L'evoluzione dell'ex Unione Sovietica

Εκτύπωση
Da "Lutte de Classe" n°17 (L'evoluzione dell'ex Unione Sovietica)
Gennaio-febbraio 1996

La lotta apparentemente aperta per l'eventuale successione di Eltsin mostra un clima di complotti in cui non mancano ne' gli intrighi dell'ex K.G.B. ne' un gran farsi avanti di veggenti, di guaritori e di cartomanti. L'instabilità al vertice e l'imprevedibilità di ciò che potrebbe capitare non deriva tuttavia soltanto dallo stato di salute di Eltsin o dall'' avvicinarsi delle elezioni legislative. Essa è piuttosto riconducibile alla decomposizione dell'apparato di Stato.

L'intervento militare in Cecenia è stato quest'anno la grande dimostrazione di forza militare del potere centrale. L'obiettivo politico di questo intervento, posto che ve ne fosse uno assunto coscientemente, era quello di far recedere la burocrazia locale dalla dichiarazione di indipendenza di questa repubblica autonoma anche per tentare di dare un colpo al resto delle tendenza centrifughe delle altre entità territoriali.

Questo intervento ha mostrato che, sul piano del disprezzo per i popoli e della brutalità' repressiva, la burocrazia decadente non ha nulla da invidiare alla burocrazia quando era al colmo del suo potere, e nel contempo ha dato un' altra prova della profondità della crisi persistente del potere centrale.

Non soltanto nessuno sa chi esattamente ha deciso l'intervento, ma, nello svolgersi zigzagante della guerra, è difficile dare conto delle lotte d'influenza all'interno della combriccola presidenziale, dei conflitti d'interesse nella direzione dell'esercito o tra questa e il potere civile o più' semplicemente dell'incapacità' del Presidente.

L'indebolimento dell'apparato di Stato si manifesta ancora in mille altri modi. I generali che si rifiutano di eseguire gli ordini del potere centrale rappresentano soltanto la punta dell'iceberg.

Il resto è nascosto, ma, per quanto se ne sa, segue una grave frantumazione. Mentre lo Stato maggiore faceva bombardare popolazioni civili e degli ufficiali imbecilli - ne esistono in tutti gli eserciti, certamente! - giocavano sulla pelle dei loro soldati, altri, o gli stessi, si arricchivano vendendo armi alle truppe di Dudaev.

Le potenze imperialiste non hanno cercato di impedire a Eltsin la repressione, a parte proteste ipocrite. Esse, tutte, riconoscono a Mosca il diritto di mantenimento dell'ordine nell'insieme della Federazione Russa. Nonostante parecchie decine di migliaia di morti e la distruzione della capitale Grozny - ricordiamo che questa città è abitata prevalentemente da russi - l'esercito russo ha impiegato parecchi mesi per ristabilire il suo controllo nominale sulla Cecenia. Ma la "pacificazione " continua, nel senso attribuito a questo termine da tutti gli eserciti di occupazione, mostrando la sua efficacia, dato che la guerriglia indipendentista tiene e dà del filo da torcere all'esercito russo, costringendo Eltsin a negoziazioni interminabili, in quanto legate a rapporti di forza che cambiano continuamente sul campo.

Certamente noi non riconosciamo al potere centrale della burocrazia russa in decomposizione il diritto di imporre la sua legge più di quanto l'abbiamo riconosciuto alla burocrazia quando essa era compatta dietro o per opera di un dittatore.

Il principale risultato politico dell'intervento dell'esercito russo è stato quello di spingere la popolazione cecena nelle braccia di un ex alto burocrate avventuriero.

Non abbiamo peraltro alcuna simpatia politica per i capi della burocrazia locale il cui tentativo secessionista non aveva come scopo di far rispettare il diritto del popolo ceceno a disporre di se stesso, ma piuttosto di assicurarsi il monopolio del saccheggio di questo paese. Gli interessi del popolo ceceno potrebbero essere difesi soltanto dal proletariato dell'ex URSS e non da qualche clan della burocrazia, qualunque che sia.

