L'Europa in costituzione o la laboriosa evoluzione delle norme che regolano le relazioni tra paesi dell'Unione. (da "Lutte de classe" n 86 - febbraio 2005)

Εκτύπωση
L'Europa in costituzione - la laboriosa evoluzione delle norme che regolano le relazioni tra paesi dell'Unione.
12 gennnaio 2005

La data del referendum per votare a favore o contro la Costituzione europea non è stata ancora definitivamente fissata - benché Chirac abbia indicato che avrà luogo prima dell'estate - che già da settimane questa consultazione è al centro delle preoccupazioni degli ambiti politici .

L'adozione del progetto di Costituzione proposto non ha di certo il carattere storico che i fautori del sì cercano di attribuirgli, da Chirac alla maggioranza del Partito socialista. Non comporta nessun cambiamento significativo rispetto all'Unione europea, così com'è stata costruita nel corso di mezzo secolo di trattazioni tra le borghesie dei paesi imperialisti, e così come tali mercanteggiamenti si sono espressi nei vari trattati che hanno segnato la storia della sua costruzione.

Ciò che la costruzione europea ha di positivo, l'unificazione relativa dello spazio economico dell'Unione europea, la sparizione delle principali barriere protezioniste e l'attenuazione di altre, la libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone -in opposizione alla compartimentazione protezionista- così come una certa omogeneizzazione delle leggi e delle fiscalità, la creazione di una moneta comune -anche se non ha corso dappertutto- è stato realizzato nel corso del tempo, e la Costituzione europea non aggiunge nessuna novità su questo piano. Non merita né l'eccesso di lodi di cui la caricano i fautori del sì, né l'indegnità che gli attribuiscono molti dei fautori del no.

Tutto quello che c'è nella Costituzione esiste già nei differenti trattati che l'hanno preceduta, quando non è inscritto più profondamente ancora nel funzionamento stesso dell'economia capitalistica.

Perché, allora, i governanti dei 25 Paesi dell'Unione ci tengono tanto all'esistenza di questa Costituzione? Perché, in alcuni paesi, come in Francia, tengono a dargli una legittimità politica rafforzata sottomettendola al referendum?

Per quanto riguarda la seconda domanda, bisogna prendere in considerazione le preoccupazioni di politica interna. Chirac, per esempio, avrebbe potuto contentarsi di sottomettere la Costituzione europea al Congresso, vale a dire Assemblea nazionale e Senato riuniti. In molti paesi dell'Unione, la decisione sarà presa dalle istituzioni parlamentari. La scelta di Chirac è dovuta più alla volontà di dare all'approvazione della Costituzione il carattere di un plebiscito della sua politica e della sua persona nel caso in cui i si vincano che all'oggetto stesso del referendum.

Resta il fatto che, al di là della procedura scelta, si tratta di far approvare nei prossimi mesi, in ognuno dei 25 Paesi dell'Unione, il progetto di Costituzione così com'è, in blocco, senza possibilità di modifiche. Almeno su questo punto, tutti i governi interessati sono d'accordo.

Nella procedura c'è visibilmente l'obiettivo di ottenere una legittimazione dell'insieme della popolazione interessata direttamente o indirettamente, a quanto è stato fatto da cinquant'anni, vale a dire la costruzione dell'Unione europea su una base capitalista e al meglio degli interessi dei grandi gruppi industriali e finanziari europei.

La costruzione europea così come si è svolta nelle trattazioni, in parte pubbliche ma soprattutto opache, tra le principali borghesie europee, fino ad ora ha fatto a meno di questa legittimazione. E, d'altra parte, se la Costituzione fosse respinta da uno o più dei 25 Paesi, ciò non rimetterebbe per niente in discussione quanto è stato fatto precedentemente. Ma un rifiuto eventuale della Costituzione porrebbe problemi per quanto riguarda il funzionamento futuro delle istituzioni europee ed i processi decisionali.

Alla domanda del perché di questa Costituzione, Giscard d'Estaing risponde al solito, quando vuole far corto, affermando che le attuali regole di funzionamento portano il segno degli inizi della costruzione europea, del Mercato comune in sei, mentre oggi, l'Unione europea conta 25 paesi membri. Un modo di funzionamento adatto quando si è in sei non lo è più quando si è in 25.

Si può aggiungere che i sei paesi d'origine -la Germania, la Francia, l'Italia, il Belgio, l'Olanda e il Lussemburgo- al di là delle differenze di superficie e di popolazione, appartengono tutte all'imperialismo. Erano e restano ancora concorrenti e rivali in molti campi, ma è loro interesse comune e interesse dei loro gruppi industriali e finanziari di estendersi per creare un mercato più vasto dei loro limitati mercati nazionali, per piazzarsi meglio nella concorrenza internazionale, in particolare di fronte agli Stati Uniti e al Giappone.

