Rifondazione Comunista all'opposizione

Εκτύπωση
Da "lutte de classe" n° 38 (Italia - Rifondazione Comunista all'opposizione)
Novembre 1998

Il segretario dei Democratici di Sinistra Massimo D'Alema accede alla presidenza del Consiglio in seguito alla crisi di governo che ha segnato la fine del governo Prodi. Questo governo è durato due anni e mezzo grazie tra l'altro al sostegno del Partito della Rifondazione comunista, e l'inizio di questa crisi è anche stato segnato dalla scissione di quest'ultimo quando la maggioranza del PRC con il suo segretario generale Fausto Bertinotti ha deciso che tale sostegno al governo Prodi doveva finire.

Infatti la frazione minoritaria del PRC capeggiata da Armando Cossutta che, in opposizione a Bertinotti, si era schierata a favore del proseguimento del sostegno al governo, ha deciso di non rispettare la decisione maggioritaria e ha fatto scissione, dando vita al "Partito dei comunisti italiani" (PdCI) e trascinando con se la maggioranza del gruppo parlamentare.

L'aiuto dei 21 deputati cossuttiani non è stato sufficiente per salvare il governo Prodi. Ma la scissione di Rifondazione rimane, come risultato di un conflitto apertosi un anno fa quando Cossutta ha cominciato di esprimere delle critiche alla politica di Bertinotti, e anche in qualche modo come seguito dell'altra scissione attuata nel 1991, quando la maggioranza del vecchio PCI decise di abbandonare l'etichetta comunista.

Dal PCI al PDS e a Rifondazione

Sono trascorsi sette anni dal febbraio del 1991, quando al congresso di Rimini il segretario generale del PCI di allora Achille Occhetto propose a questo partito di rompere definitivamente con ciò che ancora evocava il suo passato comunista, diventando il Partito della sinistra democratica, mentre una parte della base del partito rifiutava tale abbandono, e una parte dell'apparato sceglieva di capeggiarla, dando vita al Movimento della rifondazione comunista (MRC), diventato poi il Partito della Rifondazione comunista.

Infatti, se la creazione di Rifondazione poggiava sulla parte dei militanti e della base del PCI che rifiutava l'operazione politica occhettiana, ci voleva anche un apparato, o almeno delle reti di militanti e quadri intorno ai quali organizzare il nuovo partito. Però la maggior parte dell'apparato e degli eletti del vecchio PCI, scelse senza troppi rimorsi di raggiungere il PDS. Fu la stessa cosa per i quadri sindacali, in quanto l'apparato CGIL rimase controllato in modo schiacciante dal PDS. Cossutta ha potuto dare la cifra di solo 470 membri di Rifondazione su un totale di 16000 funzionari sindacali CGIL.

Nondimeno Rifondazione ha potuto dimostrare che si doveva fare i conti con lei, almeno nel campo elettorale, ottenendo fino all'8,6% dei voti nelle elezioni legislative del 1996. Ma con questa presenza che spesso era solo elettorale, con dei militanti che spesso erano stati dei militanti di base del PC e non dei quadri, in mancanza di un vero appoggio sindacale, Rifondazione nasceva con un'apparato piuttosto debole. L'unico che poteva portare con se almeno un embrione d'apparato fu Cossutta. Quadro storico del vecchio PCI, nel quale fu l'organizzatore di una tendenza filosovietica quando nel 1982 Enrico Berlinguer proclamava lo strappo definitivo tra il PCI e l'URSS, Cossutta disponeva per questo nel PC di una piccola rete di fedeli, che col pronunciarsi contro l'abbandono della sigla comunista e col contribuire alla nascita di Rifondazione le hanno dato un'ossatura.

Eppure, se i cossuttiani sono stati il gruppo più coerente all'interno di Rifondazione, non erano in numero sufficiente per controllare realmente un partito di più di centomila tesserati. Oltre i militanti del vecchio PCI che aderirono a Rifondazione, oltre alcuni ex militanti dell'estrema-sinistra, ci fu il rinforzo di Democrazia proletaria quando questo partito, indebolito dalla partenza di alcuni dei suoi quadri attratti dall'ecologia, decise di sciogliersi per raggiungere Rifondazione.

