Crisi finanziaria : la fuga in avanti

Εκτύπωση
Da "Lutte de classe" n° 37 (Crisi finanziaria : la fuga in avanti)
23 settembre 1998

Solo un anno fa, in seguito al crollo della valuta tailandese nel luglio del 1997, una crisi finanziaria è scoppiata nel Sud-est asiatico, provocando un'onda d'urto che ha colpito tutte le piazze finanziarie del mondo. Prima che si potesse però veramente valutarne i danni (senza pensare neppure di porvi rimedio), un altro colpo ha già colpito il sistema finanziario mondiale. Questa volta, è stato il crollo del rublo russo, verso la metà di agosto, a fare da detonatore.

Ovviamente, i problemi economici nascosti dietro il crollo delle valute tailandese e russa erano molto diversi, sia per la loro natura che per la loro importanza. Malgrado queste differenze, il meccanismo che ha accelerato il crollo finanziario è stato simile nei due casi, cioè una speculazione su vasta scala contro la valuta locale. Simile è stata anche l'onda d'urto che è seguita, e il modo in cui ha colpito i mercati borsistici attraverso il mondo intero, compreso nei paesi ricchi. Quest'onda d'urto ha intaccato anche le economie di alcuni paesi più poveri.

Le grandi differenze tra queste due crisi, se vogliamo escludere quelle legate ai problemi economici sottostanti dei paesi interessati, riguardano la velocità con la quale la tempesta della Borsa si è propagata. Tra la caduta iniziale del rublo il 17 agosto, e i 512 punti di ribasso del Dow Jones a New York il 31 agosto, sono passate solo due settimane. Invece, nel 1997, passarono più di 3 mesi tra il crollo del baht tailandese in luglio e la caduta di 554 punti che ne derivò, il 27 ottobre a New York.

Ma per quanto riguarda i meccanismi attraverso i quali questa crisi ha colpito il sistema finanziario mondiale, essi sono senza nessun dubbio identici. Oggigiorno, sono pochi gli specialisti in economia che continuano a negare il ruolo decisivo giocato nell'elaborazione e nella propagazione di queste crisi dai movimenti incontrollati e incontrollabili dei capitali che galleggiano da un posto all'altro su scala internazionale. Infatti, la maggior parte degli "esperti" hanno persino riconosciuto (non senza reticenze) che la prolungata crisi finanziaria nel Sud-Est asiatico e l'onda d'urto mandata per tutto il mondo dalla caduta del rublo, sono due tappe strettamente legate di uno stesso processo. E' dunque solo la loro servilità nei confronti del sistema capitalistico che gli impedisce di trarre l'unica conclusione possibile.

Perché è chiaro che questi movimenti da bilanciere del sistema finanziario sono casuali. Sono semplici "correzioni", come ad alcuni piace chiamarli ? Forse.

Dal punto di vista dell'economia capitalistica, le crisi, perfino quelle che colpiscono la produzione, perfino quelle più gravi, sono solo "correzioni" con le quali l'offerta capitalistica si adegua, a posteriori, alla domanda solvibile. Le crisi sono il mezzo "normale" di regolazione di una economia irrazionale.

La crisi finanziaria attuale sboccherà in una crisi di produzione ? In un certo senso, è già successo nel Sud-Est asiatico. Si diffonderà sotto questa forma ? La domanda rimane ancora aperta. Perfino in quanto semplice "correzione" dell'impeto finanziario, la crisi attuale è una tra le maglie di una catena di crisi dello stesso genere, che periodicamente colpiscono la finanza mondiale da 25 anni. E ogni volta che questi movimenti da bilanciere raggiungono un punto critico, rivestendo la forma di una crisi simile a quelle partite dal Sud-Est asiatico o dalla Russia, possono essere frenati solo peggiorando sempre più gli squilibri suscettibili di provocare o di alimentare la crisi successiva, rendendo così sempre meno controllabili queste crisi.

Dalla Tailandia alla Russia

Che rapporto c'è tra i detonatori delle due crisi - quella Tailandese del 1997 e quella russa del 1998 ? Quali sono i punti comuni e quali le differenze ?

In Tailandia, come nella maggior parte dei paesi del Sud-Est asiatico, una "bolla" finanziaria artificiale si è sviluppata negli anni Novanta. Questa "bolla" è stata alimentata dai capitali speculativi internazionali, attirati da una valuta stabile indicizzata sul dollaro americano, una mano d'opera a buon mercato, una regolamentazione poco costrittiva e soprattutto, la prospettiva di fare guadagni importanti. In quei paesi, l'afflusso di capitali si è tradotto con la possibilità di prestiti a breve termine (ad alto prezzo, ovviamente) che sembravano inesauribili e hanno alimentato una frenesia speculativa, in modo particolare nel settore immobiliare. I progetti di infrastrutture grandiose si sono moltiplicati, a grande profitto delle multinazionali del genio civile ed industriale. Ma questi progetti non corrispondevano molto ai bisogni delle economie locali e presto si sono ritrovati senza acquirenti, generando così una montagna crescente di crediti "incerti", cioè crediti concernenti debitori insolvibili, che non avevano più neanche il valore della carta sulla quale erano scritti. Alla fine, il punto critico è stato raggiunto quando i gestori dei fondi di investimento internazionali hanno stimato che era ora per loro di ritirarsi dal gioco, possibilmente cogliendo qualche profitto al volo, il che ha precipitato il crollo.