Ogni allargamento ha posto problemi la cui risoluzione a volte ha richiesto anni. Mentre le basi della Comunità economica europea (CEE) o Mercato comune sono state stabilite tra i sei al momento del Trattato di Roma, nel 1957 -sei anni dopo la costruzione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio, primo abbozzo della cooperazione- ci sono voluti ancora sedici anni per il primo allargamento. L'adesione del Regno Unito, della Danimarca e dell'Irlanda nel 1973 ha creato una "Europa dei Nove". Occorsero ancora otto anni affinché, nel 1981, la Grecia raggiunga la CEE. Terzo allargamento nel 1986, con l'adesione della Spagna e del Portogallo. Il quarto fu nel 1995 con l'entrata dell'Austria, della Finlandia e della Svezia.

Ogni allargamento ha complicato la presa di decisioni a causa dell'accrescimento del numero dei paesi partecipanti a tali prese di decisioni, ma anche a causa dell'allargamento del ventaglio dei problemi.

Non solo l'entrata del Regno Unito, per esempio, è stata preceduta da anni di mercanteggiamenti, marcati in particolare dalle esitazioni di De Gaulle nei confronti di questa "Inghilterra, nient'altro che un'isola", ma è stato necessario tener conto dei suoi interessi specifici anche una volta ammessa. Su questioni che il Regno Unito considera come decisive per i suoi interessi, come per esempio la questione fiscale o la durata legale del lavoro, fu trovata finalmente una soluzione semplice: il Regno Unito era autorizzato a non applicare la regola comune.

Più tardi, la Spagna e il Portogallo hanno posto altri problemi derivanti dal carattere largamente agricolo di questi paesi così come dall'arretramento di alcune delle loro strutture. La Francia voleva frenare in anticipo la concorrenza nel settore agricolo, campo estremamente sensibile per lei sul piano elettorale. Fu raggiunta da altri per imporre a questi due paesi, appena usciti da decenni di dittatura, quella di Franco in Spagna e quella di Salazar e Caetano in Portogallo, una certa modernizzazione delle loro strutture economiche e della loro legislazione del lavoro per armonizzare le condizioni di concorrenza.

Questi due paesi non avevano il peso del Regno Unito per imporre le loro specificità. Inoltre, le condizioni di adesione andavano nel senso dei desiderata dei loro propri grandi gruppi.

Con l'integrazione della Grecia, poi della Spagna e del Portogallo, la costruzione europea è stata confrontata a nuovi problemi. Si trattava ciononostante, tranne la Grecia, di paesi imperialisti i cui grandi gruppi industriali e finanziari avevano lo stesso tipo di preoccupazioni dei loro simili di Francia, di Germania o del Belgio.

Ma l'ultimo allargamento, il quinto, è stato di natura diversa. Si è trattato di integrare in una sola volta dieci paesi, in maggioranza dell'est dell'Europa. Tutti erano paesi nettamente meno sviluppati di quelli dell'Europa occidentale, tutti con un'economia dominata da grandi gruppi finanziari essenzialmente dell'Europa occidentale. Questi gruppi avevano interesse a che tali paesi fossero integrati nell'Unione, facilitando in questo modo i loro investimenti, la circolazione delle loro merci, il rimpatrio dei loro profitti, oppure la ripartizione delle loro unità di produzione su scala continentale. Ma non si trattava di cercar compromessi con gli Stati dei paesi dell'est, come la Francia e la Germania avevano dovuto farlo col Regno Unito ed in una certa misura con la Spagna. Né bisognava lasciare a questi nuovi aderenti i mezzi suscettibili di permettergli di perturbare, sul terreno istituzionale, il dominio economico delle potenze imperialiste occidentali !

Per di più, ancora due paesi, la Romania e la Bulgaria, attendono nell'anticamera, senza neanche parlare della Turchia. E resta il mosaico di Stati provenienti dalla decomposizione della vecchia Iugoslavia, di cui uno, la Slovenia, fa già parte dell'Unione europea ed un altro, la Croazia, ha già espresso il suo desiderio di aderirvi. E' nella logica delle cose che, presto o tardi, non appena la loro situazione si stabilizzerà, la Serbia, la Macedonia, la Bosnia, il Montenegro o, ancora, l'Albania ed il Kosovo seguiranno il movimento.

Al momento dei precedenti allargamenti, l'oggetto delle transazioni non è stato solo il contenuto del Mercato comune, e poi dell'Unione Europea, ma le stesse modalità decisionali. Quello che i Paesi imperialisti all'origine della costruzione europea, e che ne sono rimasti i motori, come la Francia e la Germania, avevano accettato nel passato da parte dei loro simili, non hanno più l'intenzione di accettarlo nel futuro da parte dei piccoli paesi poveri. Non vogliono più rimettere in discussione, ogni volta, il modo di funzionamento o, più esattamente, non lo vogliono fare per questa ragione.