Così Rifondazione fu, alla sua nascita, un partito eterogeneo nel quale, a secondo del luogo, ad avere la meglio c'erano i cossuttiani, o i militanti venuti dal PCI ma non dalla tendenza di Cossutta, o i militanti in provenienza da DP o dall'estrema-sinistra. Cossutta e i suoi accettarono tale rinforzo, in parte perché non avevano altra scelta : se volevano dare un po' di rilievo alla loro operazione politica, occorreva dare l'immagine di un partito aperto a tutti quelli che la lunga deriva socialdemocratica del vecchio PCI aveva lasciati con la voglia di altro.

In quanto al gruppo dirigente, fu costituito praticamente nello stesso modo, intorno a Cossutta e i suoi, a qualche deputato e senatore del PCI opposto al progetto di Occhetto, ad alcuni ex quadri di DP o militanti del vecchio PCI finora impegnati piuttosto nell'apparato sindacale. Alla sua nascita, oltre Cossutta, Rifondazione ebbe alla sua testa Sergio Garavini, un uomo che fu a lungo un quadro CGIL.

Occorreva ancora precisare cosa sarebbe la politica del nuovo partito. Il suo nome "rifondazione comunista" voleva fare da risonanza alle speranze dei militanti che rifiutavano la deriva a destra del PCI. Ma lo stesso nome manteneva alcune ambiguità rispetto all'eredità politica rivendicata dal PRC : molti potevano capire con queste parole di "rifondazione comunista" il ritorno alla politica del PC dell'epoca togliattiana, profondamente riformista anche se si proclamava comunista. Alcuni le potevano capire come un ritorno alla politica iniziale dell'Internazionale comunista, e del PC dei tempi di Gramsci e Bordiga. Altri ancora le potevano sfruttare per affermare che, se la parola "comunista" non era da rinnegare come proponevano Occhetto e PDS, invece il suo contenuto era in gran parte da rivedere e rivalutare, e l'adesione a "Rifondazione comunista" non impediva un riesame del marxismo per affermare che sarebbe superato.

Tale ambiguità era necessaria ai dirigenti di Rifondazione, appunto, per permettere alle diverse correnti presenti nel partito di coabitare e, in fondo, di interpretare ognuna a suo modo il contenuto di questa "rifondazione comunista". E quindi non hanno fatto nulla, col passare del tempo, per dissipare questa confusione. hanno solo provato a mantenere intorno al partito questa immagine di sinistra eclettica, con aiuto di bandiere rosse e ritratti diversi branditi nelle manifestazioni, da Marx a Gramsci o Guevara, con aiuto di proclami di solidarietà con Fidel Castro o con gli Indiani del Chiapas, o di condanne dell'Europa del capitale.

Certamente, Rifondazione parlava anche della difesa degli interessi dei lavoratori, criticava la politica di aperta collaborazione dei dirigenti sindacali con governo e padroni, ma evitava di dare a tale difesa un contenuto troppo precisi, a proposito sia delle rivendicazioni che delle proposte di lotta. In fondo, gli serviva solo mantenere l'idea che, mentre il PDS era solo preoccupato di andare al governo, Rifondazione era l'unico partito che prendeva in conto gli interessi dei ceti popolari e quindi meritava il loro voto : perché dietro questo fumo "di sinistra" dai limiti imprecisi, l'unico contenuto reale che il gruppo dirigente dava alla politica di Rifondazione era un contenuto elettoralistico e istituzionale.

Un partito sempre più istituzionale

Ma se la direzione di Rifondazione non era costretta a precisare le sue concezioni ideologiche, invece di fronte alle scadenze politiche essa ebbe rapidamente delle scelte da fare. L'evoluzione politica in Italia, il crollo della Democrazia-Cristiana e del Partito socialista dopo le inchieste di "mani pulite" sulla corruzione, la modifica del sistema elettorale in senso maggioritario, mettevano il PDS al centro di una ricomposizione politica della sinistra mentre una ricomposizione simmetrica veniva attuata a destra, intorno al "Polo" di Berlusconi. Già nel 1994, Rifondazione debbe scegliere quale atteggiamento adottare nei confronti del raggruppamento elettorale dei "progressisti" costituito intorno al PDS. La sua risposta non fu ambigua : il congresso del PRC del gennaio 1994 decise la partecipazione al raggruppamento "progressista" accanto al PDS e decise pure che, in caso di vittoria di questo raggruppamento nelle elezioni di primavera, il PRC avrebbe accettato di fare parte della maggioranza di governo.