Nel caso della Russia invece, la prospettiva di realizzare dei buoni affari e di trovare nuovi sbocchi, che l'introduzione del mercato capitalistico si riteneva in grado di promettere, ha attirato all'inizio solo una quantità molto limitata di capitali. Il caos provocato dall'impatto combinato del frazionamento dell'URSS da una parte e dal dominio di bande rivali della burocrazia sull'economia dall'altra, ha condotto al disastro economico. I buoni affari si sono rivelati limitati e i nuovi sbocchi illusori. Lungi dal fare miracoli e dal dare la prosperità al popolo russo, come l'avevano promesso i media occidentali, l'introduzione dei meccanismi del mercato capitalistico, ha solo reso ancora più disastroso il saccheggio dell'economia da parte della burocrazia.

Quello che in realtà ha attirato una grossa quantità di capitali speculativi in Russia, è stata la creazione nel marzo 1995, di un nuovo tipo di credito di Stato, con il sostegno entusiasta del FMI e la promessa di altri prestiti internazionali sotto la sua garanzia. Per questo, invece di finanziare un relativo sviluppo economico (benché artificiale), come nel caso del Sud-Est asiatico, i capitali speculativi in Russia non hanno fatto altro che dare ai diversi organismi ed appendici dell'apparato di Stato, il credito e le valute straniere di cui avevano bisogno per colmare, almeno temporaneamente, i loro enormi crescenti deficit. Siccome nessuna nuova risorsa è stata trovata per colmare questi deficit (per causa dell'incapacità dello Stato centrale di fare applicare il suo codice fiscale e per causa della persistente degradazione dell'economia), questi deficit sono diventati abissali.

E' allora che gli speculatori (russi e stranieri del resto), hanno cominciato a scommettere sulla caduta del corso delle azioni e dei crediti di Stato, e a ritirare i loro capitali. L'aprile scorso la stampa rapportava le grosse vendite di obbligazioni e soprattutto di crediti del tesoro. A maggio, un tentativo di vendere in borsa il 75 % del capitale di Rosnet, l'ultima grande compagnia dello Stato centrale, è stato un vero fallimento. Alla fine del mese, Eltsin ha fatto adottare una serie di tagli netti nelle spese pubbliche, mentre la banca di Stato triplicava alcuni dei suoi tassi d'interesse di base, ma senza risultato.

A luglio, il FMI è intervenuto, prevedendo un progetto finanziario d'aiuto di un importo di 22,6 miliardi di dollari, il terzo più grande progetto di questo tipo mai realizzato dal FMI. Ma anche questo tentativo di sostenere lo Stato russo si è rivelato vano. Alla metà di agosto, il governo rinunciava a mantenere una parità fissa del rublo rispetto al dollaro. E il 17 agosto, annunciava che avrebbe lasciato il corso del rublo "fluttuare" all'interno di un ampio margine, il che equivaleva ad una svalutazione di fatto del rublo, del 34 % rispetto al dollaro. Allo stesso tempo, il potere sospendeva il mercato dei buoni di credito dello Stato a breve termine e annunciava un moratorio di 90 giorni su tutto il pagamento o il rimborso del debito esterno.

Questo fatto non ha impedito, solo 9 giorni più tardi, alla borsa russa di subire una nuova caduta del 10 %, il 26 agosto, mentre il rublo si avvicinava pericolosamente al valore base che gli era stato fissato. Questo poteva essere il colpo di grazia per molte banche russe, già rose di debiti esterni che aumentavano considerevolmente. Per far fronte alle necessità più urgenti, il governo autorizzava le banche ad utilizzare una parte delle loro riserve obbligatorie per onorare i pagamenti immediati. Ma in realtà, le banche scambiarono la maggior parte di queste liquidità con dei dollari, spingendo così il rublo ancora più in basso. Questo fece decidere al governo di utilizzare misure ancore più drastiche, il giorno seguente. Non solo la banca centrale sospese la convertibilità del rublo in dollari, ma essa annunciò lo scambio obbligatorio dei buoni del tesoro a breve termine (che rendevano degli interessi vertiginosi) con nuovi crediti a lungo termine con un tasso di interesse molto più basso. In realtà, questo significava che lo Stato russo rifiutava di pagare una parte del suo debito, dissimulando une bancarotta parziale.