La guerra in Cecenia ha forse permesso al potere centrale di fissare i limiti che i poteri locali della burocrazia non hanno il diritto di oltrepassare (in particolare la pretesa all'indipendenza dello Stato). Non è

detto che, anche su questo terreno, l'avvertimento raggiunga il suo scopo in pieno. Non è all'altezza in ogni caso, di fare indietreggiare le varie baronie burocratiche nell'autonomia di fatto che esse hanno conquistato in rapporto al potere centrale.

L'espressione più caratteristica di questa autonomia di fatto si manifesta nell'incapacità del potere centrale di convogliare le tasse. Incapacità consacrata ufficialmente, in taluni casi, da trattati regolari con alcune regioni che trattengono per se in piena legalità le tasse che riescono con gran fatica ad introitare.

Il potere centrale non disponeva neppure di un apparato specifico a tale fine. Le collettività' locali e le banche avevano l'incarico di recuperare gli introiti fiscali. Anche se riescono in questo scopo, la loro propensione a riversarle al potere centrale, la durata della loro sosta, cosi' come la somma che esse decidono di mandare al centro, dipendono dal rapporto di forza. Inoltre le grandi società, in particolare esportatrici, tengono per se la maggior parte di quanto devono al fisco, d'accordo probabilmente con gli strati locali o centrali della burocrazia disposti a coprirle. Il potere centrale compensa questa assenza di guadagno attraverso l'immissione di nuova moneta.

L'inflazione si assesterebbe in questi ultimi tempi, a circa il 150 % all'anno, dopo aver conosciuto dei picchi di più' del 2000% (le fonti statistiche governative non sono evidentemente molto affidabili, tanto più che esse sono variabili).

Il senso economico di tutto questo è un gigantesco trasferimento di introito sociale, stornato in favore dei burocrati e degli alleati della borghesia nascente e a danno della stragrande maggioranza della popolazione, le cui risorse non possono reggere l'inflazione (pensionati, salariati, ivi compresa una gran parte dell'intellighenzia).

Lacerato dalle rivalità tra l'assemblea e la presidenza, per non parlare delle rivalità' all'interno di ciascuno di questi poteri, il potere centrale fa fatica a legiferare e a prendere delle decisioni, quando le leggi votate o le decisione prese non si contraddicono e non siano dimenticate sei mesi dopo.

Ma soprattutto, l'applicazione e l'esecuzione delle decisioni urta contro l'autonomia e le rivalità' dei poteri a differenti livelli.

L'ultima di una serie di leggi su tali questioni estende la privatizzazione ai terreni edificabili e all'edilizia. Presentato da molti commentatori come il compimento della riabilitazione della proprietà privata, questa legge è apertamente combattuta da Loujkov, sindaco di Mosca che ha proclamato che nessun terreno sarà mai venduto nell'area di sua competenza.

Non è certo per opposizione alla proprietà privata, poiché il sindaco era riuscito a "municipalizzare" i terreni edificabili in passato proprietà dello Stato. Legge o non legge, il sindaco non ha assolutamente l'intenzione di abbandonare una forma di proprietà che assicura a se stesso e al suo seguito politico-mafioso un potere considerevole insieme a una fronte altrettanto considerevole di guadagni. E non si tratta di una città della Cecenia o di un territorio periferico ma della capitale stessa, in cui si fanno le leggi pure se non si fa altro.

Altra espressione della decomposizione dell'apparato di Stato è la corruzione generalizzata, a partire dai Ministeri fino ai più oscuri poliziotti, che rende l'apparato di Stato incapace di fare applicare una misura generale in grado di ostacolare le lobbies, gruppi di interessi o semplicemente individui abbastanza potenti o ricchi perché a loro vantaggio si facciano eccezioni.