Contemporaneamente un nuovo segretario generale fu scelto per sostituire Garavini, nella persona di Fausto Bertinotti. Venuto anche lui dall'apparato sindacale CGIL, nel quale per qualche tempo aveva capeggiato l'opposizione alla linea maggioritaria, legato dalla sua formazione politica alla vecchia sinistra demartiniana del partito socialista, Bertinotti ebbe la capacità di incarnare una certa immagine di sinistra del PRC, ma sempre con quel contenuto puramente riformista ed elettoralistico, contando solo sulla sua partecipazione alle istituzioni e non sulle lotte dei lavoratori. Occorre notare però che, in quel congresso del 1994, una forte minoranza (20% dei delegati) si schierò contro la prospettiva di partecipazione al raggruppamento "progressista".

Dopo le elezioni della primavera del 1994 e la vittoria elettorale del "polo delle libertà" di Berlusconi, la prospettiva di un governo di sinistra fu respinta alla primavera del 1996. Questa volta il PDS, ormai sotto direzione di D'Alema dopo l'eliminazione del suo rivale Occhetto, riuscì a costituire sotto il nome de "l'Ulivo" un raggruppamento elettorale un po' più spinto al centro, includendo i Verdi e il PPI costituito da gli ex-democristiani che sceglievano l'alleanza con la sinistra. L'Ulivo fu capeggiato dal democristiano Romano Prodi, ex-dirigente dell'IRI e, in quanto tale, responsabile di molte privatizzazioni, ristrutturazioni e licenziamenti nel settore pubblico. L'atteggiamento del PRC non ne fu cambiato sostanzialmente. Con il rifiuto di confluire nell'Ulivo, mantenne formalmente la propria autonomia e fece campagna sotto il proprio programma dei "cento giorni", elenco delle prime misure che avrebbe difeso di fronte ad un governo di sinistra. Ma nello stesso tempo il PRC accettava un accordo di desistenza -cioè di ripartizione dei collegi elettorali- con "l'Ulivo". Questo ha portato alla vittoria elettorale della sinistra, anche senza spinta a sinistra dell'elettorato, per il fatto semplice che dall'altra parte il "Polo" di Berlusconi era indebolita dalla defezione della Lega Nord di Umberto Bossi che si presentava da sola.

Da queste elezioni del 21 aprile 1996 è nato il sedicente governo di sinistra di Romano Prodi, il cui principale sostegno era certo il PDS, oggi diventato "i DS". Ma per avere la maggioranza in parlamento, doveva contare su Rifondazione, tanto più che questi aveva appena raggiunto un risultato dell'8,6% dei voti, in aumento rispetto al 6% di due anni prima, e contava 35 deputati. Questo sostegno, pur con alti e bassi, non è venuto a mancare fino alla crisi aperta, in quell'ottobre del 1998, dalla decisione di tornare all'opposizione.

Il prezzo del sostegno

In questi due anni e mezzo di sostegno al governo Prodi, i problemi non sono mancati per Rifondazione. Ovviamente, questo governo non ha fatto una politica diversa rispetto ai governi precedenti. Portando avanti una politica di austerità in nome dell'entrata dell'Italia nella moneta unica, facendo pagare alle classi popolari tutte le conseguenze di tale politica, cedendo a tutte le pressioni del padronato per imporre una deregolamentazione sociale, la flessibilità degli orari e la precarietà del posto di lavoro o per chiedere sovvenzioni e aiuti, Prodi inoltre ha potuto godere di un'eccezionale pace sociale garantita dagli apparati sindacali, dal PDS e anche, in realtà, dal PRC.

Certamente Rifondazione, con la voce di Bertinotti, cercò di mantenere l'apparenza di un partito critico nei confronti del governo, minacciando parecchie volte di non votare tale o tale provvedimento se questi non veniva modificato nell'interesse dei ceti popolari. Ma alla fine si inchinava sempre. Nella primavera del 1997 si vide anche Rifondazione votare contro il governo quando si trattò di mandare un corpo militare italiano in Albania... ma solo quando fu chiaro che Prodi avrebbe su questo punto i voti della destra e quindi che questo voto non porterebbe alla caduta del governo.