Bisogna fissare regole, organizzare i rapporti in seno all'Unione europea, in modo che i nuovi entranti non abbiano più che la scelta di accettarle o rifiutarle, senza mercanteggiare.

Il fatto di dare a queste nuove regole il nome di "Costituzione" invece di accontentarsi del termine di "Trattato", com'è stato il caso lungo tutto il processo di costruzione europea, è un modo simbolico per mostrare questa volontà, anche se la futura Costituzione non è più "scolpita nel marmo" delle litanie di trattati di cui non è che l'ultimo in data. Le grandi potenze continueranno a trovare soluzioni per se stesse e ad arrangiare gli "obblighi istituzionali" in funzione dei loro interessi.

Evoluzione del processo di presa di decisione dell'Unione europea

I trattati che tracciano la storia del Mercato comune, come il Trattato di Roma del 1957, l'Atto unico europeo che decise la soppressione delle barriere doganali (1985), il Trattato di Maastricht che gettò le basi della moneta unica nel 1992 oppure il Trattato di Amsterdam (1997), hanno fissato ogni volta le modalità di decisione in funzione dei rapporti di forza del momento.

Non ripercorreremo qui tutte le tappe, né tutte le modifiche dei processi decisionali, e quelle intervenute nell'intervallo tra due trattati. L'intreccio di regole, regolamenti e giurisprudenze occupa un esercito di giuristi presso le istituzioni europee e gli Stati nazionali. Tanto più che contrariamente ai trattati internazionali in senso stretto che si limitano in principio alle relazioni tra due o più Stati, c'è una compenetrazione crescente tra la legislazione europea e le diverse legislazioni nazionali. Diciamo solo che "il diritto comunitario" così come le prerogative delle differenti istituzioni dell'Unione europea, si sono elaborati col passare del tempo, empiricamente, in funzione dei problemi incontrati. I vertici, più o meno trimestrali, dei capi di Stato e di governo puntellavano le pratiche elaborate. I trattati successivi, da Roma a Nizza, passando per Maastricht, le trasformavano in regole di funzionamento. Questi trattati dunque non portavano solo sul contenuto stesso delle decisioni ma anche sul modo di prendere le future decisioni. Così, per esempio, il trattato di Maastricht (1992) non portava solo sulle condizioni di creazione della moneta unica e dei famosi "criteri" di Maastricht. Ha istituito anche la procedura, detta di "co-decisione", che dà un ruolo legislativo in alcuni campi al Parlamento europeo, fino ad allora soprattutto decorativo.

Il trattato di Amsterdam (1997), dal lato suo, ha esteso il voto a maggioranza qualificata in numerosi campi dove prevaleva fino ad allora la regola dell'unanimità come, per esempio, la creazione di imprese comuni in materia di ricerca e di sviluppo tecnologico.

A seconda dei campi, si sono elaborati col tempo diversi sistemi di decisione, che vanno dall'unanimità alla maggioranza semplice o alla "maggioranza qualificata" che tiene conto del peso dei diversi paesi implicati.

Questa stessa ponderazione è cambiata col tempo. Per esempio, prima dell'allargamento a 25, nel Consiglio dei ministri - l'organismo di decisione più importante, che riunisce i ministri dei diversi paesi dell'Unione responsabili della decisione da prendere -, la Francia disponeva di dieci voti, come la Germania, il Regno Unito e l'Italia, mentre all'altra estremità, il Lussemburgo ne disponeva di due, su un totale di 87 voti per l'insieme dei 15 paesi rappresentati. La maggioranza qualificata era di 62 voti e 26 voti costituivano dunque una minoranza di blocco. Concretamente, tre delle quattro grandi potenze europee potevano bloccare ogni decisione che le dispiacesse.

D'altra parte col passare del tempo si sono modificati ugualmente i ruoli rispettivi delle istituzioni decisorie dell'Unione europea. Così com'è riassunto in una pubblicazione ufficiale della Commissione europea, i regolamenti, direttive e raccomandazioni e "in modo più generale, le politiche dell'Unione europea sono il risultato di decisioni prese dal triangolo istituzionale che lega il Consiglio, rappresentante degli Stati aderenti, il Parlamento, rappresentante dei popoli, e la Commissione, organo indipendente dagli Stati e garante dell'interesse generale degli europei". Lasciamo da parte le espressioni "rappresentanza dei popoli" attribuita al Parlamento o "indipendenza della Commissione di fronte gli Stati" o ancora "la Commissione garante dell'interesse generale degli Europei"! Come se lo stesso Parlamento, la sola delle tre istituzioni eletta al suffragio universale - solo dal 1979 - fosse una rappresentanza democratica! Come se i 78 deputati eletti in Francia potessero rappresentare i più di 60 milioni di francesi e gli interessi opposti delle diverse classi sociali! Eppure la Francia, col Regno Unito e l'Italia, fa parte dei paesi che mandano più deputati al Parlamento europeo (solo la Germania ne manda di più, 99). Da comparare con i sei rappresentanti ai quali hanno diritto l'Estonia o Cipro, oppure ai cinque di Malta !