Non è facile d'altronde stabilire una linea di demarcazione tra questa corruzione generalizzata dello Stato e l'evoluzione mafiosa. La mafia criminale è uscita ampiamente dai suoi confini, a partire dalle sue attività "tradizionali" per quanto concerne la droga, il contrabbando, la prostituzione o il racket (secondo il Ministero dell'Interno, nelle grandi città i tre quarti delle aziende private e delle banche vi sacrificherebbero dal 10% al 20% del loro giro di affari). Essa è diventata una componente importante dell'economia. I calcoli statistici hanno evidentemente, in questa materia, un valore del tutto approssimativo. Secondo il Ministero dell'Interno la mafia controllerebbe parecchie migliaia di aziende, 400 banche e una quarantina di borse !

Oltre agli aspetti concreti dei legami sovente stretti tra burocrati e mafiosi fin dal periodo di Breznev, esiste un fenomeno sociale profondo. Un tacito accordo lega la burocrazia di Stato in decomposizione, agli affaristi milionari, partoriti o no dalla burocrazia, e la mafia, per mantenere una situazione in cui il saccheggio dei beni dello Stato possa andare avanti.

Questo saccheggio generalizzato, il disordine che lo accompagna, la legge della giungla che regna negli affari di Stato così come negli affari economici o in altri generi di affari, non favoriscono l'arricchimento privato ma ritardano e paralizzano il suo consolidamento in quanto proprietà privata borghese nel senso pieno del termine, cioè in capitale produttivo in un quadro stabile dal punto di vista giuridico, sotto la protezione dello Stato.

Non è per caso che, negli ambienti responsabili della borghesia mondiale o tra i nuovi e vecchi ricchi autoctoni, il principale soggetto di recriminazione concerne la lentezza e le difficoltà con cui si realizzano i cambiamenti dei rapporti di proprietà. Il diritto che dovrebbe censire il ritorno alla proprietà privata è continuamente contestato. E' contestato anche dai differenti strati di potere che, tutti, fanno riferimento al diritto, ma gli uni contro gli altri. E' contestato anche dalla mafia per la sua natura di illegalità, dato che il potere statale è incapace di imporre alcunché'.

La controrivoluzione sociale in atto sta distruggendo i rapporti di produzione e i rapporti di proprietà sovvertiti dalla rivoluzione proletaria. Ma questa contro- rivoluzione che va avanti da parecchi anni procede con lentezza, con maggiore lentezza di quanto non avvenga per la decomposizione dell'apparato di Stato, e il suo compimento può esso solo, trasformare completamente i rapporti di proprietà che emergono da questo processo, e consolidarli.

Le valutazioni dei vari organismi della borghesia, dal F.M.I. alla Banca Mondiale, passando per l'OCSE (organizzazione comune sviluppo economico) o la BERD ( banca europea ricostruzione e sviluppo), così determinate all'inizio, esprimono oggi serie riserve sul ritmo delle trasformazioni economiche e sociali. Sono sensibili e plaudenti a ciò che è stato compiuto. Tuttavia insistono sull'importanza di quanto resta ancora da fare, in particolare per quanto riguarda il funzionamento di tutte le aziende che seguono i criteri dell'economia capitalista e la libera penetrazione dei capitali stranieri in tutte le imprese in cui questa operazione è impedita dall'ingerenza dei burocrati direttori d'azienda.

Questo equivarrebbe alla diminuzione continua e massiccia degli occupati e alla chiusura di un gran numero di aziende, ed essi sanno che un aggravarsi del livello di vita delle masse, legato al ritorno del capitalismo, rischia di fare esplodere reazioni sociali, anche se fin qui il proletariato ha accettato tutto in modo, tutto sommato, passivo.

Ma, ancor più delle dichiarazioni dei dirigenti di tali organismi, che possono obbedire a considerazioni politiche, significativo risulta l'atteggiamento molto prudente del grande capitale internazionale e la sua scarsa inclinazione a investire in Russia. Il flusso di investimenti del grande capitale occidentale, insignificante in rapporto al peso dell'economia, stagna da parecchi anni, quando non è in regressione ( un miliardo di dollari nel '94, cioè circa 5 miliardi di franchi, contro 1,5 miliardi di dollari nel '93).

