuale costruzione europea, e nonostante sia fatta in funzione dei bisogni capitalisti, facilita la circolazione delle persone e contribuisce a tessere legami più stretti tra i popoli. Da questo punto di vista, non c'è nessuna ragione di opporsi all'adesione della Turchia all'Unione Europea, né di opporsi all'adesione di qualunque altro paese.

In quanto militanti rivoluzionari in seno all'attuale Unione europea, non abbiamo di tutta evidenza nessuna ragione di porci domande sui "valori europei" o "cristiani" dell'Unione. Nella misura in cui esistono, e supponendo che possano essere considerati come dei "valori", non sono di certo un problema. Siamo a favore dell'abbattimento delle frontiere che dividono i popoli e che rappresentano oggigiorno la sopravvivenza di un passato lontano.

Allo stesso modo, per dei militanti che difendono un punto di vista proletario rivoluzionario in Turchia, l'antimperialismo non può consistere nell'opporsi all'adesione: deve esprimersi con rivendicazioni e obiettivi concreti, piazzandosi dal punto di vista degli interessi operai.

Oggi, la classe operaia di Turchia, come il resto della popolazione, è senza dubbio nella sua grande maggioranza favorevole all'adesione, con l'idea che questa non potrà portare che un miglioramento economico e un maggior rispetto dei diritti di ciascuno. Molti lavoratori conoscono l'Europa occidentale, o perché hanno potuto recarcisi essi stessi, o tramite qualcuno dei propri conoscenti che è emigrato ed ha potuto comunicargli la sua opinione. Tutti sanno che i salari sono più alti, che i lavoratori hanno più diritti. Ma, nella classe operaia di Turchia, esiste anche l'idea che in Europa occidentale, un lavoratore non è disprezzato: il suo padrone non può trattarlo come uno schiavo, impiegarlo senza dichiararlo, licenziarlo dall'oggi al domani, a volte picchiarlo; esistono diritti sociali che si possono far valere, istituzioni che li garantiscono e nelle quali si è rispettati.

Il fatto che questa idea sia comune la dice lunga, non tanto sulla situazione reale della classe operaia dei paesi occidentali che su quella della classe operaia della Turchia e sul sentimento che ha di questa situazione. Quest'idea contiene di certo illusioni sulla situazione dei lavoratori nei paesi più sviluppati d'Europa -anche se è evidentemente migliore che in Turchia. Contiene anche un'illusione per quanto riguarda il fatto che l'adesione comporterebbe automaticamente un miglioramento della situazione dei lavoratori nella stessa Turchia. Senza parlare dell' illusione secondo la quale sarà più facile emigrare e dunque trovar lavoro a condizioni migliori, in Germania o in Francia: i dirigenti europei hanno già precisato, nei confronti dei nuovi e dei futuri aderenti, che l'adesione non si accompagnerà automaticamente alla libera circolazione delle persone tra questi paesi e il resto dell'Unione: le merci potranno circolare, ma la Francia, la Germania, l'Italia manterranno il diritto di controllare e di impedire la circolazione delle persone e in particolare l'immigrazione dei lavoratori turchi.

Ciononostante, i rivoluzionari non hanno nessuna ragione di opporsi a questa sensazione dominante che esprime a modo suo le aspirazioni operaie. Se devono certamente combattere le illusioni, non è per opporle un qualunque ripiego nazionalista. E' per dire che, certo, l'adesione all'Unione Europea può comportare aspetti positivi, ma che la conquista di nuovi diritti per i lavoratori non scaturirà da tale adesione, che la borghesia turca prenderà in considerazione unicamente dal punto di vista dei suoi propri interessi. È con la lotta che i lavoratori di Turchia, in collegamento con gli altri lavoratori europei, dovranno esigere gli stessi diritti per tutti, imporre salari e condizioni di lavoro che, in Europa, non si allineino sul livello più basso, ma sul livello più alto, quello conquistato in Germania per esempio, che d'altronde dev'essere difeso anche lì. Quanto alle spese che l'adesione all'Unione europea potrà comportare, bisogna lottare per impedire che la borghesia turca, ed europea, cerchi di farle pagare ai lavoratori di Turchia riservandosi tutti i benefici.

E' in questo tipo di lotte che potrà nascere realmente un'Europa dei lavoratori, una classe operaia che abbia preso coscienza dei suoi interessi comuni su scala continentale e al di là. I lavoratori di Turchia vi hanno tutto il loro posto.