E poi, nel settembre-ottobre 1997, Bertinotti ha aperto una crisi di governo con la minaccia di non votare la legge finanziaria presentata in parlamento. La crisi fu risolta però in pochi giorni, dopo che Prodi abbia concesso a Rifondazione una promessa di legge sulle 35 ore con la quale, durante un anno ancora, il PRC ha potuto pretendere che la sua presenza nella maggioranza parlamentare permetteva di imporre al governo qualche orientamento favorevole ai lavoratori o almeno di esercitare, di fronte alle pressioni padronali, la contropressione puramente parlamentare dei deputati di Rifondazione et della minaccia di ritirare il loro sostegno.

Questo doppio linguaggio, con l'obbiettivo di mantenere il sostegno al governo pur evitando di dovere pagarlo troppo caro in discredito e delusioni dalla parte dei lavoratori, fu però di un'efficacia ben limitata. Innanzitutto, se Bertinotti riusciva bene o male a mantenere l'immagine di un avvocato parlamentare della classe operaia, il partito stesso conosceva una forte riduzione della vita militante, l'attività dei circoli locali del PRC si riduceva quasi a nulla a vantaggio solo dell'attività dei suoi rappresentanti nelle istituzioni locali, regionali o nazionali. A forza di avere solo una politica istituzionale, lo stesso Bertinotti ebbe difficoltà, nell'autunno 1997, a fare capire le sue scelte. Sembra che il suo rapido voltafaccia dopo di avere aperto la crisi del governo Prodi si spiega in parte dall'atteggiamento di una parte dell'apparato, degli eletti e anche della base del PRC, che non capivano perché Bertinotti provocava tale crisi di governo, con il rischio delle elezioni anticipate, dopo che egli stesso abbia contribuito a presentare questo governo come di sinistra, o comunque come un male minore di fronte ad un possibile ritorno delle destre al potere.

Così, nel novembre 1997, le elezioni amministrative in alcune grandi città segnarono un calo elettorale di Rifondazione a vantaggio del PDS e dell'Ulivo. Rifondazione subiva un fenomeno classico, simile per esempio all'evoluzione subita dal PCF in Francia durante le sue esperienze di collaborazione governativa con il Partito socialista. Questi aveva la parte maggiore nell'elettorato e nel governo, la politica del PCF praticamente non si distingueva più da quella del PS, e una parte degli elettori tendevano ad allontanarsi dal PCF per votare per il partito che portava avanti la stessa politica in modo più attendibile, e cioè il PS. O invece gli altri preferivano votare per altre forze politiche o rifugiarsi nell'astensione.

Nello stesso modo, Rifondazione rischiava a breve termine di ridursi ad un semplice appendice del PDS, perdendo elettori a vantaggio di questi, perdendo la sua forza militante e, alla fine, perdendo ogni possibilità di difendere una politica autonoma.

La scissione

Come Rifondazione poteva reagire di fronte alla pressione del PDS che lo trascinava, in realtà, verso l'integrazione completa ? Intorno a questa questione stava per aprirsi una breccia, in seno alla direzione del PRC, tra Bertinotti e Cossutta. Il primo, come segretario generale, e il secondo, come presidente del partito, fino a quel momento ci avevano tenuto ad affermarsi uniti e a non fare vedere alcuna divergenza. Bisogna però concludere che qualche sfaldatura permaneva dentro questo gruppo dirigente, ed aspettava solo un'occasione favorevole per esprimersi. La crisi di governo dell'autunno 1997 e le difficoltà di Bertinotti furono quest'occasione.

Infatti fu il momento scelto da Cossutta per pubblicare nella rivista del partito, "Rifondazione", un articolo critico nei confronti di Bertinotti. Pur senza disapprovare apertamente la sua politica, suggeriva di ricercare un rapporto meno conflittuale con il PDS ed un impegno più chiaro a fianco del governo. Suggeriva addirittura che, invece delle minacce periodiche di Bertinotti di ritirare il suo sostegno, si poteva casomai ricercare un patto di legislatura permettendo di ottenere qualche poltrona di ministro, e perfino fare pagare questo sostegno al PDS, per esempio con un accordo esplicito dando a Rifondazione la garanzia di controllare una parte più consistente dei posti di funzionari sindacali in seno all'apparato CGIL.