I grandi gruppi capitalistici - non soltanto quelli la cui attività attiene al petrolio o più generalmente alle materie prime - continuano ad affermare che la Russia può diventare l'Eldorado. I più potenti di essi prevedono opzioni per l'avvenire. Tuttavia non si impegnano in contratti bloccati. Per riprendere l'espressione prestata dal giornale Le Monde a un capitalista, pure interessato a questo avvenire : "la Russia non è ancora un mercato emergente, è un mercato in deliquescenza."

Questo saccheggio sfrenato può essere una fase transitoria per una forma di accumulazione primitiva in Russia. Non sarebbe la prima volta che loschi affaristi e mafiosi riconosciuti diventano rispettabili borghesi (talvolta non c'è neanche bisogno di aspettare una generazione). Ma se il saccheggio fu sovente il punto di partenza dell'accumulazione capitalista, il saccheggio non è ancora una economia capitalista in funzione. Soprattutto in un mondo già' dominato dall'imperialismo. E la borghesia, quella ben solida in Occidente come quella che cerca di nascere in Russia, vede la differenza tra l'avvenire capitalista, anche dato per scontato, e il presente.

Il frutto del saccheggio sistematico dei beni dello Stato si accumula nelle mani dei privati. La società ex sovietica, che soltanto le menzogne ufficiali definivano egualitaria, quando non lo era più da anni, esprime oggi dei miliardari da una economia precipitata nella rovina. Il 10 % della popolazione deterrebbe il 30 % delle risorse. Non diversamente dal grande capitale occidentale, questi miliardari russi non investono in Russia, esclusa la finanza, gli immobili, i generi di lusso sfrenato, i viaggi e, in una certa misura, il grande commercio, soprattutto di import - export, e in misura estremamente più ridotta nella produzione.

Quando accumulano in Russia è soltanto in oro, gioielli, dacie lussuose, vetture di grossa cilindrata. E' l'estero, da Cipro a la Bahamas passando per la Costa Azzurra, ad attirare i capitali dei "businessmen russi".

Quelli che i suoi creatori (Gaidair ecc..) avevano presentata come la prima fase della privatizzazione, tra il 1992 e il 1994, si è svolta apparentemente senza ostacoli, con il consenso e persino l'appoggio di quello strato della burocrazia che più aveva le carte in regola per opporvisi : la burocrazia dell'economia, i dirigenti di azienda e il loro ambiente, ecc... Questa prima fase, cui ha dato il via la legge sulle privatizzazioni del '92, mirava a utilizzare una certa procedura, quella dei buoni di privatizzazione, per trasformare le aziende da aziende di stato a società per azioni di diritto privato.

Questa procedura riguarda il 50-60% delle aziende industriali ex sovietiche. Anche nelle campagne i Kolkoz e talvolta i Sovkoz sono stati trasformati giuridicamente in società per azioni. Questi cambiamenti giuridici rappresentano un passo importante nella contro-rivoluzione sociale.

I passi successivi dovrebbero consistere nella libera circolazione dei capitali, nella mercificazione delle aziende e dei loro dipendenti e nella costituzione di un mercato dei capitali che permetta la trasformazione da capitali finanziari in capitali produttivi e viceversa.

E' proprio questa tappa successiva a svelare il carattere ambiguo dell'apparente unanimità della burocrazia dietro la "legge sulla privatizzazione" che ne aveva aperta la prima fase.

Nella stragrande maggioranza dei casi - più dell'80% di quelle privatizzate - le aziende hanno scelto di mantenere la maggioranza delle loro azioni nelle mani di "collettivi di lavoratori", cioè di suddividerle tra dirigenti e salariati.

La formula utilizzata di "proprietà di un collettivo di lavoratori" non ha evidentemente più valore di quelle che un tempo facevano credere che la proprietà di Stato era quella collettiva, di tutta la popolazione lavoratrice. Non è da oggi che i burocrati nascondono il loro potere dietro le formule che evocano il potere dei lavoratori. Dietro il "collettivo dei lavoratori" c'è il consolidamento del potere dei direttori d'impresa e del loro giro, in aziende che essi considerano già da molto tempo di loro proprietà. La legge sulla privatizzazione li scarica legalmente dall'obbligo di rendere conto allo Stato centrale, ma non ne fa ancora i proprietari veri e propri.