Passiamo anche sul fatto che si tratta della presa di decisione a livello ufficiale e pubblico, che non rende conto dell'influenza diretta dei maggiori gruppi industriali e finanziari sulla Commissione stessa e della presenza ufficiale di lobbie delle grandi imprese, tanto presso la Commissione europea che presso il Parlamento.

Resta il fatto che in effetti le decisioni ufficiali sono prese da questo "triangolo istituzionale", al quale bisogna aggiungere il Consiglio europeo, riunione periodica dei capi di Stato e di governo che funziona di fatto dal 1974 ma che è stato "istituzionalizzato" solo al momento della firma dell'Atto unico europeo nel 1987 e che dovrebbe "incarnare la legittimità politica suprema dell'Unione". Il ruolo di ognuna di queste istituzioni si è modificato continuamente col tempo. Il ruolo del Parlamento europeo si è progressivamente accresciuto da Maastricht in poi. Il ruolo legislativo continua comunque ad appartenere soprattutto al Consiglio dei ministri - a volte chiamato Consiglio dell'Unione europea.

Aspettando il voto, e poi la messa in piedi della Costituzione, il Consiglio dei ministri applica dal primo novembre 2004, grosso modo, la stessa procedura decisionale di prima ma con la partecipazione dei venticinque ministri dei 25 paesi, al posto dei 15 precedenti. La ponderazione per ogni paese è cambiata. La nuova regola - provvisoria aspettando la Costituzione - attribuisce per esempio 29 voti ai quattro grandi paesi dell'Unione (Germania, Francia, Italia, Regno Unito), 27 alla Spagna ed alla Polonia, e, in coda, 4 voti all'Estonia, a Cipro, alla Lettonia, al Lussemburgo, alla Slovenia e 3 a Malta. Tenendo conto delle ponderazione, il totale dei voti espressi al Consiglio dei ministri è arrivato a 321, base di calcolo della maggioranza semplice e qualificata.

Formalmente, già da un certo tempo, la regola dell'unanimità non è più richiesta per prendere decisioni, tranne in alcuni campi particolarmente sensibili per gli Stati. Ciononostante, un articolo apparentemente anodino ha continuato a preservare l'importanza della regola dell'unanimità anche negli altri campi. In effetti, se la decisione a maggioranza qualificata tende a divenire la regola per il Consiglio dei ministri, è solo a condizione che il voto porti su una proposizione della Commissione senza modifiche né emendamenti. Se il Consiglio vuole modificare o emendare un testo presentato dalla Commissione, può farlo solo all'unanimità!

La Commissione mantiene il quasi-monopolio delle iniziative ed i rappresentanti dei governi ai quali appartiene la decisione finale possono allontanarsi dalle proposizioni della Commissione solo all'unanimità. Così, molti articoli del trattato cominciano con "il Consiglio, su proposizione della Commissione, statua...". Ciò indica l'importanza della composizione della Commissione per gli Stati.

Prima dell'allargamento a 25, la Francia, la Germania, il Regno Unito, l'Italia e la Spagna delegavano alla Commissione ognuno due membri, e gli altri dieci Stati un membro ciascuno. Ciononostante tutti gli Stati membri erano rappresentati in questa istituzione che si presumeva dover "incarnare l'interesse comunitario". Tutti avevano così la possibilità di pesare direttamente sulle iniziative della Commissione.

L'allargamento a 25

Le grandi potenze occidentali che hanno accettato - meglio, desiderato - l'integrazione dei paesi dell'est dell'Unione europea, nell'interesse dei loro grandi gruppi industriali e finanziari, tuttavia non hanno voluto dargli la possibilità di ridiscutere la loro posizione nell'Unione ad ogni nuova integrazione futura oppure in occasione di ogni "vertice europeo". E ancora meno vogliono che un numero crescente di piccoli Stati, per di più poveri, possa bloccare la macchina europea.