Nonostante le garanzie date periodicamente, tanto da Bertinotti quanto da Cossutta, che la coppia dirigente del partito non nutriva divergenze consistenti, veniva a galla una sfaldatura esistente sin dall'inizio nel partito. L'apparato cossuttiano che aveva fornito a Rifondazione la sua prima armatura, in realtà era ancora lì a costituire la tendenza più coerente del partito. Cossutta, uomo d'apparato che sembrava sopportare sempre più difficilmente di dovere fare i conti con Bertinotti e i suoi, cercava di appoggiarsi sulle preoccupazioni di una frazione del partito, e tra l'altro dei suoi eletti a tutti i livelli, preoccupati delle possibili conseguenze di una rottura con i DS per i futuri accordi elettorali e quindi per la loro rielezione. Di fronte alla pressione dei DS su Rifondazione, i cossuttiani sceglievano di spingere più avanti la collaborazione, a costo di negoziare qualche tornaconto.

La discussione -se c'è stata- è rimasta per mesi limitata all'ambito della direzione, lasciando la base interrogarsi in rapporto alle voci contraddittorie sulle divergenze tra Bertinotti e Cossutta e sulla loro importanza, finché si avvicini la discussione della legge finanziaria 1999 in parlamento. Allora fu chiaro che Bertinotti, all'opposto di Cossutta, aveva scelto di rispondere alla pressione dei DS col provare a differenziarsi più nettamente dal governo Prodi, a costo di radicalizzare il suo discorso.

Rinnovando l'atteggiamento dell'autunno 1997, Bertinotti fece sapere nel settembre 1998 che non intendeva votare la legge finanziaria che secondo lui confermava l'orientamento sempre più "neoliberale" del governo Prodi, il che era vero, ma lo era ancora di più per le leggi finanziarie dei due anni precedenti, ancora più drastiche ma votate da Rifondazione... Intanto Cossutta, lui, dichiarò che non poteva, col provocare la caduta del governo, prendere la responsabilità di rischiare il ritorno delle destre.

Queste furono le condizioni della preparazione della riunione del Comitato Politico Nazionale (CPN) di Rifondazione, i 3 e 4 ottobre, che doveva portare alla scissione. Si dovette scegliere tra quattro mozioni. Dei suoi 338 membri, la mozione Cossutta, che proponeva di mantenere il sostegno di Rifondazione al governo Prodi, raccolse 112 voti. La mozione Bertinotti, che proponeva di ritirare questo sostegno, ne raccolse 188, ossia la maggioranza assoluta. La mozione Patta, che si affermava "ne contro Cossutta ne contro Bertinotti", e proponeva una sintesi, difficile a dire il vero, di queste due mozioni contrapposte, raccolse 5 voti, mentre la mozione presentata dai militanti trotskisti che volevano mantenere la loro autonomia nei confronti di Bertinotti ne raccoglieva 24.

Cossutta ci aveva tenuto ad affermare, prima del voto, che qualunque fosse il risultato egli avrebbe rispettato la decisione maggioritaria. In realtà la scissione era già pronta. Già il 5 ottobre Cossutta annunciava le sue dimissioni da presidente del partito. Due giorni dopo, nel corso di una riunione dei parlamentari del partito, i 21 deputati su 35 schierati sulle posizioni di Cossutta davano annuncio che, in contraddizione con le decisioni dei 3 e 4 ottobre, essi voterebbero la finanziaria del governo Prodi. Così la maggioranza del gruppo parlamentare si metteva fuori dal partito e la domenica 11 ottobre, in un cinema di Roma, una riunione dei cossuttiani decideva di dare vita ad una nuova formazione politica : il "partito dei comunisti italiani" (PdCI).