Così, anche se l'aspetto finale delle crisi tailandese e russa è stato simile (una crisi monetaria), i meccanismi che le hanno prodotte sono stati molto differenti, malgrado l'etichetta comune di "mercati emergenti" che i mass media occidentali applicavano abitualmente per questi due paesi.

Questo non ha nulla di sorprendente, perché in realtà questa etichetta di "mercato emergente" era destinata proprio a destare confusione e illusione, piuttosto che a descrivere la realtà. Era già un inganno catalogare così paesi del Terzo mondo come quelli dell'Asia del Sud-est. Perché, contrariamente a quello che questa etichetta lasciava intendere, il limitato sviluppo industriale che hanno conosciuto questi paesi fino all'anno scorso, non ha mai lasciato loro la minima possibilità di costruire un'economia industriale a sé stante, senza parlare poi di raggiungere i livelli dei paesi ricchi. Nel caso della Russia e della sua economia in rovina, questa etichetta era perfino una burla, come lo sottolinea per esempio una stima degli investimenti occidentali in Russia, pubblicata dal Financial Times del 28 agosto : su un totale di 205 miliardi di dollari, solo 11 miliardi erano costituiti da azioni e beni nell'economia reale ; il resto, cioè il 95 % del capitale occidentale "investito" in Russia, era costituito di prestiti e altri buoni di credito. In realtà, la Russia non aveva, e ancora non ha, un vero e proprio mercato per i capitali, neanche del tipo limitato di quello che esisteva nei paesi dell'Asia del Sud-Est prima degli anni 90. Invece di parlare di "mercato emergente", a proposito della Russia, sarebbe stato più appropriato parlare di "mercato inesistente".

In fin dei conti, il solo tratto comune tra la crisi asiatica e quella russa, è stato il ruolo giocato dai capitali flottanti internazionali, che hanno accelerato il crollo finanziario e precipitato la crisi nei due casi.

I colpevoli sono a Mosca o a Tokio ?

In realtà, la caduta generale dei mercati borsistici in tutto il mondo, il 31 agosto ed il giorno seguente, è successa dopo un ribasso abbastanza lungo, benché più lento, che è stato accelerato brevemente dal crollo del rublo. Nel caso del Sud-Est asiatico e dell'America latina, questo crollo è cominciato nei mesi di marzo ed aprile, rappresentando a metà settembre, una caduta del 18 % in Giappone, del 34 % in Hong Kong e del 61 % in Brasile. Nei paesi ricchi d'Occidente, il ribasso è cominciato dal mese di luglio. A New York, per esempio, le azioni avevano già perso il 14 % del loro valore prima che si producesse il ribasso più brutale del 31 agosto. In altri termini, invece di essere stata veramente scatenata dal crollo del rublo, l'onda d'urto che è passata sui mercati borsistici del mondo intero, si è propagata in modo parallelo al crollo finale del rublo, anticipando il suo esito ed amplificando nello stesso tempo il suo impatto all'esterno della Russia.

Ma, almeno in un primo tempo, ciò non ha impedito agli "esperti" economici di biasimare i politici russi per la loro "gestione sbagliata" dell'economia, ossia per la loro "nostalgia" dell'epoca dell'Unione Sovietica (accusa tanto più ridicola che nessuno tra questi politici russi penserebbe di abbandonare di sua propria iniziativa i vantaggi significativi che l'introduzione del mercato ha offerto ai ceti privilegiati ai quali appartengono !).

Per esempio, il settimanale del mondo degli affari britannico The Economist ha utilizzato uno strano sotterfugio in un editoriale del 5 settembre : "benché le sofferenze economiche che colpiscono la Russia e gli ex-Tigri (del Sud-Est asiatico) siano sproporzionate rispetto agli errori politici dei loro governi, il fatto è che la loro vulnerabilità alla crisi finanziaria è stata creata non dagli speculatori internazionali ed altri spauracchi, ma da una sorveglianza negligente delle finanze interne private, pubbliche e semipubbliche".

In altri termini, non c'è niente di male nel fatto che gli speculatori (cioè i capitalisti in generale, perché la speculazione è una caratteristica inerente alla finanza capitalistica) cerchino ad estorcere profitti a spese di economie più deboli, anche se ciò significa precipitarle nella crisi e la recessione ! Dal punto di vista capitalistico - ovviamente quello di The Economist - il ragionamento soggiacente è infallibile : se si ammette che la libera circolazione dei capitali attraverso il mondo è parte integrante del funzionamento capitalistico normale, non si può mai rimproverare agli speculatori, le conseguenze dei loro maneggi. Tocca a tutti gli altri prendere in conto i pericoli della speculazione ed imparare a vivere con essa, anticipando il suo impatto distruttore ! Non si può descrivere meglio la vera faccia del capitalismo : la legge della giungla. Ma a questo punto, bisognerebbe anche dire che, poiché il furto è anche lui parte integrante di ogni società basata sulla proprietà privata, invece di mettere i ladri in carcere, si dovrebbero condannare le loro vittime per essersi lasciate rubare...