Questa preoccupazione ha già alimentato tutti i dibattiti su "una costruzione europea a due velocità" finalizzata a spingere al massimo la collaborazione tra le grandi potenze imperialiste che lo vogliono e lasciare alle altre un posto di seconda zona. Quando si tratta di una delle grandi potenze, come il Regno Unito, le istituzioni europee sanno dispensarla ufficialmente dagli obblighi che incombono ai firmatari dei trattati (senza neanche parlare dell'euro che il Regno Unito per il momento rifiuta di utilizzare, mantenendo la sterlina).

Sanno arrangiare le regole e le decisioni "in funzione del fatto che siate potenti o miserabili", e brandire minacce contro i piccoli Stati, come il Portogallo o la Grecia quando i loro deficit del bilancio hanno oltrepassato i limiti prescritti dai criteri di Maastricht. Ma il tono fu nettamente più accomodante allorché la Francia o la Germania, i due pilastri dell'Unione europea, smisero di soddisfare i criteri di Maastricht!

A maggior ragione, le istituzioni europee non hanno nessuna ragione di mostrare nei confronti di Cipro, della Lettonia, o anche della Polonia, gli stessi riguardi che hanno per il Regno Unito, la Francia o la Germania.

Il progetto di Costituzione, se sarà adottato, fisserà dunque le regole e, nello stesso tempo, consacrerà sul piano politico il dominio dei paesi imperialisti dell'Europa occidentale sui paesi dell'est. Dominio che riposa ciononostante fondamentalmente sulla forza economica dei trust tedeschi, francesi, britannici, ecc., e non sugli articoli lambiccati della Costituzione.

La gestione del bilancio europeo

Il contributo degli Stati al bilancio dell'Unione è relativamente ridotto - dell'ordine del 5% dei loro bilancio nazionali - e dunque il bilancio europeo è modesto in confronto alla popolazione.

Ma, con un ammontare dell'ordine di 111 miliardi di euro, oltrepassa il bilancio nazionale del Belgio, dell'Austria o della Svezia e a maggior ragione quello della quasi totalità dei paesi dell'est.

Il grosso del bilancio europeo è destinato ad alimentare, da una parte, la politica agricola comune e, d'altra parte, i "fondi strutturali".

La ripartizione tra paesi delle somme dedicate alla "politica agricola comune" (PAC) è uno dei punti di attrito fin dalle origini del Mercato comune. Per molto tempo, la "politica agricola comune" ha consistito, essenzialmente, nel far pagare alla Germania una parte degli aiuti, sovvenzioni e "compensi" versati all'agricoltura francese. L'entrata della Spagna e del Portogallo ha già complicato le cose. A maggior ragione, l'entrata dei paesi dell'est. L'agricoltura della Polonia fa vivere - male, certo, per molti - più contadini dell'agricoltura francese (una popolazione agricola di un milione di persone su 730 000 coltivazioni in Francia contro una popolazione agricola di 8 milioni di persone su 2 milioni di coltivazioni, generalmente piccole, in Polonia).

Che parte dei sussidi di Bruxelles andrà agli uni e agli altri ? Con un bilancio europeo limitato, è un po' come la quadratura del cerchio; ciò comporta una rimodellatura completa della politica agricola comune. Ma, al di là della ripartizione dei sussidi tra paesi si pone il problema di sapere quale categoria ne approfitterà.

Da molto tempo il sussidi versati dall'Unione non approfittano ai piccoli contadini in Francia, ma essenzialmente alle grandi aziende agricole e all'industria agro-alimentare. Una nuova distribuzione delle carte in questo campo riguarda imprese tra le più importanti e un certo numero di grandi proprietari in carne ed ossa.

Un altro campo sensibile dal punto di vista della gestione è quello che il vocabolario europeo chiama i "fondi strutturali" e che consistono nell'attribuzione di sovvenzioni a regioni considerate come più povere di altre, vale a dire in realtà, attraverso filtri diversi, ai loro imprenditori ed industriali.

Questi fondi non sono importanti solo per il loro ammontare, ma anche per il loro ruolo di complemento in rapporto alle sovvenzioni nazionali, o addirittura di stimolo nei loro confronti. Ma il loro ammontare non è illimitato. E per scegliere tra la Sicilia, la Borgogna, o la Pomerania, bisogna non solo fissare delle regole ma anche prevedere chi decide e come.

E poi, ci sono i "servizi pubblici" europei che non sono mai stati veramente servizi per il pubblico, vale a dire al servizio di tutti. Nel nuovo linguaggio europeo, perfino la parola è bandita e si parla di "servizio di interesse generale", in cui i "servizi" possono essere resi tanto da imprese private che di Stato.

Le istituzioni europee danno il cambio agli Stati nazionali nei loro attacchi contro i servizi pubblici e a volte li precedono nella precisione delle formulazioni. Ma nonostante la loro foga "privatizzatrice", non hanno certo voglia di liquidare quanto è indispensabile alle imprese capitaliste ma non abbastanza profittevole per attirare in quantità sufficiente gli investimenti privati.