Lo stesso avviene nell'agricoltura in cui la trasformazione del Kolkoz in società per azioni ha rinforzato il potere dell'aristocrazia Kolchoziana, senza modificare la fisionomia delle campagne. In linea di principio, i Kolkoz erano cooperative e non proprietà di Stato. La principale conseguenza del cambiamento giuridico è il diritto di lasciare il Kolkoz per creare e coltivare la proprietà personale o eventualmente per venderla. Questo è avvenuto molto raramente, sia perché i contadini non lo vogliono, sia perché proprio l'aristocrazia Kolchoziana vi si oppone.

Il consolidamento del potere dei direttori è, di tutta evidenza, l'estrema ultima fase prima che il capo e il suo entourage arrivino a comprare a basso costo le azioni dei loro salariati, e che la funzione del "collettivo dei lavoratori" ceda il posto alla proprietà privata capitalista. Questo non avviene nello stesso modo in tutte le fabbriche, in particolare in quelle che non sono abbastanza redditizie per esistere sulla base di un funzionamento capitalista (e queste sono probabilmente le più numerose).

Ecco perché in un gran numero di fabbriche il potere dei "manager" accumulato nella prima fase della privatizzazione, costituisce piuttosto un ostacolo al passaggio alla seconda fase, cioè alla apertura di queste aziende ai capitali stranieri. E' proprio questo che gli specialisti del F.M.I., della banca mondiale o del OCSE deplorano, quando criticano il mantenimento di troppi antichi "direttori rossi" alla testa di aziende teoricamente privatizzate o quando denunciano un funzionamento che non tiene sufficientemente conto dei benefici.

Ma i suddetti "direttori rossi" possono continuare a far funzionare le loro aziende facendo astrazione dei benefici solo perché lo Stato continua a intervenire ampiamente nell'economia, in particolare continuando ad essere il principale cliente - ordinatore e a sovvenzionare le imprese che non rendono. Il governo dice di voler diminuire queste sovvenzioni, ma non abbastanza, secondo la linea del F.M.I., perché eventuali investitori capitalisti possano anche solo giudicare la "verità dei prezzi" e sapere quali sono le aziende suscettibili di ricavare profitto capitalista e quali no.

La seconda fase delle privatizzazioni, intrapresa a partire dal '94, mira a superare questo stadio. L'idea di chi l'ha messa in marcia era che i "collettivi dei lavoratori" preparassero il passaggio alle libere transazioni sulle azioni e che, grazie alla concentrazione di queste nelle mani di pochi, le imprese di Stato si trasformassero in imprese private dando alle classe ricca russa l'assise sociale che le permettesse d'essere una borghesia.

La speculazione su tale evoluzione ha d'altronde alimentato e alimenta ancora oggi numerosi istituti finanziai - soprattutto le banche russe private -la cui ragione d'essere è quella di far man bassa a buon prezzo di queste azione e di rivenderle a eventuali investitori interessati delle stesse aziende. La circolazione dei "buoni" è stata certamente fonte di arricchimento per alcuni, ma anche causa di fallimenti clamorosi come quello della società' finanziaria MMM.

Ma se le borse valore spuntano come funghi, il loro funzionamento secondo le regole del capitalismo borsistico rappresenta per tutta la Russia un ventesimo di quello della ...Malesia. Gli scambi che vi si operano sono infinitamente più che nel resto del Mondo di carattere speculativo e del tutto staccati dalla realtà produttiva.

Potrebbe darsi che, una volta che la situazione si sia consolidata, le carte costrittive della privatizzazione diventino lo strumento attraverso il quale fondi privati, eventualmente russi e soprattutto occidentali metteranno le mani sulle aziende. E' proprio su questa scommessa sull'avvenire che si basa la speculazione. Resta tuttavia di dover constatare che questo avvenire non ha o non ha ancora assunto una forma precisa.