Tuttavia, rimproverare alle vittime i loro guai e le conseguenze per l'economia mondiale, non sembra molto credibile, tanto meno quando si tratta della Russia. Dopo tutto, come lo nota un articolo in prima pagina del quotidiano francese Le Monde, "La Russia, fortunatamente, non è in grado di diffondere forte perturbazioni economiche verso l'Occidente, poiché ci ha reso il servizio di rifiutare in gran parte il suo inserimento nel mercato mondiale". Questo è senza dubbio un commento giusto della situazione, visto il volume comparativamente assai debole del commercio e degli scambi finanziari tra Russia ed Occidente. La recente onda d'urto e la minaccia per l'avvenire, provengono dunque per forza da un' altra parte. E siccome per l'autore di questo articolo, Alexandre Adler - un ex membro del Partito Comunista Francese diventato anticomunista ed avvocato zelato del capitalismo - il pericolo non può risultare dallo stesso sistema capitalistico, deve arrivare dal... Giappone.

Questa teoria alternativa dei "colpevoli" giapponesi ha trovato infatti numerosi sostenitori. In un'intervista ad un giornale giapponese pubblicata nella prima settimana di settembre, Henry Kaufman, ex responsabile delle analisi economiche nella banca d'affari Salomon Brothers (uno tra i più grossi giocatori della speculazione mondiale), ha spiegato così il crollo russo e la tempesta finanziaria mondiale che ne risultò, in particolare il crollo brutale dello yen rispetto al dollaro : "dietro la crisi russa, la causa principale era la situazione in Giappone. L'importo dei crediti poco sicuri delle istituzioni finanziarie giapponesi sembra essere arrivato a mille miliardi di dollari (...) Siccome i tassi d'interesse sono molto deboli in Giappone, gli investitori, in tutto il mondo, compravano obbligazioni russe, prendendo yen in prestito. Confrontati alla crisi russa, le hanno vendute (...) Hanno rimborsato i prestiti in yen, e questo ha spinto verso il basso il valore dello yen". E dunque colpa del governo giapponese, che ha fissato tassi di interesse così bassi (0,5 % Oggigiorno). Ma invece di fermare qui il suo ragionamento, il che è un po troppo facile, Kaufman avrebbe potuto spiegare l'origine dei tassi di interesse ridicoli in Giappone e di questi colossali "crediti poco sicuri" : da una parte, la speculazione permanente sulle valute, che consuma le finanze giapponese, e dall'altra la crisi bancaria ereditata dallo scoppio di un'altra "bolla" di speculazione, nel 1990.

Ovviamente, nessuno può negare che un crollo in Giappone rappresenterebbe per l'economia mondiale, una minaccia molto più grande del crollo del rublo in Russia. Ma, qualunque sia il modo in cui si guarda il problema, e a prescindere dalla politica del suo governo, il Giappone si rivela anche esso vulnerabile e sottomesso alla rapacità dei gestori di fondi internazionali e di altri speculatori capitalistici, cioè vulnerabile ai danni che il capitalismo provoca sulla sua strada.

Una nuova maglia in una catena di crisi

Perfino The Economist è stato costretto di ammettere, dopo la crisi russa, che "la malattia cominciata in Asia continua a propagarsi, facendo vittime lontano da dove è iniziata. Gli investitori non trovano tempo per fare il conto delle loro perdite, occupati come sono a cercare di indovinare dove il flagello colpirà di nuovo". Come sempre, The Economist lascia la buona parte agli "investitori", cioè ai veri e propri capitalisti, essendo pochi i piccoli investitori capaci di giocare sui cosiddetti mercati "emergenti". Non importa per esempio, il fatto che uno tra i "grandi perdenti" nella crisi russa, il famoso speculatore George Soros, abbia realizzato profitti con i suoi altri investimenti, che rappresentano il doppio delle sue perdite in Russia. Neppure importa il fatto che, benché i possessori di azioni quotate in borsa a New York abbiano perso quasi tutti i loro guadagni dal gennaio scorso, essi possano sempre arrangiarsi con quelli, importanti, che hanno accumulato durante i tre anni precedenti, in cui il corso delle azioni era raddoppiato a Wall Street. Gli "investitori" se la cavano proprio bene !

The Economist ammette però che le tempeste borsistiche che hanno seguito la crisi russa e quella del Sud-Est asiatico fanno parte della stessa crisi finanziaria prolungata e che si può pensare che ci saranno altri scoppi in questa catena di crisi.