Per esempio, a cosa serve l'integrazione nell'Unione europea della Romania o della Bulgaria, o un domani della Turchia, se l'inadeguatezza dei trasporti di questi paesi non dovesse permettere la penetrazione auspicata dai grandi trust ? A cosa serve l'affermazione del principio della "libera circolazione" delle merci, la sua iscrizione nella Costituzione, se non ci sono abbastanza linee ferroviarie né abbastanza autostrade per trasportarle? E le disavventure degli azionisti privati, per esempio, del tunnel sotto la Manica non aiutano ad attirare in massa capitali privati verso alcuni investimenti indispensabili dal punto di vista degli interessi generali delle imprese ma la cui redditività futura non è garantita.

Per molte infrastrutture, anche i gruppi capitalisti che strillano più forte contro "lo statalismo", continueranno a contare sugli investimenti pubblici.

In realtà, ben prima che i negoziati per l'integrazione dei paesi dell'est fossero conclusi o anche seriamente avviati, i grandi gruppi capitalisti avevano fatto pressione sulle istituzioni affinché queste si impegnino nella realizzazione della "rete traseuropea" ( TEN) considerata come "il più importante programma di infrastrutture di trasporti della storia mondiale"! Neil Kinnock, allora commissario dei trasporti, aveva affermato, negli anni novanta, che il suo "obiettivo prioritario era di realizzare le reti di trasporto transeuropeo e la loro estensione in Europa centrale e orientale il più rapidamente possibile, per disporre di un sistema di trasporto europeo che serva efficacemente il mercato unico europeo". L'opera collettiva Europ.inc che contiene questa citazione precisa che i centocinquanta progetti che costituiscono l'insieme del TEN prevedono migliaia di chilometri di nuove autostrade, reti ferroviarie per treni a grande velocità e trasporti di merce, estensioni di aeroporti e di vie navigabili così come alcune grandi opere di alta ingegneria, come per esempio il ponte che unisce la Danimarca alla Svezia.

L'insieme di questi progetti voluti dalle principali associazioni di grandi firme europee rappresenta un ammontare dell'ordine di seicento miliardi di euro di investimenti. Una buona parte è già in via di realizzazione o realizzata. Questa somma non è assicurata dal solo bilancio europeo. Alcuni progetti sono stati o saranno finanziati in parte da capitali privati, altri da bilanci nazionali o da quelli degli enti locali, ma il bilancio europeo gioca un ruolo di locomotiva e soprattutto di coordinazione.

Questa rete dei trasporti risponde all'interesse di tutte le grandi società, che si tratti di assicurare l'approvvigionamento di energia dell'insieme dell'Unione, di trasportare automobili fabbricate in Slovacchia o in Romania verso l' insieme del mercato europeo, di trasportare pezzi di ricambio tra fabbriche sparpagliate in diversi paesi o ancora di permettere alla produzione tessile delle fabbriche tedesche o francesi installate in Turchia di raggiungere l'Europa occidentale attraverso i Balcani. Ma resta ancora da scegliere il percorso futuro per queste linee autostradali o ferroviarie. Si pensi alle rivalità di campanili, in Francia, tra i diversi consigli regionali o i vari comuni per quanto riguarda le linee dei TGV !

E di più, resta da scegliere i gruppi di lavori pubblici ai quali sarà affidata la costruzione di questo o quel tratto di autostrada o di aeroporto.

Ciò dimostra che anche se gli obiettivi fondamentali di un largo mercato europeo sono definiti da tempo, la gestione quotidiana del suo funzionamento implica continuamente delle decisioni e dunque degli scontri da arbitrare tra grandi trust o tra Stati.

Rafforzare l'esecutivo europeo

Così come l'Unione europea non sopprime e non sostituisce gli Stati nazionali, la Costituzione europea non si sostituirà alle costituzioni nazionali. Essa fissa ciononostante le attribuzioni rispettive delle istituzioni nazionali e delle istituzioni europee. C'è tutta una gerarchia tra i campi dove il potere è supposto appartenere alle sole istituzioni europee, i campi in cui c'è un'interazione delle autorità europee e delle autorità nazionali e, infine, i campi che sono unicamente di responsabilità di quest'ultimi.

Di fatto, i soli campi in cui l'Unione "dispone di una competenza esclusiva" secondo i termini della Costituzione sono "l' Unione doganale", "la fissazione delle regole della concorrenza necessaria al funzionamento" del mercato europeo, la politica commerciale comune, la politica monetaria della zona euro e, accessoriamente, la conservazione delle risorse biologiche del mare.