I 21 voti dei deputati cossuttiani non hanno salvato il governo Prodi, che ha dovuto dare le dimissioni il 9 ottobre perché mancava un voto alla sua maggioranza in parlamento. Ma il nuovo PdCI è stato rapidamente ricompensato : Nel governo di Massimo D'Alema sorto finalmente da questa crisi, il PdCI ha due ministri. Ma certamente questa ricompensa istituzionale non sarà sufficiente per portare i militanti e l'elettorato di Rifondazione dalla parte della scissione.

Certo ci vorrà un po' di tempo per potere fare un bilancio della scissione : in tutto il paese i militanti e i circoli di quartiere o di fabbrica sono costretti a scegliere ed a schierarsi dalla parte di Cossutta o di Bertinotti. Sembra tuttavia che, se molti eletti di Rifondazione, non solo in parlamento ma anche nelle istituzioni locali, si sono schierati dalla parte di Cossutta, una grande maggioranza della base militante sia rimasta dalla parte di Bertinotti. La prima indicazione in questo senso è stata la manifestazione nazionale di Rifondazione il 17 ottobre a Roma : da 40000 persone secondo la polizia a 200000 secondo gli organizzatori, comunque la manifestazione è stata riuscita, numerosa, e dava un'immagine combattiva.

Quali prospettive per il PRC ?

Oggi, per i cossuttiani, la prospettiva è chiaramente di essere una piccola cricca di parlamentari e eletti facendo da cauzione di sinistra ai DS di D'Alema. Questo può durare fino alle prossime elezioni, e ci sarà allora da verificare se saranno riusciti a conservare una parte significativa dell'elettorato di Rifondazione. Se non fosse il caso, quel nuovo PdCI non avrebbe grande futuro politico, a meno che D'Alema e i DS gli diano prova di gratitudine, per esempio sotto forma di accordi elettorali assicurando in tutti i casi l'elezione di alcuni cossuttiani.

Ma di fronte, la situazione è almeno altrettanto preoccupante per Bertinotti. Dopo due anni di sostegno al governo Prodi, egli ha voluto rilanciare e darsi un'immagine di oppositore radicale nei confronti del governo. Ma al termine di questo gioco di poker, si ritrova all'opposizione, con 21 deputati in meno al parlamento e neanche la possibilità di costituire un gruppo parlamentare. L'insediamento di un governo D'Alema non corrisponde agli "equilibri più avanzati" sognati da Bertinotti, poiché non dipende più dei voti del PRC. Oltre il sostegno dei cossuttiani, D'Alema dispone in effetti al centrodestra del rinforzo parlamentare dell'UDR di Cossiga, e l'asse della maggioranza di governo si è spostato più a destra.

Bertinotti quindi non ha più mezzi per influire nel campo parlamentare. Gli resta da dimostrare che può ancora influire nel campo elettorale. Un obbiettivo del suo ritrovato radicalismo verbale è sicuramente di ricercare un buon risultato nelle prossime scadenze elettorali, e tra l'altro nelle elezioni europee del giugno 1999, in modo da dimostrare ai DS e a D'Alema che devono fare i conti con lui. Dopo la separazione dai cossuttiani, rimane con il PRC di Bertinotti una parte del vecchio elettorato operaio comunista e dei suoi militanti. Questa parte rimane da misurare più precisamente, ma è vitale. Se fosse troppo debole, questa frazione d'apparato che rimane con Bertinotti correrebbe il rischio di non aver più alcun mezzo di influire nelle contrattazioni con i DS. La minaccia esiste, tra l'altro, che il nuovo governo D'Alema imponga una riforma elettorale che, sopprimendo la parte di deputati eletti con la proporzionale -essendo gli altri eletti con il maggioritario di collegio, non lascerebbe più posto al PRC a meno di un accordo con i DS.

Bertinotti appartiene alla tradizione della sinistra italiana chiamata "movimentista" perché esalta a parole i movimenti sociali, e viene dalla sinistra demartiniana del vecchio Partito socialista, in cui si può vedere in qualche modo un erede remoto e sfiorito dei massimalisti socialisti degli anni venti, famosi per la loro capacità ad usare nello stesso tempo un linguaggio rivoluzionario ed un riformismo di fatto. Nello stesso modo, pur con un certo radicalismo verbale nei confronti del governo e del padronato, i calcoli di Bertinotti e i suoi si collocano interamente nell'ambito istituzionale. Bertinotti spera di influire solo con le elezioni, con il peso dei suoi eletti, e così rimane il rappresentante di un pezzo di apparato riformista, sorto dal vecchio PCI, che fa il possibile per difendere il piccolo posto che gli rimane all'interno del sistema politico.