Si può risalire il filo che lega le crisi del Sud-Est asiatico e di Russia fino agli anni ottanta (pur avendo in mente il fatto che la fine dell'espansione capitalistica e le due prime crisi, quella del sistema monetario internazionale e quella del petrolio, risalgono tutte due ai primi anni del settanta). In quel periodo, i capitalisti ricercavano nuovi mezzi per fare profitti veloci in un contesto in cui la crisi generale del sistema capitalistico rendeva l'investimento produttivo più insicuro e meno redditizio. La deregolamentazione finanziaria introdotta durante questo decennio nei principali paesi occidentali ha incrementato la velocità delle transazioni finanziarie, diminuito i costi fissi che gravavano su queste transazioni, sopprimendo gli intermediari, e ha creato nuovi mezzi di incanalare una parte sempre più grande dei capitali in operazioni speculative. Da questi cambiamenti, risultarono gli attuali giganteschi fondi di pensioni e di investimenti, che costituiscono il più dei capitali "flottanti" che navigano continuamente in tutto il mondo, in cerca di investimenti ad alto reddito ed a breve termine, per fare facili guadagni.

Il volume di questi fondi può a volte essere paragonato a quello del bilancio statale di grandi paesi. Per esempio, il fondo di investimento più importante del mondo, la società americana Fidelity Investment, gestisce il corrispettivo di oltre 3500 miliardi di franchi, che rappresentano più del doppio del bilancio dello Stato in Francia. E i dieci più grandi fondi del mondo gestiscono un totale che rappresenta più di tre volte il valore della produzione annua di un paese come l'Inghilterra. Con tali quantità di capitali disponibili, che possono spostarsi in un attimo da un capo all'altro del pianeta usando le reti informatici, i gestori dei grandi fondi possono infatti sconvolgere l'equilibrio finanziario della maggior parte dei piccoli paesi, e addirittura a volte quello dei più ricchi, come lo ha dimostrato l'onda speculativa che ha costretto la sterlina inglese ad uscire dal Sistema Monetario Europeo nel 1992.

Lo scoppio della "bolla" speculativa in Giappone, nel 1990, sembra essere stato la prima maglia nella catena di crisi attuali. A differenza delle crisi più recenti, questa non ha preso la forma di un crollo monetario (benché lo yen ne sia uscito proprio in brutte condizioni), e non ha neanche provocato una tempesta significativa sui mercati finanziari, fuori dal Giappone. Ma si è tradotta con enormi uscite di capitali verso il resto del mondo, e in particolare diretti verso i paesi del resto dell'Asia del Sud-Est. Questo flusso di capitali ha stimolato la "bolla" speculativa che è finalmente scoppiata l'anno scorso in questa regione.E in questo senso, si può dire che la crisi del 1990 in Giappone ha innescato la bomba che è finalmente scoppiata in Asia del Sud-Est, nel 1997.

L'episodio successivo si è prodotto nel dicembre 1994, col crollo del peso messicano. Quando la pressione speculativa ha costretto il governo messicano a svalutare il peso del 15 %, i gestori di fondi, in particolare i gestori di fondi di pensione e di investimenti americani, che avevano fatto notevoli profitti prestando soldi al governo messicano con un alto tasso di interesse, si sono ritirati in un movimento di panico. Hanno così precipitato il crollo del peso, che ha perso il 30 % del suo valore, molto più dei 15 % annunciati. Nello stesso momento, alcune valute di paesi del terzo mondo hanno subito cadute importanti. Siccome il debito pubblico e privato del Messico era soprattutto costituito di dollari americani, dopo alcuni giorni, il paese si è ritrovato con una montagna di debiti gonfiatasi in modo smisurato. Il Messico ha evitato la bancarotta solo grazie a un montaggio finanziario di soccorso di 50 miliardi di dollari, che Clinton e il FMI misero a posto per proteggere i prestatori americani.

Questi capitali "galleggianti" che avevano precipitato la crisi in Messico e l'avevano condotto vicino alla bancarotta, se ne sono andati altrove, in Asia del Sud-Est e in altri paesi dell'America latina. Tra il 1994 ed il 1996, nei cinque paesi del Sud-Est asiatico più colpiti dalla crisi dell'anno scorso, i nuovi prestiti bancari (tanto quelli a breve termine quanto quelli a lungo termine) hanno aumentato del 138 % , gli investimenti in azioni del 50 % e gli investimenti in crediti a breve termine del 845 % !

Alimentata dal flusso di capitale flottante delle crisi giapponese e messicana, una nuova "bolla" finanziaria è cominciata a prendere proporzioni preoccupanti in Asia del Sud- Est, prima di scoppiare due anni più tardi, devastando tutta la regione. Nel frattempo, altri gestori di fondi, o gli stessi, affluivano verso la Russia, offrendo di completare i prestiti e gli investimenti a lungo termine concessi con parsimonia dalle potenze occidentali, con una quantità enorme di prestiti a breve termine ben più costosi. Ma tre anni più tardi, questa invasione di capitali speculativi si è finalmente rivelata incapace di nascondere il deficit crescente dello Stato e ha precipitato il crollo del rublo.

Questa catena di crisi può solo continuare a generare altre crisi altrove, perché il suo meccanismo principale sta nello spostamento della causa della malattia (i capitali in cerca di investimenti redditizi) da zone ammalate verso quelle che lo sono relativamente meno. Il flagello non può dunque fare altro che continuare a propagarsi più lontano e, siccome le regioni "sane" diventano nello stesso tempo più rare e meno sane, la malattia può solo diventare sempre più distruttivo.