Con un certo realismo, Giscard ha chiamato questi campi il "cuore federale" dell'Unione, un modo per sottolineare che l'organizzazione del mercato è l'essenziale, e che il resto è solo accessorio.

Uno degli aspetti importanti della futura Costituzione è il rafforzamento e il restringimento dell'esecutivo europeo. La Commissione europea non conterà più, nel futuro, altrettanti commissari che Stati, ma solo un numero uguale ai due terzi del numero degli Stati membri. Così, una parte degli Stati sarà esclusa da ogni presenza nella Commissione. Ma significativamente, di fronte alle proteste di alcuni Stati, in particolare della Spagna e della Polonia, questa clausola sarà applicata a partire dalla seconda Commissione costituita dopo l'adozione della Costituzione e non alla prima.

Ormai ci sarà un presidente dell'Unione europea "eletto" per due anni e mezzo dai suoi simili, vale a dire scelto dagli altri capi di Stato e di governo del Consiglio europeo. Sono rafforzate le attribuzioni di un ministro degli Esteri che sarà nello stesso tempo vicepresidente della Commissione. L'uno come l'altro potrà rappresentare l'Unione europea nel suo complesso nei negoziati internazionali.

La procedura di voto del Consiglio dei ministri è stata modificata tra il progetto di Costituzione di Giscard e la riunione dei capi di Stato del giugno 2004. La Spagna e la Polonia sono riuscite ad imporre una modifica dei voti che stimano esserle più sfavorevoli. La maggioranza qualificata per la maggior parte delle decisioni si definirà come "almeno il 55% dei membri del Consiglio che comprenda almeno 15 di questi e che rappresenti degli Stati membri che riuniscano almeno il 65% della popolazione dell'Unione" (articolo 1-25).

Questo significa che dei paesi che rappresentino il 35% della popolazione dell'Unione possono costituire una minoranza di blocco capace di impedire ogni decisione. Questa percentuale non può essere raggiunta da una coalizione dell'insieme dei paesi integrati ultimamente e non imperialisti, anche se prossimamente vi si aggiungessero la Bulgaria e la Romania (e se anche questi numerosi piccoli paesi riuscissero ad oltrepassare le loro divisioni). Al contrario, basta un'intesa tra la Germania e la Francia con l'accordo di una terza grande potenza, il Regno Unito o l'Italia, oppure quello di un altro paese con una popolazione media, come i Paesi Bassi, per costituire una minoranza di blocco capace di impedire ogni decisione sfavorevole.

Il Parlamento europeo conta più membri delle legislature precedenti - attualmente 732 ma, nel futuro, il loro numero non dovrà oltrepassare 750 anche in caso di adesione di nuovi paesi. Dunque, la maggior parte degli Stati avranno meno rappresentanti di oggi. Il che vuol dire che la rappresentanza sarà ancora meno democratica di quanto non lo sia finora.

E' significativo il fatto che anche se la grande maggioranza delle decisioni nel futuro sarà presa a maggioranza semplice o qualificata, la regola dell'unanimità si applicherà "in materia di politica estera e di sicurezza comune" (articolo I-40).

D'altra parte, un intero capitolo della Costituzione è consacrato alle "cooperazioni rafforzate" che permetteranno ad una parte degli Stati di rafforzare la cooperazione tra di loro, a condizione che "le cooperazioni rafforzate rispettino la Costituzione..." e che non rechino "danno al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale. Queste non possono costituire né un ostacolo né una discriminazione agli scambi tra gli Stati membri né provocare distorsioni della concorrenza tra di loro" (articolo III-416).

Ecco dunque che riappare l'idea di un'Europa a geometria variabile, in cui tutti i paesi devono rispettare l'essenziale dell'Unione europea, vale a dire un mercato unificato senza distorsioni di concorrenza, ma in cui quelli che vogliono spingere la loro cooperazione più lontano possono farlo senza preoccuparsi degli altri.

La Costituzione apre finalmente la prospettiva della preparazione di una forza di intervento europea, autonoma nei confronti degli eserciti e delle polizie nazionali. Nella Costituzione, questo è detto sotto la forma imbrogliata della "definizione progressiva di una politica di difesa comune dell'Unione", che permetta tale difesa comune "non appena il Consiglio europeo all'unanimità l'avrà deciso". Si tratta dello schizzo di un apparato di repressione europeo capace di intervenire come un'unità. Di più, la Costituzione riconosce la possibilità per l'Unione di farvi "ricorso per missioni all'esterno dell'Unione per assicurare il mantenimento della pace..." (articolo I-41). La Francia, impegnata "nel mantenimento della pace", come si sa, in Costa d'Avorio, vale a dire nella difesa degli interessi dei gruppi capitalisti francesi, può vedervi la promessa di una futura forza europea capace di assecondarla, o addirittura di sostituirla.