I militanti rivoluzionari, i militanti operai che si pongono la questione della difesa degli interessi e dell'avvenire politico della loro classe, non possono porre la questione in questi termini. Non difendono un posto nelle istituzioni, ciò che difendono è la possibilità di portare avanti un programma, di costruire delle organizzazioni che, prima o poi, possano diventare lo strumento della classe operaia per sviluppare le sue lotte verso la presa del potere e la trasformazione socialista della società. E se rimane con Rifondazione un elettorato operaio comunista, se in questo partito rimangono dei militanti operai comunisti, non devono essere abbandonati alla prospettiva di nuovi fallimenti, di nuove delusioni con le prossime svolte della politica bertinottiana. Devono diventare un fulcro per aprire la prospettiva di un vero partito operaio rivoluzionario.

Le opposizioni in seno a Rifondazione

E' da quel punto di vista che si può giudicare le opposizioni di sinistra che si sono espresse dentro Rifondazione. La stampa ha dato grande rilievo alla minoranza trotskista, quasi fosse responsabile della caduta di Prodi, poiché i voti di una parte di questa minoranza hanno dato la maggioranza assoluta alla mozione di Bertinotti. In realtà il risultato dei voti dei 3 e 4 ottobre dimostra che Bertinotti avrebbe avuto comunque, contro Cossutta, la maggioranza sul fatto di togliere il sostegno del PRC al governo.

Comunque esiste effettivamente una minoranza trotskista in seno a Rifondazione, in maggior parte venuta dalla sezione italiana del Segretariato Unificato della Quarta Internazionale, che aveva scelto di raggiungere Democrazia Proletaria poco prima che questa organizzazione, a sua volta, decidesse di sciogliersi dentro Rifondazione comunista. Questi militanti oggi sono divisi tra quelli che, con Livio Maitan, mantengono un legame con il Segretariato Unificato, e la tendenza autonoma di Marco Ferrando che pubblica la rivista "Proposta".

Questi due gruppi sono però stati insieme all'iniziativa dell'opposizione alla politica di sostegno al governo scelta dalla maggioranza di Rifondazione.

Sono loro che, nel congresso del 1996, hanno presentato con altri oppositori la "seconda mozione" che si opponeva alla mozione maggioritaria di Bertinotti e proponeva la fine del sostegno di Rifondazione a Prodi. La "seconda mozione" ha ottenuto allora 15% dei mandati, cifra tanto più significativa che rappresentava sicuramente una frazione maggiore dell'area realmente attiva del partito. E grazie a questo risultato gode in seno al comitato nazionale di una rappresentazione proporzionale a questa cifra.

Il voto dei 3 e 4 ottobre ha segnato una frattura all'interno di questi rappresentanti della "seconda mozione" del 1996. Alcuni, intorno a Livio Maitan, hanno votato con Bertinotti e gli hanno portato 24 voti che hanno consentito alla sua mozione di raggiungere la maggioranza assoluta. Gli altri, intorno a Marco Ferrando, ci hanno tenuto -con ragione- a mantenere la loro autonomia nei confronti della maggioranza. Hanno quindi presentato la propria mozione, proponendo di togliere ogni tipo di sostegno al governo, nonché criticando il sostegno dato sin dall'inizio al governo Prodi e preoccupandosi dell'intento di Bertinotti di orientarsi verso un'opposizione "costruttiva". In effetti questo riduce la scelta del PRC di tornare all'opposizione, secondo i termini della mozione, ad un "artificio tattico" e lo espone "all'effetto di ritorno di politiche già sperimentate e già fallite". Questa "mozione Ferrando" ha ottenuto 24 voti.