Il problema del controllo dei capitali

Una volta, appena qualche mese fa, il direttore generale del FMI Camdessus parlava della crisi del Sud-Est asiatico come di una "benedizione travestita" perché costringeva i paesi toccati dalla crisi ad applicare le misure liberali che il FMI esigeva.Quell'epoca sembra oggi passata. In un'intervista al giornale padronale francese Les Echos, pubblicata il 14 settembre, Camdessus adotta un linguaggio molto diverso : "sto per suonare la campana : bisogna subito prepararsi per la prossima crisi".

Qualche giorno prima, in California, Alan Greenspan, il presidente della Riserva Federale americana, dava l'allarme a suo modo : "non si può credere che gli Stati Uniti possano rimanere un'oasi di prosperità non toccata da un mondo che subisce une tensione molto aumentata (...) Man mano che aumenta la disgregazione, che agisce per contraccolpo sui nostri mercati, è verosimile che le costrizioni si moltiplicheranno". Nello stesso tempo, un altro dirigente finanziario americano spiegava con una palese ansia che solo metà dei fondi ritirati dai mercati borsistici americani dalla fine del mese di agosto, erano stati reinvestiti in buoni del Tesoro - il che significa che l'altra metà è probabilmente stata reinvestita nella speculazione a breve termine sui mercati monetari, preparando forse così nuove rovine su questi mercati, per le settimane o i mesi futuri. E' veramente finito il tempo in cui i dirigenti americani dell'economia si rallegravano della buona salute dei "fondamenti" dell'economia americana, come se fossero un baluardo contro la tormenta finanziaria in Asia.

Infatti, la situazione sembra tanto allarmante agli esperti, che la stampa degli ambienti d'affari è ormai piena di articoli sul controllo dei capitali - pro o contro. Perfino il Financial Times, seguace sfegatato del liberalismo, spiega a proposito dei controlli sui movimenti di capitali imposti il primo di settembre dal governo di Malesia che, benché questo sembri "una parolaccia nell'ortodossia finanziaria di oggi", bisogna considerare come una scelta possibile l'instaurazione di tali controlli in alcuni paesi in cui "movimenti senza intralci di capitali possono avere effetti devastanti".

I cervelli del grande capitali parlano anche loro della necessità di un controllo o di una regolazione. Ma dirlo è una cosa. Disciplinare il flusso mondiale dei capitali speculativi è tutt'altra cosa. Infatti, tenendo conto dell'internazionalizzazione del processo col quale le classi capitalistiche dei paesi ricchi fanno i loro profitti, dominare il giro di valzer dei capitali flottanti, significherebbe effettivamente ridurre i profitti finanziari di questi borghesi. Orbene, questi sono diventati un elemento importante nel bilancio di tutte queste grande compagnie, compreso quelle che intervengono solo nella produzione o nel commercio. Queste borghesie e i loro governi, certamente non sarebbero d'accordo con tali misure nella situazione attuale. Al massimo potrebbero tollerare un ritorno ai controlli statali limitati, ma solo se questi non attentassero alla loro libertà di fare profitti, cioè se fossero completamente inoperanti.

Quelli che difendono il controllo dei capitali e altre misure simile per rendere il capitale più "civilizzato" (cioè meno rovinato dalle crisi) sono presi in questo modo in una contradizione insolubile. Quello che difendono è la dissimulazione delle brecce aperte del sistema, allorché è il sistema stesso, e non solo le sue brecce, che costituisce il problema.

Il FMI : vigile del fuoco o incendiario?

La discussione a proposito dei controlli sui capitali è ovviamente legata a quella sull'intervento del FMI che, nel caso della Russia, si è rivelato del tutto inutile, malgrado il tentativo del FMI di prevenire una possibile caduta del rublo, invece di intervenire una volta fatti i danni.

In un'intervista pubblicata il 7 settembre, Fisher, vicedirettore del FMI, ammetteva con una specie di ingenuità, l'impotenza della sua organizzazione : "gli speculatori internazionali, gli speculatori della mafia finanziaria si sono messi a vendere rubli russi (...) Si preoccupavano solo dei loro profitti, sapendo che la loro vendita poteva provocare una reazione a catena sui mercati finanziari mondiali (...) Il FMI non può pretendere che questi speculatori siano la causa del male, dato che il FMI difende il liberalismo". Poi, prendendosela con lo speculatore George Soros, Fisher aggiungeva con amarezza : "Il sig. Soros non ha anticipato la crisi e la caduta mondiale dei mercati borsistici. Il sig. Soros avrebbe perso 2 miliardi di dollari in questa crisi. E' colpa sua. Ha dato fuoco alla Russia e ha fatto fallire l'aiuto finanziario del mondo libero. Senza il suo intervento, il nostro aiuto alla Russia avrebbe funzionato in modo efficace".