Ma un conto è la futura ed eventuale creazione di una forza di repressione europea. Un altro ben più vicino è la prospettiva dell'istituzione di un' "agenzia nel campo dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, degli acquisti e dell'armamento (agenzia europea di difesa) per identificare i bisogni operativi... e, eventualmente, mettere in opera tutte le misure utili per rafforzare la base industriale e tecnologica del settore di difesa, partecipare alla definizione di una politica europea delle capacità e dell'armamento... "(articolo I-41)

In altri termini, anche se l'esercito unificato è solo un progetto, la promessa di affari appetitosi per i trust dell'armamento è più immediata. Anche gli Stati più piccoli dell'Unione che oggigiorno non hanno i mezzi per intervenire su un teatro qualsiasi di operazioni militari e che, per di più, non ne hanno necessariamente la voglia, saranno fortemente invitati a partecipare all'acquisto di materiali militari normalizzati su scala dell'Unione, sotto l'egida dei più potenti trust dell'armamento, i soli capaci di farsi ascoltare direttamente dalla Commissione europea.

La riduzione del numero dei commissari così come la nuova ponderazione dei voti dei vari paesi in seno al Consiglio dei ministri destinati ad assicurare la capacità di decisione delle principali potenze, diminuiranno di altrettanto l'influenza dei paesi più piccoli.

E' comprensibile che una volta il progetto di Costituzione europea elaborato sotto l'egida di Giscard, la contestazione sia venuta principalmente da paesi detti medi, la Spagna e la Polonia in particolare, vale a dire paesi non abbastanza potenti per imporre le loro esigenze ma abbastanza popolosi per non lasciar passare senza proteste delle regole sfavorevoli per loro.

Così come non è stupefacente che il rifiuto da parte della Spagna e del Portogallo della prima versione della Costituzione Giscard abbia portato su dei "dettagli", come giustamente la ponderazione dei voti dei diversi paesi o la loro presenza o meno nella Commissione europea.

Per riprendere l'espressione di un'opera su La presa di decisione dell'Unione europea, pubblicata da La Documentation Française, "il proverbio secondo il quale il diavolo si nasconde nei dettagli meriterebbe di essere consacrato principio comunitario tanto è vero che la posta in gioco di un testo è spesso inversamente proporzionale al suo volume e che una nota in basso di una pagina può avere effetti ben più decisivi di un lungo capitolo insipido". Quest'affermazione non è stata fatta a proposito della Costituzione di Giscard, ma le calza perfettamente. Pagine e pagine di "grandi principi" non preoccupavano per niente le delegazioni polacca e spagnola che, in cambio, si sono battute ed hanno ottenuto qualche cambiamento al livello della ponderazione dei loro voti nel Consiglio dei ministri.

Dire no al progetto di Costituzione

Al referendum annunciato, diremo no alla Costituzione europea. Non certo in nome della difesa della sovranità nazionale, non c'è neanche bisogno di dirlo, poiché siamo favorevoli all'unificazione europea. Non perché il rifiuto della Costituzione europea proteggerebbe i lavoratori in qualche modo contro gli attacchi che subiscono da parte della borghesia. Una Costituzione stabilita dalla borghesia non protegge mai i lavoratori e la Costituzione della Va Repubblica francese non è certo migliore del progetto di Costituzione di Giscard per l'Europa.

Anche così com'è, realizzata su basi capitaliste, con tutte le conseguenti ingiustizie e insufficienze, l'Unione europea rappresenta un progresso in un certo numero di settori. Anche solo la fine delle compartimentazioni economiche e delle dogane, così come la libertà di circolazione delle persone su scala di una parte del continente, rappresentano un vantaggio apprezzabile nei confronti dei controlli e dei reticolati, benché tale libertà non sia pienamente riconosciuta agli immigrati che vivono e lavorano nell'Unione.

I lavoratori devono difendersi contro il padronato, cominciando dai loro propri padroni e il governo che li protegge, che sono a portata della loro collera e delle loro azioni. Non contro un'istituzione astratta, non contro le pagine di carta di una Costituzione.

E' il capitalismo che bisogna combattere, e non il fatto che, costrette e forzate, con un secolo di ritardo, le borghesie nazionali abbiano finito per unificare, anche solo parzialmente, una parte dell'Europa.

Ma queste ci chiedono di votare in blocco per una Costituzione che, se non è peggiore dei trattati che l'hanno preceduta, non è neanche migliore. Per la moltitudine di trattati e di decisioni che hanno modellato l'Unione europea, non ci hanno chiesto il nostro avviso. Questa volta sì. Allora diremo no per non dare una legittimazione ad un testo che, in nome di qualche goccia di miele, vuol far inghiottire agli elettori un barile di catrame !