E se la seconda fase della privatizzazione, quella che deve assumere forma definitiva per consolidare su base capitalista l'economia, va avanti in un modo infinitamente più lento della prima, bisogna ricercarne la ragione nell'ingerenza amministrativa sulle imprese da parte di chi li gestisce e anche nel fatto che il denaro locale, e ancor meno il capitale internazionale, non si buttano a capofitto nella breccia aperta, e infine certamente anche per la struttura stessa dell'economia e dell'industria ex sovietiche.

Tutti i dirigenti di Stato si pretendono oggi rappresentanti dell'avvenire capitalista, ma lo Stato stesso non è in grado di controllare e di orientare il processo verso la costruzione di un quadro nel quale i rapporti di produzione voluti dalla borghesia internazionale e dalla classe ricca di Russia possano stabilizzarsi e in cui l'economia possa funzionare su base capitalista. A questo proposito, vale la pena di constatare, guardando all'indietro nel tempo, che nelle democrazie popolari di livello economico paragonabile a quello della Russia - Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria - e nonostante le differenze di metodo adottate per la privatizzazione, lo Stato è riuscito dappertutto a controllare, ossia a dirigere il processo, dall'alto e senza strappi. Non è certo lo stesso per la Russia, l'apparato dello stato operaio degenerato si rivela meno adatto a dirigere la contro-rivoluzione sociale e la sua economia meno malleabile.

Gli organismi di pianificazione hanno già fatto cilecca più a causa della decomposizione dello Stato che per una volontà cosciente dei suoi vertici e ancor meno per pressioni di una classe di Parvenu che si ripromette di diventare una reale borghesia, ma che ha grandi difficoltà ad arrivarci.

La proprietà di Stato sta affondando senza che la proprietà privata si sia consolidata, non fosse altro che per la lotta tra cricche della burocrazia, ma certamente anche per il fatto che un ampia frazione della burocrazia non ha interesse a che questo processo si compia in tempi rapidi, anche se manifesta la sua inclinazione per il capitalismo. Gli uni accumulano denaro a danno della proprietà di Stato perché è proprio la situazione anarchica dell'oggi, questa terra di nessuno, che permette loro di rubare e di accumulare in fretta. Gli altri per il fatto che la loro posizione sociale è strettamente legata al funzionamento di imprese non redditizie su base capitalistiche.

Siamo ancora in un economia e in una società intermedia, in presenza di un proletariato che praticamente non ha assunto la propria difesa.

Emerge una borghesia debole, a lato o piuttosto a partire dalla burocrazia, che è comunque molto lontana dall'avere "potenti radici nei rapporti di produzione" o anche le più deboli radici. Gli affaristi che stanno accumulando miliardi in contanti costituiranno domani forse la classe capitalista. Ma l'interrogativo che si pone con insistenza in quest'ultimo periodo è proprio che cosa significa domani, cioè quanto tempo ci vorrà perché la contro-rivoluzione sociale prenda corpo. Dato e non concesso che essa prenda corpo in un futuro prossimo, e che la situazione di oggi non si prolunghi in un interminabile periodo di frantumazione e di anarchia con la conseguente distruzione dell'economia già oggi molto provata.

Non abbiamo l'intenzione, in questo testo dedicato alla Russia, di passare una ad una le varie Repubbliche nate dalla frammentazione dell'Unione Sovietica. Teniamo soltanto a dire che, a parte i paesi Baltici integrati tardi nel quadro dell'Unione Sovietica, il processo di privatizzazione è ancora meno impegnato nelle altre repubbliche ( Ucraina, Bielorussia Ecc..). Sovente sono ancora i gruppi di potere anti-perestroika che dominano queste Repubbliche. Semplicemente i loro dirigenti, anche quando si tratta di ex dirigenti del partito locale, giurano ormai sul capitalismo, come potrebbero giurare sul corano. Alcuni di questi gruppi dirigenti pretendono di essere democratici in pieno regime autoritario, altri sono dittature belle e buone. Altri ancora - o gli stessi - sono impegnati in sporadiche guerre interne ( Georgia, Armenia, Azerbagian ecc...) o in guerre interne tra clan rivali per il potere ( Tadgikistan ).