Che Soros sia stato veramente responsabile da solo del fallimento del prestito di soccorso del FMI (perché ha raccomandato per primo pubblicamente una svalutazione del rublo) è certamente discutibile. Ma il fatto che un alto funzionario del FMI ammetta pubblicamente, con una frustrazione così ovvia, la paralisi di questa potente istituzione di fronte agli speculatori, mostra ovviamente che il FMI non è in grado né di fermare né soprattutto di anticipare nuove crisi finanziarie provocate dai capitali fluttuanti internazionali.

Il FMI gioca la parte del regolatore per il grande capitale internazionale. Ma ha soprattutto tappato le brecce, per proteggere il sistema bancario internazionale, cioè quello dei paesi ricchi, contro altri danni maggiori. Per quanto riguarda i paesi poveri che si trovavano al centro della tempesta, il prezzo pagato è stato alto, come lo hanno dimostrato le recenti sommosse di fame in Indonesia.

Il FMI non solo è paralizzato di fronte alla speculazione, ma i suoi interventi hanno infatti sviluppato l'interesse degli speculatori per i rischi redditizi. Se i gestori di fondi hanno tratto una lezione dalla crisi messicana del 1994-1995, non è quella di dover essere più prudenti d'ora in poi riguardo ai danni che i loro maneggi potrebbero provocare nei paesi in cui investono il denaro. Al contrario, l'aiuto di 50 miliardi di dollari del FMI ha mostrato loro che, qualunque sia l'imprudenza dei loro atti, le agenzie internazionali dell'imperialismo saranno sempre lì per rinsanguare le loro vittime nelle istituzioni finanziarie e perfino loro stessi se necessario. Poiché non hanno cura delle conseguenze umane e sociali delle loro scommesse, tutto quello che gli speculatori hanno bisogno di sapere è che lo scheletro finanziario del paese che prendono a bersaglio sarà protetto dal FMI, abbastanza in tutti i casi perché questo paese possa pagare i suoi debiti. Con una tale garanzia, perché gli speculatori dovrebbero privarsi di qualche miliardo in più grazie ad una scommessa sul crollo di una valuta ?

Ma inoltre, ci sono altre conseguenze nel fatto di rinsanguare i fondi di investimento, le banche, ecc, dopo il crollo della "bolla" speculativa, iniettando decine di miliardi di franchi nella sfera finanziaria, come lo fa il FMI. Perché infatti ciò equivale al fatto di sostituire con dei soldi un valore che non era mai esistito, se non sulla carta, nell'illusione creata dalla vampata speculativa, ma senza corrispettivo nell'economia reale. Queste decine di miliardi messe in circolazione non sono dunque niente altro che moneta falsa. Così, non solo gli Stati che finanziano il FMI sovvenzionano gli speculatori, ma alimentano anche l'inflazione mondiale, accumulando in questo modo i fattori di squilibrio per la prossima crisi.

Quale sarà la prossima tappa ?

Ormai gli esperti economici non considerano più la prossima crisi come una lontana possibilità. Secondo lo stesso FMI, è già in gestazione, solo qualche settimana dopo il crollo in Russia, questa volta in America del Sud. Il Brasile, dice il FMI, ha già mostrato segni di esaurimento. Il suo mercato borsistico è calato presto. Alti tassi d'interesse, vicino al 50 %, non sono riusciti ad impedire la fuga dei capitali, dato che dall'inizio di settembre si stima che un miliardo di dollari lasci il paese ogni giorno. La valuta del Brasile, che è indicizzata sul dollaro, riesce a mantenersi solo con prestiti a breve termine molto costosi. Tutti gli ingredienti per un crollo monetario sono riuniti, in un paese che è di gran lunga il più grande dell'America del Sud e per di più strettamente dipendente dalle banche americane. Di questo derivano i messaggi d'allarme lanciati dai dirigenti del FMI.

Nessuno può dire con certezza cosa uscirà dalla crisi russa, né se il Brasile sarà la prossima maglia della catena di crisi finanziarie, e se questo si produce, quale sarà l'impatto di questa nuova crisi, così vicina alla precedente.

Ma anche se questa nuova crisi non si materializza a breve termine, le crisi passate hanno già fatto danni aldilà del mondo astratto della finanza. In Asia del Sud- Est, il costo umano della crisi, in termini di disoccupazione, di impoverimento e perfino di carestia, è già enorme. L'economia reale è stata colpita notevolmente. In tutta la regione, un gran numero di fabbriche, di uffici, ecc., sono stati chiusi, spesso smantellati, perché la caduta della valuta nazionale e la contrazione del credito provocate dalla crisi rendono impossibile l'acquisto di pezzi di ricambio o di materie prime, il rinnovamento delle macchine o solo il farsi una clientela. E siccome non è molto verosimile che le condizioni migliorino in un avvenire prevedibile, il più delle fabbriche e delle torri di uffici probabilmente saranno abbandonati, marciranno vicino ad autostrade, ospedali, stabilimenti di risanamento delle acque e centrali elettrici incompiuti o paralizzati, perché lo Stato non ha più i mezzi per finanziarne la costruzione, e addirittura il funzionamento. E perfino probabile che nei più poveri fra questi paesi, come l'Indonesia o la Tailandia, questa distruzione di forze produttive faccia regredire l'economia di tanto, fino a quello che era ben prima che nessuno si immagini di parlare di "mercati emergenti".