Livio Maitan, rispondendo al settimanale della LCR francese "Rouge" (sezione francese del Segretariato Unificato) che gli chiedeva quanto tempo può durare la sua convergenza con Bertinotti, ha risposto solo che con Bertinotti "sulle prospettive non abbiamo ancora discusso abbastanza"... Non si può però fare finta di non vedere che, per Bertinotti, lasciare la maggioranza di governo significa solo provare a restaurare la sua immagine di partito d'opposizione per essere in una situazione migliore domani quando si tratterà di nuovo di contrattare con D'Alema e i DS. In Francia, si è visto il PCF lasciare così il governo di sinistra nel 1984, senza per tanto cambiare sostanzialmente di politica, e si potrà nello stesso modo vederlo lasciare il governo Jospin se nel prossimo periodo il suo sostegno aperto alla politica antioperaia di Jospin diventerà insostenibile nei confronti della sua base.

Da questo punto di vista, è indispensabile di preparare un'altra strada per la classe operaia, la strada di una mobilitazione intorno ai suoi obiettivi di classe e con i suoi mezzi che sono quelli dello sciopero, della manifestazione, della lotta di classe e non del sostegno ad un governo borghese. Preparare quest'altra strada esige un'autonomia politica assoluta nei confronti di Bertinotti, ed è deplorevole che i militanti che si riferiscono al Segretariato Unificato non lo capiscano.

Invece, è bene che ci siano militanti in seno a Rifondazione, la sua direzione inclusa, ad affermare tale necessità. Però ad affermarlo solo da dentro, c'è il rischio che questi militanti siano visibili solo dai militanti di Rifondazione, e forse neanche da tutti. E questo comporta il rischio di rimanere solo l'estrema-sinistra del "movimentista" Bertinotti, o in qualche modo i suoi "massimalisti".

Certamente, per i militanti che cercano di costruire un partito rivoluzionario operaio in un paese come l'Italia, è indispensabile di avere una politica per provare ad influenzare i militanti operai sinceramente comunisti che oggi ancora si ritrovano nelle file di Rifondazione anche se qualche volta hanno qualche perplessità riguardo alla sua politica. Si può anche capire che alcuni provino a farlo dall'interno di questa organizzazione, almeno per un certo periodo. Ma non si può costruire un'organizzazione rivoluzionaria, radicarla, temprare i suoi militanti e la sua politica, se si rimane per un tempo indeterminato solo una tendenza di un partito come Rifondazione, anche se questa tendenza porta avanti un giusto programma politico. E anche se qualche volta questa tendenza riesce ad avere qualche riscontro nelle colonne dei giornali perché i suoi voti nel comitato nazionale del partito hanno avuto qualche ruolo, questo non è sufficiente per farne una tendenza realmente presente, vista dai lavoratori e in grado di conquistare veramente un'influenza tra loro.

Prima, cercare di influenzare solo dall'interno i militanti di un partito come Rifondazione è necessariamente limitato : questo priva della possibilità di influenzare tutti gli altri, quelli che seguono i DS o altre organizzazioni, e innanzitutto gli operai di base. Ma questo priva anche della possibilità di influenzare gli stessi militanti di Rifondazione col dimostrare il valore del programma rivoluzionario per rivolgersi all'insieme della classe operaia.

E comunque è per l'insieme della classe operaia, per l'insieme dei suoi militanti, siano essi aderenti di Rifondazione o meno, che bisogna difendere questo programma. Bertinotti, Cossutta e anche D'Alema si dimenano, in direzioni opposte per il momento, perché l'effetto della loro politica è di screditarli nei confronti della classe operaia. Ma tale discredito non porta meccanicamente ad un rinforzo delle idee rivoluzionarie. Può anche giovare alla destra o addirittura a forze d'estrema-destra o demagoghi regionalisti del tipo della Lega Nord, che tutti contano su questo inevitabile discredito della sinistra al governo.

Allora è indispensabile e urgente che l'orientamento verso una vera opposizione di classe, capace prima o poi di aprire una prospettiva rivoluzionaria, sia difesa chiaramente di fronte all'insieme della classe operaia. Altrimenti c'è il rischio che l'esperienza vissuta dalla classe operaia, vedendo i partiti di sinistra al potere in Italia, abbia come risultato la demoralizzazione ed una spinta a destra e non una vera presa di coscienza ed un raggruppamento dei lavoratori più coscienti intorno ad un partito ed un programma rivoluzionari.