In tutti questi casi a parte forse i paesi Baltici, per questi paesi la rottura dei legami con l'Unione Sovietica non rappresenta una apertura e maggiore possibilità sul versante occidentale. Il capitale occidentale già reticente a investire in Russia lo è ancora di più in Tadgikistan o in Kirkisia, per non parlare poi delle regioni Caucasiche in guerra. Questo fa sì che l'antica Unione Sovietica, benché sparita non ha cessato di sopravvivere a se stessa, non soltanto grazie alla vaga associazione che è la CSI, ma anche grazie a un certo numero di legami economici, semplicemente per rispondere alla esigenza di sopravvivenza economica.

Nessuno elemento nuovo, percepibile oggi come oggi è intervenuto nel corso di quest'anno a far pensare che la durata della contro--rivoluzione e i colpi ripetutamente assestati alla classe operaia - crescita di una disoccupazione sempre meno camuffata, calo del potere d'acquisto, liquidazione delle misure di protezione sociale - spingeranno la classe operaia stessa a intervenire per opporsi al corso delle cose.

Benché vi siano scioperi in numero considerevole nel paese (strumenti dei lavoratori per tentare di difendere il loro potere d'acquisto in calo continuo a causa dell'inflazione o, talvolta, addirittura soltanto per essere pagati), nulla ci fa pensare all'avvicinarsi di lotte politiche e sociali, capaci di dare un colpo di arresto alla contro-rivoluzione sociale. Del resto fermare la contro-rivoluzione sociale esige una coscienza e un programma che non possono derivare soltanto dalla combattività.

Possiamo evidentemente supporre che la classe operaia russa abbia perso una quantità di disillusioni, nel corso degli anni passati. Ma non sappiamo precisamente quanto ne aveva in partenza. Continuiamo a ignorare tutto della classe operaia russa, persino il poco che un'organizzazione della nostra dimensione e della nostra militanza potrebbe farci conoscere del suo stato d'animo e delle sue reazioni.

Ciò che sappiamo peraltro è che, in particolare grazie alla prudenza della burocrazia di fronte a misure suscettibili di aggravare brutalmente e massicciamente la disoccupazione, la classe operaia mantiene per il momento l'essenziale della sua forza numerica e che, di fronte a questa classe operaia, non c'è ancora una borghesia che abbia un peso sociale pari all'importanza dell'economia. Questo dato, questa realtà sociale, conseguenza lontana della rivoluzione russa e di parecchi decenni di sviluppo economico sulla base della pianificazione, non è ancora completamente liquidato.

Fino a che questa situazione si prolungherà, fino a che la burocrazia, anche se smembrata, resterà la principale fascia sociale privilegiata e la più legata ai mezzi di produzione, siano essi statalizzati o proprietà di "collettivi dei lavoratori", noi continueremo a definire l'ex URSS Stato operaio degenerato. Ancora oggi, può darsi non per molto, ma nessuno ha il dono di prevedere l'avvenire, è l'analisi Trotzkista che chiarisce meglio quale è la realtà ex sovietica, al di là delle variazioni della politica dei dirigenti della burocrazia.

Questa fedeltà al metodo d'analisi Trotzkista, fin tanto che resta un elemento anche minimo che si oppone all'idea di abbandonarlo, è una questione di solidarietà con le generazioni che hanno mantenuto la loro fedeltà alla rivoluzione russa del '17 combattendo lo Stalinismo, ma anche caratterizzando l'URSS come Stato operaio, pur se degenerato. E' ancora oggi una bussola.

Coloro che hanno abbandonato in fretta e furia questa analisi, questa caratterizzazione, questa visione della realtà, prima ancora che la contro-rivoluzione sociale fosse stata esplicitamente iniziata, troppo preoccupati di dare giustificazione alla loro scelta precipitosa, si escludono dalla comprensione della realtà concreta di oggi e dal suo procedere giorno dopo giorno nella sua evoluzione. (4 novembre 1995)