Ed anche se il Brasile riuscisse, con o senza l'aiuto del FMI, a evitare il crollo, trovando il modo di incitare i capitali speculativi a rimanere (ad un costo esorbitante), facendo in modo di sorpassare l'inevitabile penuria di credito, le conseguenze sarebbero meno brutali di quelle di una crisi aperta, ma implicherebbero un rallentamento notevole dell'economia che colpirebbe anche i principali partner commerciali del Brasile in America del Sud, l'Argentina in particolare. Per di più, in un paese così povero come il Brasile, tale rallentamento non solo distruggerebbe una parte delle forze produttive, ma provocherebbe anche un impoverimento peggiore, forse perfino carestia, per larghi ceti del popolo. In questo caso, sarebbe forse stata evitata la crisi aperta, ma con quale costo !

Inoltre, anche supponendo che non ci siano altre crisi nel prossimo avvenire, la contrazione del mercato mondiale dovuta all'impoverimento dell'Asia del Sud-Est e forse adesso dell'America del Sud - senza poi parlare della "crisi nella crisi" del sistema bancario giapponese e delle sue eventuali complicazioni per il mercato giapponese - questa contrazione del mercato mondiale potrebbe tradursi in una severa recessione nei paesi industrializzati.

La minaccia di un krach mondiale generalizzato è forse ancore lontana. Ma i fatti, come gli avvertimenti degli esperti del sistema capitalistico, sembrano indicare che ne siamo più vicini oggi che l'anno scorso, quando è scoppiata la crisi in Asia del Sud-Est. In ogni modo, i meccanismi che ci avvicinano sempre più a questa crisi sono qui, sempre in azione, perché sono parte integrante dell'organizzazione capitalistica di una economia mondiale che non la finisce più di agonizzare.

Per quanto riguarda i politici che, da Jospin a Blair, concedono che c'è comunque un "problema", ovviamente non dovuto al capitalismo, ma a i suoi "eccessi" come dicono, loro propongono misure di regolamento a vari livelli. Ma questo tentativo di nascondere sotto una fasciatura la ferita necrotica del capitalismo non impedirà alla cancrena di diffondersi sotto.

Nell'attesa, anche se prendono provvedimenti, cercando di limitare i sobbalzi del sistema - per esempio vietando i veicoli più estremi della speculazione, come questi "fondi di arbitraggio", i fondi di investimenti ad alto rischio che hanno fatto la fortuna di gente come Soros - ogni Stato dovrà pure trovare mezzi di attirare capitali speculativi verso il proprio sistema finanziario per alimentare in crediti la sua economia. E per attirarli, bisognerà allettarli, garantire profitti sempre più sostanziali, perché bisogna pure affrontare la concorrenza degli altri Stati che faranno lo stesso.

E così i capitali speculativi, le cui diffidenze e i cui movimenti erratici colpiscono perfino i grandi gruppi capitalistici privati d'Occidente - come lo ha appena mostrato in Francia il caso Alcatel - tendono a rifugiarsi nelle obbligazioni o i prestiti di Stato. Ne consegue una gara tra i vari Stati per attirarli a casa. Ma ne consegue anche l'indebitamento crescente degli Stati, di cui si fa pagare il prezzo alla popolazione laboriosa.

Per questo, anche se si riuscisse a rendere i movimenti planetari di questi capitali più "civilizzati", non di meno praticherebbero un parassitismo crescente dell'economia reale, riscotendo per il conto della borghesia una parte sempre più grande di ogni reddito nazionale, e dunque del plusvalore, a spese delle classi laboriose. Ciò significa che si vedrebbe un'ulteriore peggioramento della disoccupazione e dell'impoverimento di una parte crescente della popolazione operaia mentre la borghesia si arricchirebbe sempre più.

E per questa ragione che tutte le medicine che si potranno trovare per cercare di "civilizzare" i sobbalzi finanziari, non cambieranno niente di fondamentale per la classe operaia, né del resto per la grande maggioranza della popolazione mondiale. Il parassitismo del capitale, e la sua forma moderna rappresentata dalla circolazione planetaria di queste grandi masse di capitali speculativi, spariranno solo col capitalismo stesso, cioè con l'avvenimento di un sistema sociale basato, non sulla proprietà individuale e la legge della giungla della concorrenza capitalistica, ma sulla proprietà collettiva e la pianificazione planetaria della produzione - la società comunista.

(23 settembre 1998)